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Autore: silvia_arena    29/08/2013    3 recensioni
Rimasero lì per qualche istante, immobili; entrambi con i respiri pesanti, entrambi spaventati per la sorte dell’altro.
Fu lei a rompere il silenzio.
«Connor.»
Lui levò lo sguardo su di lei, non ancora calmo.
«Credevo che i tuoi incubi fossero finiti.»
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Kenway, Nuovo personaggio
Note: Lemon | Avvertimenti: Non-con, Violenza
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Prima che leggiate, vorrei avvisarvi che questa one-shot è cronologicamente collocata prima del ritorno di Connor – prima o dopo Butterfly, è irrilevante. Inoltre non troverete traccie di amore qui: solo tanto angst – e, come se non bastasse, pure violenza sulle donne. Ho già aggiunto gli avvertimenti “violenza” e “non-con”. Se qualcuno ritiene opportuno che io alzi il rating della raccolta da arancione a rosso, parli ora.

Un altro avvertimento: i personaggi potrebbero essere caduti nell’OOC.


 



 

Tossed


 

Quando la ragazza si svegliò, ebbe poco tempo per realizzare l’accaduto: aveva i polmoni pieni, la respirazione difficile. Passò più di un minuto a tossire per liberarsi del fumo che ostruiva le sue vie respiratorie, mentre cercava di mettersi a sedere.

Ancora in preda agli spasmi della tosse, capì che qualcosa la costringeva a terra: una trave crollata dal soffitto proprio sul suo fianco sinistro. Voltandosi e, con uno sforzo immane, sollevando la trave, fu conscia dell’orrore che si estendeva attorno ai suoi occhi. Ricordò solo dei frammenti di ciò ch’era successo prima: l’arrivo delle giubbe rosse, la premura di chiudere a chiave tutte le porte e finestre, il fuoco appiccato alle torce, la casa in fiamme. E, non appena realizzò l’accaduto, solo un nome occupò la sua mente.

Ratonhnhaké:ton.

Si alzò da terra, reggendosi il fianco – non provava troppo dolore, di sicuro la trave non le aveva spezzato nessuna delle ossa, ma non riusciva a camminare senza zoppicare. Si fece spazio tra le macerie, chiamando il nome del suo bambino.

Si ritrovò, inconsciamente, a rallentare sempre di più. Non voleva vedere il suo bambino morto, avrebbe preferito non trovarlo...

In quel momento udì dei gemiti, poi dei colpi di tosse, infine Ratonhnhaké:ton chiamò la sua mamma.

La giovane si fece guidare da quei lamenti spezzati e scorse il corpo del piccolo. Era sommerso dalle macerie, era malconcio probabilmente come lo era lei – tutto sporco di nero, alcuni capelli bruciati, i vestiti strappati – ma era tutto intero. Liberò il piccolo dai residui della tenuta di Achille e lo abbracciò forte, accertandosi che non avesse nulla di rotto. Ratonhnhaké:ton pianse stretto alla sua mamma, poi si riprese e domandò:

«Cosa è successo?»

La ragazza non fu in grado di rispondere subito; lei, così come Ratonhnhaké:ton, sapeva benissimo cosa fosse successo, ma non capiva il perché.

«Le giubbe rosse» mormorò «hanno bruciato la casa con noi dentro. Volevano ucciderci.» Per quanto furono quelle le parole che pronunciò, lei stessa stentava ancora a crederci. Capì solo una cosa: se avevano avuto intenzione di ucciderli, non sarebbero stati contenti del fatto che stessero ancora respirando.

«Devono credere che siamo morti, mi hai capito, Ratonhnhaké:ton?» ammonì. «Dobbiamo stare attenti, non siamo più al sicuro qui.»

Il bambino si spaventò e abbracciò la madre, lottando per non scoppiare di nuovo a piangere. La giovane realizzò solo in quel momento quanto drastiche potessero suonare quelle parole per un bambino, così lo strinse a sé e lo cullò.

«Scusa, scusa» sussurrò. Ratonhnhaké:ton continuò a piangere. «Aspettiamo che torni Achille, okay?» Il piccolo annuì e, asciugandosi il naso con la manica, chiuse gli occhi e si addormentò lì, fra braccia della madre, sul pavimento ricoperto di macerie.


 

Il suo secondo risveglio fu leggermente più brusco: Achille la stava scuotendo con gli occhi sbarrati dal terrore, urlando: «Ragazza! Ragazza!»

Aprì gli occhi un po’ stordita, ma capì subito la situazione. Con un sospiro di sollievo, Achille si sedette a terra e scosse un po’ meno energicamente Ratonhnhaké:ton – il suo respiro era più evidente.

La spontanea e lecita domanda di Achille «Cosa diamine...» fu interrotta dalla giovane.

«Mi dispiace per la casa.» Spiegò poi al vecchio l’accaduto – le giubbe rosse, l’incendio, l’impossibilità di fuga – sotto lo sguardo attento e ancora terrorizzato di Ratonhnhaké:ton. Achille non sembrava sconvolto dalla vista della propria casa ridotta a un cumulo di macerie: piuttosto era più interessato alla salute dei due – cosa alquanto rara per una persona fredda e distaccata come lui.

Una volta apprese tutte le informazioni, Achille si sollevò, ancora scosso e stordito, e annunciò che li avrebbe portati da un medico. La ragazza lo fermò prima che potesse prenderla tra le braccia, affermando che non sarebbe stato capace di portare a piedi sia lei che Ratonhnhaké:ton – il vecchio non possedeva una carrozza – e inoltre le giubbe rosse avrebbero potuto essere ancora in giro.

«Farò venire qui un medico fidato» decise allora l’ex Assassino, avviandosi di nuovo verso la città.


 

Jonathan Harrow fu più che sorpreso quando alla sua porta si presentò il vecchio Achille Davenport, riferendogli – senza tradire alcuna emozione – che due suoi conoscenti erano rimasti vittime di un incendio e necessitavano di cure mediche. Cercò di farlo ragionare insistendo che, per i feriti, sarebbe stato più prudente trasportarli in una carrozza – inoltre, visto che Achille riteneva opportuno che nessuno li vedesse, trasportarli in braccio non sarebbe stato effettivamente producente.

Così presero la sua carrozza, arrivarono davanti ciò che era rimasto della tenuta di Achille, caricarono i due feriti – di nuovo addormentati – nella carrozza e li portarono nella casa del dottor Harrow.

Quando il dottore depositò i due corpi svenuti sui lettini, notò da una prima occhiata che non riportavano gravi ferite o ustioni. Sollevò leggermente la ragazza da sotto la schiena per slacciarle il vestito, ma fu bruscamente interrotto da Achille.

«Ehi, ehi, che fai?» lo aggredì il vecchio. Il dottore lo guardò, sorpreso.

«Devo spogliarla per assicurarmi che non ci siano fratture» spiegò, pratico. Achille si allontanò di poco borbottando qualcosa contro l’approfittarsi delle donne indifese. Il dottore scosse la testa e riprese il suo lavoro.

Rimossi i vestiti e accertatosi che tutte le ossa fossero a posto, Jonathan Harrow prese una spugna e, dopo averla immersa nell’acqua fresca, la passò delicatamente sul corpo della ragazza in modo da rimuovere il nero che le aveva lasciato addosso l’incendio. La giovane, seppur priva di sensi, avvertì nel sonno un sollievo enorme.

«Vacci piano, sembra che tu stia pulendo un cadavere» si lamentò, accusatorio, Achille.

Il dottore alzò gli occhi al cielo, esasperato, per poi assentire «Posso occuparmi del ragazzino» e lasciare la spugna accanto la ragazza.

«Bene» fu la burbera risposta di Achille, che si appropinquò alla giovane per concludere il lavoro del dottore.


 

Dopo una buona ora di lavoro, in cui Achille finalmente realizzò che le attenzioni del dottore rivolte al corpo della giovane erano di interesse puramente medico – «Per l’amor di Dio, mi hai chiesto tu di curarli!» aveva sbottato Jonathan dopo qualche altra lamentela – i due corpi furono puliti, medicati e vestiti. Ratonhnhaké:ton e sua madre dormirono profondamente per l’intero giorno.

 

*****
 

La giovane si risvegliò, quasi incredula di sentirsi bene. Ratonhnhaké:ton era vicino a lei, ancora dormiente, mentre Achille si trovava scomodamente addormentato su una sedia. Si accorse subito che la giovane aveva ripreso conoscenza, così si affrettò a spiegarle del luogo in cui si trovavano e assicurò che nessuno li aveva visti arrivare lì.

La ragazza si scusò ancora per l’incendio alla casa, non riuscendo però a capire per quale motivo le giubbe rosse avessero voluto eliminarli. Achille sapeva. Ci girò attorno cercando di renderlo ovvio, ma quando la giovane non riuscì ad afferrare nemmeno dopo qualche minuto il significato delle sue parole, rivelò chiaramente le sue teorie: volevano ucciderli per attirare Connor in un’imboscata, accecarlo ancora di più con una sete di vendetta per poi finalmente poterlo uccidere.

La giovane non riusciva a credere alle sue orecchie. Inoltre, Connor si trovava sull’Aquila, in viaggio alla ricerca di Charles Lee, e nemmeno il migliore dei piccioni viaggiatori avrebbe potuto avvertirlo. Avevano rischiato la morte invano.

“Ma meglio così”, riuscì ad essere positiva la ragazza. “Nulla di grave è successo e nessuno metterà Connor in agitazione. Stiamo tutti bene.”

In quel momento il dottor Jonathan Harrow entrò nella stanza. Achille fece bruscamente le presentazioni – la ragazza non capì la diffidenza del vecchio nei confronti del medico che li aveva curati –, il dottore si congratulò con la giovane per la velocità della guarigione e assicurò loro che avrebbero potuto trattenersi nella sua casa tutto il tempo necessario.

La giovane ringraziò cortesemente il medico per tutta quella gentilezza alla quale non era sinceramente abituata, mentre Achille borbottò un «Sì, sì, grazie tante» per poi sbatterlo fuori dalla stanza.


*****
 

I giorni passarono monotoni. Anche quando il dottore consentì ai due malati di alzarsi dal letto e camminare fino al giardino di casa sua – per poi ritornare subito indietro per paura che si affaticassero – né la giovane né Ratonhnhaké:ton riuscirono a divertirsi appieno.

Achille andava continuamente in città, alla ricerca di una nuova casa sicura dove andare a vivere. Doveva camuffarsi per non essere riconosciuto dalla giubbe rosse.


 

I due malati erano ormai del tutto guariti, quella sarebbe stata l’ultima notte che passavano nella casa del dottor Jonathan Harrow. Achille non aveva ancora trovato una nuova casa ma aveva deciso che avrebbero tolto il disturbo al più presto, così si informò per alloggiare nelle varie locande.

Quella notte, però, tutti i loro piani furono rovinati.

La ragazza dormiva serena, quando avvertì una presenza accanto al suo letto. Schiuse gli occhi, ancora presa dal sonno, ma non le fu difficile riconoscere un’arma da fuoco puntata alla sua testa. Sollevò lo sguardo e scorse una giubba rossa.

Il suo primo pensiero fu Ratonhnhaké:ton, così si volse di scatto, dando le spalle all’uomo, per vedere come stesse il suo bambino. Il piccolo dormiva, voltato dall’altro lato: non si era accorto di nulla. La giubba rossa, non aspettandosi quel movimento brusco da parte della donna, le premette la pistola contro la tempia, e con l’altra mano le coprì la bocca per impedirle di urlare. La giovane riconobbe che le stava permettendo di salvare il suo bambino, così volse lo sguardo verso il suo aggressore il quale, abbassando lentamente l’arma e liberandole la bocca, fece un cenno verso la porta, ordinandole silenziosamente di uscire.

Scese cautamente dal letto – l’uomo non le puntò contro l’arma ma la teneva stretta per un braccio – ed entrambi uscirono dalla stanza, lasciando Ratonhnhaké:ton dormiente.

Non appena varcarono la porta di casa, il soldato la scaraventò bruscamente a terra, facendola atterrare di faccia sul terreno. Un gemito di dolore uscì dalle labbra della ragazza.

«Quando abbiamo appiccato fuoco alla casa del vecchio» esordì la giubba rossa, con un tono alto e pratico, «abbiamo capito troppo tardi che avevamo ucciso le uniche persone che potessero dirci dove trovare il caro Connor.»

La giovane si voltò per fronteggiare il soldato ma lui le puntò un bastone da passeggio alla gola, costringendola a terra. Aveva un’espressione piuttosto soddisfatta.

«Ma la fortuna gira, sia per voi che per noi!» esclamò, rivolgendole un’occhiata malvagia.

Gli occhi della ragazza erano ridotti a due fessure, entrambi si fissarono con odio.

«Ora avete due possibilità, donna» spiegò cautamente, come se dubitasse della capacità di comprensione della sua interlocutrice. «Dirci dove si trova Connor adesso, e poter correre ad abbracciare il tuo bambino in questo stesso istante, non vederci mai più, e passare una vita felice» disse gettando un’occhiata alla finestra della camera in cui dormiva Ratonhnhaké:ton. Poi la guardò, e parlò con un’espressione e un tono troppo cortese per le minacce che stava pronunciando: «O venire con noi, cedere sotto tortura, ed essere lasciata a morire; a meno che non sarete ritenuta un valido ostaggio per attirare il nostro Connor, cosa che più che certamente siete. Ma vi avverto, i miei uomini non sono mai estremamente gentili con le donne.»

Si chinò sopra il viso della ragazza, che non aveva perso la sua espressione battagliera, e la guardò soddisfatto. Perché sapeva che la ragazza non avrebbe mai tradito Connor. Così si beò delle parole della giovane quando pronunciò: «Non lo troverete mai.»

Le passò un braccio dietro la schiena quasi delicatamente, affermando «La scelta è stata vostra» – quell’espressione malvagia e perversa non aveva lasciato per un attimo la sua faccia – per poi sollevarla bruscamente da terra.


*****
 

Quando si svegliò, realizzò subito di trovarsi all’interno di una carrozza, anche se non capì in quale luogo. Probabilmente una campagna sperduta.

Aveva i polsi legati sopra la testa, la corda assicurata ad una delle assi della carrozza.

Appena avvertì una presenza alle sue spalle, si voltò e fu subito sovrastata dal corpo della giubba rossa, il quale le teneva fermo il gomito e sollevava un coltello proprio sopra il suo braccio.

«Confessioni dell’ultimo momento?» domandò, sarcastico; la voce roca pregustava già la tortura che le avrebbe inflitto.

Il soldato non ricevette risposta se non il suo respiro diventare più affannoso, lottando per non tradire alcuna paura.

Conficcò il pugnale nel braccio della ragazza, mozzandole il fiato, facendo una maniacale attenzione a non bucarle le vene.

«Non scherzo, donna» disse, beandosi del suo respiro rotto dal dolore. «Dimmi dove si trova Connor e mi fermerò seduta stante.»

La giovane chiuse gli occhi, preparandosi a ciò che la aspettava.


 

Dopo una buona ora in cui la ragazza aveva perso anche la forza di urlare, la giubba rossa si stufò. Il corpo della giovane era ricoperto da tagli superficiali ma dolorosi, che le facevano scottare la pelle come se stesse bruciando viva.

Teneva lo sguardo vuoto, perso in un punto indefinito alla sua destra. La testa voltata di lato. Non voleva incontrare gli occhi del suo aguzzino.

«Oh.» Il verso della giubba rossa fu di scherno. «Ho inconsciamente evitato di sfigurare questo bel faccino» disse, prendendo il volto della ragazza tra il pollice e l’indice. Si era sforzato di farlo delicatamente, ma in quelle condizioni la ragazza soffriva al minimo movimento. «Sarebbe un peccato, dopotutto» constatò, per poi posare il coltello lontano dal corpo della ragazza – la quale, però, non sospirò di sollievo troppo in fretta. Non aveva sprecato un’ora a torturarla per non ricevere alcuna informazione. Seppur l’uomo aveva mostrato quasi piacere nel compiere quella carneficina, la giovane sapeva che non era soddisfatto, e non l’avrebbe lasciata andare prima di aver avuto quello che desiderava.

«Se non vuoi soddisfarmi con le informazioni che mi servono» dichiarò l’uomo, sollevandole la veste senza alcun convenevole, «mi soddisferai in altro modo.»

La ragazza era certa di aver superato la soglia del dolore sopportabile da un essere umano, quella notte, e ne fu grata: la violenza che stava subendo non le recò alcun dolore, riuscì a restare immobile come una bambola di pezza.

Dopo varie spinte, la ragazza realizzò che l’uomo trovava difficoltà a raggiungere l’estasi. Le spinte divennero più forti, scuotendo il suo corpo troppo martoriato per sopportare quella intrusione.

«Basta» implorò, in preda alle lacrime che si sorprese di possedere ancora. «Basta. Uccidimi.»

Lo sguardo dell’uomo s’illuminò, cogliendo la palla al balzo: raccolse il coltello e lo puntò alla giugulare della donna, sibilando: «Non prima di aver saputo dove si trova Connor.»

E lei stava per dirglielo, gliel’avrebbe detto purché quel supplizio finisse, ma in quel momento qualcosa si conficcò nel fianco della giubba rossa, facendogli spalancare gli occhi dalla sorpresa e dal dolore. Cadde accanto al corpo della ragazza, stringendosi il fianco dolorante, per poi perdere i sensi.

La giovane capì ben poco di quello che fosse successo. Riconobbe la voce di Achille, il quale con un calcio spinse il corpo ferito del soldato ancora più lontano da quello della ragazza, ringhiando un «Figlio di puttana.»


*****
 

Fu difficile staccare il piccolo Ratonhnhaké:ton dal corpo sanguinante della madre. Il bambino non smetteva di piangere, lasciando maledizioni contro le giubbe rosse. Il dottore si sentì tremendamente in colpa a dovergli ordinare di starle lontano se voleva che guarisse. Il piccolo vegliò su di lei tutto il tempo.

Jonathan Harrow capì di dover andare a comprare delle altre bende quando notò con orrore che l’intero corpo della ragazza era ricoperto di tagli. Nessuno di essi era profondo, ma ringraziò Dio che la giovane fosse priva di sensi. Il dolore sarebbe stato insopportabile.

Si ritrovò costretto a fasciarle l’intero corpo, sotto gli sguardi furenti di Achille e Ratonhnhaké:ton. Dichiarò che, nonostante le ferite, la ragazza non era stata gravemente danneggiata, quindi i danni che avrebbe potuto presentare una volta sveglia sarebbero stati solamente psicologici. Temette che, come minimo, avrebbe perso l’uso della voce.

Achille non riusciva a darsi pace, Ratonhnhaké:ton meditava una vendetta impensabile per un ragazzino della sua età. Inoltre, non sapeva se odiasse di più l’uomo che aveva fatto ciò a sua madre o l’uomo per cui le era stato fatto ciò. Non conosceva suo padre ma, in quel momento accecato dalla rabbia, credeva che nessuno meritasse di soffrire per un uomo che aveva abbandonato la propria famiglia, specialmente sua madre.


 

Quando, dopo parecchi giorni, la giovane riprese conoscenza, smentì le paure del dottore riguardo la perdita della voce. Chiese più volte ad Achille se avesse ucciso l’uomo che l’aveva torturata: il vecchio, dopo varie suppliche da parte della ragazza, rispose di no, che era stato sciocco e irresponsabile, ma che aveva preferito lasciare questa opportunità a Connor. La giovane chiese almeno se si conoscesse la sua identità, e nonostante la riluttanza di Achille a rivelargliela, i sospetti che si trattasse di Charles Lee in persona non abbandonarono mai la sua mente.

I tre “adulti” erano molto preoccupati per il comportamento di Ratonhnhaké:ton. Il piccolo sembrava cresciuto di anni in pochi giorni: era fin troppo ragionevole, non pronunciava mai il nome delle giubbe rosse senza accompagnarlo a qualche pesante epiteto, e chiedeva sempre alla madre se avesse intenzione di passare il resto della sua vita col terrore di soffrire le colpe di suo padre.

«Presto la guerra finirà, Ratonhnhaké:ton» lo rassicurava la giovane, scossa da quelle accuse. «Papà tornerà e tutti staremo bene.»

Il bambino non dava mai segno di credere a quelle parole.


 

Quando Achille notò, con immenso sollievo, che le giubbe rosse erano sparite dalla circolazione, fece ricostruire la sua tenuta. La ragazza e Ratonhnhaké:ton tornarono alla loro vita, dopo essersi congedati con innumerevoli ringraziamenti dal dottor Harrow.

Un leggero clima di pace aleggiava nell’aria e, nonostante Connor non fosse ancora tornato, la certezza che la guerra fosse prossima alla sua conclusione rendeva tutti sereni.


 


 


So che potrebbe lasciare un leggero senso di vuoto, ma è perché intendo continuarla! Pianifico di scrivere una “parte 2”, perché qui non potevo dilungarmi più di così: stavo per superare le 7 pagine di OpenOffice – a mio parere troppe per una one-shot.

In tutta sincerità, è stato un parto. Mi è venuta in mente ieri sera, nel momento in cui mi sono infilata sotto le coperte, ormai troppo tardi per mettermi a scriverla. L’ho scritta mentalmente, e ho faticato a prendere sonno per paura di dimenticarla. Mi sono messa alla tastiera alle otto di questa mattina e l’ho terminata alle tredici. Cinque ore di scrittura ininterrotta. Ma una volta entrata nella mia testa, questa storia non mi avrebbe abbandonata senza essere buttata giù.

Così eccomi qua. Ringrazio immensamente tutti coloro che hanno recensito e inserito la raccolta tra le seguite, e spero che questo capitolo – per quanto crudo e non-romantico – sia stato di vostro gradimento.

   
 
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