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Autore: Halina    03/09/2013    1 recensioni
[Les Miserables; AU – Parigi 2013 - College World]
[Enjolras/Grantaire; Marius/Cosette; Courfeyrac/Eponine; altri]
Parigi 2013, un nuovo anno accademico ha inizio e la society de "Les Amis" è pronta ad affrontare nuove crociate e sfidare la nuova riforma dell’istruzione che il governo vuole attuare. Il piccolo café Musain, a pochi isolati dall’università, diventa il quartier generale del club, il rifugio di cuori infranti e il tempio di nuove speranze. E’ tempo di tornare ad avere fiducia, tornare a credere, che se un cambiamento può avere luogo in noi anche il mondo può cambiare. E cambierà.
Genere: Generale, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 6 – POV Enjolras

I nostri eroi ce l’hanno fatta e hanno portato a compimento l’opera. E’ un capitolo lunghetto, in cui succedono un sacco di cose e il tempo scorre molto velocemente. Vi chiedo scusa se questo vi crea qualche scompenso, ma è l’unico modo che ho trovato per mantenere una coerenza temporale con gli eventi e raccontare tutto dal POV di Apollo. Spero anche che non troviate Enjolras OOC, ho tentato di dargli quel pizzico di umanità in più che a volte rimane nell’ombra. Fatemi sapere cosa ne pensate e, come sempre, se trovate errori o refusi segnalate e avrete la mia gratitudine eterna.

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Il secondo semestre dell’anno accademico era volato. Enjolras aveva alzato il capo dai libri un pomeriggio, concedendosi per un attimo di far vagare lo sguardo fuori dalle grandi vetrate della biblioteca, e aveva scoperto che la primavera era arrivata.

Il parco del campus era illuminato dal sole di maggio, gli alberi erano in fiore, e ovunque capannelli di studenti stavano distesi sull’erba, tra panini e ripassi.

Tuttavia, nonostante l’arrivo della bella stagione, c’era ben poco di festoso in Università. Agli inizi di febbraio, appena dopo il rientro dalle vacanze invernali, era stato annunciato agli studenti che la Riforma dell’Istruzione era stata approvata. Sarebbe entrata ufficialmente in vigore agli inizi di giugno e, con l’inizio del nuovo anno scolastico a settembre, i fondi sarebbero stati dimezzati.

Quando Grantaire, in una delle prime riunioni del nuovo anno, aveva commentato che erano fortunati, perché la riforma non avrebbe toccato tutti loro che, con un po’ di fortuna, si sarebbero laureati entro l’estate, aveva seriamente rischiato di ricevere un pugno dritto sul naso.

Grantaire. Enjolras scacciò il pensiero con un vago fastidio, appoggiando gli occhiali sul tavolo e massaggiandosi il naso con un sospiro. L’incidente della notte di Natale non era mai stato affrontato, nessuno ne aveva mai parlato.

Sapeva che Combeferre e Prouvaire avevano raccontato tutto a Courfeyrac, se n’era accorto dai sogghigni e dalle allusioni che quest’ultimo gli aveva lanciato più di una volta. Da parte sua, Enjolras aveva fatto di tutto per mettere a tacere illazioni e battutine, e aveva ripreso a trattare Grantaire con la solita freddezza. Eppure, nei momenti più impensabili, il ricordo di una fetta di torta condivisa in piena notte o la sensazione di quelle labbra fredde e sottili appena posate sulle sue facevano capolino, distogliendo la sua attenzione dalla tesi e dai suoi piani per cambiare il mondo.

“Enjolras!” la voce di Combeferre alle sue spalle aveva un tono insistente, e al tempo stesso preoccupato, come se lo avesse chiamato più volte senza ottenere risposta.

Il biondo si voltò nella sedia, adocchiando l’amico che era appena rientrato in casa, la borsa a tracolla e un plico di appunti sotto braccio.

“Hei, bentornato. Come è andato l’appuntamento con la relatrice?” gli chiese.

“Benone, l’ho portata a bere un caffè al Musain - sorrise Combeferre - Avresti dovuto vedere Courf e Gavroche, seduti a un tavolo pieno di libri e quaderni, uno impegnato con la tesi e l’altro con gli ultimi compiti in classe del quadrimestre. Sono davvero teneri, e le cose tra Eponine e Courf sembrano andare alla grande. Oh, e Martine ha detto che la mia tesi è perfetta, abbiamo concordato la discussione per il 28, così il 27 posso venire alla tua!”

Enjolras si stiracchiò, indossava ancora i calzoncini e la t-shirt con cui aveva dormito, se le quattro ore appisolato sul divano potevano considerarsi dormire: “Fammi capire, chiami la tua relatrice per nome e invece di un appuntamento nel suo ufficio la porti fuori a bere qualcosa. Interessante…”

Inaspettatamente, Combeferre arrossì. Si schiarì la voce, indicando la pila di carta che occupava il tavolo della cucina, cambiando argomento: “Tu piuttosto? Come sei messo?”

“Quasi finito, ma l’organizzazione della manifestazione mi ha portato via tempo e sono in netta carenza di sonno.”

Ferre annuì, dando un’occhiata all’orologio, che segnava le cinque e mezza: “Va bene, ascolta, ti metto su un caffè e scrivo su Facebook che la riunione di stasera salta. In compenso facciamo una cena qui da noi con solo la vecchia guardia e vediamo di venire a capo della situazione una volta per tutte.”

Enjolras gli rivolse un’occhiata riconoscente, annuendo: “Grazie, ‘Ferre…”

Per le due ore successive tornò ad immergersi nell’ultima correzione della sua tesi, che recava il provocante titolo di “La rivoluzione è un dovere morale”. Alle otto meno un quarto, Combeferre lo spedì a rendersi presentabile, iniziando a spadellare la cena.

Enjolras era appena uscito dalla doccia, quando sentì suonare il campanello. Sentendo l’urlo di Combeferre dalla cucina “Mi si attacca la crepe!” sospirò. Avvolgendosi attorno ai fianchi snelli un asciugamano e tamponandosi i capelli bagnati con un altro, si diresse alla porta, sgocciolando sul pavimento della sala.

Aprì la porta e il “ciao” gli morì in gola quando vide Grantaire sul pianerottolo, gli occhiali da sole che tenevano fermi i ricci scuri sulla fronte, una scatola di cartone tra le mani. Non erano così vicini da mesi, non avevano una conversazione decente da mesi, ed Enjolras era mezzo nudo sulla porta di casa.

“Ho… ho portato il dolce” mormorò con un filo di voce Grantaire dopo un istante, deglutendo forzatamente, senza sapere dove guardare.

Enjolras si affrettò a farsi da parte, lasciandolo entrare. Aveva il cervello improvvisamente annebbiato, per qualche ragione non riusciva a trovare niente da dire.

“Courf ha dato un passaggio a me ed Eponine, stanno cercando parcheggio…” aggiunse ancora Grantaire, e ancora una volta le sue parole caddero nel vuoto.

Fu in quel momento che Combeferre emerse dalla cucina, armato di paletta e grembiule. Enjolras lo vide spostare lo sguardo tra i due e gli lanciò un’occhiata di supplica che l’amico colse al balzo: “’Taire! Proprio l’uomo che speravo di vedere! Non è che mi daresti una mano con le crepes?”

R balbettò un assenso, dirigendosi verso la cucina. Enjolras si rifugiò in camera, annaspando nell’armadio alla ricerca di un paio di jeans e una camicia pulita. Una volta vestito si sedette sul letto, prendendosi la testa tra le mani. Sentiva le voci famigliari degli amici dalla sala, eppure l’unica che gli rimbombava nelle orecchie era quella, allegra e canzonatoria come sempre, di Grantaire.

Per la prima volta in mesi, Enjolras scese a patti con il pensiero che si era tanto a lungo negato: gli era mancato. Gli era mancato sentirsi lo sguardo di quei beffardi occhi verdi addosso, gli era mancato il sentirsi chiamare Apollo, gli era mancata la sfida perenne che Grantaire sapeva lanciargli con una sola occhiata o una sola parola.

Avevano passato quattro mesi ad evitarsi e, per la seconda volta della sua vita, Enjolras si sentì un codardo.

La prima volta era stata quattro mesi prima, la notte di Natale. Aveva portato Grantaire in ostello sorreggendolo quasi di peso, accettando con inaspettato piacere il suo peso addosso e il contatto con il suo corpo esile. Lo aveva aiutato a mettersi sotto le coperte e si era steso accanto a lui nel letto singolo dell’ostello, perfettamente vestito, sopra il piumone. Non aveva chiuso occhio, lo aveva guardato dormire, aveva lasciato che lo abbracciasse nel sonno, posandogli la testa sul petto, ripromettendosi di voler essere lì a vederlo svegliarsi, a guardare la reazione che avrebbe avuto nell’aprire gli occhi e trovare Enjolras al suo fianco. E alle prime luci del mattino era sgattaiolato via, aspettando nel gelo che la metro riaprisse.

Di che cosa aveva paura? Aveva cercato a lungo una risposta, ne aveva trovate parecchie. Paura di aver bisogno di qualcuno, paura di scendere a patti con le sue debolezze, paura di accettare una sessualità di cui non si rendeva pienamente conto. Ma la consapevolezza che lo aveva colpito più duramente era la paura che per Grantaire fosse solo un gioco. Sapeva che ‘Taire aveva la fama del libertino, era un cinico senza ideali e senza legami, ed Enjolras era arrivato a dover ammettere che teneva troppo a Grantaire per rischiare di scoprire di essere solo l’ennesimo dei suoi sfizi: la seduzione di Apollo.

Un leggero bussare alla porta lo riscosse, il viso delicato di Cosette fece la sua comparsa: “Enji, Combeferre dice che è in tavola.”

Chiunque altro sarebbe morto per averlo chiamato così, ma Cosette possedeva l’innata dote di annichilire chiunque con il suo sorriso innocente, per cui Enjolras si limitò ad alzarsi e seguirla nell’altra stanza, dove il gruppo ristretto degli originali amis aveva preso posto attorno al grande tavolo, su cui troneggiavano pile di crepes e bottiglie di vino.

Con un’inaspettata risolutezza, Enjolras si avvicinò, dando un colpetto alla sedia di Joly: “Questo è il mio posto, Joly. Ti scoccia sederti accanto a Feully?”

Il medico lo guardò un attimo perplesso prima di alzarsi e spostarsi, lasciando che Enjolras prendesse posto tra Marius e Grantaire.

Quest’ultimo lo sbirciò con la coda dell’occhio, palesemente stupito, per poi appoggiarsi comodamente contro lo schienale della sedia e sollevare una bottiglia di Bordeaux. Si voltò verso Enjolras, piantandogli gli occhi addosso: “Vino, Apollo?”

Una vampata improvvisa di calore prese vita nel basso ventre di Enjolras, vagamente consapevole che la conversazione attorno al tavolo si era bloccata e decisamente consapevole del sorriso sghembo sulle labbra, troppo vicine, di Grantaire.

“Sì, grazie.” Si limitò a rispondere, miracolosamente riuscendo a tenere la voce salda. Taire gli riempì il bicchiere, facendo poi passare la bottiglia tra i commensali.

Quando tutti furono serviti, Enjolras si schiarì la voce: “Un brindisi, amici. Al giorno prima della tempesta, che rapido si avvicina, e alle barricate di libertà. Quando i nostri ranghi inizieranno a serrarsi, prenderete il vostro posto al mio fianco?”

Un coro convinto rispose alle sue parole.”

Al vino seguì il cibo, e ben presto un vivace dibattito si era acceso, avente come argomento primario i progetti di protesta ormai quasi pronti ad entrare in atto. Solo Cosette ed Eponine, sedute fianco a fianco a capotavola, sembravano più interessate a decidere quale negozio di scarpe avesse già iniziato i saldi di fine stagione, ma ben presto, colta l’occhiata mortale di Enjolras, tornarono a concentrarsi su argomenti meno frivoli.

“Abbiamo una data, capo?” chiese Bahorel, agenda alla mano, mentre Joly e Courfeyrac sparecchiavano.

Enjolras annuì, muovendosi un poco sulla sedia. Da quasi un quarto d’ora aveva un fastidioso crampo alla gamba sinistra, che si stava sforzando di tenere il più lontano possibile da quella destra di Grantaire, operazione tutt’altro che banale dato il numero elevato di sedie ammassate nello spazio ristretto attorno al tavolo. “L’entrata in vigore della riforma è confermata per il 5 di Giugno, e in quel giorno ci sarà il corteo di protesta, l’occupazione dell’Università inizierà nella notte tra domenica 5 e lunedì 6.”

Jean si grattò pensieroso una guancia, commentando: “Questo ci lascia all’incirca un mese esatto, e di cose da fare ce ne sono ancora parecchie, volantinare, fare i cartelloni, raccogliere le firme, organizzare i turni dei picchetti e via dicendo. Dove la vuoi fare la manifestazione di protesta?”

“Davanti al Palazzo del Ministero dell’Istruzione”  fu la risposta di Combeferre “partiremo dall’Università e arriveremo a alla piazza.”

“Gente,” si intromise Feully “Io lavoro e voi siete tutti, o quasi” precisò lanciando un’occhiata a Bahorel e Legle “alle prese con le tesi, ammesso che dopo l’occupazione vi facciano ancora laureare. Credo sia il caso di affidare il grosso del lavoro pratico ai giovinastri della Society e noi occuparci della supervisione. Che ne dite?”

Enjolras annuì, nonostante fosse palese che l’idea non lo entusiasmasse più di tanto: “Sì, è giusto così. Noi abbiamo messo in piedi Les Amis cinque anni fa, ma la nostra parentesi universitaria è ormai al termine ed è tempo di lasciare spazio ai giovani.”

“Apollo, mi fai sentire con un piede nella fossa.”

Enjolras si voltò nella sedia per fronteggiare Grantaire, un’espressione serena sul volto perfetto: “Dei ed eroi non muoiono, ciò che fanno in vita riecheggia nell'eternità.”
Esitò solo un istante prima di aggiungere: “Ma che cosa te lo dico a fare? Grantaire, tu sei incapace di credere, di pensare, di volere, di vivere o morire.”
Avrebbe potuto essere un critica, o uno dei mille rimproveri di Enjolras a Grantaire, non fosse stato per l’insolito, inspiegabile, quasi beffardo sorriso sulle labbra del biondo.

Un’occhiata tacita passò tra i due e Grantaire alzò il bicchiere, andando a rispondere: “Lo vedrai.”
 
***

Altri giorni di sole e caldo, altre settimane di frenetici preparativi e ultime revisioni alle tesi di laurea. Ma, tempo dei primi di giugno, ogni pensiero che non fosse strettamente legato alla Rivoluzione aveva completamente abbandonato la mente di Enjolras, che si faceva in quattro giorno e notte per supervisionare ogni gruppo di studenti che stava lavorando per preparare l’occupazione.

La mattina del 5, alle 7 in punto, il biondo era il primo a presenziare davanti al cancello principale dell’Università, iperattivo e con già quindici caffè in corpo, al suo fianco, come sempre, Combeferre, che era stato buttato giù dal letto all’alba.

Enjolras stava passeggiando nervosamente avanti e indietro quando vide una sagoma famigliare avanzare a passo baldo lungo la strada, un fagotto voluminoso sotto braccio.

“Heilà, Apollo!” Grantaire alzò la mano libera in cenno di saluto, avvicinandosi agli amici: “Ti ho portato un regalo.”

Enjolras sollevò un sopracciglio, apparentemente scettico, ma in realtà piacevolmente stupito e divorato dalla curiosità. Con un gesto teatrale, Grantaire srotolò il fagotto, che si rivelò essere tutt’altro che un fagotto ma un grande stendardo rosso. Lo tese a Enjolras con un piccolo sorriso, stringendosi nelle spalle magre: “Si intona alla giacca…” commentò, accennando alla giacca rossa che il biondo indossava.

Enjolras se lo rigirò tra le mani, colpito e incredulo. Solo ad un esame più approfondito notò che lungo il bordo della stoffa rettangolare erano state scritte delle parole nella calligrafia sbilenca di Grantaire.

Do you hear the people sing? Singing the song of angry men? It is the music of a people
who will not be slaves again! When the beating of your heart echoes the beating of the drums,
there is a life about to start when tomorrow comes!”


Enjolras sgranò gli occhi, cercando lo sguardo dell’altro: “’Taire…”

“Ah, no!” rise Grantaire, alzando le mani e scuotendo il capo: “Non è merito mio, con le parole proprio non ci so fare, è frutto di Prouvaire, è un estratto della poesia che ha scritto per la grande occasione.”

Proprio in quell’istante, con un colpo di clacson, la macchina di Courfeyrac si accostò al marciapiede, lasciando scendere Jean, Feully, Eponine e Gavroche.

“Allora, capo? Che ne pensi?” chiese Prouvaire.

Nello stesso istante, la vocetta acuta di Gavroche si fece sentire: “Pronti alla Rivoluzione, capo! Che si fa?”

Enjolras scosse i ricci biondi, rifilando un’occhiataccia a Eponine: “Si può sapere cosa ti è venuto in mente di portarti anche lui?”

La ragazza si strinse nelle spalle: “Me lo ha chiesto come regalo per la promozione, e in più mi sarebbe toccato legarlo a una sedia!”

Alla spicciolata, il piazzale dell’Università iniziò a riempirsi: gli altri membri della society, studenti e persone di ogni tipo si stavano accalcando attorno ad Enjolras.

Qualcuno gli aveva trovato un sostegno su cui montare lo stendardo, che ora sventolava nel venticello del mattino.

Quando il corteo si mise in movimento, la coda si snodava lungo le vie ed era impossibile precisarne il numero; chi diceva duecento, chi diceva duemila, la verità, probabilmente, da qualche parte nel mezzo.

Vedendoli sfilare per le vie e le piazze, convinti e fieri, altri si univano alle loro fila. Enjolras era così emozionato da sentirsi sul punto di esplodere. Conservava il solito aspetto tranquillo e fiducioso, ma una miriade di sentimenti lo attraversavano mentre guidava quella marea umana verso quella che lui vedeva come l’alba di un’era di libertà. Combeferre procedeva come sempre alla sua destra, ma Courfeyrac si era spostato alle sue spalle, con Eponine e Gavroche. Il buco lasciato da Courf era stato occupato da Grantaire, che procedeva baldanzoso guardandosi attorno con l’aria di un turista che si era trovato in mezzo a quel parapiglia per caso. Gli altri li seguivano in ordine sparso, ma nelle prossime vicinanze.

Il corteo sfilò per buona parte della mattina, su e giù per il centro di Parigi, vociando e ingrossandosi, per poi arrivare a destinazione. Davanti al palazzo del Ministero della Pubblica Istruzione un piccolo drappello di gendarmi stazionava come prassi davanti al portone. L’agitazione suscitata dall’arrivo improvviso di una folla arrabbiata nella piazza era palpabile.

Enjolras fece arrestare il suo tumultuoso seguito e lasciò che Jean prendesse il megafono, leggendo con enfasi i versi che aveva scritto per l’occasione. Le parole vennero subito riprese dalla gente, che iniziò a ripeterle e ripeterle, quasi trasformandole in un inno.

Urla di protesta, insulti e impeti di violenza minacciarono di scatenarsi tra le fila di coloro che si erano aggiunti alla manifestazione con il solo scopo di protestare, ma non appena Enjolras arrivava tra i capannelli e catechizzava i sovversivi con poche parole ad effetto, la situazione tornava sotto controllo.

Enjolras non si rese conto di quando, nel corso dell’assedio al palazzo, avesse perso di vista Grantaire. Stava appunto iniziando a prendere in considerazione l’idea di andarlo a cercare, quando si sentì tirare per una manica. Abbassò gli occhi, trovandosi di fronte Gavroche.

“Hei, capo” esordì il bambino con fare serio “la vedi mia sorella?” chiese, indicando con un dito Eponine, poco distante, immersa in una fitta conversazione con un uomo di mezza età: “E’ l’ispettore quello, lo sbirro che ha messo dentro papà e che ci sta dando una mano. Tira brutta aria qui…”

Poco dopo Eponine arrivò di corsa, tallonata da Courfeyrac: “Enjolras, Javert dice che ci sono corpi di polizia in arrivo, squadre antisommossa e tutto, pare che qualcuno si sia preso un po’ male.”

Enjolras annuì, spostando lo sguardo tra i due e Combeferre: “Bene, abbiamo detto ciò che avevamo da dire qui, torniamo verso l’Università e iniziamo l’occupazione, togliamoci dallo scoperto.”

Il ritorno verso l’Università fu decisamente più veloce dell’andata, e non altrettanto trionfale. Enjolras fece del suo meglio per non farlo sembrare una fuga, e si fermò sulla porta dell’università, forzata aperta, ad assicurarsi che tutti entrassero. Non poté fare a meno di notare che i loro ranghi si erano già notevolmente ridotti: curiosi, paurosi, e non convinti avevano ben pensato di tornare a casa per ora di pranzo.

Quelli rimasti presero posto nel cortile centrale, mangiando e riposando, mentre qualcuno montava la guardia fuori e cartelli e striscioni recanti la scritta “Occupiamo per tutelare il nostro futuro” e “Ci ribelliamo perché è nostro dovere” facevano capolino da ogni finestra e ogni cancellata.

Il pomeriggio trascorse lento, qualcuno si unì al gruppo, tra cui Cosette (che aveva dovuto presenziare al pranzo della domenica in famiglia), nessuno se ne andò.

Il sole iniziava a tramontare quando Combeferre, Courfeyrac e Marius raggiunsero Enjolras, che per tutto il tempo se ne era stato appollaiato sul davanzale della finestra del rettorato, al primo piano, esattamente sopra il portone principale.

“Un penny per i tuoi pensieri.” Sorrise Courf, notando che il biondo neanche si era accorto del loro arrivo.

Enjolras si voltò di scatto, piegando il collo, sgranchendolo: “Mmmm, è solo che mi sembra tutto troppo tranquillo.”

Combeferre si tolse gli occhiali, pulendoli con un fazzoletto, andando a rispondere: “E’ un’occupazione, Enjolras, il che significa lento e costante logorio, noi dentro e il resto del mondo fuori. Un po’ come un assedio.”

“Lo so” rispose Enjolras con un piccolo sospiro “Eppure mi sembra troppo strano che nessuno ci sia venuto a dire niente nemmeno quando abbiamo forzato il cancello dell’Università!”

“Oh verranno, vedrai!” rispose Marius, avvicinandosi e affacciandosi a sua volta alla finestra: “Spero solo che il padre di Cosette non venga a sapere che sto facendo una cosa del genere, o tanti saluti alla benedizione paterna.”

“Lasciatelo dire, Potmercy” sospirò Courf, esasperato “hai rotto!”

Combeferre ridacchiò: “Mai dire mai, potrebbe addirittura apprezzare il fatto che tu sia un giovane uomo pronto a combattere per i tuoi ideali.”

“Ciò che conta” aggiunse Enjolras, serio “E’ che tu decida una volta per tutte quali sono le tue priorità, Marius. So che Cosette deve tornare a casa per cena, se vuoi andare con lei e toglierti da qui nessuno te ne avrà a male.”

“No” rispose Marius, deciso “il mio posto è qui. Combatto con voi.”

Enjolras lo gratificò con uno dei suoi rari sorrisi, al quale seguirono qualche attimi di silenzio, di quiete, prima che il biondo si schiarisse la voce: “Avete per caso visto Grantaire?” chiese, con fare troppo casuale per risultare credibile.

Fece accuratamente finta di non notare lo sguardo scambiato tra Courfeyrac e Combeferre, mentre Marius andava a rispondere che no, era un po’ che l’amico non si vedeva. Enjolras annuì, apparentemente accantonando la cosa, mentre un vago sentore di paura, mista a disappunto, faceva capolino.

Che si fosse perso? Fosse stato fermato? Gli fosse successo qualcosa? O peggio, che ad un tratto avesse semplicemente perso interesse ed entusiasmo per la crociata e avesse preferito fare tappa in un pub a bere qualcosa?

Enjolras non sapeva quale delle due possibilità lo disturbasse di più.

Prima che potesse arrovellarsi troppo sulla cosa però, un insistente rumore di passi in marcia si fecero sentire lungo il viale che portava all’Università. Qualche attimo dopo file ordinate di poliziotti in tenuta antisommossa, con tanto di scudi, caschi e manganelli, fecero la loro comparsa voltato un angolo.

“E la miseria…” borbottò Courf a mezza bocca, saltando in piedi. Enjolras lo aveva già preceduto, scattando verso la porta.

“Avvisate tutti! Bisogna rinforzare la barricata all’ingresso, lasciamo perdere cortili a ingressi laterali, concentreremo l’occupazione  nel rettorato, finché il centro nevralgico sarà occupato avremo in mano l’intera struttura accademica!”

Detto questo era sparito, scendendo le scale facendo tre gradini alla volta, rischiando di rompersi l’osso del collo. Gli amici lo aspettavano davanti all’ingresso, Prouvaire gli tese lo stendardo rosso, un’occhiata fu sufficiente ad Enjolras per rendersi conto che, ancora una volta, tra le facce famigliari dei suoi compagni, l’unica a mancare era quella che, suo malgrado, più avrebbe voluto vedere.

Facendosi forza prese la bandiera ed avanzò verso il portone, fronteggiando le fila di poliziotti che si erano fermati nel piazzale. Vedendolo comparire, un uomo, probabilmente un ufficiale, mosse un paio di passi avanti, apostrofandolo: “I reati di scasso, occupazione non autorizzata di luoghi di proprietà dello stato e  interruzione di un servizio pubblico sono stati riscontrati. Liberate immediatamente gli ambienti universitari e non ci saranno ulteriori ripercussioni, rifiutate e non avremo altra scelta che procedere per altre vie.”

Enjolras prese un bel respiro e drizzò le spalle, niente di ciò che lo circondava esisteva più, se non la bandiera nella sua mano e la consapevolezza dei suoi compagni alle sue spalle.

“Occupiamo senza autorizzazione luoghi dello stato, dite? Ebbene, nessuno di noi ha dato la propria autorizzazione allo stato per distruggere il nostro futuro e quello di generazioni di studenti e cittadini dopo di noi. Questa è la nostra università, e ce ne andremo solo quando avremo fatto il nostro dovere di cittadini, di uomini e donne, di combattere per i nostri diritti.”

Un coro di approvazione e incoraggiamento gli fece eco dall’interno dell’università, mentre il poliziotto scuoteva il capo e voltava loro le spalle.

Fu questione di un attimo prima che i poliziotti caricassero, Enjolras fece appena in tempo a rientrare prima che una pioggia di fumogeni nascondesse alla vista ogni cosa.

Stava ancora tossendo, appoggiato pesantemente ad una parete, quando i poliziotti furono addosso alla barricata di fortuna che proteggeva l’ingresso. Gli studenti si precipitarono a puntellare tavoli, cattedre, sedie e lavagne, proteggendosi alla meno peggio dai colpi di manganello e respingendo i poliziotti tirando loro addosso qualsiasi cosa capitasse sotto mano.

Enjolras era nel mezzo del tumulto, tenendo sotto controllo la situazione e assicurandosi con la coda dell’occhio che i suoi compagni stessero bene. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato quando, infine, l’assalto perse di intensità e i poliziotti si ritirarono.

“State tutti bene?” chiese guardandosi attorno. Le facce che lo circondavano erano sorridenti, i suoi compagni erano un po’ ammaccati, un po’ contusi, ma tutti galvanizzati da quel primo successo.

Il calare della notte non vide la situazione cambiare, gli studenti erano asserragliati dentro, i poliziotti appostati fuori, e il mondo intero sembrava trattenere il fiato, in attesa.

Combeferre aveva finalmente convinto Enjolras a sedersi e riposare un poco, anche se non c’era stato verso di fargli ingurgitare niente da mangiare. Ora i due amici sedevano in un angolo, fianco a fianco. Davanti a loro, Courfeyrac si stava prendendo cura di Eponine che, nel tumulto, aveva collezionato una serie di brutte botte. Joly stava passando in rassegna i feriti armato di acqua ossigenata e ghiaccio spray, Marius sedeva in disparte, solo, immerso in chissà quali cupi pensieri, e gli altri chiacchieravano tra loro, passandosi una bottiglia di vino.

Era ormai buio pesto, e quasi tutti gli occupanti stavano pisolando, quando due sagome scure attraversarono svelte il cortile principale, avvicinandosi silenziose a Enjolras e Combeferre. Fu Bahorel a notarle, intimando loro di fermarsi. Enjolras fece cenno a Ferre di restare e si alzò, andando incontro ai due nuovi arrivati. Gli bastò un’occhiata per riconoscere l’ispettore Javert, l’altro era un suo coetaneo, un uomo alto e distinto.

“Cosa ci fate qui? E come avete fatto ad entrare?” furono le prime parole che, spontanee, uscirono ad Enjolras.

“Io sono Monsieur Valjeant” si presentò lo sconosciuto “è stata mia figlia, Cosette, a dirmi della vostra situazione, stavo venendo a vedere come stavate quando ho incontrato il mio vecchio amico, l’ispettore” spiegò, accennando a Javert con un cenno del capo “e siamo venuti ad avvertirvi che correte un grande rischio.”

Prima che Enjolras avesse modo di chiedere spiegazioni l’ispettore continuò, sbrigativo: “Non vi siete chiesti perché dopo un primo assalto i poliziotti se ne stiano buoni e calmi nel piazzale? Avete barricato l’ingresso principale e vi siete concentrati sul rettorato, ma l’università ha altre porte, tra cui le uscite di emergenza, e tutte queste porte hanno chiavi, che non sono in mano vostra. Non appena arriverà il custode tutti questi ingressi verranno aperti e vi ritroverete completamente circondati.”

“Ci sono un sacco di bravi ragazzi qui” aggiunse Valjeant “e tutti ragazzi con grandi potenzialità. Capisco la vostra indignazione, credetemi, ma questa cosa sta diventando pesante. Credi davvero che valga la pena bruciarsi la possibilità di un futuro solo perché si ha la fedina penale sporca per un occupazione studentesca? Se davvero vuoi cambiare il mondo, ragazzo, cambialo dall’interno. Andare contro il sistema, contro la legge… non porta mai buoni risultati.”

C’era un’espressione triste, quasi consapevole, sul volto di Valjeant mentre parlava con tono calmo e paterno, una mano posata sulla spalla di Enjolras. Il biondo prese un gran respiro e chiuse gli occhi. Da un lato vedeva se stesso, martire glorioso, armato del suo stendardo rosso e della sua passione, ergersi a monumento perpetuo contro l’ingiustizia. Dall’altro vedeva tutti i suoi compagni, che si fidavano di lui, che lo avevano seguito fin lì, immolati con lui. Per cosa?

“Avete ragione” disse, e a malapena riconobbe la propria voce “non è il caso che ci vadano di mezzo tutti. C’è un modo per farli uscire di qui?”

“Enjolras, no!” la voce di Combeferre era stupita, e al tempo stesso incerta. Non sapeva quanto l’amico avesse sentito, ma non c’era tempo per perdersi in questioni filosofiche. Lui era il capo, e lui avrebbe deciso, per il bene di tutti loro.

“E invece sì, Ferre.” Disse, secco, prima di rivolgersi a Javert: “Ispettore, capisco cosa le costi essere qui e aiutarci, e per questo avrà la mia gratitudine eterna. Se c’è un modo sicuro per portare via i miei compagni la prego di mostrare loro dove. Combeferre verrà con voi.”

“E tu?” gli chiese l’amico.

“Il comandante è l’ultimo ad abbandonare la nave.” Rispose Enjolras, serio.

“Promettimi che verrai, promettimi che ci raggiungerai anche tu e non ti fermerai indietro per qualche stupida, nobile causa. Promettimelo Enjolras.”

Mentire al suo migliore amico andava contro ogni suo principio, eppure non ci fu esitazione nella voce di Enjolras quando, sereno, rispose: “Prometto.”

Dopodiché tutto accadde rapidamente. Con un giro di indicazioni sussurrate, gli studenti si misero in moto, seguendo i due uomini verso una delle uscite di sicurezza, non ancora individuata dai poliziotti.

Quasi tutti se n’erano andati di soppiatto quando, con un gran rumore di fischietti, le forze anti sommossa fecero irruzione.

Vedendo arrivare i poliziotti Enjolras attraversò di corsa il cortile, tirandoseli dietro, e salì le scale del rettorato di corsa. Si posizionò al centro della stanza, immobile e risoluto, le nocche bianche dalla forza con cui si stava aggrappando al suo stendardo. Ne aveva bisogno, nel momento in cui il suo piano, il suo sogno, stava andando in pezzi, aveva più bisogno che mai di aggrapparsi a qualcosa di concreto e, al tempo stesso, di reggere saldo in mano il suo ideale.

Non era triste, non aveva paura, era come svuotato da ogni sentimento umano, vedeva se stesso come l’ultimo baluardo di libertà e giustizia dinnanzi alla violenza e all’oppressione. I poliziotti entrarono, accalcandosi nella piccola stanza, e si fermarono, attoniti. Se perché si  aspettassero più gente o perché fossero rimasti spiazzati da quel bel giovane biondo che si ergeva quasi marmoreo davanti a loro era impossibile dirlo.

Infine uno si fece avanti, manganello alla mano: “La dichiaro in arresto, venga con noi senza opporre resistenza.”

“Un momento!”

Quella voce. Enjolras si riscosse come da una trance, la dove la frase del poliziotto non aveva avuto alcun effetto, quelle due parole gli fecero improvvisamente contorcere le budella.

Sbatté gli occhi un paio di volte, e la vista più improbabile del mondo gli si presentò di fronte.

Grantaire. Un Grantaire particolarmente sbragato, ma tranquillo, che si faceva largo tra i poliziotti attraverso la stanza. Gli si fermò di fronte, tendendogli una mano:
“Permetti?”

La sensazione delle dita fredde e sottili di Grantaire intrecciate alle proprie, calde e sudate, fu l’ultima cosa che Enjolras percepì, prima che tutto diventasse improvvisamente nero.

****

Ci mise qualche istante a riprendere coscienza, aveva un gran mal di testa ed era tutto indolenzito, ma la cosa che più lo lasciava perplesso era la sensazione di una mano nella sua.

Con un sobbalzo spalancò gli occhi, ritrovandosi a fissare una parete di cemento in cui era incassata una piccola finestra munita di sbarre.

“Buongiorno, Apollo.” Lo apostrofò una voce famigliare: “Lo ammetto, se mi avessero detto che un mattino mi sarei svegliato al tuo fianco questo non sarebbe stato il mio scenario ideale. Ma suppongo di dovermi accontentare…”

Con non poca fatica, Enjolras ruotò il capo sul collo. Grantaire sedeva al suo fianco sulla branda della cella, il solito sorriso da stregatto sulle labbra. Sulla tempia sinistra aveva un grande livido bluastro.

Enjolras lo fissò per qualche istante prima di umettarsi le labbra: “Perché l’hai fatto?”

“Intendi il farmi prendere a manganellate?” chiese Grantaire beffardo.

“Intendo il farti arrestare con me, R, perché?”

Grantaire tornò serio, e il suo tono era sincero quando rispose: “Ti seguirei in capo al mondo, morirei per te.”

Enjolras non rispose, sostenne lo sguardo limpido e verde di Grantaire e, suo malgrado, sorrise: “Sai la notte di Natale, quando abbiamo dormito insieme…”

“Aspetta, frena, fermo un secondo!” lo interruppe Grantaire, sgranando gli occhi al limite del possibile: “Abbiamo dormito insieme la notte di Natale e io non me lo ricordo? Merda! Devo diventare astemio!”

All’espressione incredula di Grantaire, Enjolras rise piano. Infine annuì, guardandolo serio negli occhi: “Sì, devi. Perché tutta notte non ho chiuso occhio, guardandoti e desiderando che tu non fossi ubriaco marcio.”

“Perché?”

“Per fare questo.”

Non era sua abitudine motivare le proprie azioni, non era sua abitudine chiedere il permesso. Allungò le braccia e prese il viso di Grantaire tra le mani. Quindi si sporse in avanti, imponendo la propria presenza, il proprio corpo sull’altro e chiuse gli occhi, impossessandosi con foga di quelle labbra fredde e sottili che infestavano i suoi sonni da tanto, troppo tempo.

Fu quando sentì il corpo di Grantaire rilassarsi contro il suo, le sua labbra schiudersi, e le sue braccia cingergli esitanti i fianchi che Enjolras improvvisamente capì che il suo mondo era completo.


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Fermi, non scappate, e non piangete. C’è un piccolo epilogo in chiusura per salutarvi. Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto e grazie di aver letto!

  
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