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Autore: MaidOfOrleans    11/09/2013    0 recensioni
Un poliziotto che ha perso tutto più di una volta.
Una ragazza che ha perso tanto, ma la cui vita deve ancora iniziare.
Una stupidaggine che conduce a una tragica fatalità.
Una salvezza miracolosa.
Un pericolo difficile da evitare.
Una convivenza forzata.
Qualcosa che, all'improvviso, restituisce i colori al mondo.
Qualcosa che, così com'è iniziato, di colpo deve finire.
Genere: Azione, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chin Ho Kelly, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta
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Well, life has a funny way of sneaking up on you
When you think everything’s okay and everything is going right.
Alanis Morissette- Ironic
In ventisei anni, Reese era convinta di aver osservato svariate volte la Bellezza, quella cantata dai poeti e desiderata anche solo a livello inconscio da chiunque potesse dirsi umano: il sorriso di una bambina di colore sulla metropolitana, l’arcobaleno che lambiva pigramente Manhattan, Notte Stellata di Van Gogh al Metropolitan. Eppure, quando uscì a piedi scalzi in terrazza e vide il sole gettarsi nel mare di Oahu, una palla rovente su una lastra di vetro turchese, avvertì una sussulto dello stomaco che non ricordava di aver mai provato prima.
“Tutto bene?” Premuroso come sempre, Ned le si fece accanto nell’istante in cui lei socchiudeva gli occhi, quasi per difendersi da tanto splendore.
“Benissimo. E’ solo che…voglio dire…” per un istante annaspò, alla ricerca di parole che, lo sapeva, non esistevano. “E’ quasi troppo.”
Ned rise, e le circondò le spalle minute con il braccio. “Beh, sì. Piuttosto spettacolare, in effetti.”
“Secondo te, qui i criminali esistono? O basta guardare fuori dalla finestra al mattino per essere un po’ meno cattivi?”
Il ragazzo si chinò, e accarezzò la fronte di Reese con le labbra. Si era sbarbato di fresco. “Tesoro mio”, le sussurrò tra i capelli “Se solo fossero tutti dolci e ingenui come te.”
Lei non rispose, ma un respiro le si intrappolò in gola, poco sotto la carotide. Ingenua, scemotta di papà. Se solo Ned avesse cercato di… oddio, papà!
“Piccola, che c’è?”
“Sono le otto e mezza!” aveva promesso a Big Sam che gli avrebbe telefonato alle otto, non oltre. Si lanciò sulla borsa alla ricerca del cellulare, nella folle speranza di non trovare chiamate perse. 
Ce ne erano dodici.
“Cazzo”, imprecò Reese tra i denti, e mostrò il display al fidanzato.
“Accidenti, Big Sam! Scemotta, lo sai quanto va fuori di testa quando ti scordi queste cose.”
Sì, lo sapeva. Premette il tasto di chiamata veloce, e si odiò quando si rese conto che le sue mani tremavano come quando aveva quattordici anni.
“Dove diavolo eri finita?” Senza nemmeno dare il tempo di risuonare al secondo squillo, la voce tonante del padre le si riversò nell’orecchio.
“Big Sam, scusa, davvero!” biascicò precipitosa “Davvero, sul serio, è che ci stiamo divertendo così tanto e…”
“Scusa un corno! Mi hai fatto preoccupare, chiedi ad Annie se non mi sono cagato sotto.”
Nonostante la difficoltà della conversazione, Reese riuscì ad esprimere tra sé e sé piena solidarietà nei confronti della segretaria del padre. Assecondare le richieste di Big Sam dodici ore al giorno era, ai suoi occhi, una corvée peggiore che asfaltare una strada in Arizona il sedici di agosto.
“Papi, non devi angosciarti. Stiamo benissimo, sono in albergo con Ned e tra poco scendiamo a cena…anzi, gli vuoi parlare?”
“Certo che gli voglio parlare” latrò Big Sam, e dai rumori lei intuì che stava masticando un pezzo piuttosto grosso di tabacco. “Non immagini cosa sta succedendo qui. Le azioni di…oh, Cristo, ma che te lo dico a fare? Su, passami Ned.”
Muta e ubbidiente, Reese porse il telefono al fidanzato e si allontanò verso il parapetto della terrazza: le conversazioni tra Big Sam e i suoi dipendenti tendevano ad essere straordinariamente lunghe e infarcite di termini che, nella testa della ragazza, echeggiavano come parole in una lingua dimenticata nella primissima infanzia, vicine in modo quasi doloroso, ma irraggiungibili. Anche se il dipendente in questione era il suo futuro genero, in vacanza con la figlia. Di norma, avrebbe sentito una fitta di amarezza al pensiero che Ned passava più tempo a chiamare suo padre che con lei, ma il panorama che aveva di fronte la pacificò al punto che quasi riuscì ad escludere del tutto la voce concitata del futuro marito dal proprio campo percettivo.
Quando Ned le aveva proposto le Hawaii come meta per una piccola fuga romantica, a sei mesi dal matrimonio, si era sentita un po’ in dubbio: nella sua mente, si trattava di posti frequentati da gente con la puzza sotto il naso, che preferiva il glamour all’autenticità dei luoghi. Quante ragazzine bionde con le Balenciaga appese al braccio aveva sentito sbrodolare sulle spiagge bianche e sui locali notturni dell’arcipelago? Non aveva tuttavia avuto molta voce in capitolo nella scelta della destinazione, e ora si era resa conto che era stata una fortuna. A costo di dar ragione alle più scervellate tra le sue compagne di corso al college, Waikiki Beach era il paradiso.
“Ehi, piccolina, scendiamo?”
“Che voleva Big Sam?”
“Niente che potresti capire” Ned le pizzicò il naso e la prese sottobraccio, di buon umore nonostante le notizie, che non dovevano essere state il massimo.
“Okay”, lasciò perdere Reese, scacciando la sensazione di fastidio come una mosca dal piatto. “Dai, chissà se ci sono ancora quei gamberi meravigliosi che ho preso ieri.”
“Se così fosse, spero che non siano gli stessi!”
Ridendo, presero l’ascensore, rientrarono in camera perché lei si era resa conto di aver dimenticato di mettersi le infradito e finalmente si accomodarono al ristorante.
I gamberi non comparvero, ma a sostituirli giunse un’aragosta che, Reese dovette ammettere, non li fece rimpiangere. Fu una cena piacevole. Scacciata l’ombra minacciosa di Big Sam, Ned ritrovò un certo senso dell’umorismo, e presero in giro una per una le vecchie coppie di californiani che davano del tu al maitre: era chiaro come la zona, e il loro albergo in particolare, fosse un luogo caro ai ricconi della costa settentrionale. Nemmeno Reese,  non particolarmente incline alla spensieratezza, riuscì a rimuginare sul fatto che anche loro due erano dei privilegiati, solo nati svariate miglia più ad Est.
Ned ordinò champagne, e mentre glielo versava danzò sulle sue labbra il sorriso asimmetrico che ormai lei conosceva bene. L’avrebbe portata in camera di corsa, lasciandole appena il tempo di strozzarsi con l’ultima fetta di ananas. Dopo quattro anni di relazione sapeva cogliere i segnali di lui, ma ancora un rossore nemmeno troppo discreto le si diffondeva sul petto e sul viso quando, come in quel momento, si rendeva conto di essere desiderata.
Effettivamente, Ned quasi la trascinò all’ascensore, mentre lei rideva e fingeva di divincolarsi, comunque assurdamente piccola tra le sue braccia. Per un’inebriante mezz’ora, Reese respirò nel vero senso del termine, senza avvertire nessuna oppressione al petto, nessun remoto campanello di allarme in fondo alla testa.
Quando ebbero finito di fare l’amore, Ned scivolò fuori dal letto e si chiuse in bagno per un tempo sufficiente affinché la ragazza si assopisse. Dormì mentre lui le si lasciava cadere nuovamente accanto e si raggomitolava sul fianco, e, come accadeva spesso, si svegliò nell’istante in cui il fidanzato superava la soglia del sonno. Sollevata sul gomito, Reese contemplò per qualche istante il viso gentile di Ned nella penombra della stanza, e si ripeté, come sovente faceva, che era una ragazza fortunata. L’orologio luminoso sul comodino segnava le undici e un quarto. Non c’era nessuna possibilità di addormentarsi per almeno un’altra ora, lo sapeva, così si alzò e si infilò sotto la doccia tiepida.
Reese era stata una bambina piuttosto dormigliona. Ricordava la luce che filtrava attraverso le spesse tende della sua camera, svegliandola, e le grida di suo fratello dal corridoio: “E’ quasi mezzogiorno, dai, la partita sta per cominciare!” Lei mugugnava e nascondeva la testa sotto il cuscino, così sua madre spalancava la porta e le tirava via le lenzuola ridendo. Ricordava il suo profumo di gelsomino e rossetto. Ricordava le sue mani fresche sulle gambe con cui lei scalciava, mentre strillava di lasciarla in pace. 
Non ricordava esattamente quando avesse smesso di poltrire fino a tardi, ma era in grado di datare il periodo. Da un giorno all’altro, niente mani femminili, addio gelsomini, mai più rossetto sbavato sulle guance quando usciva per andare a scuola. Il sonno era uscito dalla sua vita insieme a sua madre.
Rabbrividendo- faceva caldo, ma Ned era fissato con l’aria condizionata a diciotto gradi- Reese uscì dalla doccia e si affrettò ad avvolgersi in un telo, senza specchiarsi. Tollerava il proprio corpo come avrebbe sopportato un vecchio vicino rompiscatole cui, negli anni, si era affezionata, ma lo guardava il meno possibile. Non aveva nessuna voglia di frugare in valigia, e decise che la t-shirt abbandonata da Ned accanto al lavandino sarebbe stata perfetta come pigiama. Attenta a limitare il più possibile i rumori, nonostante sapesse quant’era pesante il sonno del fidanzato, uscì dalla stanza.
Nei momenti come quello, quando era così stanca che le si socchiudevano le palpebre, eppure il suo cervello non sembrava desiderare di spegnersi, nessun ambiente chiuso le dava il benché minimo sollievo. Estate o inverno, l’unica cura per quel malessere era il cielo.
Percorse il corridoio scalza e prese l’ascensore, ma, arrivata nella hall, si rese conto di avere un piccolo problema. Sapeva che c’era un passaggio che permetteva di trovarsi direttamente sulla spiaggia, ma non le veniva in mente dove fosse. Si maledisse per non aver fatto attenzione al percorso nei tre giorni precedenti: sua madre e Siobhan le ripetevano di continuo che non poteva affidarsi del tutto agli altri, anzi, doveva tenere gli occhi aperti in ogni circostanza, perché era l’unica possibilità che aveva di non dipendere da qualcuno per le più piccole cose. “Ne hai di memoria, ragazza, sfruttala.” Eppure, aveva intrecciato le dita a quelle di Ned e si era lasciata trascinare. Scemotta di papà.
Il concierge non c’era, e Reese decise d’impulso di provare con la porta a sinistra, un po’ più piccola e meno illuminata delle altre. Si trattava di un corridoio stretto, le pareva di ricordare.
No. No, come volevasi dimostrare si era sbagliata. Sbatté gli occhi nell’improvvisa oscurità della strada, e si rese conto di trovarsi in un vicolo, davanti ai cassonetti della spazzatura: doveva essere l’ingresso di servizio. Fece per voltarsi e tornare indietro, quando un suono rimbalzò sull’asfalto e le arrivò all’orecchio: una voce umana.
“E’ l’ultima cazzata che dici, coglione.”
C’erano ben poche probabilità che si trattasse di uno degli over sessantacinque californiani con i quali avevano fatto cena. La voce era aspra, quasi un latrato, e aveva un forte accento della costa orientale- Boston, si disse Reese. La frase fu seguita da un suono orribile, di cui aveva sentito l’eguale solo una volta, quando, a una partita di suo fratello, un difensore si era preso da un altro una gomitata alla tempia: materiale rigido, come la plastica di una protezione da football, sulle ossa. Un gemito, sputi. Come a rallentatore, la testa della ragazza produsse una cascata di campanelli d’allarme, ma il corpo non sembrava in grado di ubbidirvi. Le gambe non tremavano, ma scoprì che erano inamovibili.
“E’ la verità, lo giuro! Lo…AAAGH!” Questa volta, il rumore non diede adito a dubbi, anche perché fu seguito quasi subito dall’odore. Un lezzo nauseabondo di carne bruciata che piegò le ginocchia di Reese, spingendole a un impatto piuttosto doloroso con il marciapiedi. I conati le scuotevano il busto. Rientrare, continuava a urlare il cervello. Scappare aprire la porta rientrare correre più veloce che mai. Se solo fosse riuscita ad alzarsi…
“Mio caro, mio caro. Non te l’hanno mai insegnato che non si raccontano bugie?” Una voce diversa da quella canina, e anche dall’ultima che aveva parlato, rotta dal dolore e dal pianto. Questa sembrava appartenere a un uomo piuttosto giovane, e straniero. La sua dolce musicalità era dieci volte più spaventosa della furia dell’altro aguzzino.
“Non…lo giuro! Vi prego, io…vi prego!” Nuovi gemiti inchiodarono la ragazza dove si trovava. Aiuto. Doveva chiamare aiuto. Se solo fosse riuscita a raggiungere la maniglia della porta…le gambe sembravano paralizzate, ma poteva strisciare…
“Sai cosa si fa ai ragazzini che non mantengono la parola data?”
Qualche centimetro. Solo qualche centimetro.
E poi, all’improvviso, la gamba destra scelse il momento meno opportuno per uscire dal torpore e scattò in avanti, senza che la sua proprietaria fosse in grado di fermarla. Raccapricciata, Reese osservò il cassonetto che aveva di fronte- e che le aveva fino a quel momento occluso la visuale, proteggendola dagli occhi degli uomini- inclinarsi sotto la spinta del calcio, forse il più forte che lei avesse mai tirato in vita propria. Quando cadde su un fianco, il fracasso rimbombò nel vicolo, e nella ragazza si fece strada per un istante la delirante speranza che qualcuno uscisse dall’hotel per controllare. Appena ebbe il coraggio di guardare avanti, però, si rese conto che, anche se fosse accaduto, per lei non sarebbe cambiato nulla: a circa cinque metri da lei, non vicinissimo, ma comodamente a portata di tiro, c’era un uomo alto e ben piantato che le puntava addosso una pistola.
“Che cazzo credevi di fare?! EH?” Ringhiò, senza muoversi. Sapeva di averla in pugno: a quella distanza, non avrebbe mai mancato il bersaglio. Gli occhi di Reese erano attratti in modo quasi magnetico dall’imboccatura brunita dell’arma che si trovava davanti. Pochi attimi, e qualche grammo di piombo avrebbe fischiato in quello stretto canale per conficcarsi nel suo sterno. Non aveva nessun tipo di speranza, solo il tempo di pensare a Ned tutto solo nel grande letto, a come si sarebbe svegliato di lì a poche ore senza trovarsela accanto, allo sguardo sul suo viso quando qualcuno lo avrebbe portato all’obitorio per riconoscere il cadavere.
Non avrebbero mai capito chi l’avesse uccisa, o perché. Sarebbe diventata un cold case, magari avrebbe ispirato la puntata di una serie TV. Quindi, era questa la morte: concepire pensieri sconnessi e sentire un liquido caldo che le colava lungo le cosce.
Oh, andiamo. Si era pisciata addosso.
“Falla finita”, scattò la seconda voce, meno affettata e più secca di prima. “Sparale, non abbiamo tutta la notte.”
La sensazione di irrealtà si era diffusa nel petto di Reese come una bolla d’aria, bloccando i suoi movimenti, ma non la sua capacità di osservazione. Una figura contorta in una pozza di liquido vischioso: probabilmente, l’uomo che i due stavano torturando era morto. Il tizio che la teneva sotto tiro, capelli rossicci, accento di Boston, una brutta cicatrice. E l’altro, il capo, pensò con la chiarezza lacerante degli ultimi attimi, asiatico, sui trenta, pizzetto, un completo bianco del tutto fuori contesto.
Proprio mentre si chiedeva chi avrebbe mai indossato una cosa del genere per andare in giro a minacciare e far fuori persone, e subito dopo constatava che anche il cervello aveva smesso di obbedirle, Reese sentì il rumore. Fatale, improvviso. Poi, fu come il tuono dopo il lampo, senza nemmeno dover contare- uno, due, tre Mississippi.
Nessun dolore. Piuttosto un intorpidimento tiepido, la sensazione che qualcuno le avesse rovesciato della zuppa sul petto e sulla pancia.
Avevi ragione, mamma, bisogna sempre controllare dove si sta andando.
Buio.
 
 
 
 
 
  
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