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Autore: silencio    01/10/2013    1 recensioni
Alle belle dee che siedono sul monte Elicona dedico il canto. Levo la prece e la cetra depongo ai piedi in attesa dei loro favori, sì che versino nel mio orecchio le voci di quegli spiriti dolenti la cui sorte nel mondo fu avversa, e avverso l'animo. Non di eroi, ma dei vinti io reco le storie, di quanti soffersero e mali portarono sulla vasta terra che oltre lo sguardo si stende. Di belve e orrori, terribili a vedersi.
Muse dal candido piede, che al Cronide dedicate e danzi e cori, compagne d'aedi e di sovrani vincitori, di bende il mio capo avvolgete ed un ramo d'alloro donatemi così che la vostra arte io tenga senza fallo e onta al vostro nome.
La presente altri non è che una modesta raccolta di racconti brevi e storie autoconclusive (one-shot) ispirate ai miti greci, in particolare alle figure mostruose che li popolano. A mio modo intendo rivisitarle, cercando d'osservare le cose sotto luci nuove.
(Ho cambiato il titolo alla storia, sì che fosse più confacente ai racconti in essa presenti che, come al solito, si scrivono piuttosto autonomamente e non seguono i dettami originali)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mater Terribils



“Chi, o figlio, chi fu tua madre? Forse una ninfa eterna a Pan si unì che i monti trascorre? O forse del Lossia una compagna?”
(Sofocle, Edipo re)


Si leva alto il bramito, il ringhio bestiale del mostro, dall’antro. Ne tremano le dure pareti e il suolo, si sgretola la roccia scossa. Sbuffa, graffia la polvere, balza da una parte all’altra dell’eterna gabbia cui è costretta, la belva maligna. In quell’oscura caligine, sulle sponde d’Acheronte atro ella sta, vinta nel corpo, ma non nella volontà. Né Anima né Dio, sebbene immortali, osano avvicinarvisi per non rischiare tormenti anche nell’ora del riposo quieto. La Fama è dea persecutrice più che l’Erinni, segue la vittima fino all’Oltretomba. Così anche per il mostro antico, e fa sì che alcuno la disturbi nel tempo della morte, lei che più d’ogni altro poteva paragonarsi alla Morte stessa. La Strangolatrice la chiamavano.
Continua quella orribile danza nel buio, e s’accompagnano i passi pesanti e i latrati con voce di donna, e quale inganno essa cela nella dolcezza del timbro e del tono! Per angelo la si scambia, quand’ella è più che un demonio. Canta la creatura, in ritmo luttuoso a contrasto con le movenze forsennate; il lamento per il suo nemico, la danza gioiosa per la vendetta compiuta.
«Chi possiede una sola voce, ma quadrupede si mostra e poi bipede e tripede?» grida e canta la fiera spaventosa, preda del delirio; è pur sempre figlia di nobile stirpe di folli e folle ella rimane, sebbene sia sapiente più d’ogni assennato mortale.
«Oh mio amato nemico, mio bocconcino, vedi a cosa la gloria d’un giorno t’ha condotto? Rimpiangi adesso l’avermi battuta? Sai bene che la colpa t’appartiene; è tua e da te non si staccherà. Morire avresti dovuto quel giorno, fra le mie possenti braccia. Lo avresti voluto, lo vuoi ancora. Ricordo il tuo aspetto, quando ti vidi. Quel che provai mi batte ancora in petto e mantiene in vita la memoria e vince l’Oblio che in questa tetra sede tutto divora. Oh, mai simile fremito mi colse per altro mortale e la mia natura di donna s’impose su quella di bestia! Giovane corpo, snello e atletico, e rada barba di primo pelo copriva a stento le guance scurite dal sole. Le gambe robuste erano marmoree colonne delfiche, le spalle tue ampie avrebbero sorretto bene il cielo cui sta asservito il Titano. E le tue mani -oh potessi ancora rivederle!- forti e venose e dalla stretta possente, identiche alle mie. Quanto avrei voluto stringere il mio corpo al tuo, strusciare la tua pelle alla mia e coprirti con ampie ali… circondare il tuo giovane collo con le dita, contemplando i tuoi splendenti occhi spalancarsi per la paura e l’orrore, prima di perder ogni barlume vitale, scivolare nella dimenticanza della morte. Ma tu non mi temevi, no, e questo maggiormente in me acuiva il desiderio che avevo della tua vita. Tu mi guardavi e sostenevi il mio sguardo con fiera fermezza da figlio di re quale sei. I tuoi genitori adottivi ti hanno istruito bene, questo fu chiaro da subito. Gli istinti, però, quelli tu non puoi certo reprimerli, i bassi desideri che dall’alto ti gettano fra il fango e la mota, mutando il tuo essere Uomo in Bestia, trasformandoti in me. E quanto siamo simili tu ancora lo ignori, figlio mio.
Non solo io desideravo possesso quel giorno. Anche tu mi bramavi; troppo allungo il tuo sguardo si fissò sui miei seni scoperti e sui miei fianchi, sebbene animaleschi. Bramosia perversa la tua, mostruosa e illegittima, contro natura, attira il biasimo pubblico come il miele le mosche. Credevi che unendoti alla vecchia regina avresti cancellato quel desiderio perverso? Orrore cercavi di cancellare con un orrore più grave, ma solo ora te ne accorgi. La verità si svela, si scopre, non si acquista. Volevi mantenerti incontaminato e lontano da ogni difetto, uccidere la bestialità che ti possiede. Eppure, hai ucciso solo l’idolo, non lo spettro. Io sono ancora viva e ti attendo. So che presto ci rivedremo, mio tesoro, mio bocconcino… e rimedieremo. Avremo tutto il tempo.
Qual è quella creatura che ha una sola voce, ma quadrupede si mostra e bipede e tripede?
Fu quel desiderio, quel sentimento che mi spinsero all’indulgenza. Sapevo –io so tutto- il futuro che ti attendeva ed il tuo passato. Ti avevo riconosciuto. Eri tu quello che non conosceva se stesso.
Fui per la prima volta preda e non predatrice; cedetti alla compassione e volsi a te l’enigma della tua stessa esistenza… ma tu, cieco come sei, non comprendesti. Ti avevo offerto la risposta su un piatto d’argento: OI DIPODES. Tu comprendesti solo la superficie, non ne cogliesti l’animo. Per questo sei cieco.
Dissero che mi suicidai per orgoglio ferito, perché un mortale aveva sciolto l’indovinello millenario. Sciocchezze! Mi diedi da me la morte perché non potevo sopportare un secondo di più la convivenza con esseri tanto stupidi e ridicoli come gli umani. Non accettavo che anche tu, cucciolo mio, fossi fatto della loro pasta.
Non era “l’uomo”, ma “Edipo” la soluzione.
Ora giaccio qui e ballo, felice delle tue disgrazie, mio bel nemico, mio caro vincitore. Attendo il tuo arrivo; so che adesso tu brami discender nell’Ade e raggiungermi. Io, la tua amata Sfinge».
   
 
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