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Autore: Annika Mitchell    08/10/2013    2 recensioni
Una raccolta di stralci di storie mai nate, ritratti di persone conosciute e sconosciute, pezzi di una me che non conosco, anime di persone che ho incontrato una volta per strada e di cui non ho mai conosciuto la storia, vite mai vissute ma scritte, briciole e rimasugli di chi non c'è più e di chi semplicemente non c'è mai stato.
Storie che hanno senso solo grazie a quel lettore che si ferma ad ascoltarle e, perché no, a leggere di sé.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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A Erica con la c,
ai suoi diciotto anni,
alla logica e al suo talento innato.

 

Cellar Door.
 
"Most English-speaking people... will admit that cellar door is 'beautiful', 
especially if dissociated from its sense (and from its spelling).
More beautiful than, say, sky, and far more beautiful than beautiful."

- J.R.R. Tolkien

 
La notte era carica di stelle cadenti, che si susseguivano comandate dalla volontà di un folle dio senza misericordia né amore. Un dio di quelli egoisti, che mettono in mostra la propria magnificenza e scombinano gli universi, pur di intimorirci tutti.

Ricordo che gridai, con tutto il fiato che poterono permettermi i miei polmoni neri di fumo,  a quel dio maledetto, a quelle dannate stelle che andavano a schiantarsi cariche dei sogni della gente. Gridai la mia solitudine e la mia innocente pazzia.

«State uccidendo la luna!»

Rimasi per un attimo senza fiato, aspettando una risposta che sapevo non sarebbe mai arrivata. Non da quel cielo che tanto bestemmiavo.

 
Non credevo neppure che esistesse un dio, in quel delirio di incoerenza che ero a diciotto anni. A diciotto anni ci si sente padroni di un mondo che dà il voltastomaco, per cui non si riesce a trovare la forza di lottare. Il mio era un mondo da cui non potevo fare altro che fuggire. Correvo, senza voltarmi mai, senza curarmi delle conseguenze.

Avevo la strana convinzione che se non mi fossi mai soffermata a pensare al passato, quello non sarebbe tornato a riempire i miei giorni di rimpianti. La verità è che io un passato non lo avevo. Costruivo i miei giorni di falsi ricordi e di allucinazioni.

Capitavo nella vita della gente come una parentesi graffa, che esiste disgraziatamente senza che nessuno sia mai stato in grado di delinearne correttamente le curve.
Entravo nel letto di uomini che giuravano di amarmi e ne uscivo con una sigaretta tra le labbra che aveva il sapore delle menzogne. Era facile non rimpiangere nulla, folle com’ero, con le mie gonne larghe e i miei sorrisi maliziosi.

La vita per me non era un lasso di tempo da riempire di azioni logiche o sensate. Per me la vita era il senso. Un’avventura disordinata in cui buttarsi a capofitto, accettando le sfide che la sorte avrebbe posto sulla strada tortuosa di una donna senza regole né verità. Ero una donna-bambina, inconsapevole dell’esistenza di una teoria della causalità.

 
Quella notte, quella delle stelle cadenti che distruggevano sogni e speranze, capii che avrei finalmente scoperto il vero senso della parola libertà, quella che tanto decantavo di essermi guadagnata.

Cinque poliziotti mi fermarono nel bel mezzo di quel sogno ad occhi aperti, mi ammanettarono e mi dissero: «Fine dei giochi.». Uno mi tirò un calcio dandomi della cagna, sputandomi addosso le sue verità. Diceva che il suo dio si vergognava di aver messo al mondo uno scherzo della natura come me. Un altro incolpava la mia devianza mentale come causa della morte di suo figlio al fronte. «Quale fronte?» domandai. Risero tutti.

Ero una deviata mentale.

Ero una donna sola e non avevo diritti.

Ero nauseata, ma più ancora ero pazza, contro l’iniqua polizia e il gioco iniquo della vita.

La vita che fino a quel momento mi era parsa una caotica partita a scacchi senza vinti né vincitori, mi sembrò come la peggiore delle cospirazioni. Sapevo che non sarei stata in grado di esistere nella condizione di reclusa psichiatrica.

Mi dissero che la mattina seguente sarei dovuta partire con tutti gli altri.
Ignoravo la destinazione. Ignoravo chi fossero gli altri.

Nell’umidità della cella spoglia che odorava di urina, ricordai di quell’italiano che incontrai nel mio vagabondare senza meta né passato.
Mi disse di essere un poeta e che la parola più bella della lingua inglese fosse “cellar door”. Gli chiesi come mai e lui rispose con un sorriso, dicendomi che la porta per il paradiso, in un mondo al contrario, doveva senz’altro essere quella di una cantina.




29 gennaio 1940, Brandeburgo (Germania). 
Helga Schumann, 18 anni. Mentalmente incapace di intendere e di volere, pronta al trasferimento per la Aktion T4*, viene ritrovata morta impiccata in una cella della prigione locale. L’indagine sul significato della parola “cellar door” scritta col sangue sulla parete della cella non è mai avvenuta, in quanto ritenuta frutto della sua instabilità mentale.




Note:
*Aktion T4 è il nome che si utilizza per parlare del programma nazista di eutanasia medica, vale a dire dello sterminio sistematico di quella parte della popolazione debilitata mentalmente e/o fisicamente, la quale, secondo i progetti del terzo Reich, non era che una perdita di tempo e di denaro.
Questa storia si è classificata seconda allo Spoon River Contest indetto da ZKaoru69 con la citazione: "Ero nauseata, ma più ancora ero pazza, contro l'iniqua polizia e il gioco iniquo della vita.".
   
 
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