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Autore: Maiwe    15/11/2013    3 recensioni
La storia di Thranduil e Legolas, dalla loro fuga dal Doriath alla IV Era.
Una mia visione delle loro vite ispirata ai vari Racconti tolkeniani, cercando di rispondere alle tante domande che avvolgono le loro figure, così importanti eppure così schive e poco inclini a farsi raccontare.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Furono giorni di incredibile silenzio: niente, all'interno del Bosco, sembrava muoversi. Le foglie respiravano piano, le radici scavavano sotto terra con premura, temendo di far troppo rumore, e persino la pioggia, che era caduta abbondante e ininterrottamente per due giorni, pareva voler sollevare il minimo suono, cadendo in silenzio, temendo di essere scorta. Bagnava le foglie, bagnava i prati, bagnava i capelli e le armature dei miei pochi soldati rimasti in vita, ma senza prepotenza, quasi fosse stata a riposo. Il vento spirava come un sussurro, sottovoce: “Il Male non c'è più, il Male se n'è andato”.

Ma non ci credevo.

Avevo visto troppe volte crescere e cadere, e crescere nuovamente, la mano malata di Melkor, nelle sue varie forme, per poter assaporare a pieno quel momento, festeggiato da tutti, da tutta la Terra di Mezzo, come la nascita di una nuova Era, un'Era di pace.

Nel Regno era cominciata la ricostruzione. Numerose le nostre vittime, il cui numero superava di gran lunga quello dei vincitori, dei soldati tornati al sicuro, all'interno delle mura. Cominciavo a domandarmi se mai sarei riuscito ad abbatterle, quelle mura, ma il mio cuore non era ancora pronto, probabilmente. Avevano difeso la mia gente così a lungo, che sarebbe stato estremamente difficile separarmene, separarmi dalla malsana, folle idea che il Male potesse aver avuto bisogno ancora di qualche tempo per eclissarsi davvero. Non credevo nel miracolo, come del resto mi era sempre stato rimproverato da mio figlio.

Le mura avrebbero retto, ancora per qualche tempo. Nell'oscurità, avremmo atteso il momento in cui le avremmo finalmente potute abbattere e riportare la fortezza che era la nostra casa al suo antico splendore.

Ricordo vividamente il momento in cui uscii, una mattina in cui il sole davvero splendeva, libero, e non percepii la fitta al cuore alla quale mi ero abituato da troppo tempo: tutto taceva, e taceva in un silenzio sacro, pulito, come un animale che si stesse leccando le ferite, al sicuro nella propria tana. Vidi una volpe: lei ricambiò il mio sguardo, e corse via. Un branco di cervi, giovani come fili d'erba, passarono silenziosamente nei paraggi. Passeggiai tra gli alberi, tra i miei protetti, secolari sentinelle di un mondo che forse finalmente stava guarendo. Gli occhi chiusi e i palmi rivolti l'alto, assaporai quel momento, quel loro silenzio così forte. Il cambiamento stava pian piano crescendo, salendo dalla terra fino alle foglie degli alberi, che erano tornati a respirare. Grossi cumuli di ragnatele cadevano al suolo, una pioggia ovattata che pareva cotone filato, e in rami si alzavano nuovamente verso il cielo, stanchi, ma forti, si sgranchivano come un gatto al sole. La luce filtrava nuovamente tra le foglie, ne sentivo il calore sulla pelle.

Graziosi festeggiamenti avevano preso vita nelle ali del mio palazzo, facendo vibrare l'aria di canti e balli. La felicità che si respirava era la stessa che si percepiva tra gli alberi: sospettosa, ma vibrante, eccitata, ma ferita.

Il mio popolo stava rialzando la testa, come mai prima d'ora. Avevamo davvero qualcosa da festeggiare, dopo tutto, e ne detti loro merito: giorni e giorni di festeggiamenti ininterrotti, come solo dopo una guerra si sarebbe potuto fare.

Eppure, le stanze erano silenziose. I corridoi non emettano alcun suono, nessun passo leggero si muoveva delicatamente al loro interno, nessuna porta sbattuta, niente. Era percepibile una forte assenza. Vagavo solo tra i miei corridoi.

Fu mentre camminavo, mani dietro la schiena, lungo uno di quei cunicoli in pietra che tanto amavo, che accadde. Mi ero lasciato alle spalle la festa, stanco. Camminavo, assorto, ripercorrendo con la mente quanto eseguito correttamente quel giorno, quanto lavoro di ricostruzione e quanto di ordinaria sopravvivenza fosse stato correttamente portato a termine, e mi reputavo abbastanza soddisfatto. Non mi ero mai mostrato debole, non mi ero mai mostrato demoralizzato o scoraggiato, solo molto pensieroso, dalla mia gente, ed ero stanco. Accadde in quel momento.

“Mio signore.”

Mi voltai, sovrappensiero. Sapevo che prima o poi sarebbe successo, ma in qualche modo riuscì a prendermi in contropiede.

Lo guardai, e gli feci cenno di parlare.

“Sono venuto a scusarmi, mio signore.”

Seguì una breve pausa.

“Per che cosa, Galion?”

La domanda lo spiazzò. Tentennò un attimo.

“Sappiamo molto bene entrambi per cosa, mio signore. Si tratta di un evento passato, ormai, ma sono venuto finalmente a scusarmi. Non era mai accaduto prima, e mai più è accaduto. Sono costernato per quanto accaduto, e ho passato gli ultimi anni a dimostrarglielo, sire.”

Non risposi. Erano davvero passati anni, da quando Galion aveva messo in atto il suo scandaloso tradimento – scandaloso tanto per l'esito quanto per la dinamica – e ormai avevo preso per certa la sua mancanza di pentimento. Era sempre stato un ottimo maggiordomo – quella parola era ridicola, ma a lui pareva piacere molto – e il suo gesto di sconsideratezza aveva portato a galla un intero nugolo di azioni compiute alle mie spalle. Non eravamo così uniti come sembravamo essere stati, e certe situazioni mi avevano aiutato a tenere gli occhi ancora più aperti di quanto non avessi mai fatto prima. Ero famoso per la mia poca fiducia verso il mondo esterno, ma scoprire che avrei dovuto guardarmi anche da quello interno era stato comunque un pensiero doloroso. Ma, in quanto re, avevo abbastanza potere da poter superare la questione, e nessuno ne aveva più parlato. Fino a quel momento.

“Scuse accettate, Galion”, dissi, freddamente. “Adesso puoi recarti nuovamente alle tue mansioni.”

Galion fece un piccolo cenno del capo, apparentemente deluso, e, girando sui tacchi, tornò da dove era venuto.

Ero a metà tra l'imbarazzato e il vivace desiderio di sguinzagliargli contro una flotta armata, perciò respirai a fondo e imboccai le scale che portavano alla terrazza superiore, dalla quale si dominava gran parte della foresta, postazione di difesa per le guardie.

Indipendentemente dagli umori che regnavano a ondate tra la mia corte, il mio regno stava davvero rimettendo i tasselli a posto.

Una brezza lieve spirava nella mia direzione.

Ero certo che si trattasse di un nuovo principio di tempesta, ma per il momento il cielo era abbastanza sereno. La via silvana era illuminata pienamente persino dalla luce di quel sole fioco, cosa che non si vedeva da secoli. L'aria era carica di rinascita, come un brontolio, un leggero terremoto che si poteva percepire sotto i piedi, dentro la terra, persino dentro la roccia delle pareti della fortezza.

Una presenza leggera si unì a me, nella mia contemplazione, restando però a distanza.

“Vieni avanti, Arian. Che fai lì impalata?”
Arian non rispose, e mi si fece vicino, alla balaustra. Inspirò a pieni polmoni, e sorrise.

Non desiderai altro se non la pace di quel momento. La tranquillità e la serenità. Un silenzio eloquente, e calmo.

Prese a piovere. Le detti il mio mantello, non voleva rientrare.

“Aspetti, re Thranduil? E cosa aspetti?”

La domanda era scontata, ma le risposi lo stesso con quanta più serenità riuscissi a dimostrare.

“Attendo di vedere nuovamente crescere l'erba laggiù, dove vedi che il fuoco ha divorato, con le sue fiamme, un'intera ala di foresta. Solo allora la pace sarà davvero tornata a Eryn Lasgalen.”

“Non deve essere facile, essere re”, scherzò poi lei, dopo una pausa. “Come puoi startene così calmo? Personalmente, soffro di più nell'attesa che non nel danno. Il danno, il male, si può affrontare, l'attesa... è sospensione. E' vuoto, un vuoto pieno di ansie.”

“Essere re è l'unica cosa che so davvero fare, in realtà.”
“Sempre modesti, ai piani alti.”
“Non sarei re, altrimenti.”

Rise.

Ma, anche lei, teneva gli occhi sulla strada davanti a noi. Silenziosa e vuota.

La musica della festa arrivava fino alle nostre orecchie. Sorridendo, le cinsi i fianchi con un braccio, e con l'altro la invitai a ballare. Le presi la mano e accennai un passo. Lei sgranò gli occhi, ma mi seguì in quella sciocchezza, e sorrise, sorrise così meravigliosamente che il tempo parve fermarsi, e, per un attimo, tutto sembrò scivolare via, come gocce d'acqua alla luce del sole.


  
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