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Autore: afep    03/12/2013    5 recensioni
Skyrim, terra di neve e ghiacci, di fieri guerrieri e bardi, teatro dello scontro tra Alduin ed il Dovahkiin e del ritorno dei draghi nei cieli di Tamriel.
Eppure non sono i draghi, il peggior problema di quelle lande, perché Skyrim è scossa sin dalle fondamenta da una guerra civile, un terribile conflitto che scuote gli equilibri di un popolo, distrugge le famiglie e nutre la terra con il sangue dei vinti.
Un conflitto destinato a far cantare le lame degli uomini in battaglia, ed il cui esito designerà il trionfo o l'inevitabile caduta dello Jarl ribelle.
---- sospesa ----
Genere: Avventura, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Ulfric Manto della Tempesta
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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La mia nuova vita a Windhelm prese presto un ritmo ben preciso.
Ogni mattina mi svegliavo ed attendevo che Mirala venisse a vestirmi e a pettinarmi, consumavo una rapida colazione nella sala del trono, ed amministravo le attività del palazzo; era infatti mio compito assicurarmi che ogni cosa funzionasse senza intoppi: soprintendevo a tutte le questioni economiche e pratiche che riguardavano la vita del castello, dal compenso di un servitore alla decisione del cibo da preparare a pranzo.
Ovviamente il del Palazzo dei Re non aveva bisogno della mia presenza, per continuare a funzionare come aveva sempre fatto. Fino ad allora era stato Jorleif ad occuparsi di quelle faccende, e lo aveva fatto egregiamente. Ma ora che io ero arrivata, tutti si aspettavano che occupassi il posto che mi spettava, che fosse necessario o meno.
Vedevo poco mio marito, sempre impegnato da qualche parte con i suoi uomini. Mentre io correvo su e giù lungo i corridoi di pietra del palazzo, lui si allenava con i soldati nell’arte della guerra, presiedeva serissimi consigli con i suoi migliori guerrieri o andava a caccia sulle gelide alture che circondavano la città. A volte capitava che saltasse un pasto, ed allora dovevo preoccuparmi di scoprire dove fosse ed inviargli un servitore con dei vassoi, in modo che potesse mangiare. Altre volte, invece, quando mi ritiravo per la notte trovavo il letto vuoto, perché il mio sposo era chiuso in qualche gelida stanza a sbottare ordini e a ringhiare come un animale contro suoi sottoposti.
Dopo la prima notte in cui avevamo consumato il nostro matrimonio mi ero aspettata che giacesse con me per tutte le sere seguenti, ed invece spesso tornava da quelle riunioni troppo stanco persino per togliersi gli stivali. Solo di tanto in tanto mi scrollava per una spalla, per svegliarmi o per assicurarsi che io non stessi già dormendo, ed allora le sue mani mi percorrevano il corpo come avevano già fatto una volta.
Non amavo quei momenti, eppure li attendevo con ansia ogni sera. Continuavo a considerarli un dovere nei suoi confronti, ma era in quell’unico frangente che mio marito si sforzava di essere meno insopportabile, riuscendo persino ad essere gentile. In quei brevi attimi, mentre giaceva su di me, avevo la vaga impressione di essere amata e riuscivo quasi ad illudermi che mi si fosse affezionato.
Perché lui, mi fu subito chiaro, non era né gentile né affettuoso.
Sopportava a fatica la mia presenza, mi rivolgeva a malapena la parola e si comportava come se non fossi altro che una fastidiosa intrusione nella sua vita.
Per anni avevo letto poemi cavallereschi che parlavano d’amore e corteggiamenti, e mi ero illusa di trovare quello stesso calore nella mia nuova casa.
Ma mi sbagliavo. Ero stata una sciocca a credere che le cose sarebbero potute cambiare.
Alla corte di Daggerfall ero stata la figlia di poco conto di un nobile Bretone.
Alla corte di Windhelm, ero la moglie di poco conto dello Jarl.
Ero una Regina senza corona su un trono grigio, in una città grigia.

 

 ******  
 

“Su gli scudi, escrementi di donnola. In alto. In alto, ho detto!”
Nel cortile interno del Palazzo dei Re, una cinquantina di reclute sollevò gli scudi, obbedendo agli ordini dello Jarl che urlava loro contro. Si erano disposti in cinque file da dieci uomini, e cercavano goffamente di formare la barriera di lance, spade e legno di tiglio su cui, durante una battaglia, avrebbe dovuto infrangersi la carica della prima linea nemica.
“Più vicini.” Ruggì Ulfric. “Il bordo sinistro del vostro scudo deve sovrapporsi al bordo destro dello scudo del vostro compagno.”
Gli uomini cercarono di fare come ordinato, e l’aria si riempì del tonfo sordo degli scudi di legno che sbattevano tra loro e dello stridio dei bordi di metallo che si scorrevano gli uni sugli altri alla rinfusa.
“Avete forse fango, nelle orecchie?” Irritato lo Jarl fece un passo avanti, afferrò un giovane soldato per un braccio e lo fece uscire dalle fila. “Dovete stare più compatti, maledizione. Così.”
A dimostrazione di quanto stava dicendo, imbracciò lui stesso lo scudo, infilandosi tra i ranghi. Ringhiando ordini riuscì a far disporre gli uomini come voleva, e quando dette la voce, i soldati mossero un passo avanti come se fossero una cosa sola.
“Ecco, questo è un muro di scudi.” Esclamò, a voce abbastanza alta perché lo sentissero fino in fondo alla fila. “Dovete esercitarvi finché non vi sembrerà naturale come urinare o accoppiarvi con la vostra donna. È chiaro?”
L’arrivo di Galmar salvò le giovani reclute dal dover rispondere. Il guerriero si avvicinò allo Jarl con sicurezza, accompagnato da in un tintinnio di cinghie e piastre metalliche; indossava l’uniforme tipica dei condottieri di Windhelm, una corazza di cuoio, maglie d’acciaio e pelli di animale ornata da denti di cinghiale e di lupo.
Sulle ampie spalle portava una pelle d’orso così spessa che da sola bastava a fermare la maggior parte dei colpi inferti con una spada. Certo, sempre che il suo avversario avesse avuto il coraggio di avvicinarsi: come tutti i condottieri di maggiore importanza di Windhelm, Galmar indossava la testa dell’orso, ancora attaccata alla pelliccia, come copricapo, ed usava la pelle che ricopriva le zampe per legarsi la cappa sotto al mento come se fossero i lacci di un mantello. Così abbigliato appariva ancora più massiccio e spaventoso, ed erano in pochi gli uomini che in battaglia osavano affrontarlo.
“È giunto un messaggero per te. Sta aspettando nella guardiola.” Disse il vecchio guerriero, lisciandosi la barba grigio cenere.
“E cosa sta aspettando?” Chiese Ulfric in tono brusco. “Fatti consegnare il messaggio e mandalo via. Non ho intenzione di perdere tempo con lui.”
Galmar lanciò un’occhiata alle fila di giovani soldati, che ciondolavano in attesa dell’ordine di rompere le riga. Lo Jarl seguì il suo sguardo e si lasciò sfuggire un grugnito esasperato. Nel breve istante in cui si era distratto, almeno tre delle reclute in prima fila avevano abbassato gli scudi, poggiandoseli sulle punte degli stivali.
“È meglio se vieni con me.” Ribatté Galmar, facendo un cenno di saluto ad una giovane donna in armatura che marciava attraverso il cortile. “Ha ricevuto l’ordine di consegnare il messaggio direttamente nelle tue mani, e si rifiuta di affidarlo ad altri.”
Sbuffando irritato, Ulfric acconsentì a seguire il suo secondo nella guardiola, ma non prima di aver affidato il branco di reclute ad uno degli uomini della sua scorta personale.
“Asbjorn, occupati di questi incapaci.” Gli disse. “ E cerca di trarne qualcosa che non sia carne da macello.” Asbjorn borbottò un assenso da dietro la folta barba e prese il posto dello Jarl, cominciando a rimbrottare i giovani soldati.
“Sarà meglio che questo messaggero rechi notizie importanti.” Sbottò Ulfric, mentre al fianco di Galmar attraversava il cortile. L’anziano guerriero sospirò e sollevò il capo, seguendo con gli occhi il volo di un’aquila.
“Lo sono. Ho visto il sigillo di Markarth sull’astuccio della pergamena. Da quando in qua ti occupi delle reclute?” Chiese cambiando repentinamente argomento, ed Ulfric si accigliò.
“Mi stavo annoiando, quando ho visto quegli incapaci ed ho pensato di occuparmene personalmente. Il sigillo di Markarth, hai detto?”
Galmar scrollò le enormi spalle, sollevando una mano per grattarsi la testa sotto il cranio dell’orso. Lo Jarl fece un cenno con il capo ad alcuni servitori che si erano scansati al suo passaggio e lanciò un’occhiata in tralice al suo secondo, in attesa di una risposta.
“Ebbene, se ti annoi, amico mio, hai la soluzione a portata di mano.” Esclamò in tono gioviale il guerriero, ignorando la sua domanda. “Se non sbaglio hai una moglie, e pure piuttosto graziosa.”
“Bah.”
“Cosa c’è, forse non ti piace?” Galmar rise, battendogli una mano sulla spalla. In tutta Windhelm, l’enorme guerriero era l’unico che potesse trattarlo con tanta confidenza; Ulfric lo conosceva sin dall’infanzia, e lo considerava alla stregua di un fratello.
“Lei è…” Lo Jarl aggrottò la fronte, cercando un termine che descrivesse la sua giovanissima moglie. “Irritante.” Disse infine, e davanti allo sguardo perplesso dell’amico aggiunse, “Mi ruba le coperte.”
La sua confessione strappò all’anziano guerriero una grassa risata, che rimbalzò sui muri di pietra grigia del cortile. Un piccolo gruppo di arcieri voltò il capo nella loro direzione, disturbati dal baccano, ma non appena riconobbero il loro sovrano tornarono a rivolgere la loro attenzione sui bersagli di paglia irti di frecce.
Ulfric storse la bocca in una smorfia contrariata. Non sapeva perché avesse detto una simile idiozia, e se ne era pentito nell’istante esatto in cui la frase gli era sfuggita dalle labbra.
In realtà, quella sua piccola moglie mezza Nord era irritante per una gran varietà motivi: per la sua fresca giovinezza prima di tutto, che la rendeva oggetto di sguardi più o meno lascivi, di cui lei si accorgeva a malapena o che addirittura incoraggiava involontariamente, girovagando per il palazzo con i suoi svolazzanti abiti di fattura bretone; per il modo insistente con cui cercava di fare conversazione, sempre e solo nei momenti in cui lui era maggiormente concentrato, distraendolo per delle sciocchezze; o ancora, per la sua aria di aristocratica superiorità che sfoggiava ogni volta che le si presentava una scena che, evidentemente, nella sua preziosissima corte di Daggerfall era giudicata inadatta ad una dama, come una cuoca che tirava il collo ad un pollo o un soldato che tirava una pacca sul fondoschiena di una serva.
La sua giovane moglie era una ragazzina viziata, cresciuta nella bambagia e svezzata a miele e burro di sola panna, ed Ulfric, che era un guerriero prima che un sovrano, trovava la cosa altamente irritante.
“Fossi in te, mi dimostrerei più grato per ciò che i Divini mi hanno dato.” Galmar, che aveva finalmente smesso di sghignazzare, lanciò al suo amico un’occhiata divertita.
“Se i Divini avessero voluto la mia gratitudine, mi avrebbero mandato una decina di buoni guerrieri, invece che una moglie.” Esclamò Ulfric, mentre raggiungevano la guardiola di pietra. Fu solo quando mise la mano sul maniglione di ferro che si rese conto che Galmar, con quelle futili chiacchiere, era riuscito abilmente a sviarlo dal pensiero del sigillo di Markarth.
Aprendo la porta si ritrovò all’interno della piccola costruzione di pietra, un’unica stanza circolare il cui solo arredo era costituito da rastrelliere per armi ed un piccolo tavolo squadrato posto al centro. Lì accanto, sorvegliato da due guardie che portavano lo stemma di Windhelm sugli scudi ed i mantelli, c’era un ometto smilzo e dal lungo naso arrossato dal gelo, che si tolse precipitosamente il berretto di feltro non appena vide lo Jarl fare il suo ingresso nella guardiola.
“Lord Ulfric, Signore.” Squittì ossequiosamente, mentre gli rivolgeva un secco inchino.
“Mi è stato detto che hai un messaggio per me.” Lo apostrofò Ulfric, senza troppe cerimonie. “Spero che sia importante, perché ho molto da fare e non mi piace perdere tempo.”
“Certo, Signore.” Borbottò l’ometto, mentre cominciava a frugare nella scarsella che portava appesa alla cintura. Dopo aver rovistato per qualche istante, ne estrasse un piccolo cilindretto di cuoio che serviva a proteggere la pergamena durante il trasporto, chiuso da un fermaglio d’argento che recava lo stemma di Markarth, un teschio d’ariete con le voluminose corna arricciolate. “Jarl Igmund vi manda i suoi ossequi e…”
“Sì, sì, va bene.” Lo zittì Ulfric, togliendogli dalle mani la custodia ed aprendo la piccola spilla che la serrava. Inclinandola fece scivolare fuori il rotolo di cartapecora, chiusa con ben tre sigilli di ceralacca. Vedendoli, sbuffò sonoramente e scrollò il capo.
“Igmund farebbe bene a sprecare la pergamena per scrivere alla sua amante, e non a me.” Sbottò, facendo saltare la cera con la punta di un pugnale e srotolando il messaggio. Sapeva già cosa vi avrebbe trovato scritto, e l’idea di perdere tempo per certe sciocchezze lo irritava.
Diciassette inverni prima, Igmund, signore della città di Markarth, si era trovato a dover fronteggiare una massiccia invasione da parte di una popolazione che dichiarava di essere la legittima proprietaria delle terre del Reach. Negli anni precedenti, la Grande Guerra tra Impero e Dominio Aldmeri aveva decimato i soldati a difesa della città, ed i Rinnegati, come si facevano chiamare, ne avevano approfittato mettendo a ferro e fuoco quella che consideravano la loro patria.
Quella stagione di terrore, razzie ed omicidi aveva quasi piegato la gente del Reach quando, in preda alla disperazione, Jarl Igmund non aveva inviato una richiesta di aiuto agli altri feudi. In cambio, offriva argento ed, ancora più preziosa, la libertà del culto di Talos, che era stato bandito durante i trattati di pace tra Imperiali ed Altmer.
Ai tempi Ulfric era ancora un giovanotto con poco più che ventenne, ma aveva già avuto modo di farsi un nome come guerriero combattendo nella Grande Guerra, che si era conclusa solo un anno prima, ed in numerosi scontri minori. La sua fama nascente ed il denaro di suo padre avevano richiamato al suo fianco un nutrito numero di uomini pronti ad imbracciare le armi. Così, il giovane Ulfric era partito da Windhelm in testa ad un esercito di quattrocento uomini, e si era unito alle truppe inviate da altri Jarl. La loro milizia aveva marciato su Markarth, e dopo un’aspra battaglia si era ripresa la città e le terre circostanti, scacciando i Rinnegati.
In quello scontro Ulfric aveva avuto modo di emergere, e nonostante la giovane età aveva strappato il comando delle truppe a guerrieri più anziani ed esperti, guadagnandosi la fama di condottiero. Tutto stava andando per il meglio, quando improvvisamente il governo Altmer non si era accorto che nella città di Markarth era stato ristabilito il culto di Talos, contravvenendo al trattato. Subito l’Impero era intervenuto, Ulfric era stato catturato con l’accusa di aver mosso guerra al Reach ed Igmund si era rimangiato le sue offerte.
Da anni ormai Ulfric riceveva lettere dal vecchio alleato che chiedeva oro ed argento per riparare i presunti danni della sua città, e da anni lui si rifiutava di versare anche una sola moneta di rame. Una volta, per puro sfizio, aveva sprecato un pezzo di pergamena per scrivere ad Igmund, invitandolo ad andarsi a prendere personalmente il denaro di cui aveva bisogno; quindi aveva rinforzato i ranghi delle truppe che pattugliavano i confini del suo feudo ma, come aveva immaginato, il Signore del Reach non aveva lasciato la sua fortezza.
“Cosa dice, stavolta?” Gli chiese Galmar, incombendo da sopra la sua spalla e bloccando la luce con la sua enorme mole.
“Igmund mi invita a risarcire i danni che le truppe di Windhelm hanno provocato alla sua città.” Rispose Ulfric in tono sprezzante. “E mi informa che, se non lo farò per tempo, ne parlerà con Jarl Istlod.”
“E questa sarebbe una minaccia?” Esclamò divertito ed incredulo il vecchio guerriero.
“Evidentemente.” Sibilò Ulfric a denti stretti, stringendo la pergamena nel pugno. Istlod era l’attuale Re dei Re di Skyrim, l’uomo incaricato di portare pace tra i bellicosi Jarl del nord e di amministrare i rapporti che incorrevano tra loro. In origine, quello era un titolo che spettava al più giusto e meritevole dei sovrani, ma da diverse generazioni pareva che la nomina fosse divenuta ereditaria. Grugnendo, Ulfric fece una smorfia e lanciò la pergamena appallottolata nel braciere. In mano a certi incapaci, Skyrim stava andando in rovina.
“Dì a quell’invertebrato di Igmund che pagherò ciò che non ho fatto quando l’Oblivion gelerà.” Esclamò, rivolto al messaggero. Al che si volse verso le due guardie, in attesa di ordini. “Levatemelo da davanti agli occhi ed assicuratevi che torni subito nel Reach.”
I due soldati fecero un lieve inchino, si disposero ai lati dell’ometto e lo sollevarono di peso per le ascelle, portandolo fuori dalla guardiola.
“Non potete farmi questo!” Strillò il messaggero, mulinando le sue gambette secche per aria mentre veniva trasportato via. “Io parlo per Jarl Igmund. Io…”
La porta si richiuse con un tonfo sordo, troncando le sue proteste e riducendole a flebili stridii, simili al grido dei gabbiani.
Con passo pesante Ulfric si avvicinò al braciere e, tenendo le mani allacciate dietro la schiena, osservò cupamente la pergamena bruciare sui carboni ardenti.
“Igmund sta diventando troppo insistente.” Cominciò Galmar, appoggiandosi con una spalla alla parete di pietra ed incrociando le braccia sul suo ampio petto.
Lo Jarl rispose con un grugnito, continuando a fissare le braci. Se nella questione si fosse intromesso il Re dei Re, sarebbe stato obbligato a versare una gran quantità di oro ed argento, e non poteva permettersi di sperperare le proprie ricchezze con simili idiozie, quando aveva al suo servizio tanti guerrieri; ognuno di quegli uomini si aspettava armi, cotte di maglia, e ricompense in denaro o gioielli, e se non ne avessero ricevute avrebbero lasciato Windhelm, alla ricerca di un Signore più generoso.
“Se vuoi, posso andare a dirgli due paroline di persona.” Sghignazzò il vecchio guerriero, grattandosi l’inguine. “Dammi solo un paio di uomini ben armati ed una mezza dozzina di fiasche d’idromele per il viaggio.”
Ulfric sollevò un sopracciglio, ma prima che potesse rispondergli si udì un tonfo contro la porta di legno, seguito da un borbottio seccato. Pochi istanti dopo il battente si aprì, facendo entrare una folata d’aria gelida ed un uomo anziano, che camminava all’indietro spingendo il portone di legno con la schiena. Era impegnato a reggere con entrambe le braccia un pesante vassoio d’argento carico di stoviglie, ed era probabilmente quel carico a renderlo di così cattivo umore.
Quando fu finalmente all’interno della guardiola richiuse il battente con un piede e si voltò verso i due uomini all’interno.
“Lady Lirael vi manda il pranzo, Signore.” Disse, storpiando le parole poiché da anni non gli erano rimasti che due soli denti. Appoggiò con cura il vassoio sul tozzo tavolo al centro della stanza e si raddrizzò, tenendo le mani sui lombi e gemendo per i dolori che lo tormentavano.
“Sei troppo vecchio per portare questi pesi, Sifnar.” Commentò Galmar avvicinandosi con aria interessata alle pietanze.
“Ho solo otto anni più di te, inutile gradasso.” Rispose il vecchio sputacchiando ed agitando un dito, ed il guerriero ridacchiò, alzando un coperchio sbirciando all’interno. Ormai si avvicinava alla cinquantina, ma il mestiere del soldato lo aveva mantenuto forte e prestante come un trentenne, mentre Sifnar, con la folta chioma bianca spettinata e la bocca sdentata, avrebbe potuto passare per suo padre.
“Il pranzo è per me, razza di ingordo.” Sbottò Ulfric, avvicinandosi e dandogli una manata sulla spalla per allontanarlo. Con la fronte aggrottata scoperchiò le zuppiere e sollevò i coperchi, giudicando il pasto che sua moglie gli aveva mandato.
Sul vassoio portato da Sifnar vi erano due pagnotte ancora tiepide, una brocca con del caldo vino speziato, una sostanziosa zuppa di cavolo, cipolle e carne di cinghiale, un fumante arrosto di cervo contornato da cipolle lessate e due grosse patate poste su un piatto, arrostite e ricoperte di burro. Vedendo quella gran quantità di cibo, non poté trattenere una smorfia soddisfatta. Quella ragazzina poteva anche essere irritante quanto una foglia d’ortica nei calzoni, ma di sicuro aveva un’ottima influenza sulle cucine: Ulfric non aveva mai mangiato così bene come da quando era entrata nella sua vita.
“Non ti darò uomini, né tantomeno idromele.” Sbottò, in risposta alla proposta di Galmar. “Mi servi qui, con il resto delle truppe. Mi sono giunte voci secondo cui il Dominio Aldmeri sta inviando a Skyrim delle spie Thalmor.” Nel pronunciare quell’ultima parola strinse gli occhi, disgustato. I Thalmor non erano altro che gli Altmer posti al vertice del Dominio Aldmeri.
Quegli Elfi spocchiosi pensavano di essere migliori delle altre razze, e come se non fosse stato abbastanza bandire il culto di Talos, ora mandavano persino i loro Giudici per scovare e giustiziare tutti gli adoratori di quel dio Nord. Ulfric non nutriva alcun dubbio che quegli inviati fossero spie, mandate dal loro governo per individuare una falla nel sistema che reggeva gli equilibri di Skyrim.
“I Thalmor non entreranno a Windhelm.” Lo rassicurò Galmar, estraendo il pugnale ed infilzando una delle patate ricoperte di burro. “Non finché ci sarai tu a reggere la città.”
“Non entreranno, su questo possiamo star sicuri… hai finito di mangiare a sbafo il mio pranzo?”
“No.” Bofonchiò il guerriero, con le guance gonfie di cibo, ed  Ulfric trasse un lento sospiro esasperato, versandosi del vino.
“Immagino dunque che sarò costretto a offrirti qualcosa.”
Galmar scoppiò a ridere, pulendosi con la manica un rivolo di burro che gli colava sulla barba.
“Così si parla, vecchio mio.” Esclamò calorosamente, dandogli una manata sulla spalla.
Ulfric grugnì e si spostò di lato per fargli posto, cominciando a riempirsi una ciotola di zuppa. Si era improvvisamente accorto di essere affamato, e l’aroma emanato dalle pietanze faceva venire l’acquolina in bocca.
Devo ricordarmi di ringraziarla, prima o poi.” Si disse, pensando alla giovane Lirael chiusa nel Palazzo dei Re. Di tanto in tanto gli veniva in mente di farlo, ma se ne scordava puntualmente ogni volta che si trovava in sua compagnia.
Magari posso farlo più tardi. O domani. Tanto la ragazza non scappa di certo.” Sospirò, scrutando nella ciotola un pezzo di carne sommerso dal brodo.
No, la ragazza non sarebbe certa scappata. Sarebbe rimasta lì, al suo fianco, per tutti i giorni a venire.
Fino a che gli Dei non gli avessero concesso di raggiungere Sovngarde.


 
******

 

Finalmente aveva smesso di nevicare.
Dopo essermi assicurata che Sifnar avesse portato il pranzo a mio marito, avevo lasciato a Jorleif il compito di amministrare la servitù al posto mio ed ero uscita dalle grigie mura del palazzo per far visita alla città.
Non era la prima volta che mi ritrovavo a camminare per quelle gelide vie, perché il mio sposo si era assicurato sin dal primo istante che io conoscessi Windhelm; il giorno successivo al mio arrivo si era ritagliato qualche ora dai suoi impegni e mi aveva accompagnata a vedere le vecchie case di pietra, i palazzi dei nobili thanes, le botteghe dei mercanti e la piccola piazza del mercato. Da allora, due volte a settimana mi porgeva il braccio e mi conduceva fino al tempio di Talos, a cui era molto devoto. Laggiù, attorniato da due dozzine di uomini di scorta, in ginocchio sulla dura pietra, si chinava e pregava silenziosamente il suo Dio nordico, mentre io sedevo su un piccolo sedile imbottito cercando di non morire per il freddo che regnava in quel tempio, ancora più terribile e pungente di quello esterno.
Eppure, nonostante quelle uscite, non avevo visto che una piccola parte della città. Quando avevo chiesto a mio marito spiegazioni in proposito, lui si era limitato a scrollare le spalle e a lanciarmi un’occhiata infastidita.
“Hai visto quanto dovevi. La zona ad est della città non è adatta a te, e non voglio che tu ci vada.” Aveva detto con un tono che non ammetteva repliche ed io mi ero zittita, ripromettendomi che, alla prima occasione, sarei andata a vedere con i miei stessi occhi quelle zone che mi erano precluse.
Così quel giorno mi ero liberata dai miei impegni, mi ero munita di mantello ed, in compagnia di Mirala, ero uscita dal palazzo.
Ed ora, mentre gironzolavo nella piazza del mercato, mi sentivo felice e fiera di aver avuto il coraggio di sfidare così apertamente il divieto di mio marito.
“Lirael, non allontanarti da me.”
Richiamata dalla voce della mia balia, mi voltai e la raggiunsi davanti alla fucina del fabbro, da cui si levavano scintille e fumi dall’odore tanto penetrante da far lacrimare gli occhi.
“Oh Mira, smettila di preoccuparti. Non corro alcun pericolo, e lo sai.” Sospirai scuotendo il capo, leggermente divertita dalla sua ansia. Poi volsi gli occhi tutt’intorno, osservando i banchi e le ceste traboccanti di merci. Il mercato di Windhelm era proprio come il resto della città: grigio, severo, austero e terribilmente freddo.
Stringendomi nel mio mantello di lana azzurra, mossi qualche passo verso il banco più vicino, facendo attenzione a dove mettevo i piedi; nonostante fosse già pomeriggio inoltrato, nelle zone in ombra resistevano le lastre di ghiaccio che si erano formate durante la notte, mentre in altri punti la neve sciolta e calpestata da centinaia di piedi aveva formato una fanghiglia disgustosa che imbrattava gli orli delle mie gonne.
Era tutto così diverso dal colorato, allegro e vario mercato di Daggerfall!
A Windhelm i banchi dei mercanti esponevano solo armi ed armature, ceste ricolme di cavoli, carote e cipolle, rotoli di cotone grezzo e lino spesso e ruvido, e tranci di carne sanguinolenti esposti con estrema naturalezza. Nessuno vendeva spezie di paesi lontani, tessuti eleganti, sete e velluti pregiati o ninnoli preziosi.
“Mira, vai a chiedere il prezzo delle trecce d’aglio. Ho il sospetto che la cuoca menta sui costi e si intaschi l’oro di mio marito.” Dissi alla mia balia, e lei, dopo avermi intimato di non allontanarmi troppo, andò a parlare con la donna dietro al banco.
Mentre Mirala era impegnata, mi soffermai ad osservare i tranci di carne al banco del macellaio, appesi con grossi ganci di ferro perché tutti potessero vederli. Era uno spettacolo abbastanza disgustoso, e mi chiesi come fosse possibile che qualcosa dall’aspetto così orribile avesse un sapore così buono dopo essere stato cotto.
“E’ una proboscide di mammut.” Disse una voce roca a poca distanza da me.
Sorpresa, sollevai gli occhi dallo strano trancio di carne ricoperto da una corta e fitta pelliccia bruna, e mi ritrovai ad osservare il viso cinereo di un Dunmer che mi osservava con ostile diffidenza.
“Prego?” Dissi, sbattendo gli occhi per lo stupore.
“Proboscide di mammut… Milady.” L’uomo fece una smorfia e tirò su con il naso, sputando poi un grumo di catarro e saliva sull’acciottolato.  “Un cibo che raramente vedrete sulle vostre tavole imbandite.” La sua voce era tagliente come una lama, ogni parola pari ad uno schiaffo; morivo dalla voglia di fuggire dall’ostilità di quell’individuo, ma poi mi feci coraggio, e stringendo i pugni tra le pieghe della veste rimasi al mio posto, a testa alta. Dopotutto, ero la Signora di Windhelm.
“No, infatti.” Replicai, sollevando il mento. “Ma ditemi... credevo che in città vivessero solo Nord. Abitate per caso fuori dalle mura?”
Il Dunmer mi rivolse uno sguardo carico d’astio da sotto il suo berretto di pelliccia, ed il suo viso già ostile assunse un’espressione di puro astio e disgusto.
“Noi viviamo nel Quartiere Grigio.” Mi sibilò con voce velenosa, poi sputò di nuovo in segno di disprezzo e mi voltò le spalle, andando a parlare con una donna che si era fermata al suo banco.
“Il Quartiere Grigio?” Gli feci eco, troppo confusa da quella reazione per rendermi conto di cosa mi fosse sfuggito dalle labbra. Stavo ancora boccheggiando incerta sul da farsi, quando sentii una voce gentile al mio fianco.
“Non è un bel posto, Milady.” Girandomi vidi un uomo sorridente, leggermente stempiato, che si stringeva nel mantello per ripararsi dal gelo. “Il Quartiere Grigio è una zona in via di degrado. Una bella dama come voi dovrebbe stare ben distante da simili luoghi.” Sorrisi, rinfrancata dalla sua cortesia. Avrei voluto chiedergli come si chiamasse, quando lui mi precedette con un inchino. “Il mio nome è Calixto, Milady. Calixto Corrium.”
 
 

******

 

Ulfric varcò le porte dell’ala nord del palazzo con aria decisa, incedendo maestosamente nei freddi corridoio di pietra che nemmeno i candelabri e le torce riuscivano a scaldare.
Aveva terminato di massacrare le giovani reclute del suo esercito, ed aveva deciso di inserire nella propria guardia personale tre giovanotti che parevano più promettenti di altri. Ciò significava vestirli ed armarli in maniera adeguata, e quindi spendere del denaro non previsto; la sua giovane moglie si sarebbe presto ritrovata davanti ai resoconti di quelle spese, ed Ulfric voleva avvisarla di persona, in modo da essere certo che il suo oro venisse usato nella maniera corretta.
Una volta davanti alla porta della stanza con i libri contabili spalancò il battente senza tante cerimonie, e subito si bloccò sulla soglia.
Jorleif, il suo soprintendente, era seduto dietro la scrivania, intento a far scricchiolare il calamo sulle pagine di pergamena di un grosso registro alla luce di due candele di sego.
“Dov’è mia moglie?” Domandò severamente prima che l’altro avesse il tempo di aprire bocca, ed a quelle parole lo vide sbiancare.
“Voi… voi non lo sapete, Signore?” Balbettò Jorleif, atterrito. “Io… Mio Jarl, credevo che voi lo sapeste…”
“Sapere cosa?” Sbottò, e subito ripeté la sua domanda, alzando la voce. “Dov’è mia moglie?”
Il soprintendente si alzò e si tolse il suo berretto rotondo, cominciando a tormentarlo tra le mani.
“Sire, Lady Lirael è uscita.”
“Uscita?” Ulfric sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena, ma presto alla preoccupazione subentrò la rabbia. “Da sola?” Chiese, ben sapendo che era così, perché aveva visto con i suoi occhi i Bretoni della scorta di sua moglie allenarsi nel cortile solo pochi minuti prima.
“Credo che abbia con sé la sua cameriera.” Mormorò Jorleif cercando con gli occhi un modo per fuggire nel caso in cui l’ira del suo sovrano si fosse scatenata.
Ma Ulfric aveva smesso di ascoltarlo. Voltandosi con un fruscio della cappa d’orso che portava sulle spalle, cominciò a precorrere il corridoio a gran passi, chiamando a gran voce il nome di uno dei suoi uomini.
“Yrsarald.” Tuonò, mentre i servitori si scansavano al suo passaggio. “Yrsarald, prendi i tuoi uomini e vai in città. Trova mia moglie.” Gli ordinò, quando il giovane soldato fece la sua comparsa.
“Trovala. E poi portala da me.”
 
 

******

 

Calixto si rivelò essere un uomo davvero gentile ed interessante.
Come appresi in quegli ultimi minuti, era uno dei pochi Imperiali che avevano scelto di vivere a Windhelm, e possedeva una piccola collezione di curiosità provenienti da tutta Skyrim.
“Sarei curiosa di vederla.” Gli dissi, quando la nominò. “Potrei convincere mio marito a passare da voi, la prossima volta che visiteremo la città.”
L’uomo mi rivolse un sorriso cordiale ed abbassò umilmente il capo. “Ne sarei onorato, Milady.”
Ci eravamo spostati dalla piazza del mercato in un punto più discosto, in modo da poter chiacchierare senza essere disturbati dalla calca. Era stato Calixto a condurmici, indicandomi di volta in volta le lastre di ghiaccio e le pozze di fango perché io non ci finissi sopra per sbaglio, ed ora ci trovavamo all’imbocco di una via traversa, uno stretto viottolo ricavato tra due muri di pietra, tanto alti che il sole vi penetrava appena e le pareti erano ancora ricoperte da un sottile strato ghiacciato.
“Lasciatemi dire, mia Signora, che sono onorato delle vostre attenzioni.” Mi disse Calixto, con un sorriso lezioso. “Lord Ulfric non si è mai intrattenuto a parlare con questo suo umile cittadino.”
“Mio marito è un uomo impegnato.” Dissi incerta, ricordando il poco tempo che dedicava persino a me.
“Oh, temo allora che non vi vedrò mai sull’uscio della mia casa, Milady.” L’Imperiale sospirò affranto ed abbassò il capo. “Mi sarebbe tanto piaciuto potervi ospitare… la mia adorata sposa sarebbe stata così felice, Signora, di sapere che una donna della vostra levatura era entrata nella sua piccola dimora… oh, mia povera cara.” Borbottò, con un tono così triste da far pietà.
“Vostra moglie è…”
“Morta, Milady. Ma se fosse ancora in vita avrebbe adorato la sua giovane Signora, così graziosa ed elegante… uhm… scusate la mia audacia.”
Calixto chinò il capo e rimase in silenzio, torcendosi le mani mentre io riflettevo su quanto avevo appena scoperto. In fondo, mio marito non avrebbe mai accettato di deviare dal suo solito percorso per andare da quel pover’uomo, e se una mia visita poteva renderlo felice ed alleviare il suo dolore per la moglie morta, perché non accontentarlo?
“Mio marito è un uomo impegnato.” Ripetei, rivolgendo un sorriso all’uomo davanti a me. “Ma io al momento non lo sono. Posso venire a visitare la vostra casa anche ora, se preferite.”
Gli occhi scuri di Calixto si illuminarono improvvisamente di una luce febbrile, e saettarono rapidi da un alto e dall’altro prima di puntarsi di nuovo su di me.
“Ne sarei così onorato, Milady. Da questa parte.”
Improvvisamente animato, l’Imperiale mi indicò lo stretto vicolo alle mie spalle, e non appena mi voltai mi dette una leggera spinta per invitarmi a proseguire. Non pensai un solo istante a quanto quel gesto fosse diverso dal comportamento umile e servile che aveva tenuto fino a poco prima.
Fiduciosa mossi i primi passi, salvo poi fermarmi all’improvviso.
“La mia cameriera…” Cominciai mentre mi giravo verso Calixto, ricordandomi di Mirala.
“Non è importante.” Mi disse l’uomo con una smorfia, mentre le sue braccia si muovevano sotto il mantello. Stavo per ribadire che non potevo muovermi senza la mia balia, quando sentii qualcuno fare il mio nome e mi voltai.
In fondo al vicolo erano comparsi quattro soldati, in testa ai quali marciava Yrsarald, vestito con la divisa di cuoio e pelliccia dei capitani.
“Lady Lirael.” Mi chiamò il giovane uomo, rivolgendomi un brusco cenno del capo. “Dovete venire con noi, per ordine dello Jarl.”
Prima che potessi anche solo aprir bocca, Yrsarald mi afferrò per le spalle e mi spinse nel quadrato formato dai suoi uomini. In un istante mi ritrovai stretta in una morsa fatta di cotte di maglia e cuoio, immersa nell’odore penetrante di sudore, acciaio e pelle mal conciata. Non appena il loro capitano dette l’ordine i quattro soldati cominciarono ad avanzare, sospingendomi lungo lo stretto cunicolo nella stessa direzione indicatami da Calixto.
Passammo attraverso un gelido cimitero, con le lapidi di pietra ricoperte da merletti di ghiaccio e brina, per poi sbucare dietro la locanda, dove ci ricongiungemmo con un altro piccolo gruppo di soldati che attorniava Mirala. Rimasi impressionata dalla mia balia; alta e diritta, con l’aria fiera ed altera della sua razza, sembrava una regina attorniata dai suoi sudditi. Non appena mi vide sorpassò gli uomini e mi si mise accanto, scrutandomi con aria apprensiva mentre marciavamo verso il palazzo.
“Ti avevo detto di non allontanarti da me.” Mi sgridò a bassa voce, scrutandomi con quei suoi occhiacci neri che sapevano sempre come farmi sentire in colpa.
“Mi spiace.” Le sussurrai contrita, e senza aggiungere altro mi incamminai verso il Palazzo dei Re, seguendo i guerrieri che mio marito aveva mandato a prendermi.
 
 
Folate d’aria gelida entravano dalle finestre, facendo vibrare le fiamme delle candele e smorzando il fuoco che bruciava nel camino di pietra, eppure nessuno si preoccupava di chiuderle con schermi di carta cerata o teli imbevuti d’olio.
Stretta nel mio mantello tremavo, e non solo per il freddo. Non appena avevo messo piede in quella stanza, mio marito si era alzato di scatto dal sedile di legno accanto al fuoco ed aveva mosso qualche passo in avanti, fissandomi con occhi cupi e severi. Yrsarald gli era andato subito incontro, come per bloccarlo, ed insieme avevano parlottato per qualche istante, senza che mai lo sguardo del mio sposo mi abbandonasse.
Il mio sposo dovette congedare più volte il giovane capitano che, così come i sui uomini, sembrava restio ad andarsene lasciandomi sola con lui. Ma alla fine Yrsarald dovette cedere; lo vidi chinare il capo con un gesto secco e battersi il pugno sul petto, per poi voltarsi e passarmi accanto senza degnarmi di uno sguardo, come se fossi invisibile. In meno di un istante il capitano ed i suoi soldati erano svaniti oltre la porta insieme a Mirala, ed io ero rimasta lì, senza altra compagnia se non quella di mio marito.
Per un attimo nella stanza calò un silenzio assordante, simile alla calma prima della tempesta, ed io strinsi i pugni e sollevai il mento, cercando di apparire meno nervosa di quanto non fossi.
“Come ti è venuto in mente di andartene a zonzo per la città?” Mi domandò mio marito all’improvviso, in tono rabbioso.
“Io…”
“Tu non hai idea di cosa hai fatto.” Tuonò lui. “Come hai potuto pensare di poter andare in giro senza una scorta adeguata?”
“Questa è la mia città e…”
“Questa è la mia città. Tu non conosci i pericoli che corri, e d’ora in avanti non metterai il naso fuori da queste mura a meno che…”
“Tu non hai il diritto di darmi ordini!”
Quella mia uscita stupì mio marito tanto da zittirlo per un istante. Quanto a me, rimasi così spiazzata dalla mia stessa audacia da restare senza parole; non mi accorsi nemmeno di esser passata dal cerimonioso ‘voi’, che avevo usato fino ad allora, al più familiare ‘tu’.
“Cosa…” Cominciò lui, aggrottando la fronte, ma io lo interruppi di nuovo, spinta dal desiderio di sperimentare di nuovo quella forza in grado di ammutolirlo.
“Se io desidero andare in città, lo farò, con o senza scorta.” Dissi, cercando di sembrare abbastanza convinta.
“Vuoi farti sbudellare, forse?” Ribatté mio marito con rabbia, ed in risposta al mio sguardo allarmato continuò. “C’è un assassino che uccide le giovani donne sole. Vuoi essere la sua prossima vittima?”
“Questa è la cosa più sciocca che abbia mai sentito.” Esclamai, certa che lo stesse dicendo solo per spaventarmi.
Quel commento parve essere davvero troppo per la sua limitata pazienza, e per tutta risposta fece un brusco cenno con la mano, indicandomi la porta.
“Vattene.” Mi intimò con un ringhio. “Levati di torno.”
Ma io rimasi ferma dov’ero, senza muovere un solo muscolo. Mi sentivo euforica per essere riuscita a rispondergli, almeno per una volta, senza abbassare lo sguardo, ma ero ancora troppo intimorita per voltargli le spalle come se nulla fosse. Se me lo avesse ordinato di nuovo, di certo mi sarei allontanata di corsa per poi gettarmi tra le rassicuranti braccia di Mirala, ma mio marito sembrava non essere intenzionato a restare un solo istante di più in mia compagnia; con l’aria di chi avrebbe volentieri preso a pugni il primo che gli capitava a tiro, mi sorpassò a gran passi ed uscì dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle con tanta forza da farla vibrare sui cardini.
Fu solo allora che ripresi a tremare, con tanta violenza che mi dovetti inginocchiare sul pavimento di pietra gelida per non cadere. Non mi ero resa conto di aver smesso.
Abbracciandomi sotto il mantello cercai di far cessare i tremiti, ed all’improvviso scoppiai in una risatina nervosa, ma dal chiaro tono esultante.
Per la prima volta ero riuscita a tener testa a quel bruto di mio marito.
Ed in quel momento, mi ripromisi che non sarebbe stata l’ultima.
 
 
 
 

 

 
Molti tra quelli che hanno giocato a Skyrim, ed in particolare la quest “Sangue con Ghiaccio”, si ricorderanno di certo di Calixto, anche se io l’ho reso più lezioso e strampalato che nel gioco (così come Sifnar il servitore, che è diventato un vecchietto nervoso e petulante). La storia di mezzo, che parla del cosiddetto "Incidente di Markarth", può risultare un pò noiosa e pesante, ma spero di essere stata abbastanza esaustiva nello spiegare la situazione.
 
  
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