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Autore: SalazarSerpeverde    22/12/2013    1 recensioni
Il brutale omicidio di un semplice insegnante di storia londinese, porta il solitario detective Edgar Lyonel, sulla pista di qualcosa che ben presto si accorgerà essere più grande di lui.
[Dal capitolo primo - La vittima in questione era ancora seduta sulla sua sedia. Indossava un noioso completo beige in pieno stile insegnante e c’era ancora un’espressione terrorizzata sul suo volto snello.
La causa della sua morte era proprio li, al confine tra la fronte ed i suoi folti capelli castani e scombinati: un foro di proiettile gli aveva attraversato il cranio, perforato il cervello ed era uscito nuovamente fuori, conficcandosi nella lavagna appena dietro di se.]
SalazarSerpeverde
Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Edgar VS Darkness [II]
“Come si chiamava la vittima?” chiese Edgar ad un agente, interrompendo uno strano silenzio nell’aula.
“Joe. Joe Wales.” rispose il poliziotto controllando la carta d’identità sfilata dal suo portafogli.
“Joe Wales... Joe Wales... Joe Wales...” iniziò a ripetere il detective a bassa voce mentre ispezionava l’aula a grandi linee.
Era quadrata, grande poco più del soggiorno della casa di Edgar e c’erano due finestre spalancate, che con la porta aperta, formavano una corrente fredda non di poco conto. C’erano 25 piccoli tavoli di legno, e proprio davanti alla vittima c’era una scrivania grande esattamente due banchi messi di fianco. Sulla scrivania c’era solo un registro, ancora chiuso. Probabilmente la vittima era arrivata in anticipo in aula e aspettava i suoi alunni, quando il suo aggressore l’ha ucciso.
Dopo che Edgar ebbe constatato che sui muri, per terra o sotto i banchi non ci fosse nessun possibile indizio, cominciò ad esaminare la scrivania e la lavagna.
Il proiettile che era costato la vita a Joe Wales si era conficcato in una data ancora riconoscibile come 1564, succeduta da un’altra: 1616.
“Ah Shakespeare, quanto mi manca!” sospirò Edgar con entusiasmo, esaminando il foro del proiettile proprio nel numero ‘64’ e senza badare al cadavere a pochi centimetri da lui.
“L’aggressore ha anche estratto il proiettile dalla lavagna. Molto cauto. In questo modo non possiamo nemmeno determinare il calibro della pistola usata, ne tantomeno scoprire chi di recente ha acquistato quell’arma e così restringere il campo dei sospetti.” continuò Edgar, sempre parlando più a se che agli agenti presenti.
“Possiamo?” gli fece il verso Derryl, che fino ad ora era rimasto in disparte. “Non mi sembra che qualcuno ti abbia chiamato Edgar.” continuò con una risatina sarcastica ma che suonò comunque molto seccata.
“Lo sai che non c’è bisogno di chiamarmi, Derryl.” rispose immediatamente l’investigatore, non degnando nemmeno di uno sguardo il suo amico.
“Comunque sia. Attento a non muovere il cadavere. Non prima delle foto del delitto almeno.” sospirò Derryl facendo cadere il bandolo della conversazione.
“Diresti mai ad un panettiere come si inforna il pane?” domandò Edgar con un tono totalmente sarcastico.
Derryl uscì dall’aula estraendo dalla sua tasca il suo cellulare con una chiamata in arrivo, ma non prima di aver sbuffato e borbottato qualcosa di incomprensibile.
Mentre altri due agenti segnavano le generalità della vittima, Edgar continuò ad esaminare la lavagna. Intorno al foro provocato dal proiettile, si era posato un sottile strato di polvere da sparo, ma oltre a quello ed alle noiose date della vita di Shakespeare, non c’era niente. Allora il detective iniziò a concentrarsi sulla vittima. Nella tasca superiore del suo completo non c’era niente, nemmeno in quelle dei suoi pantaloni.
“Avete preso voi il cellulare della vittima?” chiese Edgar a gran voce.
I due agenti distolsero per un momento lo sguardo dal loro compito attuale, proferirono un ‘no’ all’unisono, poi tornarono a scrivere.
“Niente cellulare. Strano.” osservò Edgar, strofinandosi le dita sulle sue guance lisce appena rasate.
Facendo attenzione a non urtare la vittima, Edgar prese il registro posato sulla cattedra e lo sfogliò. Era tutto nella norma. C’erano solo rapporti disciplinari, orari delle lezioni, alunni assenti e date di uscite anticipate. Nel cassetto della cattedra invece c’era solo un rozzo block notes con il foglio di testa ancora bianco e parecchi foglietti già stracciati, ed il cassino per cancellare alla lavagna insieme a minuscoli pezzetti di gesso.
“Che cos’hai lì?” domandò una voce autoritaria dall’esterno dell’aula.
“Un block notes vuoto.” rispose Edgar.
“Mpf.”
Nascondendosi dagli occhi di tutti, Edgar si infilò il piccolo block notes nella tasca dell’impermeabile, poi fece per prendere il telefono e compose il numero di un alunno dell’ex professor. Wales.
Rispose una giovane voce maschile che non sembrava affatto turbata dall’accaduto.
“Chi è?” chiese rozzamente una voce giovane.
“Parlo con Harry Worth?”
“Si, chi è?” continuò con lo stesso tono.
“Polizia di Scotland Yard. Agente Edgar Lyonel. Le dispiacerebbe rispondere ad una mia domanda?”
“Guarda che è illegale spacciarsi per un agente di polizia Lyonel!” tuonò la stessa voce di prima, ma Edgar lo ignorò questa volta.
Il tono del ragazzo si fece improvvisamente più serio. Deglutì rumorosamente e rispose un ‘sì’ soffocato rivolto alla richiesta di Edgar.
“Sa per caso dirmi se il vostro insegnante, il signor Wales, aveva un telefono cellulare?” disse Edgar.
“Oh sì.” rispose il ragazzo, con un tono altamente sollevato. “Spesso durante la lezione qualche suo amico lo chiamava. Tutti odiavamo quel telefono con quel ridicolo foderino da panda.”
“E sa se ieri il professor. Wales aveva con se questo cellulare?” chiese ancora Edgar.
“Oh si, è stato a telefono per ben quindici minuti ieri, non posso sbagliarmi.” rispose il ragazzo.
“La ringrazio.” borbottò Edgar e poi riattaccò senza nemmeno sentire il ‘prego’ dell’alunno.
“Non sei un agente Lyonel!” esclamò ancora l’agente fuori la porta. “E non hai l’autorizzazione di chiamare chi ti pare.”
“Bene.” disse Edgar sottovoce ignorando ancora una volta l’agente che lo guardava con occhi rabbiosi. “Adesso so che la vittima aveva un cellulare. Ma non l’aveva con se. Non resta che controllare casa sua.” disse congedandosi da solo, ma prima, frugò nel taschino dove aveva controllato prima e prese la chiave del suo appartamento. Se la infilò in tasca prima che Vincent Brown, l’agente che continuava ad inveirgli contro, potesse negargli quel lusso. Certo, avrebbe avuto tutte le ragioni a togliergli le chiavi, ma Edgar non poteva lasciare nelle mani di Scotland Yard un oggetto così prezioso per le indagini.
Uscendo dall’aula, Edgar si avvicinò ai due agenti che scrivevano le generalità della vittima e chiese il suo indirizzo di casa. Dopodiché uscì di tutta fretta dalla scuola, mise in moto la sua auto e si diresse verso Second Street, qualche miglio più lontano della scuola.
Viaggiando, Edgar aveva perso completamente la fame e non sentiva più un briciolo di sonno. Finalmente era tornato all’azione, ed anche se era passato così poco tempo, la sua mente aveva concepito quell’ultimo giorno come un’eternità.
Attraversò le trafficate strade di una Londra che si svegliava velocemente. Nonostante il clima, il vetro della Chevrolet era abbassato, ma Edgar non faceva caso all’aria fredda che gli frustava le guance. Quando si infilava in una coda di auto, non faceva altro che tamburellare le dita sul volante, come se servisse a velocizzare la fila. Passarono ventidue minuti e finalmente Edgar parcheggia rozzamente la sua auto in un piccolo spiazzo erboso all’altro lato della strada dove si trovava l’abitazione di Joe Wales. Mentre il detective attraversava la strada, ripeteva nella sua mente il suo obiettivo: trovare il cellulare.
Avvicinandosi, vide che il professore abitava in un palazzo di quattro piani. Edgar entrò, ed ogni volta che saliva una rampa di scale, controllava i cognomi degli inquilini sul campanello. Arrivato al terzo piano, nell’ingresso B trovò scritto il nome J. Wales.
Recuperò la chiave dalla tasca del suo impermeabile, si guardò intorno circospetto e poi la rigirò nella serratura. Dopo quattro click la serratura scattò ed Edgar fu libero di entrare.
Già dall’ingresso e dal piccolo salone che si apriva subito dopo, si notavano i chiari segni di una vita solitaria: parquet disordinato e con un sottile strato di polvere che lo ricopriva, oggetti sparsi in modo disordinato ed incurante ed avanzi di cena ai piedi di un divano che si trovava a pochi metri da una piccola televisione spenta. Quell’insegnante era talmente disordinato che Edgar non poté non notare le somiglianze col suo appartamento. Dopo una rapida occhiata non sembravano ci fossero collegamenti tra quella casa e l’omicidio del proprietario, quindi Edgar iniziò ad ispezionare i luoghi più ovvii dove si potesse trovare un cellulare: sul divano, sul tavolo in cucina, sul davanzale di un bagno e su un comodino della camera da letto. Niente.
Edgar fece un sorrisetto, quasi fosse stato più contento di non aver trovato un indizio così rilevante, poi uscì dalla casa e tornò in auto. La sua prossima destinazione era proprio Scotland Yard, dove era diretto più per scoprire se c’erano novità che per comunicare la scoperta che aveva fatto.
Per raggiungere la sede della polizia londinese, Edgar impiegò quasi trenta minuti di stressante tragitto in auto. Una volta sceso dall’auto, si diresse con sicurezza attraverso i corridoi e le camere dell’edificio della polizia di Londra, finché non raggiunse una porta con una targhetta di ottone che diceva: NEW SCOTLAND YARD - Derryl Bright.
Bussò tre volte e senza attendere la risposta, entrò. L’ufficio era abbastanza squallido e disordinato. C’era un armadietto di ferro pieno di documenti, una scrivania che occupava quasi tutto lo spazio libero ed un piccolo quadro astratto appeso al muro. Trovò Derryl seduto sulla sua vecchia ed impolverata sedia girevole. Era intento a scrivere una relazione al computer da spedire a chissà chi e stringeva tra i denti un mozzicone di sigaretta consumato con ancora l’estremità che bruciava. Derryl rivolse un’occhiata curiosa ad Edgar e lui soddisfò la sua curiosità spiegandogli ciò che aveva scoperto. Prima di parlare aprì la finestra alle spalle di Derryl e tirò una boccata d’aria pulita.
“Sono stato nell’appartamento di Joe Wales...” iniziò il detective.
“TU COSA?” tuonò Derryl. “Non sei un agente di polizia. Lo sai che non puoi!”
“Sono stato nell’appartamento di Wales. Ho controllato dappertutto, non c’è traccia di un cellulare. Eppure lo aveva.” spiegò Edgar.
“Andiamo Edgar, non potrebbe averlo semplicemente perso?” chiese Derryl, arrendendosi alla caparbietà di Edgar.
“Oppure aveva dei segreti, su quel cellulare. Segreti che potevano condurre al suo assassino. E proprio per evitare che si venissero a sapere questi segreti, magari l’assassino ha preso con se il suo cellulare.” ribatté l’investigatore.
“E spiegami perché non potrebbe averlo perso.” disse Derryl schiacciando il mozzicone consumato in un posacenere dove traboccavano altre decine di sigarette.
Edgar sorrise. Era da quando aveva messo piede in quell’ufficio che sperava che gli veniva posta quella domanda.
“Te lo spiego subito perché non l’aveva perso. A casa sua, il comodino in camera da letto era vuoto. Non c’era nessuna sveglia. A meno che la vittima non avesse avuto un orologio incorporato, cosa molto improbabile, viene naturale pensare che usava il suo telefono cellulare come sveglia al mattino. Anche questa mattina il signor. Wales è arrivato al lavoro in anticipo e so’ per certo che ieri l’insegnante aveva con se il suo cellulare. Quindi deve averlo ‘perso’ nel lasso di tempo tra le sette e le otto del mattino, ovvero quando era a scuola. Quindi con ogni probabilità il suo aggressore l’aveva fatto fuori, aveva occultato le prove ed aveva preso con se il cellulare di Wales.” spiegò Edgar senza quasi prendere fiato.
Derryl sbruffò e cercò in tutti i modi di non ammettere la ragione del detective, poi disse: “Bé, comunque tieni a freno le emozioni. Il caso è archiviato.”
Edgar venne scosso da quelle parole, ed il suo sorriso compiaciuto scomparve del tutto.
“N-non potete archiviare il caso.” balbettò. Edgar non poteva farsi scivolare sotto il naso una tale opportunità di sfida per il suo intelletto.
“Possiamo invece. La scena del delitto è spoglia di indizi, i pochi conoscenti che Wales aveva sono già stati interrogati ed hanno confermato i loro alibi. Non possiamo più proseguire le indagini.” spiegò Derryl accendendosi un’altra sigaretta.
Edgar uscì sdegnato dalla porta dell’ufficio di Derryl. Si diresse a casa sua cercando qualsiasi pretesto per cercare di far riaprire le indagini su quel caso. Ma non c’era niente che si potesse fare. L’assassino di Joe Wales aveva fatto proprio le cose per bene.
Una volta arrivato nel suo appartamento, Edgar sprofondò in una poltrona senza nemmeno togliersi di dosso l’impermeabile. Continuò a pensare al caso di quella mattina. Doveva per forza aver tralasciato qualcosa. Non poteva essere.
Poi gli venne in mente il block notes che si era infilato in tasca un paio d’ore prima. Lo sfilò dall’impermeabile e dopo solo una breve occhiata confermò quello che aveva constatato prima: quello era un semplice block notes.
Solo dopo un’attenta analisi, Edgar notò i segni di qualcosa che era stato scritto pesantemente sul foglio superiore a quello, ormai stracciato. Bastò ricalcare a matita quel foglietto per far venire chiaramente alla luce una frase: La Luce Nelle Tenebre.  
  
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