Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: Hiroponchi    11/01/2014    2 recensioni
“Sai una cosa, Allie? Diventerò uno scrittore. E tu sarai la protagonista di ogni mio romanzo. Parlerò di come la Streghetta di Vancouver si trasformò in una farfalla e di come si innamorò di un potenziale assassino venuto da lontano”.
Genere: Azione, Drammatico, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Non sapevo nulla di Kei. Né dove abitasse, né da dove venisse, né il suo cognome. Non sapevo neppure il colore dei suoi occhi; eppure la cosa che più mi premeva era che Madison e Lily volevano portarselo a letto ed io non facevo altro che ribollire di gelosia. Volevo rincontrarlo, in una strada a caso, parlargli di me, e sentirlo parlare di lui. Volevo che quella dolce voce mi ripetesse ancora quelle parole, quell’appellativo, “streghetta di Vancouver”. Una frase che sentivo mia, mi appartenesse.
“Dicono si chiami Kei”, disse Madison con fare malizioso. Aveva lasciato un assorbente sporco sul tappeto della camera e la mamma era andata su tutte le furie. Lei aveva cacciato due finte lacrime, poi lo aveva rimasto comunque lì. “Credi che uscirà con una di noi?”.
“Avrà circa vent’anni” soppesò Lily con ansia, mentre accendeva una sigaretta. Alla sua età, ero sicura che da donna adulta, avrebbe avuto i polmoni perforati. “Starà al corso per gli universitari”.
Entrambe guardarono me. Lily mi fumò in faccia. Tossii e mi alzai di scatto dal letto, facendo cadere i libri di filosofia. “Sei pazza?”, urlai.
“Kei è nel tuo corso?” mi urlò Madison, sbattendomi davanti quel suo seno prosperoso.
“Si”, risposi, in tono di sfida. Volevo che si ingelosissero. Ma più che altro si arrabbiarono. Lily, la piccola undicenne Lily, schiacciò il mozzicone col piede e mi prese sotto le ascelle, bloccandomi. “Che cosa fai?”, urlai. Madison mi diede un colpo allo stomaco che mi fece perdere l’equilibrio.
“Non te ne do un altro solo perché il ciclo mi sfinisce”, disse altezzosa e poi entrambe mi lasciarono a soffrire sul pavimento. In corridoio sentii dire Lily “Mammina, Allie sta sporcando la camera”.
Fortunatamente la mamma non venne a guardare e io mi rialzai a fatica. Misi tutto nella borsa a forma di panda, infilai una felpa nera, e uscii. In salotto papà era entusiasta di parlare a telefono con dei parenti lontani, quindi nessuno mi sentii uscire. Per strada le lacrime mi riempivano gli occhi ma non le cacciai. Volevo resistere, farmi un’anima di ferro. Ma l’impresa sfumava sempre di più, specie quando ti sentivi estranea alla tua famiglia, quando non sapevi chi sei, e quando non avevi un’amica da cui rifugiarti o un cane pronto a leccarti la faccia con affetto. Ma vidi Kei. Era in fondo al vicolo, appena uscito da un negozio di dischi. Mi vide, accennò un saluto. Era quello che volevo. Incontrarlo per strada, per caso. In una situazione normale mi sarei catapultata tra le sue braccia ma niente in me era normale. Non volevo che mi vedesse piangere. Mi voltai dal lato opposto e corsi via, le spalle che tremavano per il peso della vita.
“Ehi, aspetta” udii la sua voce. Poi sentii dei passi affrettati. ‘fa che non mi venga dietro’ pensai con tutte le mie forze, ma inutile, tutto quanto. Mi mise una mano sulla spalla e mi voltò. Aveva ancora gli occhiali da sole a specchio nei quali si rifletteva due volte il mio viso piagnoso.
“Stai piangendo”, notò, triste. Poi vide che mi tenevo lo stomaco. “Ti fa male?”, chiese.
Voltai il viso, incapace di guardarlo, ma egli mi prese il mento con delicatezza e mi guardò. “Guardami”, mormorò.
“E cosa?” protestai esausta. “Un paio di occhiali da sole in cui si riflette il mio viso di merda?”.
Rimase immobile, forse scioccato dalla frase. Poi parve capire e lo vidi togliersi gli occhiali da sole. Aveva due enormi occhi confetto, a mandarla, tipici dei paesi orientali. Ora sapevo perché non voleva mostrarsi nel cortile della scuola. Ora sapevo che nemmeno Madison e Lily volevano più andare a letto con lui se l’avessero saputo. L’avrebbero chiamato ‘muso giallo’. Eppure a me parve bellissimo. “Va meglio?”, mi chiese.
Annuii, asciugandomi gli occhi. “Sono una stupida”.
Kei mi fece una carezza. “A me sembri molto più intelligente di chiunque altro. Ricordalo, Allie, è chi capisce che soffre. Non gli stolti”.
Gli rivolsi un debole sorriso e aspettai che succedesse qualcosa. “Vieni da me?” mi domandò con fare leggero. “Abito qui vicino”.
“Per fare che?” domandai sospettosa.
Lui mi fissò negli occhi e sorrise quel magico sorriso. “Tutto ciò che vuoi! Piangere o ridere, picchiarci o fare l’amore. Decidi tu!”.
Scoppiai a ridere. “Sei proprio un tipo strano”.
Kei allungò le braccia e mi strinse. Rimasi bloccata tra i suoi bicipiti e incapace di ricambiare. “Grazie” mi sussurrò. “Mi hai fatto tornare la voglia di stare con qualcuno. Sei proprio la streghetta di Vancouver che desideravo”.
*
Casa sua era bella. Piccola ma accogliente. I divani erano blu, i tappeti bianchi, la cucina ordinata e colorata, con una ciotola di frutta al centro del tavolo in legno. Le tende erano ben appese eppure qualcosa mi fece capire che viveva da solo. Nel lavandino c’era una sola tazza da lavare, sul divano un solo cuscino fuori posto. Il resto immacolato. Alle finestre più esposte c’erano delle assi. Di colpo fui spaventata. Kei capii che mi stavo guardando intorno e abbozzò un sorriso timido.
“Non farmi parlare”, disse. “Scapperai via da me”.
“Cosa vuoi da me?” sussurrai.
“Compagnia” mi rispose, scrollando le spalle. “Qualcuno con cui parlare”.
“Chi sei?”.
“Un fuggitivo” rispose, guardandomi indietreggiare. “Mio padre mi ha costretto a lasciare il Giappone, andare lontanissimo per qualche anno. Devo far calmare le acque. Io ho…” esitò, poi mi guardò intensamente. “Ucciso una persona”.
“Sei un assassino” esclamai, rapita.
“Già. Ma per autodifesa”.
“Voglio andare via”, ordinai, quasi in un grido.
Kei mi guardò triste e per un attimo mi persi nei suoi occhi teneri. Annuii comprensivo e mi aprii la porta. Feci qualche passo sul pianerottolo. Sentivo il suo sguardo su di me, il suo cuore battere alle mie spalle. Non sapevo cosa fare. Andare via o… restare? Mi voltai. Mi guardava come un cane abbandonato. Lo stavo lasciando come la mamma aveva lasciato me? Gli stavo dicendo addio? Perché si era difeso? Dovevo credergli? O aver paura? I dubbi erano troppi per andar via.
“Voglio restare”, esclamai.
“Ogni tuo desiderio è un ordine” esclamò, sorridendo mio malgrado.
Chiuse la porta alle mie spalle e corse ad aprire quella della camera da letto. Era quasi tutta blu, con molti fumetti, poster e cd. C’era un portatile sulla scrivania e un peluche decisamente brutto: gli mancava un occhio di bottone e l’imbottitura saltava fuori. “E’ orribile”, gli feci notare.
Lui rise. “E’ di quando ero bambino. Non riesco a buttarlo via”.
“Voglio che mi parli di te”, risposi, carezzando il peluche. Non volevo pensare che mi stesse guardando. “Ogni cosa. E poi deciderò se andar via”.
Kei si stese sul letto, le braccia incrociate sotto la testa. Al suo fianco, sembravo brutta come il peluche. Ma lo ascoltai parlare. La sua voce tremolava, a volte più forte, altre di meno, ma di sicuro tratteneva le lacrime. “Era una notte buia, d’inverno, avevamo bevuto. Io e i miei amici. Eravamo stati al karaoke ed io mi ero al quanto ubriacato. Raggiungemmo un vicolo. Toya diceva che lì si poteva fumare canne senza essere visti. Non avevo mai fumato nemmeno una sigaretta ma volevo provare. Seguii lui e gli altri. Ma lì trovammo dei banditi, i topi di fogna, più ubriachi di noi. Ci dissero di andare. Noi li fronteggiammo. Poi quello più grosso afferrò Toya con una mano sola, un braccio peloso e scimmiesco. Lo scaraventò nel muro e…”
Mi guardò, forse indeciso se continuare. Ero immobile, a fissarlo, senza mostrare orrore o disagio. “Il suo collo si spezzò” continuò, guardandomi in faccia. “Lo vidi cadere a terra, morto. Il mio migliore amico. Feci per scappare ma ero così ubriaco da inciampare. Gli altri erano tutti fuggiti. Gli uomini ridevano e parlavano di vendermi al mercato, di farmi a pezzi, o schiavo. Uno tentò di afferrarmi la gola ma io ebbi i riflessi pronti. Non volevo finire lì come Toya, essere trovato chissà quando, e avere un misero funerale di cui nessuno si sarebbe ricordato. Trovai una bottiglia scheggiata alla cieca, nel buio, e la ficcai nella testa dell’uomo. Ci fu un boato, lo vidi cascare a terra, il sangue che invadeva il vicolo. Gli altri urlavano, mi insultavano. Decisi di dover scappare, per quanto le gambe me lo permettessero. Raggiunsi casa e gliene parlai a mio padre… le presi prima di santa ragione. Poi mi spiegò che dovevo andarmene lontano perché il tizio che avevo ucciso era… il capo di una banda mafiosa”.
“Oh, Kei…”.
“Non dire nulla”, si mise seduto e spinse le gambe fuori dal letto. Le sue ginocchia dure sfioravano docilmente le mie. “Agisci soltanto. Vai via?”.
Lo guardai negli occhi e provai un senso di affetto. Volevo accompagnarlo nel dolore, stargli accanto, e sostenerlo. “Rimango solo se mi prometti che non berrai più”.
Kei sorrise, preso alla sprovvista. “Mai più”, gridò e mi offrì le braccia. Era la prima volta che ricambiavo la sua stretta ed era piacevole. Profumava di bucato fresco e violette. “E tu? Perché parlano di te?”.
Mi carezzai l’addome ancora dolorante. Forse per il colpo incassato o la storia ascoltata. “Mia madre era una cartomante. E mio padre un giocoliere del circo. Lui non l’ho mai conosciuto ma credo sia vivo… la mamma,non so…”.
Kei mi baciò la fronte e io chiusi gli occhi per sorbirmi il tenero effetto. “Non voglio che tu ti prenda un’ossessione per me”, gli sussurrai spaventata.
“Ossessione? Non so che significhi”. Ancora una volta la sua voce mi percorse in brivido la spina dorsale.  “Sei la cosa più libera che abbia mai visto. Mi piacerebbe essere il fiore sul quale ti poserai per succhiare il polline, quando ne hai voglia, e stare lì ad ammirare le tue splendide ali. Mi piacerà incontrarti per caso e salutarti come un amico. Non sei incatenata a me. Sei ciò che mi rende sereno. È diverso! Sai che diceva mia mamma quando calciavo una porta? Che le avevo fatto male e dovevo pentirmi. E io andavo lì e dicevo ‘scusa porta’.” Mi guardò sorridere e mi fece una carezza sulla guancia. “Non ferirò il tuo animo”.
“Guarirò il tuo”, gli promisi. “Fuggitivo del Giappone”.
Mi catapultai in un altro abbraccio, quello che avevo desiderato poco tempo prima. Gli cinsi i fianchi, gli poggiai la testa sugli addominali. Mi lasciai carezzare i capelli, sentire la sua esistenza lì accanto a me. “Sai una cosa?”, notai. “Il tuo nome pronunciato all’inglese, vuol dire chiave”.
“Sono felice che tu l’abbia notato” esclamò Kei. “Perché tu sei quella chiave che ha aperto lo scrigno che era diventato il mio cuore. Era stato chiuso per troppo tempo”.
 
Quello che successe dopo non lo so neanche io. La sera era calata e noi non avevamo sciolto quell’abbraccio. Quando lo facemmo scoprimmo che l’aria era fredda ed entrambi desiderammo l’uno il calore dell’altro. Kei mi baciò. Le sue labbra erano vellutate, piene di delicatezza. Non sembravano le labbra di un assassino e in quel momento non pensavo a questo aspetto della sua vita. Nella mia mente c’era Kei e basta. Sentii i vestiti cadermi di dosso, le spalline del reggiseno scrivolarmi dalle spalle. Le sue mani calde mi sfioravano la pelle. Tremavo ma non dal freddo. Lui lo sapeva e mi strinse a sé con più forza mentre mi posava dolcemente sul letto. Non avevamo la forza di accendere le luci. Bastava il chiarore della luna. Si spogliò mentre tenevo gli occhi chiusi. Non sapevo cosa pensare né cosa fare. Eppure era ciò che volevo. Mi afferrò teneramente per i fianchi e, chinandomi il capo all’indietro, mi baciò il seno. In tutta la famiglia, era quella che ce l’aveva più piccolo. Le mie sorelle mi avevano prese in giro per questo e mia madre criticata. I miei seni erano come due pesche, vellutate e rosee, sode. Eppure a Kei piacevano tanto. Succhiò i capezzoli con avidità e mi rilasciò sul letto, dove mi rimase inerte. Ansimavo ancora, con le gambe strette e il seno unto di saliva. Alla fine aprii gli occhi e lo guardai. Pettorali scolpiti si sposavano con i muscolosi bicipiti che avevo già sentito. I suoi addominali palestrati erano tesi. Vidi un bacino perfetto, il che mi fece pensare stupidamente che forse avrebbe spinto con forza. Il suo pene, poco più scuro del resto del corpo, era eccitato. Mi venne addosso e mi diede un bacio a fior di labbra. I suoi caldi pettorali erano un piacere sul mio seno freddo. Mi penetrò con una dolcezza che non mi ero aspettata. Faceva male ma restai aggrappata al suo collo, ansimando, e lasciandolo fare. Quando finimmo, io ero stanchissima e lui non aveva voglia di parlare. Mi carezzava piano, ovunque. Sembrava che mi chiedesse scusa, che gli dispiaceva. I suoi occhi espressivi mi fissavano da sopra il cuscino, trasmettendomi un senso di pace. Le sue dita carezzarono la mia vagina e io mi lasciai sfuggire un gemito. Caddi tra le sue braccia, e gli leccai il collo. Poi Kei mi tenne stretta tutta la notte e poco prima che mi addormentassi mi sussurrò all’orecchio “Era la mia prima volta, Streghetta di Vancouver”.
 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Hiroponchi