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Autore: Hoi    26/01/2014    1 recensioni
I fatti narrati si svolgono dopo gli eventi del primo film
“Pronto! Aiuto ho investito una persona. Sono in via...” Dove cazzo ero? Mi guardai attorno nel panico. Non c’era neanche un fottutto cartello. Merda! Ma quella era New York. Una New York mezza distrutta e ancora in piena ricostruzione, ma pur sempre New York. Di certo avrebbero rintracciato la chiamata e sarebbero venuti ad aiutarmi.
“il numero da lei selezionato è inesistente”
“Cosa?!?!?!” Piena di sgomento guardai lo schermo. 118. Idiota! Idiota! Idiota!
Genere: Avventura, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Scuse dall'autrice
Ok... parto col fare le mie scuse a tutti coloro che hanno letto e/o sono ancora interessati a leggere la mia storia... non ho postato niente per una vita e in tutta sincerità penso che a molti sia passata lo voglia di leggere, anche per via dell'uscita del nuovo film di Thor... comunque io intendo finire la storia esattamente come l'avevo pianificata all'inizio. In tutta sincerità la cosa che più mi preoccupa è che la protagonista o lo stile siano leggermente cambiati, in pegio ovviamente. Se così fosse, pregherei a chiunque ha ancora interesse di farmelo notare, cosicché io possa correggere il tiro. Senza dilungarmi ancora vi auguro buana lettura e vi chiedo nuovamente scusa per essere sparita. Ma prima di lasciarvi continuare:

Riassunto scrauso per rinfrescare le idee
Francesca Recidivo, promessa sposa e giovane architetto italiano, è incaricata di costruire la nuova torre delle industrie Stark e ricostruire la vecchia, modificandola affinché divenga la sede dei neonati Vendicatori. Una sera tornando in albergo investe per sbaglio un affascinante sconosciuto, Scott Fizgerald che finisce per ospitare per la notte. IL giorno dopo, ripresosi dalla botta Scott se ne va, lascindogli in regalo la sua sciarpa. Appena rientrata alla torre dei vendicatori Francesca viene aggredita da un chitauro che tenta di ucciderla, ma per una serie fortunata di eventi (fortunata per francesca non per il chitauro), lui muore e lei finisce all'ospedale (con un braccio rotto e la faccia sfregiata... poteva andarle meglio diciamocelo). Prorpio lì rincontra Scott che, prima tenta di baciarla e poi, dopo essere stato respinto le lascia sul gesso un ghirigoro che pare debba portarle fortuna. Appena uscita dall'ospedale Francesca va alla torre, decisa a tornare al lavoro, prima che possa farlo però viene bloccata dall'arrivo di Cpitan America, Thor (che fa la spola tra Asgard e Midgard alla ricerca del fratellastro Loki fuggito prima dell'imprigionamento) e da Stark, che è deciso a riunire i vendicatori per far luce sulla storia dei chitauri superstiti, che nel mentre hanno distrutto una stazione di polizia.


L'arrivo del principe Azzurro (e dei problemi correlati)

“Jarvis. Riunisci la squadra.”
Fa figo né? Sembra l’inizio di uno di quei momenti epici da film d’azione, uno di quelli con tante esplosioni e la colonna sonora degli ACDC. Un po’ meno figo è aspettare seduti per quaranta minuti buoni che Jarvis “riunisca la squadra”. Già, perché dirlo è un attimo, farlo è tutta un’altra storia. Durante quel tempo d’attesa interminabile fui più volte tentata di riprendere il telefono. Non lo feci. Il signor Stark già mi odiava per il luccichio che mi brillava negli occhi ogni volta che guardavo il Capitano Rogers, non era il caso di dargli altri pretesti per licenziarmi. Così me ne stetti buona, seduta su uno di quei divanetti di pelle marrone, che non puoi neanche muoverti di un centimetro senza che scricchiolino, tra una massa di muscoli coronati di biondo ed il più grande eroe di tutti i tempi, fissando in faccia quel pazzoide del mio capo, che ancora portava l’armatura. Mi sarei aspettata grandi discorsi da loro, in fono erano la squadra che aveva salvato la terra... Invece per quasi tutto il tempo si comportarono come tre bambini. Me lo aspettavo dal signor Stark, anzi mi sarei sorpresa se così non fosse stato, forse anche Thor aveva in fondo qualcosa che me l’avrebbe dovuto suggerire... Cap no, lui sarebbe dovuto restare superiore ed invece... Non che facessero qualcosa in particolare ecco... si punzecchiavano. Il bisticcio era iniziato quando il capitano Rogers aveva tentato di spiegare a Thor cosa fosse successo alla staziono di polizia. Con un tono solenne il signor Stark aveva posto il veto. Non voleva che se ne parlasse, almeno fino a che non ci fossero stati tutti
“Per non rovinare il colpo di scena” diceva lui... a questa grande dimostrazione di maturità erano seguite lamentele, rifiuti e alla fine Blue a tutto volume, affinché nessuno riuscisse a sentire quello che dicevano gli altri. Fatico ad ammetterlo, ma alla fine, il Capitano Rogers aveva accettato le condizioni del “terrorista” ed aveva cambiato argomento. Non servì a molto. Di qualunque cosa parlassero quei tre finivano per bisticciare. Solo Jarvis, come sempre, poté salvarmi da quell’asilo.
“Signor Stark, il Dottor Banner sta salendo”
Con uno sbuffo seccato, l’”eroe” in questione allargò le braccia, ringraziando il cielo, esasperato.
“Signor Stark, c’è anche un’altra questione che vorrei portare alla sua attenzione. La sicurezza sta riscontrando problemi all’ingresso per via di un individuo che non riesco ad identificare in alcun modo.”
Il capitano Rogers, elegante ed imponente, si alzò in piedi ed afferrò lo scudo preparandosi a sistemare la situazione. Con un gesto secco, Stark lo fermo.
“Tranquillo soldato, sarà una delle mie fan. Jarvis, dì all’agente della sicurezza di darle una mia foto autografata e di mandarla via.”
“Per l’esattezza è un ragazzo e chiede di poter incontrare la signorina Recidivo”
Me? Il lavoro per Stark, non mi aveva lasciato molto tempo libero ed io non ero mai stata particolarmente estroversa, quindi non conoscevo molta gente a New York. Di conseguenza non riuscivo proprio ad immaginare chi potesse essere... o meglio, non lo volevo immaginare, perché in effetti un ragazzo a New York lo conoscevo. Era davvero possibile che fosse lui?
“LEI? Chi è che la sta cercando?”
Il signor Stark mi stava indicando e sembrava di gran lunga più scioccato di me. Per un istante mi chiesi se fosse conscio di come aveva ridotto la mia vita sociale o se semplicemente non potesse credere che gli stessi rubato la scena...
 “Afferma di chiamarsi Corso, ma non ho alcun dato a supportare quest...”
Il mio squillo rese impossibile sentire la conclusione della frase. Non vado orgogliosa del mio atteggiamento, d’altronde posso scusarmi facendo presente che il mio cervello era andato in tilt. Saltellando come una bambina di sette anni a cui stanno per dare il regalo di compleanno iniziai a squittire ordini al povero Jarvis.
“Fallo salire! No! aspetta... scendo io! Digli che sto arrivando”
“Tu non vai da nessuna parte.”
Il tono del signor Stark fu perentorio. In un certo senso lo capivo... Aveva aspettato tanto per “riunire la squadra”, se me ne fossi andata avrei rovinato la sua rimpatriata strategica... io però proprio non potevo restare. Era da troppo che non vedevo Davide, non potevo lasciarlo nella hall da solo ad aspettare chissà quanto. Con lo sguardo più severo che mi riusciva corrugai le sopracciglia e mi piantai una mano sul fianco e sventolai il gesso con fare minaccioso.
“Signor Stark, mi dispiace rovinarle i programmi, ma a questo punto non credo che la signorina Natsha e il signor Clint arriveranno nella prossima mezz’ora, quindi io vado dal mio fidanzato e siccome sappiamo che non può licenziarmi se vuole che le racconti come sono andate le cose con il chi-coso, eviti di strillarmi addosso minacce inutili.”
Imitando la mia posa come avrebbe fatto una scimmia ammaestrata il signor Stark mi si piantò davanti.
“Signorina Nevrotica, mi spiace rovinarti i programmi, ma siccome oltre ad essere il tuo datore di lavoro io sono anche un tutore dell’ordine in quanto eroe riconosciuto delle più alte cariche dello Shield, ho l’autorità di ordinarti di restare per questioni di sicurezza mondiale. Quindi evita di strillarmi addosso e torna a sederti.”
Il tin sonoro dell’ascensore che era arrivato al piano sancì la fine dell’incontro e l’entrata in scena del Dottore Banner, che un po’ disorientato salutò i presenti.
Ero furibonda. Avrei potuto obiettare su più o meno tutto quello che aveva detto, a partire dal fatto che mi aveva appena cambiato il nomignolo fino ad arrivare alla certezza che nutrivo in me sul fatto che le carche dello Shield lo odiassero, e non dico le Alte Carche, ma tutte le cariche. Decisi però che non avrei fatto la figura dell’isterica davanti al mio eroe ed esercitando tutta la poca pazienza che mi era stata donata mi girai ed andai a salutare il dottor Banner, come avrebbe fatto una persona matura. Con cortesia, lui mi strinse la mano, lanciandomi quello sguardo di solidarietà, che solo chi ha che fare con un capo viziato come il signor Stark può capire. Io ricambiai sorridendogli il più innocentemente possibile, prima di scartarlo come avrebbe fatto Maradona e piroettare nell’ascensore alle sue spalle, sotto lo sguardo attonito del signor Stark. Ammetto che fui immensamente sorpresa quando constatai che l’ascensore non si bloccò a mezza strada. Ero profondamente convita che quantomeno il signor Stark avrebbe tentato di tenermi lì con la forza, al contrario riuscii ad arrivare a terra sana e salva. Sorridendo mi dissi che il portafortuna di Scott doveva finalmente aver iniziato a funzionare.
Appena le porte si aprirono il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. Rapidamente percorsi con gli occhi tutta la Hall. A pochi passi dalla porta d’ingresso c’erano tre agenti della sicurezza, tutti sguardi minacciosi e vestiti neri che mi lasciavano a malapena intravedere il ragazzo in mezzo a loro. Il bellissimo, fantastico, mozzafiatante, ragazzo in mezzo a loro. Cercando di darmi un contegno per non sembrare una bambina o una demente, mi incamminai. Col suo inglese imparato da autodidatta giocando hai videogame e parlando coi turisti, Davide stava sbraitando contro un tipo grande due volte lui che se volevano cacciarlo dovevano fare di più che minacciarlo con un taiser. Il suo accento marcatamente italiano rimbombava nella stanza, lasciandomi sulle labbra quello strano gusto di nostalgia che mi fece battere ancora più forte il cuore. Velocemente vaglia tutte le migliori frasi da film strappalacrime che mi permettessero di fare una degna entrata in scena, una cosa alla via col vento, che gli facesse balzare fuori il cuore dal petto. Mordendomi il labbro mi maledissi per non aver pensato a cercare uno specchio o qualcosa del genere prima di lanciarmi in ascensore. Dopo l’incontro con Thor e lo scontro con il signor Stark i miei capelli dovevano essere un disastro. Istintivamente mi passai una mano tra i ricci, sfiorando leggermente le garze... Cazzo! Mi voltai di scatto, riavviandomi verso l’ascensore. Altro che capelli! La mia faccia era mezza coperta da bende! Come avevo fatto a dimenticarmene? Non potevo farmi vedere da lui così. Mi bloccai a mezza strada, domandandomi se davvero non potessi. In fondo aveva fatto un viaggio infinito per raggiungermi. Proprio lui che era terrorizzato dall’aereo si era smazzato otto ore di volo. Non potevo lasciarlo lì ad aspettare il nulla. Mi voltai nuovamente per tornare da lui e da sotto quel maledetto berretto marrone dal taglio militare che non si toglieva mai, incrociai il suo sguardo. Il cuore saltò via dal mio di petto, facendomi dimenticare persino come si faceva a parlare.
“Ehy”
Non una frase da grande film d’amore certo... Ma sempre meglio di nulla dai.
Lo dico chiaramente: per una questione di decenza salterò tutta la parte che riguarda sbaciucchiamenti, flashback e pianti liberatori, quindi la successiva ora e mezza al nostro incontro. Ok, ok... Avevo lasciato intendere al Signor Stark che sarei tornata entro una mezz’ora... Ma a mio discapito posso dire che il mio solo orologio era quello sul cellulare, allora ancora classificato come prova nella stazione della polizia. Stazione che tra l’altro, almeno per quanto ero riuscita a capire, era stata mezza distrutta da un Chitauro. Quindi, tenendo presente che Davide non aveva l’abitudine di portarsi dietro aggeggi metallici, per calcolare l’ora non avevo che la mia percezione del tempo, molto distorta dalla presenza del mio fidanzato che non vedevo da mesi e si stava comportando da vero gentiluomo consolandomi con frasi tipo: “andrà tutto bene” o “Sei bellissima comunque” a cui non credevo per nulla, ma che mi faceva molto piacere sentire.
La prima cosa che avevo fatto, tra una lacrima e l’altra, era stata chiedergli di allontanarci dalla Stark Tower (e quindi da quel pazzoide del mio capo). Così, dopo un breve viaggio in auto ci infilammo in un bar a caso per parlare un po’ in pace e ci sedemmo ad un tavolo non molto distante dal bancone. Il locale non era un gran che... a dirla tutta puzzava di fritto, era troppo pieno di tavoli da bigliardo perché ci si potesse muovere comodamente ed era bazzicato da gente il cui habitat naturale dovevano essere i vicoli bui del bronx. Comunque, non me ne sarebbe potuto fregare di meno. Ero al settimo cielo, finalmente ero tra le braccia del mio fidanzato che era del tutto intenzionato a sposarmi con o senza faccia da mummia. Sarei potuta restare in quella bettola per tutta la vita, sfortunatamente uno schianto sonoro appena fuori dal locale, mi riportò al mondo reale, sancendo la fine della mia pausa.
“Che diavolo...
Davide allarmato si era girato di scatto verso la porta, come metà del locale d’altronde. Con un sorriso riconciliante, venato di stizza mi alzai sospirando. Purtroppo io c’ero abituata a quel genere di cose pallose.
“Tranquillo amore, deve essere quel cretino del mio capo”
Con un sopracciglio alzato lui mi fissò. Non era una cosa normale quella. D’altronde si sarebbe presto reso conto che molto poco della mia vita a New York era classificabile come “normale”. Come per confermare quel pensiero la porta d’entrata venne sradicata dai cardini e scagliata sulla strada. Uno stridente rumore di freni riempì l’aria, mentre una bestia dalla pelle azzurrognola si piegava per entrare dalla soglia. Mentre io a bocca aperta osservavo la scena, il barman, un uomo di mezza età con le basette, prese, come se fosse la cosa più normale del mondo, una rivoltella da sotto il bancone e sparò in testa al chitauro. Il colpo rimbalzò sull’elmo metallico della bestia, scalfendolo. Nel locale la gente iniziò a gridare minacciosa. Qualcuno dal fondo lanciò una bottiglia di birra, che andò a frantumarsi sul muro, a qualche centimetro dalla belva, che per un istante parve scioccata, forse persino più di me, dalla scena che aveva davanti. Delle formiche lo stavano minacciando. Un verso roco che per un istante scambiai per una risata iniziò a crescere dalla gola della bestia, fino ad esplodere in un grido agghiacciate, che saturò l’aria, annientando ogni altro suono. Avevo ancora la bocca spalancata e gli occhi sgranati, quando Davide mi afferrò, trascinandomi sotto il tavolo. Non era un gran che come riparo certo, ma se fossimo stati fortunati saremmo passati inosservati. Mi aggrappai a lui, che tremava quanto me. Forse di più. Fissammo il chitauro che avanzò nel locale fino ad arrivare al bancone, dietro a cui si era rannicchiato l’intrepido barman. Il resto dei coraggiosi si erano precipitati verso l’unica uscita d’emergenza, e si stavano strattonando a vicenda, per uscire prima. Ancora gridando la bestia sradicò il banco a mani nude e lo gettò contro la porta antincendio. Il mobile, impattò contro il metallo e ricadde sulla folla. Grida strozzate, di dolore e paura sovrastarono quelle della bestia, che come per riaffermare la sua importanza afferrò con una mano sola il barman e lo fissò per qualche istante. La sfacciata sicurezza sul volto dell’uomo era scomparsa, nonostante tenesse ancora la rivoltella tra le mani. Anche se si trovava distante una quindicina di metri potevo vedere chiaramente le sua mani tremare, mentre tentava nuovamente di puntargli l’arma contro. Prima che avesse il tempo di premere il grilletto la bestia lo lanciò via con noncuranza. Gridando il corpo dell’uomo cadde pesantemente su un tavolo da bigliardo, non lontano da noi, e rotolò a terra, trascinando con sé numerose sfere di finto avorio. Dovetti tapparmi la bocca con una mano, per impedirmi di gridare. Non c’era sangue sul corpo dell’uomo, ma la sua spalla si era assestata in una posizione innaturale ed aveva smesso di gridare. Affianco a me, il corpo di Davide s’irrigidì. Mi voltai verso di lui, cercando qualche parola di conforto, che più che dire, avrei voluto ascoltare. Era spaventato questo sì, ma c’era qualcosa d’inquietante nel suo sguardo, che mi costrinse a seguirne la traiettoria fino ad arrivare all’oggetto del suo interesse. La rivoltella del barista era a terra, non molto distante da noi. Con l’unica mano buona strinsi Davide con tutta la forza che avevo, tentando di far sembrare la mia voce sussurrante perentoria.
“No. Toglitelo dalla testa. Se strisciamo sotto i tavoli possiamo arrivare all’uscita senza essere visti e chiamare i Vendicatori”
Con una mano tremante cercò di allontanarmi piano, ma io mi opposi.
“È una buona idea. Fallo.”
Mi sorrise, con quel suo sguardo cretino da “andrà tutto bene” a cui non credevo per nulla, poi con uno strattone deciso si liberò dalla mia presa ed avanzò a carponi verso l’arma. Avrei voluto fermarlo, ma sapevo quanto era cocciuto e che l’unica cosa che sarei riuscita a combinare sarebbe stata farlo scoprire. Incerta sul da farsi lo sguardo mi finì sul barman che aveva perso i sensi, o peggio. Non mi avvicinai. Non sapevo nulla di medicina, anche se fossi andata da lui non l’avrei saputo aiutare. L’unica cosa che davvero potevo fare che fosse vagamente utile era cercare di chiamare gli Avengers. Cercando di capire quale fosse la strada più sicura mi guardai intorno. Il chitauro, mi aveva superata ed ora mi dava le spalle. Si era diretto verso la folla. Strillando, in un impeto di rabbia, una ragazza gli spaccò addosso una stecca da biliardo. Senza alcun graffio, la belva si girò verso di lei e l’afferrò per un braccio, alzandola. Le grida terrorizzate della ragazza furono coperte per un istante dallo scoppio di un’arma da fuoco. Il chitauro la lasciò cadere a terra e si voltò, attratto dallo sparo. Nonostante il primo colpo fosse rimbalzato via Davide tentò ancora. Per nostra fortuna l’armatura della bestia era ben diversa da quella dell’aggressore alla torre dei vendicatori. probabilmente era un modello più leggero, vista la mancanza delle placche pettorali. Fu appunto alla parte del torace rimasta scoperta che Davide mirò. Il colpo arrivò a segno e si conficcò nel corpo della bestia, anche se non parve affondare molto. Più irritato che ferito il mostro iniziò a liberarsi la strada verso la sua vittima, lanciando da parte qualunque ostacolo incontrasse. Arretrando per ristabilire la distanza Davide premette nuovamente il grilletto. Guardando il colpo andare a segno compresi che non sarebbe servito a nulla. Non c’era nulla di umano nel mostro che avevamo davanti. Non si sarebbe fermato, qualunque cosa avessimo fatto. Tremando strisciai all’indietro senza rendermi conto di star uscendo dal mio nascondigli. Ero finita dove un tempo si era trovato il bancone. La belva, accecata dall’ira, non mi degnò di uno sguardo e procedette, gridando, verso l’immagine ormai resa sfocata dalle lacrime del mio promesso sposo, che continuava quel suo disperato tentativo. Per quanto indietreggiasse, ostacolato dai tavoli, Davide non procedeva velocemente e la distanza tra loro si riduceva in fretta. All’ennesimo sparo mi voltai dall’altra parte. Non avrei sopportato di vedergli fare la fine del barman. Il rosso acceso di un estintore, nascosto nell’ultimo pezzo di bancone rimasto mi illuminò lo sguardo come un miracolo. Mi rimisi in piedi ed andai a prenderlo, decisa ad usarlo per accecare la bestia e poi pestare quel mentecatto del mio ragazzo che aveva deciso di mettersi a fare l’eroe a così poco tempo dalle nostre nozze. Era pesante ed io con un braccio ingessato non riuscivo ad avere una prese decente su quell’aggeggio. Sentii un grido strozzato, ma tentai d’ignorarlo e finsi di non riconoscere quella voce. Con il cuore che mi batteva all’impazzata appoggiai l’estintore sul bancone e con un agilità che non avevo mai avuto, sganciai la sicura. Senza staccare gli occhi sulla bombola rossa, per non vedere cosa mi accadesse attorno, presi il tubo nero con la mano buona e premetti col gesso il gancio. Una densa scia bianca si espanse nell’aria. La belva si voltò verso di me, finendo nel getto di polveri chimiche. Il suo grido di rabbia mi riempì la testa facendomi gelare il sangue nelle vene. Improvvisamente compresi che sarei morta lì. Immobile osservai la belva lottare per avanzare contro il getto, mentre una nuvola bianca le si attorcigliava attorno. Dopo pochi istanti la bestia fu ad un passo da me. Tanto vicina che se avesse allungato una mano mi avrebbe afferrata. Non lo fece. Le sue mani erano contratte al peto, stringendosi le ferite causate dai fori di proiettile. Una mano mi afferrò tirandomi di lato, allontanandomi dal bancone. Afferrai quella mano con tutte le mie forze, mentre lacrime di gratitudine mi riempivano gli occhi. Davide era vivo. Prima che me ne rendessi conto fui fuori dal piccolo locale. L’aria fredda mi attanagliò il corpo, riscuotendomi dallo stato di panico in cui ero precipitata. Ancora stringendo la sua mano diedi uno strattone a Davide costringendolo a fermarsi.
“Adesso niente più stronzate. Andiamo a chiamare i Vendicatori”
Lui mi fissò per un momento esterrefatto. Forse il mio tono era stato più duro del voluto, comunque se lo meritava visto quant’era stato idiota. Lui aprì a bocca, come per ribattere. La richiuse senza proferire parola. Non infierii, non era il caso. Avevo vinto ed era palese che non potesse dirmi nulla per scusarsi. La voce metallica proveniente da un altoparlante riempì il silenzio innaturale che era sceso tra noi.
“Signori, dirigetevi rapidamente dietro il posto di blocco”
Alzai gli occhi, eravamo in piedi, in mezzo alla strada, circondati da auto della polizia.
“Sai… credo lo sappiano già”
L’odio mi riempì gli occhi. Ho sempre detestato aver torto. Specialmente con lui. Specialmente dopo aver fatto la figura dell’idiota per non essermi accorta di sei auto della polizia ed un cospicuo numero di poliziotti. Un ringhio profondo riempì l’aria... E non era il mio. Il chitauro emerse dal locale, colmando rapidamente la distanza che lo separava da noi. Arrancava, ma non mi sembrò meno pericoloso. Al contrario, l’ira che gli riempiva gli occhi sembrava renderlo in grado di ammazzarci tutti.  Davide mi strattonò per allontanarmi dalla bestia e farmi cenno che era ora di darsela a gambe. La bestia fu più veloce. Con un gesto secco artigliò il mio fidanzato, sollevandolo da terra. La mia stessa voce riempì l’aria con un grido di terrore. Col viso contratto in uno spasmo di dolore la bestia ritrasse la mano. Lasciando che Davide crollasse a terra. L’aria, piena di elettricità statica sfrigolò quando afferrai il mio fidanzato per la maglietta, per spronarlo a rimettersi in piedi. La belva fece prima di lui. Era immortale. Non c’era nulla che potessimo fare per fermarlo. Una scia blu, bianca, rossa squarciò l’aria e si conficcò nel petto del Chitauro. Senza un gemito la belva crollò a terra. Il ritmo profondo scandito dai passi di un eroe prese il posto del pulsare forsennato del mio cuore, riportando il mondo alla tranquillità. Senza una parola d’autocelebrazione Capitan America si accostò al corpo del nemico sconfitto e con uno strattone elegante riprese possesso della sua arma. Splendido, nella sua uniforme a stelle e strisce si voltò verso di noi con uno smagliante sorriso.
“Tutto a posto miss Recidivo?”
Il mio cuore perse un battito. Un chitauro aveva appena tentato d’uccidermi.. di nuovo. Senza contare che con un braccio rotto e la faccia mummificata avrei dovuto passare le giornate a farmi coccolare dalle infermiere, altro che bar mezzi distrutti e mostri assassini. Un profondo sospiro d’ammirazione mi sfuggì dalle labbra.
“Sì, magnificamente”
Fosse stato il signor Stark, lo ammetto, gli avrei sfuriato contro… Ma come potevo incavolarmi davanti all’uomo che oltre ad avermi appena salvato la vita, era pure l’eroe della mia infanzia.
“Ora dovreste recarvi dai paramedici”
“sì, è meglio.”
Con uno strattone poco gentile Davide mi trascinò via. La sensazione di sollievo che mi aveva invasa sentendo la voce sicura di Cap sparì nell’istante in cui finii tra le grinfie dei paramedici. Provo molto rispetto per i paramedici e lo staff medico in generale e capisco quanto il loro  lavoro sia importante, solo… quando sei appena stata terrorizzata da un chitauro, avere un tizio che ti acceca puntandoti una luce negli occhi non è proprio la tua massima aspirazione. Non mi visitarono a lungo. C’erano molte persone in condizioni gravi e non era il caso di perdere tempo con me. Così, senza aver realmente capito cosa stesse accadendo, mi ritrovai seduta sul marciapiede opposto a quello del bar, con una coperta sorprendentemente calda sulle spalle, in attesa che qualche poliziotto mi interrogasse. Avrei potuto aspettare in eterno. Non c’era nemmeno un agente che fosse lì a far nulla. Tra vigili del fuoco, paramedici e poliziotti sembrava che l’intera New York si fosse mobilitata. In qualche modo, quello era davvero uno spettacolo rincuorante, ma io non riuscivo in nessun modo a calmarmi. Forse era solo colpa del frastuono che le operazioni di soccorso creavano, o forse era solo colpa della voce fastidiosa del signor Stark, che era arrivato sul luogo assieme a Cap e Thor, ma al contrario loro, non riusciva a dare una mano senza pavoneggiarsi come una cheerleader. Più probabilmente però era solo colpa si Davide, che dopo aver tentato di farsi ammazzare, era stato inghiottito dalle autorità ed era sparito. Non so se fosse più per il bisogno che avevo di sapere che stesse bene o se semplicemente lo volessi lì accanto a me, ma non potevo fare a meno di cercarlo con gli occhi e maledirlo per la sua assenza. Certo, mi rendevo conto che quella non era una situazione normale e che c’erano cosa ben più importanti da fare che consolare me, ma io non riuscivo a smettere di volerlo accanto a me… Mi alzai. Non aveva senso restare lì a tremare. Se Davide non veniva da me, non mi restava che andare a prendermi una cioccolata calda. Non mi avrebbe fatto bene quanto vedere lui, ma sarebbe stata un’ottima sostituta. Mi guardai attorno, cercando un bar o qualcosa di simile. Non dovetti cercare molto. In fondo alla strada c’era un locale con una grande insegna luminosa che recitava “coffee” a chiare lettere. La perfezione fatta a locale. Decisa a raggiungere il mio obbiettivo, mi strinsi la coperta sulle spalle, tenendola ferma con la mano buona e superai il nastro giallo della polizia. Dovetti spintonare un po’ per farmi largo tra la folla di curiosi che si era radunata lì attorno. Per un lungo momento, mentre tiravo spallate, li odiai. In tutta sincerità non riuscivo a capire quale piacere sadico li spingesse a stare fermi in piedi a congelare, per osservare un locale distrutto e della gente ferita. Dovevano essere malati. Io avrei dato qualunque cosa per essere in un altro posto e non aver mai visto quel locale. Non potei non sentirmi sollevata quando infine li superai. Finalmente fuori da quella barriera umana, tirai un sospiro. Davanti a me la strada era semivuota e l’insegna del locale continuava a brillare invitante. Il peggio era passato, ora non dovevo fare altro che colmare quei cinquecento metri che mi separavano dalla caffetteria. Non erano poi molti cinquecento metri. Anzi erano pochi. Se fosse successo qualcosa, mi sarebbe bastato gridare per attirare l’attenzione di metà della polizia di New York. Non c’erano problemi. Già, e poi che sarebbe dovuto succedere? Nessun alieno era tanto stupido da attaccare la terra nell’esatto punto dove si trovano gli Avengers… Senza contare che, come diceva mia nonna, un fulmine non cade mai due volte nello stesso punto, quindi era davvero improbabile che accadesse qualcosa proprio a cinquecento metri dall’ultimo posto in cui era caduto un fulmine. Non mi restava che andare e l’avrei fatto se le mie gambe non si fossero rifiutate di collaborare. Erano intorpidite dal freddo o dalla stanchezza. Mi voltai, ponderando l’dea di tornare dentro al nastro giallo, la scartai all’istante quando rividi la barriera di gente. Non era tanto l’idea di doverli superare di nuovo che mi disturbava, quanto il chiasso che facevano. Le loro voci confuse mi riempivano la testa, causandomi un principio d’emicrania. Al confronto loro la strada vuota che avevo davanti, si trasformava in uno spettacolo davvero allettante. Feci qualche passo, per allontanarmi dal caos e istantaneamente il mondo mi sembrò più silenzioso. inizialmente la calma mi diede un po’ di forza per fare qualche altro passo, ma l’energia si esaurì praticamente subito e la strada iniziò a vorticare attorno a me. Con le gambe intorpidite mi fu impossibile mantenere l’equilibrio e caddi a terra. Rimasi lì a terra per qualche istante. Improvvisamente il freddo si fece più intenso attorno a me. Ero stata incredibilmente stupida a decidere di andarmene. Ero stata stupida ad allontanarmi. Feci uno sforzo e mi rimisi in piedi, ma nuovamente la testa prese a girarmi prepotentemente. Provai a chiudere gli occhi. Fu inutile, non c’era modo di far smettere il mondo di ondeggiare. Un braccio mi girò attorno alle spalle facendo l’impossibile e fermando l’universo. Non mi sottrassi a quella stretta. Qualcosa dentro di me mi diceva che ero al sicuro, senza contare che non avevo affatto vogli di spezzare quel momento perfetto di pace.
“Va meglio?”
Quella voce gentile mi fece riscuotere, allarmandomi. Sapevo di chi era quella voce. Cercando un buon compromesso tra gentilezza e decisione, mi sottrassi alla stretta di Scott. Non volevo che fraintendesse. Io ero fidanzata. Lui mi guardò con aria un po’ dubbiosa. Forse ero io che stavo fraintendendo. Improvvisamente mi sentii stupida. Non era affatto detto che lui ci stesse provando… poteva anche essere che avesse capito il rifiuto della volta scorsa e che adesso fosse semplicemente gentile.
“Sì, grazie…”
Glielo boffonchiai in modo impacciato, ma lui finse gentilmente di non notarlo. Con uno di quei suoi sorrisi-non-sorrisi alzò il vassoio di cartone che teneva due enormi bicchieri di carta. Un forte profumo di cioccolato mi riempì le narici. Nella mia testa fece eco la voce di mia madre, che mi ripeteva di non prendere caramelle dagli estranei e quella di mio padre, preoccupato che qualcuno mi mettesse una droga nel bicchiere se solo l’avessi perso di vista per un nanosecondo. Presi il bicchiere e gli diedi un piccolo sorso. Era buonissima. In una situazione normale avrei rifiutato, ma come già detto ero fiduciosa che un fulmine non potesse cadere due volte nello stesso punto.
“È buonissima… come lo sapevi?”
Lui mi fissò per un attimo con innocenza, poi scrollando leggermente le spalle.
“Era per un’amica… ma vista la situazione, credo te la sia meritata”
Per un lungo istante pregai che la terra si aprisse e mi inghiottisse. Non lo fece, così fui costretta a combattere contro l’imbarazzo per aver nuovamente frainteso tutto. Ero un’idiota completa. Inspirai profondamente, sforzandomi di sorridere.
“Scusa…”
Mi fece cenno di seguirlo. Per qualche istante lo osservai camminare incerta sul da farsi. Non mi andava di girare per la città. Non mi andava neanche di restare sola o riprovare a superare la folla. Rimasi immobile, ad osservarlo allontanarsi, mentre il cuore incrementava il suo ritmo di battito in battito. Si era allontanato da un’istante, o forse camminava già da diversi minuti, non avrei saputo dirlo. Quello che potevo dire era che si era già allontanato enormemente. Mi aveva lasciata sola. Ero sola. Improvvisamente la testa riprese a girarmi e non potei fare a meno di desiderare che Scott mi riprendesse nuovamente tra le sue braccia, impedendomi di cadere a terra. Forse gridai. Certamente le mie labbra si aprirono, ma non so dire se ne uscì qualche suono. So che caddi, lo so perché mi ritrovai a terra. Per un’istante caddi nell’oscurità. Quando ne riemersi nessuno si era voltato. Nessuno mi aveva vista o sentita. C’erano molte persone in quella strada e nessuno s’era accorto di me. Inspirai profondamente, facendomi forza sulla mano sana per rimettermi in piedi. La presa, prima ancora che riuscissi ad affermarla, mi scivolò. Il mio braccio destro. Il mio bracci sano era immerso in una pozza calda, che mi fece rabbrividire. Per un lungo istante mi chiesi se mi stesse facendo male oppure no. L’unica cosa che sentivo era freddo. Avrei voluto rialzarmi o quantomeno tirarmi nuovamente addosso la coperta, ma la paura di cadere nuovamente a terra bloccò i miei muscoli, immobilizzandomi. L’ombra di Scott mi coprì, mentre la sua mano mi afferrava con forza la spalla e mi tirava dolcemente. Non si fermò quando fui seduta. Continuò a tirarmi con forza finché non fui nuovamente in piedi. Con la coda dell’occhio guardai la pozza che mi ero lasciata dietro, il bicchiere di carta ancora galleggiava nella cioccolata. Che spreco. Scott non diceva nulla. Immobile mi fissava con uno sguardo strano che trasudava dispiacimento.
“Sto bene! Sono solo caduta… Sono una ragazza goffa. Mi spiace solo per la cioccolata”
Raccolse da terra la coperta, me la avvolse attorno alle spalle e mi sorrise, per una volta mi sembrò un sorriso vero.
“Mi concederesti l’onore di offrirtene un altro bicchiere?”
Non ce l’avrei mai fatta. Il bar più vicino era ad una distanza che ormai mi pareva incolmabile. Come se non se ne rendesse conto lui mi porse il braccio, invitandomi ad aggrapparmi a lui o a procedere a braccetto, come una coppia ottocentesca. Era buffa la sua galanteria, ma faceva la sua grassa figura.
“Sai… Sembra davvero comodissimo quel marciapiede, io opterei per sedermi lì”
Lui chinò il capo in un cenno d’assenso, continuando a tendermi il braccio. Sarebbe sembrato uno scemo se l’avessi ignorato, quindi l’afferrai. Effettivamente era dannatamente comodo quel marciapiede. Probabilmente era solo colpa della stanchezza che mi sentivo addosso, ma fu una vera gioia potermi sedere tranquilla.
“La prima volta che ci siamo incontrati ero fradicia, la seconda in un letto d’ospedale ed ora sono coperta di cioccolata. Ti sarai fatto una pessima opinione di me”
Rise. Fu una risata soffocata, come se volesse nasconderla, ma la sentii nitidamente. Era la prima volta che sentivo ridere qualcuno così.
“Al contrario, direi che sono impressionato. Ho visto come hai respinto il chitauro…”
Pur non abbandonando il suo sorriso di vetro, il suo sguardo era diventato improvvisamente duro, serio. Non sapevo che film avesse visto lui mentre io gridavo come una pescivendola in mezzo alla strada, ma sicuramente non era lo stesso che avevo vissuto io.
“aha… l’avrò terrorizzato con il mio urlo de banshee”
Lui mi fissò per un attimo dubbioso, come se si stesse domandando se lo stessi prendendo in giro o ci stessi credendo davvero. Ad onor del vero, dovevo ammettere che tutti i torti non ce li aveva. Qualcosa di miracoloso aveva davvero respinto la belva prima che stritolasse a morte il mio ragazzo, ma da lì a dire che ero stata io c’erano mille anni luce di distanza. 
  
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