Sedeva
al tavolino in quel bar, sorseggiava sfogliava le pagine di un libro, un
libriccino di colore rosso scuro, come di sangue raggrumato. Teneva su gli
occhiali scuri, che ne nascondevano le iridi al sole flebile di quel pomeriggio
d’autunno e restava immobile, passando gli occhi dalle pagine ingiallite ai
tavolini occupati. Guardava alcuni ragazzini, forse diciottenni, forse più
piccoli, mentre occupavano con la prepotenza tipica della giovinezza diversi
tavolini, spostandoli e unendoli per poter stare tutti vicini. Poi tornava a
leggere quelle righe scritte a penna, mentre l’udito captava le grida e il
brusio tipico dei locali.
La
cameriera si avvicinò con un vassoio in mano, e con sorriso di circostanza,
senza dire una parola, appoggiò una tazza vuota vicino al suo braccio,
appoggiato comodamente sul tavolino, una teiera fumante e un piattino con
qualche biscotto dolce coperti di zucchero a velo.
“Il
suo the” disse sbrigativa, ma cortese, rivolgendo un ultimo sorriso e
allontanandosi senza aspettare una parola dal suo cliente.
I
suoi gesti erano calmi, freddi, a guardarli bene sembravano tutti studiati a
tavolino. Posò il libriccino sul tavolo, lasciandolo aperto alla pagina che
stava rileggendo, e aprì la teiera, poggiando il coperchio su un lato, su un
fazzoletto di carta messo lì qualche istante prima che la cameriera si
avvicinasse. Tirò il filo che reggeva il filtro contenente l’erba e, con il
cucchiaino, lo strizzò con un gesto sicuro, usando il filo stesso avvolto
attorno alla posata e al sacchetto poroso. Le goccioline di the ricaddero nella
teiera, con un suono sordo, che nessun’altro sentì. Poggiò il filtro sul
fazzolettino e richiuse la teiera, versando il liquido ambrato nella tazza,
tenendo con una mano il coperchio e con l’altra l’impugnatura. Poi con il
cucchiaino iniziò a girare. Non aveva messo zucchero, ma girava comunque quel
liquido. Si rilassava con quel gesto.
Gli
occhi si spostarono di nuovo verso i ragazzini. Ne erano arrivati altri nel
frattempo, e tutti si affollavano a quei due tavolini con gran baccano. Da
lontano la cameriera alzò gli occhi al cielo e fece un profondo sospiro,
dopodiché tirò fuori il taccuino delle ordinazioni e si avviò nella loro
direzione.
Una
ragazza, dal gruppo si accorse del suo sguardo. Aveva incrociato i suoi occhi,
ma, nel dubbio, aveva subito distolto lo sguardo, continuando a prestare
attenzione al suo amico. Poi, in un secondo momento, forse per cercare
sicurezza, tornò con gli occhi verso quegli occhiali scuri, che nascondevano
l’occhio alla vista. Continuava a non essere sicura, non riusciva a capire se
quella persona stava guardando proprio il suo gruppo o se era la sua
immaginazione. Così smise di puntare i suoi occhi in quella direzione, cercando
di non pensarci più.
Avvicinò
la tazza alle labbra. Soffiò leggermente, spostando il vapore profumato, e provò
ad assaggiare la sua bevanda. Si scottò le labbra e il palato, ma non fece un
movimento che potesse farlo intuire. Semplicemente riappoggiò la tazza nel
piattino che l’ospitava e prese un biscotto, che rinfrescò leggermente la sua
bocca. Il tutto senza perdere per un secondo la sua calma.
Continuava
a guardare in direzione di quel gruppetto. La ragazzina sentì nuovamente il suo
sguardo. Arrossì leggermente, forse si indispettì, così prese per il braccio una
sua amica e insieme si alzarono e si diressero verso il bagno delle donne. Nella
muraglia umana si formò così uno spazio, un vuoto che finalmente permise al suo
sguardo di arrivare al suo obiettivo: Cybil Bennet.
Era
seduta da una ventina di minuti al tavolino immediatamente alle spalle dei
ragazzini, e parlava con un uomo compostamente. Lo aveva riconosciuto, era quel
tizio dell’edicola di fronte all’ospedale. Così afferrò una penna dal taschino e
iniziò a scrivere, con la mano sinistra, mentre con la mano destra continuò a
girare il suo the con freddezza.
La
temperatura del liquido adesso non era più in grado di bruciare sulla sua
lingua, così prese un grosso sorso. Si accorse che la cameriera aveva portato il
conto al tavolo dov’erano i due. Cybil si alzò e si rimise gli occhiali da sole.
Uscì velocemente dal locale sorridendo all’uomo che aveva di fronte, che invece
rimase ancora con le braccia incrociate sul tavolo.
Prese
un altro sorso di the, aspettando che anche l’uomo andasse via. Ma sembrava che
stesse aspettando qualcosa.
D’un
tratto incrociò i suoi occhi. Gli occhiali non avrebbero dovuto far capire dove
lo sguardo era direzionato, e invece lui sembrava guardare proprio nella sua
direzione, e sorrideva mentre lo faceva. Poi la ragazzina tornò dal bagno e si
sedette al suo posto. Così finì velocemente il suo the e lasciò una banconota
sotto la tazza. Si alzò e guardò nuovamente verso il tavolino dov’era seduto
l’uomo. Ma quello non c’era più. Al suo posto una banconota sotto una tazza.
Guardò verso l’entrata, ma tutto sembrava tranquillo. Di quell’uomo non c’era
più traccia.
La macchina
arrivò a destinazione. Dopo qualche ora di viaggio erano
finalmente arrivati a Portland, con le prime luci del mattino. Per strada non
c’era ancora nessuno, o forse non c’era più nessuno. Né quelli che si alzano
presto per lavorare, né quelli che lavorano fino a tardi nei locali, i
musicisti, i teatranti, tutta quella serie di persone che vivono la notte con
più piacere del giorno. Quello era il momento morto, in cui, se qualcuno era
sveglio, guardava comodamente l’alba dal vetro di un balcone o di un finestrino
della macchina da cui non vogliono scendere per non andare a dormire ancora, per
rubare qualche istante di tranquillità.
Cheryl era
riuscita a dormire per un po’, forse a causa del cloroformio che ancora la
intontiva. Douglas aveva guidato tutto il tempo e si vedeva da lontano che era
esausto, che aveva bisogno di riposare. Ma non lo avrebbe mai dato a vedere e
poi era troppo agitato per pensare di dormire. Cybil invece sembrava non
accusare la notte insonne; anche se i suoi occhi erano arrossati e dei solchi
violacei erano comparsi sulla pelle, continuava a guardare fissa di fronte a sé,
con sguardo sicuro.
Le uniche
parole che erano uscite dalla sua bocca erano le indicazioni per raggiungere il
palazzo che avrebbero dovuto raggiungere.
E ora,
mentre scendevano dall’auto parcheggiata, tutto sembrava quasi tranquillo, meno
pesante da sopportare. Anche l’aria aveva un sapore diverso in bocca. In quel
momento della giornata in cui le auto non hanno cominciato a rilasciare i loro
gas, in cui non c’era un solo rumore, in cui nessuno avrebbe potuto giudicare
due persone in pigiama e una terza con un impermeabile stropicciato e sporco di
sangue su una manica, armate di pistole, che camminavano tranquillamente su un
marciapiedi verso il portone che fortunatamente era
aperto.
“Le
chiavi…” si ricordò Cybil solo in quel momento.
“Che cosa?!
Vuoi dire che non possiamo entrare adesso?”
Cheryl,
ormai sveglia, aveva ripreso il suo cipiglio solito.
“Siamo
andati troppo di fretta, le chiavi sono nella mia macchina, e io non ho un soldo
e nemmeno i documenti…è rimasto tutto a casa tua…”
“E allora
cosa si fa?” domandò Douglas cercando di mantenere la
calma.
Cybil si
guardò attorno. Il portiere non aveva ancora aperto il gabbiotto, per cui c’era
una buona notizia e una cattiva.
“…la buona
è che non ci vedrà e non farà domande. La cattiva è che dobbiamo trovare un modo
per aprire quella porticina e recuperare la chiave di riserva che ha
lui.”
“La porta è
di vetro, sfondiamola ed è fatta” disse Cheryl noncurante.
Ma Douglas
era più attrezzato. Estrasse una specie di astuccio dalla tasca interna del suo
impermeabile dove erano conservati dei ferretti particolari. Con quelli riuscì a
forzare la serratura e ad aprire la porta senza lasciare traccia. Cybil sorrise
sorpresa, mentre il detective si rialzava a fatica a causa della gamba che
ancora doleva. Entrò nel gabbiotto e prese la chiave, dopodiché salirono
velocemente.
Il
ticchettio dell’orologio a muro lo rilassava. Scivolò con il bacino in avanti
sul divano bianco, dopo essersi guardato attorno con molta attenzione per
qualche minuto. Un arredamento essenziale, eppure ben distribuito e
apprezzabile. Notò subito l’assenza di fotografie di ogni genere, nulla che
indicasse un passato recente o lontano che sia, solo piante e specchi. A Cheryl
non era piaciuto per niente quel particolare; gli specchi la inquietavano, era
come se dentro ci vedesse qualcosa che la impauriva.
Vide un
computer su di una scrivania ben ordinata, non una carta fuori posto, il cestino
immediatamente sotto era svuotato e pulito, e c’era un libro appoggiato in modo
da avere gli spigoli paralleli al contorno del tavolo, quasi fosse stato messo
in quel modo appositamente, con meticolosa attenzione.
Le ragazze
erano sparite da un po’, e si sentivano pochi rumori, non un risolino, poche
parole, rumore di vestiti perlopiù, udibili a causa del silenzio profondo tipico
della mattina. Poi l’acqua. Acqua che scorreva in quantità, una doccia
probabilmente. Certamente, Cheryl voleva togliersi da dosso l’odore di
cloroformio, il sudore, la sporcizia accumulata strusciando su muri, su
pavimenti lerci, come quello del tetto sopra la sua
abitazione.
Cybil uscì
completamente vestita. Quando sentì la porta aprirsi, Douglas si voltò, per
curiosità forse, avrebbe voluto vedere se c’era qualcosa che descrivesse Cybil
non come una persona con disordini ossessivi-compulsivi, che la spingessero a
tenere tutto in ordine e pulito. Ma riuscì a intravedere solo una porzione del
letto su cui erano appoggiati degli altri vestiti puliti, probabilmente quelli
che la donna aveva preparato per Cheryl, per quando fosse uscita dal
bagno.
Sorrise.
Era stanca, si vedeva lontano un miglio, ma sorrise, richiudendo la porta alle
sue spalle e sedendosi su una poltrona di fronte al divano che ospitava il
detective e il suo bastone. C’era spazio sul divano, anche per sedersi lontano
dall’uomo, tuttavia scelse di sedersi di fronte a lui. In una situazione simile
chiunque avrebbe cercato di evitare il contatto visivo, gli occhi negli occhi, e
invece lei scelse di stare a distanza mantenendo il contatto con i suoi occhi
azzurri.
Poi fu
silenzio.
Per molti
secondi fu silenzio.
Finché
Douglas non cedette…
“Perché hai
sparato?”
Non era
inquisitorio, non c’era nessun trasporto, nessuna enfasi, era una semplice
domanda, lecita. E Cybil sapeva che era una domanda del tutto giustificata, ma
si meravigliò di quanto quell’uomo riuscisse a mantenere la calma e a non
caricare le sue parole di sentimenti negativi.
“A suo
tempo Douglas. Siamo qui per continuare questa storia. Voglio arrivare fino in
fondo, e stavolta voglio che tu ascolti ogni parola.”
“Siamo in
pericolo, vero?”
“Cheryl
purtroppo non sarà mai al sicuro”
“Non parlo
di Cheryl…”
La donna si
bloccò e rimase con il suo sguardo interrogativo. Un eloquente sguardo che bastò
per far continuare Douglas.
“…siamo
tutti in pericolo. Possono ancora evocare le tenebre! Quell’altro mondo distorto
in cui siamo stati tutti e tre. Quella cosa che ho colpito si muoveva
convulsamente a terra, l’aria era più pesante, faceva caldo, non c’era nessuno,
non hanno sentito gli spari. Vogliono ancora evocare quella mostruosità, e
Cheryl può ancora farlo!”
Cybil
aspettò un momento prima di rispondere. E prima di parlare, un istante prima
piegò le labbra, in modo da sorridere quasi impercettibilmente, in una smorfia
del viso quasi rassicurante e al tempo stesso raggelante.
“Si”
Quel modo
di rispondere, la situazione assurda o forse solo la paura che provava in quel
momento fece sbuffare l’uomo, uno sbuffo che era principio di una risata
soffocata.
È
incredibile come certe persone, nei momenti più bui della loro esistenza, nel
momento in cui si sentono totalmente esposti e in pericolo, affrontino tutto con
una risata. Potrebbero piangere, urlare, soffrire in silenzio, compostamente, o
sbraitare, tutto sarebbe giustificato in quei momenti. Invece loro ridono, e
talvolta ridono di gusto. Ciò che non riescono a capire li fa ridere. Lo
affrontano come un’impresa forse, oppure è il loro modo di rassegnarsi,
ridendo…
Cybil
continuò…
“Ma sembra
che non siano in grado di avvolgerci completamente le persone, e possono
ricrearla solo in maniera circoscritta…perciò…buone notizie,
no?!”
“Che
significa?”
“Solo
l’odio di Cheryl può portare permanentemente quel mondo attorno a qualcuno,
perché grazie all’odio i poteri del dio vengono liberati…l’odio e la paura sono
alla base dell’other-world, e quando coesistono entrambi gli stati d’animo, solo
allora si comincia a scendere nelle profondità dell’inferno stesso. Solo quando
Alessa è stata catturata da sua madre è stato possibile creare quel mondo
distorto in cui tutti i luoghi erano in uno solo. Harry lo aveva chiamato
Nowhere in uno dei suoi libri…da nessuna parte…e da quel poco che mi ha spiegato
Cheryl, anche nel vostro caso quando ha cominciato a provare odio verso Claudia
e tutti quelli della setta la dimensione demoniaca ha preso il sopravvento.
Perciò la teoria sembra stare in piedi.”
Douglas
sospirò. L’unica cosa che ancora non riusciva a spiegarsi era perché in questo
caso ricordava tutto nei dettagli mentre non ricordava affatto ciò che era
successo al luna park.
“In questo
momento Cheryl prova delle emozioni ridotte al minimo. Ha paura, è vero, ma
sente la nostra vicinanza, non è sola, e in più – prese una pausa, ci pensò, ma
non trovò un modo più delicato – beh, l’esperienza l’ha temprata, l’ha resa più
coraggiosa. E, si, odia gli adepti della setta, ma non ha volti da associare, e
più che odio profondo o sete di vendetta, è profondamente rassegnata. Sa che non
è finita, e questo la strema. Quindi dovremmo avere un po’ di
tempo.”
Il
rubinetto si chiuse con un cigolio. Improvvisamente ci fu silenzio nella stanza,
solo qualche goccia che schiantandosi contro la ceramica alla base della doccia,
provocava un rumore sordo. Aprì le ante, facendole scivolare rumorosamente e si
guardò attorno. Il vapore aveva inondato il bagno, rendendo complicata la
visuale, ostacolando lo sguardo. C’era un asciugamani, da qualche parte, un telo
per asciugare il suo corpo indolenzito. Cybil glielo aveva detto due volte
dov’era, eppure lo aveva dimenticato. Si guardava attorno, con gli occhi
socchiusi e le occhiaie violacee, meno profonde di quando era arrivata grazie
alla doccia, ristoratrice di molti mali. Cominciò quindi a cercare tastoni, fino
a che non incontrò il materiale spugnoso con la sua mano sinistra. Lo passò
prima sul viso e sul collo, poi scivolò tra i seni e con un gesto rapido e
quotidiano lo avvolse attorno al suo petto. Mosse qualche passo, ma si fermò
immediatamente. Nella nebbia, le sembrava di intravedere qualcosa, o qualcuno.
Si voltò lentamente, tremando leggermente, ma mantenendo la calma. Sapeva che
nessuno poteva essere entrato in quel bagno. Ma c’era quell’ombra nella
nebbia.
“Dannatissimo
specchio…che ci troverà poi in questi cosi?!”
Per un
istante rimase a guardare la sua immagine non definita a causa del vapore che
aveva appannato tutta la superficie riflettente. Sembrava quasi che l’ombra al
di là del vapore la guardasse con la stessa intensità che lei ci metteva nel
guardare quella forma scolorita. Poi si voltò velocemente e uscì dalla stanza,
mentre nello specchio tutto si tingeva di porpora lieve.
È
sempre più difficile scrivere, un po’ per gli impegni, un po’ per il periodo.
Voglio però ringraziare tutti quelli che seguono la mia storia, chi commenta e
chi no, sperando di riuscire ancora a catturare la vostra attenzione con le mie
parole. È un’impresa ardua, non sono mai riuscito a portare a termine una storia
molto lunga, ma questa si sta proponendo bene!
Perciò
grazie e a presto – spero!