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Autore: lamialadradilibri    21/04/2014    2 recensioni
«Ciao, Emma. Sono io, Cara. È da un po’ che non ci sentiamo, perché... Be’, ti potrà sembrare strano, ma ora ti sto scrivendo da un altro mondo. Il Mondo Al Di Là, più precisamente. È ancora tutto un po’ confuso, e... Non ho idea di come tornare indietro. Non c’è nessuno che può aiutarmi, qui. Ricordi Alec Mitchell, l’agente di polizia, il dio greco? Be’, è qui anche lui. Questo è il suo mondo, in realtà.
È iniziato tutto in modo così normale (per quanto sia normale finire in commissariato alla mia età a causa d’una sparatoria...!), ma ora nulla è come prima. Abbiamo litigato, lo so. Ma ti chiedo un’unica, piccola, cosa: Aiutami. Fammi uscire di qui. Qui c'è qualcosa di sbagliato, malsano. L'unica cosa che mi tiene in vita è ciò che provo per Alec Mitchell, che credo sia... Amore, sì. Lo è, anzi. Nonostante ciò... Vivere qui è terribile, mi costringono a combattere ogni giorno. Ad uccidere, Emma. E non so nemmeno il perché. Ho paura! Salvami. Tu puoi farlo.»
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo Uno.

Dicono che ci si ricordi per sempre della prima persona alla quale si ha sparato.
 
«Gabriele, eccomi!» urlai, entrando nell’Auditorium del liceo artistico della mia città. L’intera sala era illuminata da luci soffuse ed era semivuota, alcuni ragazzi sul palco stavano inscenando le prove di un’opera teatrale molto drammatica – o così giudicai dal trucco scuro sui loro volti – e alcuni giubbotti giacevano abbandonati con malagrazia sulle sedie delle prime file.
I miei amici erano proprio sotto il palco e stavano guardando gli attori. Non c’erano tutti: di solito l’intero gruppo era formato da una decina di persone, ma oggi ce n’erano solo cinque e, per di più, alcune facce mi erano sconosciute.
Gabriele, il più alto di tutti che svettava sempre al di sopra della massa, si voltò subito verso me, con un gran sorriso. D’istinto sorrisi anch’io: volevo un bene dell’anima a quel ragazzo che aveva troppi problemi per la sua età. Aveva appena compiuto diciott’anni, ma sembrava avere dodici. Aveva fatto un sacco di scelte sbagliate, ne stava facendo ancora... Ma chi ero io per fermarlo? Dopo averci provato a lungo avevo rinunciato, così da non rovinare la nostra amicizia.
«Eccoti» mi salutò, allegro. Doveva essere una buona giornata per lui, non l’avevo visto mai sorridere così tanto, tranne quando si...
Oh.
«Gabriele...» mormorai, rallentando il passo. Scesi i pochi gradini che ci separavano e mi fermai ad un palmo da lui, mentre un dubbio s’insinuava strisciante come una serpe nel mio cuore. Gli diedi un colpetto su una spalla, esitando. Pensavo avesse smesso. Quella sera, mentre c’abbracciavamo sotto la pioggia ed il gelo ci gelava anche le ossa, me l’aveva giurato. «Hmmm, ti sei...? Gabriele...?»
Una ragazza, sul palco, urlò: «Di nuovo, di nuovo! Perché?». Sussultai, pensando avesse origliato la nostra conversazione, quando in realtà stava soltanto recitando.
Gabriele s’abbassò alla mia altezza piegando la schiena. Si sistemò gli occhiali con una mano, mentre l’altra rimase nascosta dietro la schiena. «Sì.»
.
Per una frazione di secondo pensai d’urlare anch’io.
«Allora...» cominciai, non sapendo cos’altro dire. Il mio amico sorrideva ancora, probabilmente non riusciva  nemmeno a capire cosa stava succedendo, né cosa sarebbe successo in futuro. Io, sicuramente, me ne rendevo conto. E sapevo anche che sarei cambiata. Non potevo restare amica d’una persona così... Non poteva funzionare.
«Vuoi vederla? È bellissima, oltre che buonissima» m’informò, mentre il suo sorriso s’allargava, mostrandomi i suoi denti bianchi e lucidi.
Non riuscii a fermarlo.
Tirò fuori da dietro la schiena un sacchetto. Piccolo, bianco, di plastica.
Aveva un aspetto così banale, e... Così letale.
«No, Gabriele. Lasciala lì» ordinai. La mia voce sembrò il rombo d’un tuono e, per la prima volta, sentii d’odiare il mio amico.
Mi sbatté quasi in faccia il sacchetto. Non osai neppure respirare, in quel momento. Qualcuno, lì vicino, cominciò a ridere. «Dài. Ti servirebbe. Sei così tesa, bella.»
«No.»
Tentai di fare un passo all’indietro, ma lui mi seguì. Avvicinò nuovamente a sé il sacchetto, ed io tornai a respirare. «Che ne è stato dei nostri discorsi?» domandai, con un nodo in gola che sembrava intrappolare le parole. Tenni per me gli insulti, le urla e le lacrime; non era il momento adatto per fare una scenata.
«Discorsi?» Gabriele soppesò la parola, buttandosi a sedere s’una poltroncina blu, sopra ad una giacca. Mi fissò negli occhi. Sorrideva, sì, ma aveva uno sguardo triste, stanco e distrutto. Quello era lui. Non quello divertito, stronzo e menefreghista.
Questo non è lui, mi dissi, stringendo i pugni. Le unghie s’infilarono nella pelle delicata, ma non provai dolore. Feci un voto: avrei affrontato seriamente il mio amico in un altro momento. Ora non era cosciente e, qualsiasi cosa mi avesse detto, io non l’avrei presa in considerazione.  Era fatto, totalmente fatto, drogato.
«Non ricordo nulla di alcun discorso!»
«Pazienza. Lo immaginavo» sussurrai, sedendomi sulla poltrona accanto alla sua, dove non c’erano giubbotti né borse, solo un pacco di sigarette che spostai una sedia più in là.
«Rilassati...!», m’invitò, con un sorriso storto sulle labbra. Non lo ascoltai nemmeno e mi voltai dall’altra parte, per guardare lo spettacolo. Un ragazzo ed una ragazza s’abbracciavano. Lei gli dichiarò amore e stavano per baciarsi – scena un po’ troppo zuccherosa e riproposta in troppi film a lieto fine -, quando nella scena apparve un’altra figura: un altro ragazzo. Era vestito in maniera antica: portava un’armatura ed un elmo con un grande pennacchio. Anche lui urlò qualcosa che però non capii, troppo intenta a pensare a come salvare Gabriele.
Non c’è modo.
Probabilmente era così; non c’era modo. Era tardi.
Eppure... Un modo doveva esserci! Eravamo amici, avevo il dovere d’aiutarlo!
Gabriele posò una mano sulla mia coscia, un gesto che un tempo non mi avrebbe dato fastidio – eravamo amici –, ma in quel momento m’intimorì e scocciò fin troppo. Mi voltai verso di lui e, guardandolo negli occhi, mollai uno schiaffo alla sua mano.
Lui scoppiò a ridere.
«Ho bisogno d’un favore» mi rivelò.
M’irrigidii ed un’ombra passò per il mio sguardo. Un tempo gli avrei sicuramente detto di sì subito, ma oggi no, non più. Almeno non in quel momento.
«Di che tipo?»
Aveva uno sguardo che non prometteva assolutamente niente di buono. Mi mossi sulla poltrona, a disagio. Incrociai le gambe e le braccia e cominciai a mordermi le labbra, un’abitudine che non riuscivo a perdere.
Accadde tutto nell’arco d’un secondo.
Gabriele tirò fuori il sacchetto, sorridendo più che mai.
Dal palco qualcuno urlò: «Arrivano
Il mio amico mi gettò il sacchetto. La plastica luccicò nella penombra ed io, d’istinto, alzai le braccia e lo afferrai.
«Ma che diavolo...»
Lui s’alzò di scatto e s’allontanò da me velocemente. Ora non sorrideva più.
«Corri!»
Mi alzai anch’io. Tentai d’avvicinarmi, ma lui si voltò e cominciò a scappare. Quasi scoppiai in lacrime dal nervoso. Il sacchetto contente la droga sembrava pesare dieci chili tra le mie mani. Volevo soltanto mollarlo lì ed andarmene, ma qualcosa m’impedì di farlo.
L’amicizia.
«Gabriele! Vieni qui! Non giocare, idiota!» urlai, lanciandomi alla rincorsa. Lui fu più agile e svelto: salì sul palco e, da là, m’informò: «Sta arrivando la polizia! Scappa!»
Capii un secondo più tardi cosa intendeva.
Il mio cuore sembrò gelare.
«Gabriele... Dovrei scappare con...?» balbettai, alzando il sacchetto un poco.
Non potevo né volevo crederci. Mi stava lasciando la sua droga e le sue responsabilità! Mi stava facendo diventare una criminale! E tutto questo senz’alcun motivo!
«Sì! Corri! Se beccano me sono nella merda, cazzo! Vai!» urlò. Qualcuno gli posò una mano sulle spalle e cominciò a trascinarlo all’indietro, verso i camerini. Gabriele era rosso in volto, aveva le vene del collo ingrossate e stringeva gli occhiali in un pugno.
«E io? Se beccano me, Gabriele?! Mi stai lasciando la tua droga di merda!»
«E tu fattela!» ribatté, un secondo prima di sparire dalla mia vista.
Se lui era un’idiota, io lo ero di più.
Decisi di essergli amica, un’altra volta. Non lasciai là il sacchetto, lo avrebbero beccato. Io avevo sedici anni, lui diciotto. In ogni caso, non sarei finita in guai serissimi e, anche se forse me lo stavo dicendo solo per rassicurarmi, funzionò: presi un po’ più di coraggio e feci la mia scelta.
Infilai il sacchetto nello zaino.
Mi voltai verso l’uscita e cominciai a correre come non avevo mai fatto.
Tutto questo per salvare Gabriele.
Un’altra volta.
 
Tutto sembrava funzionare.
Ero uscita dal liceo senza incontrare nessun agente.
Che fosse stato uno scherzo? Un’altra bastardata pensata dal mio amico?
Rallentai l’andatura.
Ora che ero fuori dalla scuola, se mi avessero vista correre con un’espressione così disperata avrei solo dato nell’occhio.
Dovevo stare calma.
Il cellulare vibrò nella tasca dei jeans. Mi diedi un’occhiata intorno: non c’era anima viva, né uno studente, né qualcuno di passaggio. La cosa mi turbò fin troppo.
Tirai fuori  il telefonino e accesi lo schermo. C’era un messaggio ... Da Gabriele.
Cosa poteva voler sapere? Mi aveva trattato malissimo, prima.
Dopo un attimo d’esitazione lo aprii.
 
È tutto a posto?
 

Oh, bene. Ora mi chiedeva come andava.
Tenendo fede al mio voto, risposi.
 
Tutto ok. Non c’è nessuno.
 
Dopo nemmeno mezzo minuto, arrivò la sua risposta. Prima di leggerla attraversai la strada e mi diressi verso il boschetto che portava a casa mia. Non sapevo se era una buona idea, ma sicuramente era la migliore e – soprattutto – l’unica che avessi in quel momento.
 
Impossibile. Sta’ attenta.
 
Impossibile? Eppure, davvero non c’era nessuno...
Non riuscii neppure a terminare il pensiero, che un’auto accostò accanto a me. Sussultai involontariamente e lentamente mi voltai verso la vettura, con il cuore in gola.
Magari era un passante, qualcuno che voleva informazioni. D'altronde il liceo artistico si trovava nell’intricata zona industriale della città, dov’era facile perdersi. Io andavo al classico, in centro città, e sulle prime avevo avuto qualche problema ad orientarmi qui, tra tutti questi capannoni e fabbriche.
Merda.
Non era un passante.
Non era nemmeno uno dell’artistico.
Non era nessuno che avrei gradito incontrare.
Le sirene dell’auto della polizia erano spente. Per ora.
«Buongiorno» mormorai. La mia voce risuonò indecisa e terrorizzata. Praticamente equivaleva all'avere appeso un cartello luminoso che diceva "Ho della droga! Arrestatemi!"
Dovevo trovare un buon piano per scappare. Ed in poco tempo.
«Aspetti lì.»
Feci come mi era stato detto. La testa mi girava vorticosamente e mi sentivo malissimo, come se stessi per vomitare anche l'anima da un momento all'altro.
Quando vidi un uomo biondo scendere dall’auto, una scarica d’adrenalina sferzò il mio corpo.
Mi guardai attorno: a sinistra, dall’altro lato della strada, c’era la zona industriale. A destra, a qualche metro da me, iniziava il bosco.
«Nome e cognome, per favore» cominciò,  con voce calma, il poliziotto, dopo essersi messo di fronte alla mia figura. Non riuscii a metterlo a fuoco. Vidi solo che era biondo e molto alto, ma nessun altro particolare di lui mi colpì. La sua divisa calamitò il mio sguardo, minacciosa.
«Io sono... Perché me lo chiede?»
«Una piccola formalità, signorina. Ora mi risponda» rispose, con voce pragmatica.
Deglutii, guardando verso il cielo. La borsa sembrava pesare sempre di più sul mio fianco, la prova che non ero innocente - almeno all'apparenza.
«Guardi, se vuole uscire con me può chiederlo in maniera più galante.»
D’accordo. forse non era la cosa migliore da dire in un momento come quello.
Il poliziotto restò un attimo interdetto.
Carpe diem. Cogli l’attimo.
Io colsi quell’attimo.
Con uno scatto doloroso, mi spinsi verso il bosco. Le mie gambe cominciarono a sferzare l’aria ed i piedi a battere la terra a gran velocità.
«Ferma lì!» sentii urlare dietro me. Non mi fermai. Come no!  In quel momento ero una fuori legge: stavo scappando da un poliziotto e portavo in borsa della droga.
Entrai nel bosco. Qualche ramo mi tagliò le guance, ma ero abituata a correre in un ambiente simile. I boschi sono, a parer mio, il luogo perfetto per fare jogging indisturbati; così sapevo perfettamente dove mettere i piedi, come evitare le radici e come sfruttare gli alberi per nascondermi.
Anche il poliziotto, purtroppo, doveva saperlo, perché me lo ritrovai alle calcagna.
«Ferma! Stai solo peggiorando la tua situazione, credimi!» sbraitò, e la sua voce arrivò a me ovattata.
Oh, no. Non stavo per svenire, vero?
Mi diedi uno schiaffo, incurante del fatto che lui avrebbe potuto vedermi.
Riuscì a risvegliarmi, ma quell’unico momento di disattenzione bastò a non farmi vedere una radice.
Il mio piede s’incastrò. Nella foga non feci altro che tirare, sempre correndo, e caddi rovinosamente.
La borsa fece per volare via, ma all’ultimo riuscii ad afferrarla e stringerla al mio petto. Provai a rialzarmi, ma qualcosa me lo impedì.
Una mano del poliziotto. Premeva sulla mia spalla.
Sull’altra spalla c’era qualcos’altro... Di freddo e duro, e...
Oh.
Lanciai un’occhiata terrorizzata alla pistola. Luccicava alla luce del giorno, e sembrava molto più letale del sacchetto di Gabriele, anche se era piuttosto minuta.
«Bene» bisbigliò l’uomo. Anche lui, come me, era senza fiato. «Ora mi dirai chi sei e perché sei scappata. E dammi la tua borsa.»
«Avevo solo paura», risposi subito, di getto; ovviamente non gli mentii, ero terrorizzata. Ma non ero solo terrorizzata.
Il suo sguardo mi gelò. Non mi ero accorta di quanto celesti fossero i suoi occhi: sembrava di guardare un cielo estivo oppure un profondo oceano.
«Come no.»
Mi feci prendere ancor più dal panico. «È vero! È la prima volta che la polizia mi ferma!» squittii, maledicendo Gabriele per essere nato. Decisamente, non eravamo più amici. Se fossi dovuta andare in centrale avrei confessato tutto. L’amicizia arriva fino ad un certo punto.
«Calmati, allora!» inveì il poliziotto. S’allontanò un po’, ma lasciò la pistola sulla mia spalla. Era così vicino che potevo sentirne l’odore e, soprattutto, vedere la sua divisa terribile, la prova che ero in un bel casino. «Spero tu non mi faccia perder troppo tempo.» continuò, quasi tra sé e sé. Oh, se avesse aperto la borsa gli avrei fatto perdere eccome del tempo!
«Mi scusi, ma... Ma devo andare a casa. Subito, ora» provai ad insistere; scandii le parole molto lentamente, così da avere più tempo per pensare a come fuggire. Ma non c'era via di fuga, solo... Involontariamente il mio sguardo cadde sulla pistola. Deglutii, pentendomi anche dei miei stessi pensieri.
Lui assottigliò gli occhi. Dio, erano stupendi. In più io avevo sempre avuto una gran passione per gli occhi celesti; a parer mio, se una persona ha un colore degli occhi così, è possibile vederle l’anima.
Ma quando provai a vedere l’anima del poliziotto... Niente. Non c’era niente; rabbrividii e, d’istinto, arretrai un po’, carponi.
Lui mi ficcò la pistola sul collo, premendo forte. Boccheggiai per il dolore, ma non gemetti né urlai: non volevo dargli soddisfazione.
«Non. Muoverti. Più.»
«D’accordo... D’accordo.»
Sbuffò, quasi annoiato. «Senti. Questa situazione non piace a me e non piace a te. Dammi la borsa».
Sarebbe stato così semplice. Scoppiare in lacrime, fare la bambina ingenua, dargli la droga e dire “Non è mia! È di Gabriele, Gabriele Brooks!”
Eppure... Qualcosa mi fermò. Non riuscii a tradire il mio amico anche se lui, teoricamente, l’aveva già fatto.
«Mi chiamo Emily. Emily Grande» mentii spudoratamente, cominciando a sfilarmi la tracolla della borsa. Lui, per aiutarmi nel gesto, allontanò la pistola dalla mia carne, rimanendo però chinato su di me.
Fu allora che agii, di nuovo.
La pistola era lì, vicina. Il poliziotto, forse credendo fossi l’ennesima sciocca spaventata che non dà, alla fine, alcun problema, aveva allentato la presa sull’arma.
Agile come un’aquila, rapida come un serpente che esce dalla tana ed afferra con i denti la gola d’un piccolo topo, afferrai la pistola.
L’uomo provò a strapparmela e, per un breve momento che a me sembrò durare all’infinito, ci rotolammo tra gli alberi e le radici. Alla fine, non so come, riuscii ad alzarmi. Mi faceva malissimo un braccio – una rapida occhiata all’arto bastò a farmi sbiancare: era coperto di sangue, dovevo essermi tagliata su una radice o qualche sasso.
Il poliziotto cominciò ad arretrare, ma non sembrava aver alcuna paura. Con voce calma, saggiando ogni parola, mormorò: «Non sparerai, Emily».
Emily. Mi ero scelta proprio un nome orrendo, eh?
«Io... Mi lasci andare! E si scordi di me!», provai a contrattare, contro ogni logica. Io, una minorenne in possesso di droga che era scappata da un’autorità e le aveva mentito e si era – quasi – picchiata con essa e le puntava un’arma contro, stavo cercando di contrattare? Che idiozia.
L’uomo scoppiò, infatti, a ridere. «Ah, è così?» domandò, facendo un passo avanti. No, no, no. Non doveva avanzare! Sicuramente avrebbe avuto la meglio su di me. Fin’ora ero stata fortunata... fin troppo. «Non posso bambina, scusami. Ora su, molla la mia pistola.»
Alzai un po’ il braccio sano che reggeva l’arma. Sembrava pesare più che mai, proprio come il sacchetto di droga. Come poteva Gabriele sopportare sempre tutto ciò? Drogarsi? Non si sentiva in colpa almeno verso sé stesso?
«Mi lasci scappare...» sussurrai e sembrò una supplica.
Allora il poliziotto capì. Ero debole.
Ed agì.
Ma io non ero debole. Ero forte. Dopo aver sopportato il vedere un amico drogarsi, ubriacarsi e diventare sempre più sciupato, ero cresciuta e mi ero rafforzata. Il mio cuore s’era fatto una corazza.
E così, quando lui con un balzo si gettò su me, premetti il grilletto.
BAM.
Il rimbombo risuonò nel bosco. Fu seguito da un gemito trattenuto, ed il poliziotto crollò in ginocchio ad un palmo da me. Se avessi allungato un po’ il braccio, avrei potuto accarezzare i suoi capelli biondi che avevano tutta l’aria d’essere morbidi.
«Mi scusi» balbettai e, sempre stringendo la pistola in mano, mi voltai e cominciai a correre.
Non l’avevo colpito al cuore.
Né ad un organo vitale.
Lo avevo colpito proprio nel mezzo di una coscia. E sì, avevo visto il sangue schizzarne fuori, macchiando la divisa ormai sempre più spaventosa.
Ero una criminale. Decisamente.
Ed una cosa era certa: era tutta colpa di Gabriele.
Infilai la pistola nella borsa e, sempre correndo, tirai fuori di lì telefono e portafoglio. Cominciai ad andare sempre più veloce, finché raggiunsi un piccolo ruscello che scorreva in mezzo al bosco. Poteva essere stato, un tempo, un posto idilliaco. Ora tutta l’acqua di scarico delle fabbriche finiva lì assieme a molti altri rifiuti, bottiglie di birra o Pepsi e siringhe.
Gettai la borsa lì.
Mi liberai delle prove e, come nulla fosse, come se in realtà non avessi sparato ad un'autorità, come se la mia fedina penale fosse ancora linda e come se i miei rapporti con Gabriele fossero intatti, andai a casa.
Un sorriso malinconico spuntò sulle mie labbra. Da quel momento in poi, sarebbe cambiato tutto.

Meme1.
Sì, è un po' strana. Lo ammetto. Ma e' che io sono un po' strana quindi, cos'altro aspettarsi? Yee.
Allora, questo capitolo è lunghissimo. E adorabile, no? (: Che ne dite? Errori? Qualche frase che lascia delle perplessità? Ditemelo e lo rivedrò.
Spero vi possa interessare e che qualcuno recensirà :)
A presto.




 
  
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