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Autore: lamialadradilibri    23/04/2014    3 recensioni
«Ciao, Emma. Sono io, Cara. È da un po’ che non ci sentiamo, perché... Be’, ti potrà sembrare strano, ma ora ti sto scrivendo da un altro mondo. Il Mondo Al Di Là, più precisamente. È ancora tutto un po’ confuso, e... Non ho idea di come tornare indietro. Non c’è nessuno che può aiutarmi, qui. Ricordi Alec Mitchell, l’agente di polizia, il dio greco? Be’, è qui anche lui. Questo è il suo mondo, in realtà.
È iniziato tutto in modo così normale (per quanto sia normale finire in commissariato alla mia età a causa d’una sparatoria...!), ma ora nulla è come prima. Abbiamo litigato, lo so. Ma ti chiedo un’unica, piccola, cosa: Aiutami. Fammi uscire di qui. Qui c'è qualcosa di sbagliato, malsano. L'unica cosa che mi tiene in vita è ciò che provo per Alec Mitchell, che credo sia... Amore, sì. Lo è, anzi. Nonostante ciò... Vivere qui è terribile, mi costringono a combattere ogni giorno. Ad uccidere, Emma. E non so nemmeno il perché. Ho paura! Salvami. Tu puoi farlo.»
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo Due.

Patetica.
 

 
«Oggi nella tua scuola verrà la polizia.»
Dire che me l’aspettavo sarebbe risultata una bugia. In realtà, avevo avuto già qualche brutto presentimento quella mattina, alzandomi – quelli del tipo “sta a casa idiota, non ti svegliare!” – ma lo avevo subito ricollegato all’interrogazione di chimica che avrei avuto alla prima ora.
«Ah. Perché?»
Perché? Che dire! Probabilmente quell’agente era morto dissanguato là nel bosco ed ora l’intero commissariato cercava me, l’assassina, la serial killer da strapazzo.
Solo che io non ero un’assassina. Vero?
Mamma affondò con pigrizia il cucchiaio nel suo tè alla menta aromatizzato con un po’ di limone e giusto un po’ di latte. Mi chiesi come faceva a bere certe assurdità! «Cara... Io non dovrei dirtelo, ma...»
Mi allungai verso di lei, appoggiandomi sul tavolo tra il cartone del latte e un contenitore di zucchero. Piccola parentesi: mia madre, Anna Elizabeth, era un giudice, quindi veniva a conoscenza di certe informazioni dalla polizia. Tipo che sua figlia era un’assassina. «Cosa? Dài, spara!»
Spara!
Rabbrividii alla mia battuta. Decisamente, la mia vita non sarebbe stata più la stessa.
«Hai saputo, immagino, che la polizia è da una settimana che va in giro per le scuole...»
Annuii. Come non saperlo? Gabriele mi aveva mandato decine di messaggi per dirmelo e per chiedermi cosa avessi combinato quel pomeriggio, perché il liceo artistico era pieno di poliziotti ad ogni ora del giorno.
«Beh, questo perché c’è stato uno scontro tra un poliziotto ed una ragazza, una settimana fa. Lui è rimasto ferito. Non gravemente, certo, ed ora gira per le scuole per vedere se riesce a trovare quella maniaca. Non è pazzesco?» mi chiese, afferrando la sua tazza di tè.
Annuii, incassando la testa tra le spalle. Okay. Evidentemente non ero un’assassina, ma mi ero aggiudicata il titolo di “maniaca”. E da mia madre!
«Cavolo. È pazzesco.»
Lei affogò le sue preoccupazioni nel tè, bevendolo tutto d’un sorso. «Sì che lo è! Spero la prendano, sai?»
Ottimo.
«E sai perché?» continuò a domandarmi, sbattendo con forza la tazza sul tavolo. Arretrai di scatto, quasi cadendo dalla sedia. Mamma aveva un’aria selvaggia, i suoi occhi marroni erano animati da qualcosa che avevo già visto, l’emozione forte che provava ogni volta che aveva tra le mani un caso interessante: la voglia di giustizia.
«Quell’agente – Alec Mitchell – ha solo ventisette anni! Non ha famiglia. Avrebbe potuto togliergli la vita!» esclamò, alzando lo sguardo al cielo. «Avrebbe potuto toglier lui la possibilità d’essere felice!»
E così quell’uomo aveva un nome ed un’identità. E mamma sembrava adorarlo.
Lo avrebbe adorato a tal punto da sbattermi in galera?
Prima che potessi controllare le mie parole, sbottai: «Che ne sai? Magari non è stato colpito da qualcuno! E se avesse voluto morire?»
Un’ombra cupa oscurò il suo sguardo. «Cosa?» mormorò, ed aveva una voce roca ed inconfondibile che non prometteva nulla di buono.
«Magari lui si è sparato, e... Chi lo sa! Magari alla fine non è riuscito ad uccidersi – ci vuole coraggio, no? Ed ora questa è una messinscena...»
«ZITTA!»
Nella stanza calò il silenzio. Mamma si alzò dalla sedia e cominciò a portare le tazze nel lavandino. Io non osai alzarmi per aiutarla.
Ma che diavolo avevo detto?! Non conoscevo neppure quell’uomo – cioè, tecnicamente non lo conoscevo, ma avevo sparato alla sua gamba – e l’avevo accusato d’essere un suicida!
Mamma, dandomi le spalle, sussurrò: «Alec ha una difficile storia alle spalle, Cara. Semmai lo incontrassi, guardalo con rispetto».
Si voltò e mi guardò dritta negli occhi. Io ero ancora seduta lì a tavola a sentirmi un’idiota  e terribilmente in colpa.
Mamma aveva uno sguardo serissimo. Più serio che mai. Concentrato, anche. Non sembrava lei.
«Ne ha passate tante. E spero solo che questa non sarà la goccia che farà traboccare il vaso.»
Non riuscii più a sopportare il peso di quella situazione. Mi alzai, l’abbracciai e le dissi: «Ti voglio bene. tu me ne vuoi?»
Lei continuò a lavare i piatti. Il rumore dell’acqua era l’unico che si sentiva nella stanza. «Sì. Che razza di domanda è?»
Vedremo se me ne vorrai ancora, quando la verità verrà a galla.
Con un sorriso così falso da far male anche a me, uscii dalla cucina ed andai a prepararmi per la scuola.
 
Ero quasi davanti al portone d’ingresso della scuola – attorno a me c’erano solo ragazzi, quella pazza della mia amica Emma, ma nessun poliziotto –, quando il mio telefono vibrò. Una chiamata. Possibile che mamma si fosse dimenticata di dirmi qualcosa?
Oppure...
Con il cuore in gola, sfilai il cellulare dalla tasca dei jeans. Emma mi diede una spintarella e mi disse che sarebbe andata da sola in classe e che mi avrebbe tenuto un posto accanto a sé. Quasi non la udii.
Gabriele.
La chiamata era di Gabriele.
Sbuffando – più per l’agitazione che per una reale scocciatura – risposi: «Sì?» la mia voce risuonò annoiata, ma dentro me s’agitavano emozioni ben più imprevedibili: paura, odio, rimorso, nostalgia e molto altro odio.
«Cara! Perché non mi rispondevi? Che cazzo è successo?»
Mi sedetti sul muretto accanto al portone. Un ragazzo di quinta mi urtò e non si scusò, andando avanti. «Quel che è successo è successo. Non chiamarmi. Mai più, Gabriele. Intesi?»
Lui rimase un secondo zitto. Probabilmente stava boccheggiando come un pesce, scioccato, magari nel bagno del liceo con una cicca in mano. «Che cosa... Perché?»
«Perché?» Nella mia mente s’agitarono pensieri diversi. Volevo ammazzare Gabriele, non poteva essere così idiota!  O magari era fatto e non riusciva a capirmi... Ma no, questa volta non lo avrei perdonato. No! Qualsiasi cosa avesse detto – a partire dal suo “Perché?” – me la sarei ricordata. Punto.
Alla fine decisi che, semplicemente, non ne valeva la pena. Tra noi due non c’era più contatto, non c’era uno scambio di parole sensato. Non c’era più niente. Gabriele s’era fumato la nostra amicizia come una sigaretta ben rollata con dell’erba dentro. «Gabriele, su. È successo che la polizia mi ha quasi beccato. Ma non devi sapere di più.»
«COSA?!» sbraitò. Immaginai il suo volto, rosso. E le sue mani in aria che s’agitavano. Una stringeva il cellulare fin quasi a romperlo... Oppure no. Magari urlava e basta, ma in realtà era tranquillo. Solo lui, sé stesso e l’erba. «Che cazzo hai fatto! Idiota! Cazzo!»
«La smetti d’inveire? È tutta colpa tua. Ora devo andare. Cancella il mio numero, ciao!»
Lui stava ancora urlando quando spensi la chiamata.
E poi il terrore s’impossessò di me. Il giardino era vuoto, quindi la campanella doveva essere già suonata. E magari la polizia – Magari Alec Mitchell – era già nella mia classe. Sarei entrata, mi avrebbero riconosciuta. “Venga in centrale, signorina.” “Perché?” “Oh, lo sa perché.” E la classe sarebbe rimasta zitta.
Oppure no. Insomma, alla prima ora c’era verifica di chimica. La prof non l’avrebbe mai rimandata, giusto?
Mi diedi forza e mi alzai. Fare lippa avrebbe significato farsi notare ancora di più e l’ira di mamma.
Cercando di sorridere – imitai il sorriso di Gabriele – mi affrettai verso la classe.
 
«Prego, entri. Mancava solo lei.»
Guardai la mia prof di chimica e scienze della terra come se fosse un alieno. Mi aveva aspettato fuori dalla classe, con la schiena appoggiata alla porta. Quando la aprì, capii il perché.
La polizia.
«Buongiorno» mi salutò l’unico poliziotto nella stanza. Non era Alec Mitchell, grazie al cielo. Doveva avere l’età di mio padre, quarant’anni, e la sua testa era già metà pelata. Aveva un sorriso stanco. Il sorriso di chi davvero non ce la fa più, ma poi dice “Dài, ancora un’altra volta’’ ed entra in un’altra classe, o in un’altra cella, o trova un altro cadavere.
«Salve» replicai. La tensione dentro me si sciolse come un cioccolatino burroso al sole, e sembrò fungere da balsamo per i miei muscoli che si rilassarono velocemente. «Scusate il ritardo; ho avuto una chiamata.»
«Non si preoccupi. Sieda, forza.»
Lo stavo già facendo. Emma mi diede un’altra spintarella e si sistemò i capelli dietro le orecchie. «Che culo abbiamo?» mi domandò, con un sorriso più allegro e gioviale che mai.
Tentai d’imitarla. «Oh, sì. Niente test.»
Già. Che culo.
«Ragazzi, questo è l’agente Rossi.» c’informò la professoressa, sedendo alla cattedra. Aveva un’espressione un po’ seccata – non aveva potuto fare la sua verifica, d'altronde – ma poiché era una persona molto alla mano e dolce, fu molto gentile ed educata con l’agente – o forse lo fu soltanto perché davanti a sé aveva un poliziotto, non lo so.
«Sì, ragazzi. Hmmm, ci spiace del disturbo, ma stiamo cercando una ragazza. Bionda, media altezza e corporatura. Abbiamo solo questo per l’identikit, però... Se mai vi venisse in mente qualcuno, non esitate ad aiutarci» spiegò l’agente Rossi, girando tra i banchi. Anche lui, come Alec, aveva un non so che di spaventoso e magnetico.
«Tu?» mi domandò, sempre sogghignando, Emma. «Sei bionda» continuò, sussurrando e rigirandosi tra le dita una ciocca dei miei capelli color dell’oro «Media altezza...» proseguì, indicando la mia figura con un gesto della mano «E media corporatura» finì. Mi pizzicò un fianco e quasi urlai.
«Sei pazza?!» squittii dal dolore, stringendo la carne lesa. Ci mancava solo che la mia migliore amica mi accusasse! «E poi è pieno di gente come me».
«Stavo scherzando...» replicò, guardandomi storto. Aveva ragione: avevo avuto una reazione esagerata, quasi imbarazzate; ma avevo i miei motivi.
«Ragazzi, il mio collega arriverà a momenti. Ha un po’ di problemi a camminare, per questo... Oh, eccoti, Alec! Tutt’a posto?» l’agente Rossi scattò verso la porta – la sua pancia sobbalzò – per aiutare un uomo ad entrare.
Alec Mitchell.
Era bellissimo. Sembrava un po’ un divo di Hollywood; aveva dei lineamenti piuttosto marcati, naso ed orecchie minute e i suoi bellissimi occhi azzurri.
Emma batté una mano sul mio banco, facendolo traballare un po’. «E’ bellissimo!» mormorò.
Già, lo era. E camminava molto lentamente, zoppicando un po’.
Ed era colpa mia.
Io. Ero io l’artefice.
«Buongiorno, signor Mitchell.» lo salutò la prof, avvicinandosi a lui.
Io continuai ad osserva la sua gamba zoppicante. Alec Mitchell si sedette su una sedia accanto alla cattedra e sbuffò – per il dolore? La fatica? – affondando il viso nelle mani.
«Salve» sussurrò con voce d’angelo, così piano che quasi non lo sentii.
Emma, intanto, stava elogiando la sua bellezza “epica”, “divina”, “da dio greco”, “pare Zeus”, “anzi no pare Apollo”, “pare la perfezione”. Le avrei volentieri tirato un pugno. IO AVEVO SPARATO A QUELL’UOMO! Ma lei non poteva saperlo... Così mi trattenni, disgustata da ciò che avevo causato.
Da ciò che Gabriele aveva causato.
D’un tratto l’agente Mitchell alzò lo sguardo e lo posò su ognuno di noi. L’altro agente, il signor Rossi, cominciò a blaterare qualcos’altro sulla ragazza che stavano cercando, su di me.
Quando lo sguardo di Alec s’avvicinò a me, feci rotolare una penna giù dal banco. «Ops!» dissi, abbassandomi a raccoglierla. Emma mi lanciò un’occhiata perplessa ed inarcò le sue sopracciglia fini.
Non ero nemmeno a metà strada, che una voce dura e implacabile sferzò l’aria. «Tu.» disse.
E sapevo d’essere io l’interessata.
 
L’agente Rossi s’infilò tra me e l’agente Mitchell. Eravamo fuori dalla scuola, proprio dove poco prima m’ero seduta a parlare con Gabriele al telefono.
«Allora... Cara, Cara Michielin, giusto?»
Scrollai le spalle, tenendo lo sguardo a terra. Dovevo tradire Gabriele. E subito.
«Dobbiamo portarla in commissariato. È piuttosto urgente, non si disturbi perciò a prendere la sua roba.»
Non ci pensavo nemmeno. Sentivo su me gli occhi gelidi di Alec Mitchell. Quanto doveva odiarmi? Quanto male gli avevo causato?
E tutto ciò per un’amicizia che credevo indissolubile.
«D’accordo, d’accordo. Ora basta. Muoviti, Cara. O piuttosto Emily?»
Non osai nemmeno guardarlo . «Cara... Cara va bene.»
L’agente Rossi cominciò a parlare di diverse cose, mentre c’avviavamo all’auto della polizia. Quando nominò i miei genitori, m’irrigidii ed il mio cuore cominciò a battere velocissimo.
«Ora non c’è tempo per chiamare i tuoi, ma dovremo farlo. Cara, ti rendi conto di ciò che hai fatto?» mi domandò l’agente Rossi, aprendomi la portiera. Io non riuscii a rispondergli, entrando nella vettura. Quell’ uomo sembrava più un padre o un nonno premuroso che un poliziotto. Avrei solo voluto scoppiare a piangere ... Ma non potevo. Alec Mitchell, l’uomo che ne aveva passate tante – un po’ come Odisseo? –, era seduto nel sedile accanto a me e mi fissava dall’alto in basso, sprezzante.
«Io...» cominciai, senza sapere che cosa dire. Quando le parole mi morirono in bocca, sospirai ed appoggiai la testa al sedile. «Niente.»
«Meglio così» l’agente Rossi mi guardò dallo specchietto e partì.
 
Al commissariato nessuno mi guardò con disprezzo o sorpresa – o magari shock –, come avevo temuto. Per il momento nessuno s’accorse che ero la figlia del giudice della città, ma sapevo che era solo questione di tempo, e poi tutto sarebbe venuto a galla.
L’agente Rossi mi camminava di fianco ed io e lui trotterellavamo dietro all’agente Mitchell, che ora sembrava aver ripreso vigore e zoppicava un po’ meno.
D’un tratto l’agente Rossi rallentò e mi afferrò il polso. «Sarà crudele con te, sappilo» mi sussurrò, mentre avanzavamo più lentamente. La schiena dell’agente Mitchell sparì dalla mia vista, dietro un angolo. «So che eri soltanto spaventata, ma hai agito malissimo. E vorrà anche capirne il perché». Mi guardò negli occhi. L’intensità del suo sguardo mi fece capire che era sincero al cento per cento. «Non provare a mentirgli. Non ci riuscirai».
In silenzio, riprendemmo a camminare più rapidamente. L’agente Rossi si allontanò un po’ da me ed andò ad aprire la porta d’una piccola stanza che si snodava in altre due stanze. Poiché entrambe le porte delle altre stanze erano aperte, notai che una era più illuminata e sembrava più piccola, mentre l’altra doveva essere più spaziosa, ma era semibuia.
L’agente Rossi mi indicò quella semibuia, mentre lui entrò in quella illuminata, sbattendo dietro sé la porta grigia.
Mi asciugai i palmi delle mani sui jeans, agitatissima. Sicuramente nella stanza semibuia c’era Alec Mitchell, ed io non volevo proprio incontrarlo.
 
«Entro oggi.»
Mi ridestai ed entrai nella stanza più grande. Era quasi vuota: c’era soltanto un lungo tavolo con due sedie ed un enorme specchio – grande quasi quanto una parete – di fronte ad esso. L’agente Mitchell si sistemò sulla sedia in modo da dare le spalle allo specchio e mi indicò, senza guardarmi nemmeno, una sedia dalla quale avrei potuto benissimo vedere il mio riflesso.
«Allora» esalò, senz’aspettare che finissi di sistemarmi. Avevo il cuore in gola. Infilai le mani tra le cosce e cominciai a maledire Gabriele in più lingue possibili per tenermi occupata. «Cara Michielin. Età, sedici. Studentessa del liceo classico...» cominciò, afferrando un plico di fogli.
Mi vennero i brividi. Avevano già cercato informazioni su di me? e quanto c’avevano messo per trovarne, mezz’ora?
Quando lessi in alto alla pagina “Situazione Familiare’’, provai l’impulso di saltare in piedi, strappare quella cartella e mettermi ad urlare.
Quella era la mia vita! Quelli erano i miei problemi! Quella ero io! L’agente Mitchell non aveva alcun diritto d’impicciarsi di ciò che era mio, non poteva!
L’uomo davanti a me si passò una mano tra i capelli biondi, arricciando le labbra perfette che Emma aveva tanto elogiato. «Genitori separati. Ed il nome di tua madre mi è familiare... Potresti fare una ricerca, scusa?»
All’inizio non capii a chi stesse parlando. Poi compresi: si rivolgeva all’agente Adam che, come avevo visto in più film, poteva vedermi dallo specchio e sentire tutto ciò che veniva detto qui dentro.
«Non credo che lei conosca mia madre.» mentii, mantenendo lo sguardo su quel foglio. “Situazione Familiare”. Era scritto lì? Era scritto lì quello che, circa un anno prima, avevo provato a fare? E Alec Mitchell, l’Ulisse dei giorni nostri, come mi avrebbe giudicata?
Il biondo sogghignò. «Non sai mentire.»
«E lei non sa fare a cazzotti.» Mi uscì spontaneo insultarlo. Fu più forte di me, non ci fu nulla da fare.
L’agente Mitchell mi fissò a lungo; aveva uno sguardo indecifrabile e, nuovamente, quando cercai di vedergli l’anima, fallii.
«Cosa c’è d’interessante che non dovrei leggere, qui?» mi domandò dopo qualche minuto di completo e teso silenzio, dando un colpetto al plico di fogli.
«Niente. Non c’è niente, agente» mentii ancora.
«La tua bocca dice così», replicò lui, piegando il capo per guardarmi «ma i tuoi occhi dicono tutt’altro. Cos’è successo, Cara Michielin?»
Strinsi forte i pugni e scossi il capo.
No.
Non gli avrei detto una sola parola.
E poi, lui avrebbe letto tutto più tardi.
Chissà se avrebbe riso? Mi avrebbe definita “patetica” e “sciocca” anche lui, come tutti gli altri?
Io non volevo assistere.
«Alec, Alec! Vieni, dà un’occhiata qua!» lo richiamò una voce resa metallica dall’autoparlante forse un po’ vecchio ed usato della stanza. Alec Mitchell si alzò subito e mi lasciò sola nella stanza; sola con quel plico di fogli maledetto.
Non riuscii neppure a sfiorarli. Quell’unica, piccola frase, mi terrorizzò a morte.
Situazione Familiare”.
 
Dopo qualche minuto l’agente Mitchell tornò nella stanza, accompagnato dall’agente Rossi. Alec Mitchell aveva un’espressione accigliata, incredula, scioccata ed anche tradita; non riuscii a capire cosa gli stesse passando per la testa. L’altro uomo, invece, aveva uno sguardo soltanto sorpreso.
Fu il biondo a parlare.
«Tua madre è Anna Elizabeth?»
Quando annuii, cominciò ad insultare qualcuno a caso ed uscì dalla stanza, sbattendo forte la porta.
Sobbalzai. L’agente Rossi mi guardò e sembrava quasi dispiaciuto. Poi, scuotendo il capo, uscì dalla stanza e chiuse dietro sé la porta.
Ero sola. Di nuovo.

(Me)me1.

Ed insomma, questo e' quanto. Che ve ne pare del Capitolo 2? Sono contenta d'aver ricevuto due recensioni al 1° capitolo, ma spero di riceverne ancora di piu', oggi! D'ora in poi la storia comincera' a farsi sempre piu' movimentata, fino alla spannung . Cioe' il *booom*, il massimo, il momento che ti lascia "Oh mio dio Oddiommio" e poi non capisci piu' niente e vuoi solo leggere di piu' tralalala' . Cerchero' di darvi questo. Il *booom*, per intenderci .
Inoltre, se volete leggere più cose mie, ho fatto diverse storie. Vi consiglio soprattutto :
The Help (che e' una ff di Harry Potter);
Stay Strong (seguito di The Help; lo sto ancora finendo);
Attento al cartello TOM (e' una storia d'un solo capitolo. Protagonisti: Tom Riddle e un gufo!);
Guerra e pace (una delle mie prime storielle tralalala')
Buttateci un occhio! o un piede!
A presto,
la vostra dolcissima, carissima, amorevolissa,
meme1.
PS: Se volete potete dirmi qualche storia carina da leggere :3

 
  
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