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Autore: LeGuignol    24/04/2014    2 recensioni
La stanza buia e spoglia, arredata unicamente dal pc e dalle periferiche collegate, è l’ideale per concentrarsi sul caso al quale sta lavorando. L non chiede di meglio che quell’arredamento minimalista studiato appositamente per evitare qualunque distrazione, in modo da focalizzare l’attenzione esclusivamente sull’obiettivo.
Osserva le immagini delle vittime sul monitor. Gli schizzi di sangue, il bianco dei tendini esposti e gli organi interni visibili dagli squarci slabbrati non lo urtano minimamente; non è quello il punto fondamentale. La sua mente razionale lo spinge a notare solo gli aspetti essenziali per ricavare un quadro completo del modus operandi dell’assassino.
Lavorare sui piccoli particolari è la chiave per giungere alla soluzione, e lui ci riuscirà, come ogni volta. Anche questa sfida sarà vinta.
(Per chiunque fosse interessato, questa storia è interrotta; ma riprenderà presto sull'account di MissChiara, che si è gentilmente offerta di proseguirla. Grazie a tutti per avermi seguito fin qui ^^)
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: L, Linda, Nuovo personaggio, Watari
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'alfabeto della Wammy's House'
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CAPITOLO 2 – IL MANIERO DEI CAVENDISH

 
Il mattino seguente le tre ragazze si misero in viaggio sul maggiolone di Linda. Green Haven distava circa cinque ore di macchina da Winchester, e ciò implicava che avrebbero dovuto passare la notte al maniero.
Kathy indossava ancora abiti scuri in segno di lutto; il nero del cappello e del cappotto contrastavano nettamente con i capelli biondo oro e il candore del viso preoccupato.
«Sei in pensiero per tuo fratello?» le chiese Rossella.
«Non si è fatto sentire nemmeno stamattina» rispose la ragazza bionda senza alzare lo sguardo dalle mani incrociate in grembo. «Mi chiedo se arriverà in tempo all’appuntamento con il notaio».
«Ieri sera ho svolto qualche indagine su di lui. Il suo nome non risulta nelle liste dei voli o degli imbarchi verso l’estero, quindi si trova ancora in Inghilterra. Magari è già al maniero».
Kathy parve poco convinta. Durante la prima ora di viaggio rimase prevalentemente in silenzio, rispondendo a monosillabi alle domande, finché Linda decise che ne aveva abbastanza di quell’atmosfera da funerale e diede il via ad una conversazione vivace, riuscendo in men che non si dica a risollevare un po’ il morale del gruppetto. Quando si fermarono nei pressi di Northampton per fare uno spuntino, Kathy aveva ripreso a sorridere.
 
«Avevi ragione, la tua cliente ispira tenerezza» disse Linda mentre addentava un tramezzino, approfittando di un momento in cui Kathy era andata a prendere da bere.
«A parte il fatto che è anche la tua cliente, sono rimasta allibita di fronte alla tua abilità oratoria di poco fa. Non ti facevo così premurosa verso il prossimo» la prese in giro Rossella.
«Ma che dici?! Ma se alla Wammy’s House ero famosa per il mio altruismo! E tu saresti quella in grado di leggere nell’animo umano?» ribatté con veemenza Linda a bocca piena, spargendo briciole ovunque.
«Tu eri altruista solo con Near, e i tuoi secondi fini erano fin troppo chiari! Te lo dice quella in grado di leggere nell’animo umano! Per il resto, sembravi la sorella pestifera di Mello».
«La tua è tutta invidia perché io, a forza di insistere, qualcosa alla fin fine ho ottenuto!» si difese Linda con un certo orgoglio, sfoggiando un’aria saccente, «mentre tu non hai mai avuto nemmeno il coraggio di dichiararti a quel ragazzo che ti piaceva!».
«E come avrei potuto? Mi avrebbe…» “impedito di continuare a frequentarlo”, stava per dire Rossella, ma si ricordò che Linda, come tutti i membri della Wammy’s House, ignorava che Ryuzaki fosse L. Per loro era solo uno dei tanti allievi-prodigio dell’istituto.
«…mi avrebbe preso in giro» concluse semplicemente.
«Uh? E perché? Non sei poi così male. Certo, con quella faccia di marmo che ti ritrovi non si capisce la differenza tra quando ridi e quando sei seria, ma del resto anche di Clint Eastwood si dice che ha solo due espressioni, ovvero con il cappello e senza il cappello. Eppure è un attore famoso, no? Già, però, effettivamente, lui almeno due espressioni ce le ha e ti batte… Uhm, vediamo un po’ come si può rimediare…».
Linda puntò gli indici agli angoli della bocca di Rossella e provò a sollevarli in un sorriso grottesco, ricevendo in cambio un morso che la fece balzare all’indietro e ritirare velocemente le mani. La sua colorita sequela di insulti verso l’amica fu sospesa dall’arrivo di Kathy che, di ritorno con un milk-shake, sentendola scoppiò in una risata gaia.
«Oh! Sei già tornata?» esclamò Linda arrossendo. «Ecco… non giudicarmi male… di solito non ho l’abitudine di usare questi… ehm… francesismi. A proposito, da quanto sei qui?».
«Più o meno da Clint Eastwood in poi» rispose la ragazza bionda cercando di trattenere un’ulteriore risata.
Linda espirò sollevata. A quanto pareva, Kathy era arrivata dopo la disputa riguardo la Wammy’s House e Near. Era sempre preferibile tenere segrete le loro origini.
«Su, rimettiamoci in viaggio, abbiamo ancora due ore buone di strada. E tu fai attenzione a non versarmi quella roba sui sedili, mi raccomando!».
 
.oOOo.
 
La tenuta che circondava il maniero di Green Haven era costituita da ettari ed ettari di tipica brughiera inglese: l’erba, che in quella stagione era di un caldo colore paglierino, era inframmezzata qua e là dal porpora dell’erica e dal giallo vivace delle ginestre. A nord dell’edificio, ovvero dalla parte opposta rispetto alla direzione da cui si stava avvicinando il maggiolone, c’era un bosco di querce che, da quello che si poteva intravvedere, doveva essere di dimensioni notevoli. Le foglie arancioni coronavano gli alberi imponenti e abbellivano il terreno circostante di un bel colore acceso.
Il maniero di epoca medievale si ergeva sulla sommità di un terreno in leggera pendenza. La costruzione principale era affiancata da un’ala più recente, forse rinascimentale. Qualche parte avrebbe avuto bisogno di un restauro, ma nell’insieme l’edificio conservava il fascino decadente di un castello da fiaba.
Linda parcheggiò il maggiolone nello spiazzo davanti al maniero, e tutte e tre le ragazze scesero dalla vettura stiracchiandosi per sgranchirsi le gambe. Nello spiazzo c’erano altre due auto, delle quali una era una Rolls Royce nera.
«Però! Si tratta bene, questo notaio!» fece notare Linda.
Rossella invece guardò l’auto con sospetto. Fino a quel momento era convinta che L avrebbe condotto le indagini rimanendo al sicuro dietro le quinte, manovrando i fili dei propri collaboratori protetto dal solito scudo di anonimato, ma la presenza di quell’auto poteva anche significare che era stata troppo precipitosa nelle proprie conclusioni.
Dalla posizione in cui si trovava non poteva vedere la targa. Fece velocemente il giro dell’auto per controllare e fugare ogni dubbio, fermandosi a pochi passi dalla portiera posteriore che si stava aprendo proprio in quel momento. Il passeggero scese dall’auto, dopo aver infilato i piedi nudi in un paio di vecchie scarpe da ginnastica con i talloni schiacciati.
Fu così che Rossella si ritrovò inaspettatamente a non più di due metri dalla sua ossessione e peggior incubo. Altro che scudo di anonimato! Altro che direttive attraverso un computer! Il sangue le schizzò alle tempie, e l’assurda idea di correre a nascondersi dietro a Linda e Kathy non le parve poi così assurda. E forse l’avrebbe fatto per davvero se solo fosse riuscita a muovere le gambe, bloccate sul posto per la sorpresa come quelle di un coniglietto impaurito. Era accaduto tutto troppo in fretta, senza darle il tempo di prepararsi. Non osò alzare lo sguardo da terra, ma avvertì ugualmente gli occhi di lui puntati addosso e pregò perché non si accorgesse del tremito che l’aveva pervasa.
«Buongiorno, R» la salutò placidamente L.
Rossella si chiese come poteva parlarle con tanta disinvoltura dopo quello che era successo cinque anni prima. Evidentemente L si aspettava di trovarla lì, tutto stava andando secondo i suoi piani. Le pedine si stavano muovendo in conformità al suo volere, e lei non aveva fatto eccezione. Era frustrante scoprire di averlo assecondato senza nemmeno essersene resa conto.
«Non sono più R» puntualizzò, forse più duramente di quanto avrebbe voluto.
«Come preferisci, detective Andreoli».
La sua voce fu una staffilata al cuore. Era lo stesso tono indifferente con cui le si era sempre rivolto. Del resto, quella voce acquistava calore esclusivamente quando si rivolgeva al proprio tutore, il signor Quillsh.
Come preferisci, aveva detto?
Come se avesse mai avuto la possibilità di scegliere! La verità era che non aveva mai potuto sottrarsi volontariamente a quella lettera che le avevano affibbiato per sostituire il suo vero nome, e al ruolo che implicava. Ruolo che le era stato imposto alla Wammy’s House a causa di quella capacità a cui tutti alludevano come a un dono. Anche se, alla fine, un modo per sfuggire al proprio destino l’aveva trovato. Un metodo decisamente drastico.
 
All’inizio, quando aveva raggiunto il traguardo più ambito tra gli allievi dell’istituto, ovvero l’assegnazione di una delle ventisei lettere che le avrebbero permesso di far parte dell’élite dei collaboratori di L, Rossella si era sentita al settimo cielo.  Ce l’aveva fatta! I suoi meriti erano stati riconosciuti, ed avrebbe potuto finalmente cooperare con l’individuo che tutti loro desideravano raggiungere e superare.
Quello che non aveva assolutamente previsto, però, erano state le conseguenze del primo incontro diretto con L. E come avrebbe potuto? Di lui, sapeva solo che aveva risolto migliaia di casi apparentemente impossibili. Di conseguenza, si era immaginata una persona già avanti con gli anni, probabilmente un coetaneo del signor Quillsh. Tutto si sarebbe aspettata, tranne che ritrovarsi davanti ad un suo, di coetaneo. Era stato amore a prima vista… anche se la ragazza in principio aveva interpretato i propri sentimenti come una forte ammirazione per le eccezionali capacità deduttive del più grande detective di tutti i tempi e, del resto, le era bastato quel primo incontro per constatare che la sua fama era pienamente giustificata.
Non si era accorta affatto che ciò che l’aveva attirata maggiormente, più che le sue capacità, erano state le mani dalla forma aggraziata, i gesti misurati, la voce pacata, lo strano modo di atteggiarsi e, sì, anche il fatto che fosse giovane e piuttosto belloccio, a modo suo.
Nei mesi successivi R aveva avuto periodicamente occasione di coadiuvare il lavoro di L, ma aveva persistito nell’errore finché Linda non le aveva aperto gli occhi. Era innamorata, non c’era niente da fare! E non si trattava di un fuoco di paglia, ma di un vero e proprio incendio!
Purtroppo però il suo amore non era ricambiato. Dal lato sentimentale, l’indifferenza del detective le era palese. Così, se prima poter lavorare con lui le era sembrato un sogno che si realizzava, col tempo stargli accanto e percepire nient’altro che disinteresse era diventato insostenibile. Ma, d’altra parte, R non voleva assolutamente perdere il privilegio di essergli d’aiuto e poterlo, se non altro, incontrare. Non le sembrava forse di toccare il cielo con un dito quando, a caso risolto, il suo idolo abbozzava un mezzo sorriso regalandole un sincero “sei stata brava”? Avrebbe fatto qualsiasi cosa per preservare quei piccoli momenti di puro appagamento.
Così si era buttata ancor di più nello studio delle connessioni tra comportamento e personalità, decisa ad arrivare a traguardi mai raggiunti da nessun altro prima; la psicologia comportamentale non doveva avere più segreti per lei. L’intero istituto non avrebbe più considerato la sua dote come un semplice dono, ma avrebbe addirittura gridato al miracolo!
In quel periodo aveva preso l’abitudine di consumare esclusivamente bevande aspre. Il gusto agro della limonata non zuccherata la aiutava a concentrarsi nei momenti di studio allontanando il tormento della passione insoddisfatta, e ricacciava indietro la nausea nei momenti di lavoro, quando il detective le sottoponeva le foto raccapriccianti dell’ultimo ritrovamento di cadavere martoriato, talmente concentrato sulle indagini da non curarsi della faccia verdognola della sua collaboratrice, prossima allo svenimento.
R era assolutamente certa che se L si fosse accorto di ciò che provava per lui l’avrebbe allontanata, optando per un aiutante meno appiccicoso e più pratico. Per questo avrebbe dovuto imparare a dominare i messaggi involontari del linguaggio del corpo, caratteristici di ogni essere vivente.
Il suo nemico numero uno era senza dubbio il viso, che a quel tempo esternava ciò che le passava per la testa come un libro aperto. Infatti non solo Linda, da quell’attenta osservatrice che era, si era accorta della sua cotta; ben presto anche le altre compagne di stanza avevano cominciato a darle di gomito quando capitava loro di incrociare Ryuzaki nei corridoi dell’istituto, e ciò era preoccupante. Voleva dire che la sua faccia stava comunicando un po’ troppo, rischiando di farsi scoprire anche dall’oggetto dei suoi desideri.
Si era quindi impegnata a concentrarsi il più possibile sul controllo dei muscoli facciali, ma con scarsi risultati. Come si poteva, infatti, dominare una reazione involontaria? Il suo stesso dono era la prova diretta che nessuno poteva nascondere completamente gli indizi dell’animo interiore.
Lo stesso Freud diceva che colui che ha occhi per vedere e orecchie per sentire può convincersi che nessun mortale può mantenere un segreto. Se le sue labbra sono silenziose, egli parla con le dita; la verità stilla fuori da ogni suo poro.
In presenza di L, la ragazza era costantemente in agitazione. Aveva sempre l’impressione di stargli troppo vicino, o fissarlo troppo a lungo.
Una volta, quando lui all’improvviso aveva afferrato bruscamente lo schienale della sedia girevole su cui era seduta e l’aveva rivolta a sé, gli si era gettata praticamente fra le braccia equivocando il gesto, scoprendo un secondo troppo tardi che l’intenzione del ragazzo era stata solo quella di voltarla nella propria direzione per passarle alcuni fogli contenenti nuovi indizi. Nell’imbarazzo più totale, si era scusata mille volte dichiarando di essere scivolata in avanti a causa dello spostamento imprevisto, ma si era sentita ugualmente una perfetta imbecille intuendo chiaramente cosa stesse passando nello sguardo poco convinto di lui.
Per non parlare della volta in cui avevano lavorato ad un caso così intricato che erano giunti alla soluzione solo dopo tre giorni di indagini ininterrotte. A notte fonda, stremati, avevano concluso il tour de force concedendosi una tazza di tè bollente seduti direttamente sul pavimento, nella stanza rischiarata dai monitor e dalla luce della luna che entrava dalla finestra. Ad R l’atmosfera di quel momento era sembrata così intima che non aveva osato guardare L negli occhi nemmeno una volta, fissandogli al massimo il mento quando era costretta a parlargli. Per tutto il tempo le guance della ragazza erano rimaste soffuse di un tenue rossore, per accendersi poi di un colore vermiglio quando, mentre osservava distrattamente il soffitto, aveva allungato una mano per prendere un biscotto a caso ed aveva scoperto che era lo stesso biscotto a cui aveva puntato anche il suo compagno. Aveva sentito le dita di lui sotto le sue ed aveva ritirato la mano come se si fosse scottata, dandosi dell’idiota per l’esagerazione della sua reazione. Perché doveva essere così dannatamente emotiva?
«Non sapevo che ti piacessero le lingue di gatto. Allora prendile pure tu, io non ho preferenze» aveva detto il ragazzo.
R aveva abbozzato un sorriso timido, ed aveva cominciato a sbocconcellare il biscotto. A dire il vero, lingue di gatto o altro, per lei non faceva differenza. Detestava i dolci in generale. Aveva allungato la mano verso il vassoio solo perché aveva così tanta fame che era prossima a un collasso, e qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Se proprio avesse dovuto scegliere, avrebbe preferito una bella caraffa di limonata; se non altro avrebbe scacciato in un baleno la nebbia che le stava ottenebrando la mente a causa della stanchezza.
Aveva mandato giù un altro sorso e si era rilassata un poco, cominciando a considerare quella situazione sotto una luce nuova: finalmente stava prendendo un tè insieme al ragazzo per cui stravedeva!
Fino a quel momento non le era mai capitato di poter passare un po’ di tempo con lui al di fuori dell’ambito delle indagini. Soprattutto, fino a quel momento non le era mai capitato di avere il minimo contatto diretto con la sua pelle. Peccato solo che fosse stato così breve da non poterlo nemmeno godere un pochino. E Dio solo sapeva quanto le sarebbe piaciuto poterlo tenere per mano!
Per la prima volta, la ragazza aveva messo in dubbio le proprie capacità e si era chiesta se era proprio sicura che non sarebbe piaciuto anche a lui. Dopo tutto, le sue deduzioni non erano il risultato di una scienza esatta, ma erano frutto di un istinto innato e come tali erano soggette ad un certo grado di interpretazione personale. Inoltre sapeva che L custodiva tutti i numeri di Eighteen dove compariva Misa Amane, quindi, tutto sommato, non era immune al fascino femminile.
Forte di questo pensiero, R aveva sorseggiato pensierosa ancora un po’ di tè, ponderando l’idea di tentare di fare il primo passo. Aveva incrociato istintivamente le gambe, come le capitava sempre quando aveva bisogno di aumentare il grado di concentrazione, e si era sistemata per bene la gonna lunga per coprirle completamente.
Aveva dato un altro morso al biscotto, meditando sul sapore estraneo. A lui quella roba piaceva. Forse avrebbe potuto sfruttare la cosa a proprio vantaggio. Alla Wammy’s House c’era una persona che poteva aiutarla, su quel fronte.
Ancora qualche minuto di riflessione, ed R aveva elaborato un piano d’attacco. Se non voleva passare il resto della propria vita a sospirare invano, aveva bisogno di ottenere una risposta. Assolutamente.
 
Il giorno dopo R aveva bussato al laboratorio di D, a dire la verità con un po’ di titubanza; infatti, abituata ad inquadrare immediatamente le persone con cui aveva a che fare, con D non sapeva mai come comportarsi. Da quel genio strampalato che era, D non era assolutamente prevedibile. Gli schemi mentali sintetizzati dalla scienza della psicologia con lei non funzionavano, e ciò metteva R in difficoltà.
In attesa che qualcuno le aprisse, R si era messa ad analizzare istintivamente la targa sulla porta. A ben guardare, qualcosa che rispecchiasse il carattere della proprietaria del laboratorio-pasticceria in fondo si poteva trovare: il disegno della faccina sorridente accanto alla scritta “D’s Lab” rappresentava l’indole allegra della ragazza, così come le sfumature dei colori pastello ne esprimevano la natura fantasiosa e la genialità latente. Ma l’analisi della targa era stata interrotta da D stessa, che aveva aperto la porta ed aveva accolto R festosamente, come faceva con chiunque fosse disposto a prestarle un po’ di attenzione.
«Caaara! Cosa ci fai qui? Entra, entra! Non immaginerai mai cosa sto preparando! Capiti proprio al momento giusto, ho appena finito!» aveva cinguettato afferrandole una mano e strattonandogliela in su e in giù prima di sparire nel retro del laboratorio.
Ne era rispuntata pochi secondi dopo spingendo davanti a sé un tavolo munito di ruote su cui troneggiavano due torte nuziali a più piani. Le torte erano collegate fra loro da ponticelli di caramello, e da una delle due partiva un cavo elettrico. D aveva inserito la spina in una presa, e dal piano più alto della torta si era aperto uno sportellino da cui era uscita una carrozza trainata da un cavallino meccanico. La carrozza aveva attraversato il primo ponticello passando sulla seconda torta, poi, dopo aver compiuto il giro del primo livello, era scesa di un piano per mezzo di una rampa di cioccolato ed aveva continuato il suo percorso, in un costante moto perpetuo da una torta all’altra.
R era rimasta a bocca aperta, rapita dal movimento della carrozza e dalle stupende decorazioni dei due dolci, finché D non l’aveva risvegliata dallo stato ipnotico.
«Bello, vero?» le aveva chiesto con aria compiaciuta.
«E’ decisamente incredibile» aveva risposto R con sincerità. «C’è qualcuno che si sposa?».
«Ah, ah, ah, ma che dici?» aveva riso l’altra. «Queste non si mangiano, si tratta di un apparecchio con funzioni distensive. Attenta a non fissarlo troppo a lungo, o cadrai in un sonno profondo!».
R non aveva potuto fare a meno di pensare alla singolarità del genio di D, così fuori misura che sarebbe rimasto incompreso per sempre.
«Come sta il Piccolo Panda? E’ un po’ che non passa di qui. Tu lo vedi di tanto in tanto, vero?» le aveva chiesto la pasticciera, con il suo regolare sorriso infantile che la faceva sembrare un po’ ebete.
Nell’udire il soprannome, R aveva provato una punta di gelosia. Come si permetteva, quella lì, di prendersi certe confidenze verso il suo futuro ragazzo?
Con una nota piccata nella voce, era passata direttamente al motivo che l’aveva spinta lì.
«Senti, tu conosci bene L» aveva chiesto, facendo intendere che non era una domanda.
«Sì, é il mio fratellone adottivo!» aveva risposto l’altra giungendo le mani con aria sognante.
La gelosia di R era salita alle stelle, e la ragazza aveva avuto la sensazione che se l’altra non si fosse tolta immediatamente quell’espressione incantata dalla faccia l’avrebbe soppressa seduta stante. Le era già capitato di vedere i due insieme, e tutte le volte D era appiccicata addosso a L come un koala. Nonostante fosse lampante che il loro rapporto fosse fraterno, R aveva sempre provato invidia per quel contatto fisico così spontaneo.
Tuttavia la loro complicità poteva rivelarsi un vantaggio da sfruttare.
«Quindi tu… saresti in grado di preparare un dolce che lui… come dire… apprezzi in modo particolare?» aveva chiesto R, incespicando nelle parole.
D l’aveva guardata per un lungo momento con gli occhi sgranati. Tutti prendevano le distanze da lei, giudicandola strana e un po’ stupida. Era la prima volta che qualcuno le chiedeva aiuto.
«Intendi… un dolce che sia anche commestibile?» aveva mormorato, sfregandosi il mento con una mano sporca di zucchero a velo.
R aveva cominciato a dubitare di aver fatto la scelta giusta rivolgendosi proprio a D, ma non aveva avuto il tempo di fare marcia indietro perché quest’ultima era balzata tutta contenta verso di lei abbracciandola vigorosamente e trascinandola con sé in un girotondo vorticoso.
«Ma ceeerto!» aveva esclamato. «Non c’è dubbio su quali siano i suoi gusti! Anzi, ho già qualcosa di pronto!».
Dopodiché era saltellata fino al frigorifero cantilenando “un dolce per il Piccolo Panda, un dolce per il Piccolo Panda”, sotto lo sguardo perplesso dell’altra ragazza, che aveva cominciato a dubitare della sua sanità mentale.
Era tornata con un marron glacé confezionato in un pirottino di carta colorata e decorato da una violetta di zucchero e un fiocchetto di colore intonato. L’insieme era delizioso, ma R non era parsa convinta.
«Tutto qui? E’ così piccolo...» aveva chiesto, un po’ delusa.
«Ma scherzi?! Parli così perché non ti piacciono i dolci, ma questo è il re delle squisitezze! Estremamente dolce, estremamente di classe. Non ti preoccupare, lo gradirà senza ombra di dubbio. Il Piccolo Panda cadrà ai tuoi piedi!» l’aveva rassicurata entusiasta D battendo le mani.
«Come hai detto?!» aveva esclamato R a queste ultime parole.
«Nulla, nulla. E ora corri!» aveva risposto la pasticciera con un sorrisetto malizioso, spingendola frettolosamente fuori dal laboratorio e sbattendole la porta in faccia.
R si era ritrovata nel corridoio deserto, tenendo il marron glacé posato reverentemente sul palmo della mano come un oggetto prezioso. Aveva lanciato un’occhiata scoraggiata alla porta chiusa; a quanto pareva era davvero messa male se perfino D, che viveva praticamente a tempo pieno nel suo laboratorio, l’aveva smascherata come se niente fosse.
Poco dopo si era recata nel prato sul retro dell’istituto, dove Roger le aveva detto che avrebbe trovato L. Infatti era appollaiato sull’altalena, nell’angolo più lontano dall’edificio. R era rimasta per un po’ ferma in disparte a guardarlo, beandosi del suo profilo assorto in chissà quale pensiero e sentendo di amarlo più che mai. Poi lui si era voltato casualmente dalla sua parte e l’aveva scorta. Nel suo sguardo non era passato il minimo lampo di stupore; forse aveva previsto quell’incontro o forse, più semplicemente, Roger l’aveva avvisato che lei lo stava cercando – del resto, non si separava mai dal cellulare.
Si era avvicinata, pronta per la resa dei conti, agitata come non mai.  Del resto, non poteva più tornare indietro. E nemmeno lo voleva.
«Tieni, è per te» gli aveva detto porgendogli il marron glacè con entrambe le mani, senza perdere tempo in giri di parole che avrebbero solo dato modo al suo imbarazzo di raggiungere proporzioni tali da mandare a monte la sua impresa.
«Che cos’è?» aveva chiesto il ragazzo, guardando incuriosito l’oggetto.
R era rimasta interdetta. Da come aveva parlato D, era improbabile che lui non conoscesse quel dolce.
«E’… una castagna candita…» aveva risposto, incerta.
«Lo vedo. Intendevo dire, cosa significa?» aveva continuato lui.
R aveva cominciato a capire dove voleva andare a parare. Aveva percepito ritrosia nelle sue parole, ma quello era stato l’aspetto meno influente. Il punto cardine – aveva realizzato con orrore – era che in quel momento tutto in lui le stava gridando che conosceva i suoi sentimenti, da chissà quanto tempo, e che non avrebbe mai potuto ricambiarli. La stava implorando silenziosamente di lasciare che le cose fra di loro rimanessero indefinite, perché aveva bisogno di lei e perché così avrebbe potuto continuare a fare finta di niente, ad ignorare volutamente la situazione. Avrebbe continuato ad apprezzare il suo aiuto, a lodare le sue capacità e a rispettarla come investigatrice, ma nulla di più.
R aveva pensato che avrebbe fatto meglio a fermarsi lì. Era ancora in tempo per fare marcia indietro e assecondarlo. Avrebbe potuto buttarla sullo scherzo facendo passare quel dolce come un pegno per avergli rubato le lingue di gatto la sera prima. Tuttavia non era riuscita a farlo. Aveva perseverato nel voler conoscere la verità, e aveva voluto sentirla direttamente dalla bocca di lui.
«E’ un regalo. Ti prego, prendilo» aveva risposto, abbassando gli occhi.
«Non hai bisogno di farmi regali» aveva detto lui. «E nemmeno dovresti» aveva aggiunto dopo una breve pausa, in un sussurro che si era trasformato in una sferzata dolorosa nel cuore della ragazza, nonostante il solito timbro di voce distaccato si fosse addolcito sensibilmente sull’ultima frase. Aveva provato pena per lei?
R non aveva avuto bisogno di guardarlo in faccia per comprendere. Finalmente il muro di incertezze e bugie che si era costruita da sola era crollato, annientato dalla consapevolezza di non essersi mai sbagliata nelle proprie supposizioni. Aveva voluto illudersi, ma in fondo aveva sempre saputo di aver interpretato alla lettera i segnali percepiti.
L le stava chiedendo di fermarsi, finché era in tempo. E allora perché non gli aveva dato ascolto? Perché aveva voluto ferirsi ancor più profondamente?
«Però da D ogni tanto un dolce in regalo lo accetti» aveva insistito, tenendo la testa bassa. Non aveva voluto guardarlo direttamente e fargli vedere quanto le stesse facendo male quella situazione.
«Con D è diverso. Lei è… un po’ tocca».
E, secondo lui, avrebbe dovuto accontentarsi di un motivo del genere?
R aveva soppesato le parole del ragazzo e aveva intuito che il significato era un altro. D non gli chiedeva amore ma cercava solo l’affetto di un amico che non la evitasse a causa della sua diversità, vedeva in lui esclusivamente una persona con cui confidarsi. Per questo per L non rappresentava un problema. Nel suo caso, era tutto un altro paio di maniche.
Aveva cercato la verità, ed ora era lì davanti. L non avrebbe mai provato nulla per lei. Poteva biasimarlo per questo? Di certo no. Il destino aveva voluto che non fossero compatibili.
Dovrò farmene una ragione e andare avanti con questa consapevolezza, aveva pensato chiusa a chiave da sola nella stanza che di solito divideva con Linda e altre due compagne, senza ricordarsi come ci fosse arrivata.
 
Sì, dovrei fare così… se solo ne avessi la forza.
 
La lama affilata del bisturi aveva reciso di netto l’arteria radiale del braccio sinistro, da cui era immediatamente zampillato un fiotto che aveva macchiato la pelle ed era colato copioso sulle piastrelle.
Un dolore atroce era esploso propagandosi per tutto l’arto, e la ragazza si era ricordata di un episodio accaduto l’anno precedente durante l’ora di sintesi delle prove: le era stata mostrata l’immagine di una stanza messa a soqquadro, con le pareti macchiate abbondantemente di sangue, e le era stato chiesto di esprimere un parere sulla ricostruzione dei fatti.
«E’ la scena di un omicidio! C’è stata chiaramente una colluttazione, seguita da un delitto cruento!» aveva risposto senza esitazione, basandosi sugli schizzi di sangue che arrivavano fin quasi al soffitto.
«Ma nient’affatto! Si tratta di suicidio. La vittima si è ferita ai polsi, e a causa del dolore insostenibile ha perso la testa, provocando questo caos. Contrariamente a quanto si pensa, tagliarsi le vene è dolorosissimo, perché si danneggia direttamente il nervo mediano attraverso il canale carpale. Per cortesia, si scordi quelle patetiche scene da film in cui ci si addormenta pacificamente nella vasca da bagno. Quelle sono solo fantasia. E, soprattutto, non tragga mai conclusioni affrettate da un’osservazione sommaria, signorina Andreoli» l’aveva redarguita l’insegnante davanti a tutta la classe.
R si era sentita piccola piccola, ma evidentemente la lezione non le era rimasta poi tanto impressa se si era scordata di quel particolare così in fretta.
Il dolore lancinante l’aveva fatta tornare in sé ed aveva cominciato a urlare e urlare. Era caduta a terra stringendosi il polso nel tentativo di fermare il flusso, sentendo la vita scivolarle via dalla ferita aperta, di colpo terrorizzata dalla presa di coscienza di ciò che aveva fatto. Le sue grida, della potenza di una sirena impazzita, avevano messo in allarme tutto il piano. Aveva sentito colpi alla porta e parole di cui, prossima allo svenimento, non aveva inteso il significato. Poi la porta era stata sfondata, aveva udito la voce  rotta dai singhiozzi di Linda e mani che l’avevano afferrata per le spalle, scuotendola. Subito dopo aveva perso i sensi.
Si era risvegliata nel suo letto, con il polso fasciato e l’ago di una flebo piantato nel braccio, chiedendosi cosa fosse successo. Con la vista ancora annebbiata, si era guardata intorno ed aveva scorto Mello, in piedi a braccia incrociate con un’espressione terribile, e il signor Roger seduto un po’ in disparte.
«Hai fatto proprio una bella cazzata, non c’è che dire» aveva sbottato il ragazzo biondo.
R aveva pensato che avesse ragione.
«Ci sei solo tu?» aveva chiesto.
«E chi ti aspettavi, una schiera di giornalisti pronti a intervistarti e farti un bell’articolo da sbattere in prima pagina? E’ una fortuna che il signor Quillsh abbia fra le sue conoscenze anche un chirurgo, così ti hanno potuto ricucire senza portarti all’ospedale. Ci manca solo che qualcuno vada a raccontare in giro che qui alla Wammy’s House gli allievi sono sottoposti a una pressione tale da spingerli al suicidio!».
R si era accoccolata sotto il lenzuolo, avvilita. Non solo non era stata capace di portare a termine quello che aveva iniziato, ma aveva pure creato problemi a tutto l’istituto.
«Dov’è Linda?» aveva chiesto con un filo di voce.
«Nel refettorio che piange come una fontana. Stanno cercando di calmarla. Secondo me se venisse qui e ti prendesse a calci in culo si sentirebbe molto meglio».
«Perché sei così arrabbiato con me?» aveva domandato riemergendo da sotto il lenzuolo.
«Perché, mi chiedi? Ti rendi conto che qui dentro sei una privilegiata, agli occhi della maggior parte degli allievi? Hai ottenuto una lettera, quello a cui tutti aspiriamo più di ogni altra cosa, ma non sembri apprezzarlo affatto. Sai cosa significa quella lettera? Che dovresti dedicare la tua vita a migliorare il mondo, e invece tenti di buttarla via con una scenata da primadonna da operetta. Ma si può sapere che ti è preso? Che cosa vuoi di più? Hai deluso tutti. Se il tuo ruolo ti pesa così tanto, allora vattene e vedi di sfruttare la seconda possibilità che ti è stata concessa in un modo più intelligente di questo».
A quel punto Roger era intervenuto, accompagnando il ragazzo alla porta.
«Ora basta. Ha bisogno di stare tranquilla per un po’».
Mello se ne era andato lanciando alla ragazza un’ultima occhiata accusatoria. R capiva come si sentiva. Che l’ammirazione di Mello per L fosse sconfinata non era un segreto per nessuno. Probabilmente anche lei sarebbe montata su tutte le furie se fosse stata superata da qualcuno che non giudicava degno di merito.
Roger aveva avvicinato la sedia al letto e aveva accarezzato i capelli della ragazza, ancora pallida come una morta per la perdita di sangue, osservandola preoccupato.
«E’ davvero così? E’ colpa del tuo incarico? Perché non me ne hai mai parlato, prima di arrivare a questo?» le aveva chiesto gentilmente.
Quindi le cose stavano in quel modo. Anche Roger credeva che all’origine del suo gesto ci fosse la tensione per una responsabilità troppo grande per una ragazzina. Perché in quel dannato istituto nessuno vedeva al di là della propria missione?
Per un momento le era balzato in testa l’impulso di raccontargli tutto.

Sa signor Roger, è da mesi che sono perdutamente innamorata di L. Quando sto con lui non sono più io, tutto diventa rosa e la testa mi si riempie di farfalle. Mi mostra la foto di un cadavere sgozzato e vedo succo di lampone al posto del sangue, mi passa un tabulato e credo che mi voglia abbracciare, lo ascolto mentre parla di omicidi e dopo tre parole perdo il filo del discorso perché mi perdo nel suono celestiale della sua voce, e tutto questo, mi creda, è diventato insostenibile, tanto che non riesco più a sopportarlo. Sapesse quanto sono invidiosa di Lei, che può trattarlo da pari a pari, e del signor Quillsh, del modo in cui l’espressione di L si distende e si riempie d’affetto quando gli parla e, se proprio vuole saperlo, ultimamente invidio perfino quelle ciambelle che gli piacciono tanto e che possono essere leccate e morse ogni giorno da lui. Sì, sto peggiorando, anzi, ormai si può dire che sono un caso patologico. Così oggi ho deciso di giocare il tutto per tutto e dichiararmi, perché fino a stamattina ero convinta che sarebbe stata la scelta migliore, qualunque risposta avessi ricevuto. Sono stata una povera scema. Avrei dovuto sapere che non c’è limite al peggio. Perché lui una risposta me l’ha data, oh sì. E purtroppo l’ha fatto in modo così garbato che non ho nemmeno potuto avere una scusa per dare in escandescenze e prendermela con lui. Ed è stato così chiaro – ah, certo,  non a parole, ma sa, si da il caso che a me sia toccata questa certa maledizione, che a voialtri piace tanto chiamare dono, che mi permette di comprendere ben oltre le parole – dicevo, è stato così chiaro che se mi avesse colpito con una mannaia credo che mi avrebbe fatto meno male. Dopo di che mi sono ritrovata nella mia camera e non ho trovato di meglio che porre fine alla mia esistenza e non pensarci più”.

Ma naturalmente dalla sua bocca era uscito tutt’altro. Aveva studiato per un breve momento l’espressione premurosa e apprensiva dell’anziano direttore, ed aveva optato per la scelta di fargli avere la spiegazione che avrebbe voluto sentirsi dire.
«Già, è proprio così» aveva mentito, «non sono tagliata per questo ruolo. Vorrei vivere un’esistenza ordinaria, e frequentare una scuola ordinaria».
Due giorni dopo aveva lasciato l’istituto per non farvi mai più ritorno. Non aveva mai rivelato a nessuno il vero motivo del suo tentato suicidio, nemmeno a Linda che, nonostante tutto, l’aveva seguita nella sua nuova vita.
«Vengo con te. Non sapresti mai cavartela da sola» aveva dichiarato. «E poi il mio sogno è quello di diventare una celebrità dell’arte. Distrarre i professori durante le lezioni di simulazione di reato per permetterti di annacquare le prove non è certo la missione della mia vita».
 
Rossella aveva sperato che vivere nel mondo che c’era fuori da quella specie di regno privato che era la Wammy’s House l’avrebbe aiutata a dimenticare L e la sua ossessione per lui. Ma non era andata così. La dimostrazione era lì, davanti a lei, nel cortile del maniero dei Cavendish. Trovarsi di fronte al detective che non vedeva da cinque anni le faceva ancora battere il cuore, esattamente allo stesso modo di allora.
«Oddio, guarda che bello!» strillò eccitata Linda, distraendola dai ricordi del passato.
Rossella si voltò di scatto, appena in tempo per vedere un enorme alano arlecchino che le si lanciava contro, travolgendola. Cadde all’indietro e atterrò sul sedere, mentre il cane le leccava la faccia.
«Silky Nose, non essere maleducato!» lo rimproverò Kathy tirandolo indietro per il collare in modo da liberare la detective dalla massa imponente dell’animale.
Come si fa a chiamare Silky Nose un molosso del genere?! pensò irrazionalmente Rossella dopo aver ricevuto un’ultima leccata festosa dal cane.
«Vieni via. Che birichino che sei!» rise Kathy.
«Caspita, hai una gran forza per smuovere un cane così. Peserà almeno ottanta chili!» disse meravigliata Linda.
«Ne pesa un po’ di più» rispose la ragazza bionda abbracciando il cane e strofinando il viso nel pelo raso e morbido.
«L’affetto di un cane è una cosa preziosa» disse una voce quieta e gentile alle loro spalle.
«Wat… Signor Quillsh!» esclamò Rossella.
Le sfuggì un sorriso, fugace ma luminoso, completamente estraneo all’espressione neutra che la caratterizzava. Solo in quell’istante si rese conto che non l’aveva ancora salutato. L’incontro con L doveva averla proprio sconvolta se non si era nemmeno accorta della presenza dell’anziano. Watari le porse una mano per aiutarla, ma lei si rialzò da sola e lo abbracciò di slancio.
«Signor Quillsh! Quanto tempo!».
«Buongiorno, signorina Andreoli» la salutò l’altro con un tono cerimonioso che la fece ridere.
L’espressione placida dell’anziano le aveva sempre infuso tranquillità. E da lì a poco ne avrebbe avuto davvero bisogno. Infatti, non appena una donna di mezza età, alta e paffuta, si affacciò al portone d’ingresso del maniero, Kathy le corse incontro più felice che mai.
«Irene, come stai?».
«Piccola lady, bentornata!».
L’allegra donna rubiconda abbracciò la ragazza facendola volteggiare un paio di volte prima di posarla nuovamente a terra e invitarla ad entrare, mentre Silky Nose correva loro intorno abbaiando a più non posso, inseguito da Linda che cercava di acchiapparlo.
Watari prese i due bagagli che Linda e Kathy avevano abbandonato vicino all’auto e si avviò a sua volta verso l’ingresso e, in men che non si dica, tutti quanti sparirono all’interno del maniero lasciando Rossella ed L da soli.
Per un po’ i due rimasero in silenzio, studiandosi a vicenda. Come le capitava tutte le volte in cui si trovava a tu per tu con qualcuno, istintivamente Rossella cominciò ad analizzare la persona che aveva davanti. A poco a poco sentì crescere la concentrazione e gradualmente dimenticò la soggezione iniziale, fissando il ragazzo apertamente. Quando entrava nel livello più profondo di quello stato tutto intorno a lei scompariva, rafforzando la sensazione di trovarsi praticamente in simbiosi con il proprio interlocutore. Ogni respiro, ogni battito cardiaco dell’altro diventava anche il suo. Nel caso di L, a causa dei sentimenti che provava per lui, quel legame assunse una connotazione quasi intima, lasciandola piacevolmente stordita. Chissà per quanto tempo sarebbe rimasta in quello stato, se L stesso non avesse rotto il silenzio. 
«Grazie per aver accettato il mio invito, detective Andreoli».
«Smettila di chiamarmi così, mi mette in imbarazzo».
«L’hai detto tu che non vuoi che ti chiami R. Se non posso chiamarti nemmeno con il tuo nome, come devo fare?».
«Non è per il nome, è per… oh, lasciamo perdere! Chiamami Rossella. Rossella e basta».
«E’ uno pseudonimo?».
«Sì, è quello che mi avevano assegnato alla Wammy’s House. Di me sapevano che ero di origini italiane, quindi hanno scelto un nome adeguato».
«Che combinazione. Anch’io sono per un quarto italiano».
Rossella pensò con una punta di amarezza che, nonostante si conoscessero da tempo, quel breve scambio di frasi somigliava alla conversazione tra due sconosciuti che si presentano per la prima volta. Non avevano mai discusso di qualcosa di personale, prima. D’altronde, per come stavano le cose era più che naturale che L non avesse mai avuto interesse nell’approfondire la conoscenza.
«Perché mi hai coinvolta?» tagliò corto. Non voleva continuare quella farsa fatta di finto interessamento.
«Tu cosa sai di sir Arthur Cavendish?» le chiese il detective per tutta risposta.
«Quello che scrivono sui giornali. Possedeva una notevole fortuna ed era un personaggio piuttosto in vista, ma ha condotto sempre una vita riservata, lontano da scandali e sperperi. Ciò non vuol dire che non si concedesse una vita agiata, e questo castello, in quanto residenza secondaria, ne è un esempio. Esistono solo due eredi ufficiali, e di sicuro d’ora in poi non avranno mai più problemi economici, se mai ne hanno avuti».
«E del testamento cosa sai?» le chiese ancora.
«Esiste una parte ufficiale, il cui contenuto è stato reso pubblico. O meglio, è stato dedotto mettendo insieme le vibranti dichiarazioni di protesta di tutti quelli che si credevano eredi ufficiali e che si sono visti soffiare il patrimonio da due nipoti sbucati all’improvviso. Quello che nessuno sa, invece, è che esiste una parte riservata, che sarà resa nota solamente ai suddetti nipoti e che costituisce il motivo per cui siamo qui oggi. E qui inizia la parte interessante, perché sembra che non esista un testo definitivo del testamento. Il documento è diviso in più parti, sigillate separatamente e custodite chissà dove. Sembrerebbe una specie di caccia al tesoro, e da questo punto di vista potrebbe essere paragonato all’ultimo scherzo di un nobile burlone, ma non credo che si tratti di nulla di così banale se ha stuzzicato l’interesse di L in persona, dico bene?».
«Quindi tu sei già a conoscenza della parte che sarà resa nota solo oggi, eh? L’hacking è un reato, Rossella. Dovrò ricordarmi di dire a Q di non darti troppa corda».
Rossella cominciò ad irritarsi. Non solo L continuava ad eludere le sue domande, ma la punzecchiava pure. Come se lui non avesse mai fatto uso di mezzi scorretti in vita sua…
E con che aria saccente aveva finto di sapere come si fosse procurata le informazioni! Sì, esatto, aveva finto, perché era sicura che l’allusione all’aiuto ricevuto da Q fosse solo una sparata da parte del detective per darsi delle arie, andata a segno per pura fortuna. Anche se era la verità, in realtà non aveva nessuna prova che lei e Q fossero in contatto; glielo si leggeva in faccia, e meritava una lezione.
«Sembri molto sicuro nelle tue supposizioni. Peccato che il tuo corpo indichi tutto l’opposto. Di solito, tu quando sei in piedi tieni le mani in tasca, ma mentre parlavi ti sei sfregato la punta del naso, poi un orecchio. Questo perché lo stress da menzogna crea dei micro-formicolii in alcune zone periferiche del corpo. Ammettilo, non hai la minima idea di come abbia fatto ad ottenere quelle informazioni».
Rossella incrociò le braccia e lo guardò compiaciuta, ma il sorrisetto sarcastico che aveva accennato le morì sulle labbra quando vide quello soddisfatto di lui. Si accorse troppo tardi di essere caduta come un pollo nella sua trappola.
«Mi hai voluto mettere alla prova!» esclamò seccata.
«Esatto. Sembri in perfetta forma. Bene, è proprio quello che volevo» rispose il ragazzo. Il suo sorriso si allargò.
La ragazza gli elargì un’occhiataccia, ma non disse nulla. La colpa era sua, che l’aveva sottovalutato dimenticando chi aveva di fronte.
«Che cosa vuoi da me?» sbottò.
«Saresti in grado di distinguere un essere umano da qualcosa che finge solo di esserlo?» le chiese il ragazzo senza esitazione. Il suo sguardo si fece attento, i suoi occhi più profondi che mai.
Se la domanda le fosse stata posta da chiunque altro probabilmente Rossella sarebbe scoppiata a ridere, ma il solo fatto che fosse stato L a chiederglielo non le fece passare nemmeno per l’anticamera del cervello di mettere in dubbio le sue parole. Dal suo atteggiamento, Rossella capì che quella domanda era cruciale. La soppesò con attenzione, prima di rispondere.
«Ho troppo pochi elementi su cui basarmi. Quanto sarebbe diverso da un essere umano, questo qualcosa? Devo partire dal presupposto che pensi o si comporti in modo diverso da come farebbe un comune individuo?».
«Giusta considerazione. Mettiamo allora che questo individuo non reagisca secondo quelli che sono ritenuti i normali standard per un essere umano. E non parlo di differenze tra sani di mente e squilibrati, ma di… uhm… come dire… particolari, magari all’apparenza insignificanti, che non rispettino i canoni del comportamento umano, che facciano pensare a qualcosa di distorto. In questo caso te ne accorgeresti?».
«… sì, penso di sì».
La voce della ragazza suonò strana. La domanda che le era stata posta non le piaceva per niente, e il fatto che il detective, per un attimo, fosse sembrato turbato le piacque ancora meno. L si era sempre basato su fatti oggettivi, e non era certo incline a dar credito alle superstizioni. Perché mai le aveva chiesto una cosa così insolita?
«Che cosa sta succedendo?» osò chiedere a bassa voce.
«Non lo so ancora. Tutto quello che posso dirti è che la morte di sir Arthur Cavendish ha avuto dei risvolti inspiegabili, tanto che questa volta non me la sento di affidarmi agli occhi di intermediari. Ma non ti preoccupare, non ho intenzione di metterti nei guai. Se mi accorgerò che le circostanze prenderanno una piega pericolosa, agirò in modo che tu sia al sicuro».
Rossella, che da quando L aveva cominciato a parlare era rimasta a fissare pensierosa la ghiaia per terra, udendo l’ultima frase rialzò di scatto la testa. Anche se era sicura che non se ne fosse accorto, le aveva appena detto una cosa che le sarebbe rimasta impressa per giorni, facendola sorridere fra sé e sé. Era la prima volta in assoluto in cui il detective le diceva qualcosa che somigliava anche solo lontanamente ad un gesto di riguardo nei suoi confronti. La cosa la riempì talmente di gioia che si scordò perfino di chiedere delucidazioni sul perché la situazione avrebbe potuto farsi pericolosa.
«Se vuoi che collabori con te ho bisogno di essere messa al corrente di tutto ciò che hai scoperto».
«D’accordo» le rispose lui svagatamente.
Che il detective sapesse essere un gran bugiardo per lei non era una novità, ma questa volta le parve che non si fosse nemmeno sforzato di sembrare credibile. Sospirò rassegnata. Era chiaro che le avrebbe raccontato solo quello che gli avrebbe fatto comodo.
«Sir Arthur Cavendish era amico di Watari. Credo che li accomunasse la passione per le scoperte, sebbene per fini diversi. A Watari interessano le invenzioni, mentre lord Cavendish era appassionato di…».
«Scienze occulte» terminò Rossella per lui. «Sir Arthur Cavendish finanziava diverse opere umanitarie e istituti per orfani, tra cui il nostro. In quanto al suo hobby, era conosciuto solo da una ristretta cerchia di appassionati, tutti piuttosto benestanti, tra i quali una sedicente sensitiva di nome Evie Philliphs e un certo Aaron Mason, presunto demonologo». Tralasciò volutamente il fatto che anche David Warwick, il gemello di Kathy, era incluso nel gruppo, con il curioso ruolo di alchimista. Che L si tenesse pure i suoi segreti, lei avrebbe fatto altrettanto. «Avevano fondato una specie di circolo privato con lo scopo di coltivare il loro passatempo. E, guarda caso, la sede era proprio qui, in questo maniero. Però, a quanto pare, le loro riunioni si sono interrotte circa due mesi fa, apparentemente senza motivo. Per quanto ne so, non vi sono stati né litigi né nient’altro di simile. Ah, naturalmente tutte queste informazioni sono riservate, e non ne troverai cenno sui giornali, né tramite altre fonti. Come ti ho detto, il circolo era privato e nulla trapelava al di fuori dei suoi membri».
«Q ti ha aiutato un po’ troppo…».
«Avere gli agganci giusti fa parte del mio mestiere» ribatté Rossella sorridendo, godendosi la sua piccola rivincita.
Il suo fu un sorriso aperto, di cui si stupì lei stessa. Era una bella sensazione, che non provava da anni. Per la prima volta, si domandò se chiudersi verso gli altri come faceva abitualmente non fosse inutile, se non addirittura stupido.
«…Così sei molto più tu…» disse a mezza voce il ragazzo.
«C… come dici?» balbettò Rossella, che al contrario aveva capito benissimo.
«Niente. Bene, cosa non hai scoperto, allora?».
Ma la ragazza a causa di ciò che aveva appena udito si sentì inspiegabilmente confusa e non fu più in grado di proseguire.
«E’ tutto… più o meno» rispose. «E tu che mi dici?».
«Una settimana prima di morire, lord Cavendish ha scritto una lettera a Watari. Il contenuto sembrava quello di una normale conversazione d’affari, ma facendoci caso l’inchiostro in alcune parole appariva più marcato che in altre. Leggendo in sequenza solo queste parole, il testo acquista tutt’altro significato. Guarda tu stessa».
L porse alla ragazza un foglietto, tenendolo sollevato con due dita.
 
Caro amico,
 voglio metterti in guardia. Tu mi conosci, sai quanto sia grande la mia passione per la scoperta, per tutto ciò che a questo mondo risulta inspiegabile. Ma forse questa volta ho peccato d’orgoglio, sebbene per amore della conoscenza. Temo di aver superato un confine che non è concesso al genere umano. Ho voluto troppo, ho voluto e basta. Ho dimenticato chi siamo e quali sono i nostri limiti, ho varcato una soglia che sarebbe dovuta rimanere celata.
Ti chiedo un favore, amico mio. Mi sento la persona più spregevole di questo mondo, perché coinvolgerti potrebbe voler dire farti correre un rischio troppo grosso. Ma, credimi, non lo farei mai se non lo ritenessi indispensabile. Se in futuro dovesse accadermi qualcosa, ti prego di indagare sulle cause della mia scomparsa e scoprire la verità. Sono sicuro che tu e i tuoi ragazzi ci riuscirete. Sigillerete di nuovo ciò che doveva restare nell’oblio.
Perdonami, di più non posso dirti. Loro me lo impediscono. Non possono più vedermi, ma in qualche modo mi percepiscono e mi controllano. Non sai quanto mi costa scriverti queste poche righe.
Domani mattina affiderò questa lettera a Irene che, ignara di tutto, continua a servirmi fedelmente. Spero che riesca a consegnartela. Lo spero con tutto il cuore.
 
Il tuo devoto amico
Arthur Edward Cavendish
 
«A quanto pare, lord Cavendish aveva cominciato a dare di matto prima di morire» commentò Rossella dopo aver letto il contenuto del foglietto.
«E’ davvero quello che pensi?».
Passò un lungo momento prima che la ragazza rispondesse. La verità era che nulla nella lettera le aveva fatto dubitare della sanità mentale del defunto Lord, e questo le aveva messo addosso un timore irrazionale.
«…no…» ammise di malavoglia.
«Credo di capire quello che provi, ma d’ora in poi vorrei che ti fidassi esclusivamente delle tue deduzioni, anche se dovessero portarti ad una conclusione assurda».
«Da quando in qua questo è il tuo metodo d’indagine? Anche tu ti sei sempre basato su fatti concreti».
«E continuo a farlo. Semplicemente, in questo caso dovrai allargare le tue vedute».
La faceva facile, lui! Che cosa poteva essere successo per indurlo a parlare così? Questo suo tergiversare per tenerla all’oscuro cominciava a darle sui nervi.
«Se non mi dici chiaramente a cosa stiamo andando incontro, non arriveremo a niente!» esclamò.
«Hai ragione, ma ho paura che se ti metto al corrente di tutto te ne andrai immediatamente».
«Non sono qui per aiutare te, ma la mia cliente. Come vedi, i nostri obiettivi sono diversi. Ho preso un impegno con lei, e non abbandonerò il caso finché non avrò scoperto chi la sta importunando. Sono passati cinque anni dai tempi in cui collaboravo con te, non sono più una ragazzina. Non ti preoccupare, non svengo più alla vista del sangue».
«Come vuoi. Cominciamo dalla lettera. Secondo il referto della scientifica, nella cellulosa del foglio risulta la presenza di particelle ignote».
«Come è possibile? Significa che non appartengono a nulla di conosciuto?».
«Beh, per ora significa solo che non sono ancora riusciti ad identificarle. Ma il fatto più singolare è un altro. Il cadavere di lord Cavendish è stato scoperto dai domestici al mattino, quando la governante ha bussato alla porta della sua stanza per servirgli la colazione, come d’abitudine, e non ha ricevuto risposta. E’ stato accertato che la morte è avvenuta durante la notte per arresto cardiaco. Tuttavia, quando il corpo è stato trovato, pare fosse già in avanzato stato di decomposizione» spiegò L, scrutando con una punta di divertimento la reazione della sua interlocutrice.
Rossella era impallidita visibilmente. Se non fosse stata un tipo orgoglioso, si sarebbe rimangiata tutta la spavalderia che aveva sbandierato pochi minuti prima, sarebbe saltata in macchina e sarebbe ripartita per Winchester a tutta velocità senza voltarsi indietro. Ora il maniero non le sembrava più un castello da fiaba, ma una rocca lugubre e portatrice di incubi.
«E’ meglio che Kathy questo non lo sappia. Ma… la scientifica come lo spiega?» chiese tanto per darsi un contegno.
«Per ora non si pronunciano, e penso che tergiverseranno finché il caso, in mancanza di spiegazioni logiche,  sarà archiviato. E’ per questo che sono qui. Credo che la particolare struttura del testamento sia stata studiata come espediente per condurci al maniero. E’ da qui che dobbiamo cominciare le indagini. Probabilmente sir Arthur Cavendish…»
Una mano si posò all’improvviso sulla spalla di Rossella, che sobbalzò emettendo un singulto.
«Siamo nervosi, eh? Ti ho spaventata?» rise Linda. Poi si rivolse a L: «Un momento, ma io ti conosco! Anche tu eri alla Wammy’s House. Ti chiami… uhm…».
«Ryuzaki» le suggerì L.
«Ah, ecco, già! A proposito, il signor Quillsh mi ha detto che è qui per far visita alla tomba del suo amico. Lo conoscevi anche tu?».
«Oh, ma sei il ragazzo dell’altro giorno! Cosa ci fai qui?» la interruppe Kathy, che nel frattempo li aveva raggiunti.
«Sono l’assistente di Rossella. Sono qui per darle una mano» rispose prontamente L.
«Davvero? Ecco perché l’altro giorno mi hai detto di chiamarla! Stavi facendo propaganda! Però… anche quel signore anziano ha detto di essere un tuo assistente. Caspita! Rossella, devi essere davvero una detective importante per avere addirittura tre aiutanti!».
«Eh, già… Non bastano mai…»
«Entriamo. Il notaio è già dentro e ha detto che possiamo cominciare» disse Kathy indicando il maniero.
«Anche senza tuo fratello?».
«Pare che David l’abbia contattato spiegando che non potrà presentarsi. Ma, visto che è per causa di forza maggiore, gli sarà concessa una proroga e non ci saranno problemi» spiegò Kathy, visibilmente sollevata.
Si avviarono tutti verso l’ingresso, anche se Rossella e Linda rimasero un po’ più indietro rispetto agli altri due.
«Che significa? Non mi avevi detto che ti eri accordata con il signor Quillsh e quell’altro. E non dirmi che sono qui davvero per la storia della visita alla tomba perché non me la bevo».
«Ti giuro che é una sorpresa anche per me. Pare che sir Arthur Cavendish fosse davvero amico del signor Quillsh, e pare che sia morto in circostanze misteriose. Anche loro sono qui per indagare per conto di L, come noi».
«Capisco. L non si fida proprio di te, eh? Beh, comunque hai una fortuna sfacciata, perché fra tanti ha scelto di mandare proprio il tuo principe azzurro» la prese in giro Linda, ma la risata le morì in bocca quando girò lo sguardo verso il maniero.
Rossella lesse sconcerto negli occhi dell’amica e guardò nella sua stessa direzione, ma non notò nulla.
«Cosa c’è?» le chiese.
«Là, sul tetto, dove c’è il terzo abbaino. Quando siamo arrivate ho guardato bene tutta la costruzione, perché ho pensato che potesse servirmi da modello per un dipinto, e sono sicurissima che prima quella cosa non c’era».
Dalla finestra di uno degli abbaini, legata per i capelli, pendeva la testa di una bambola.

 
 
Commenti personali
Dunque, da dove comincio?!
Per prima cosa, parliamo di Linda: nel fandom inglese è considerata IC se la si descrive come premurosa verso gli altri. A me questa cosa non è mai andata giù! Ma come, Linda compare in UNA vignetta del manga, chiede a Near se vuole uscire in giardino a giocare e automaticamente diventa una santa?! Eh no, questa non l’accetto proprio! Da qui parte la caratterizzazione che ho scelto di darle nella mia fan fiction. Perdonatemi, fan di Linda!!!! Non me ne vogliate! Q_Q
 
In quanto a D, è un mio personaggio apparso in una precedente fan fiction. Se volete sapere qualcosa in più su di lei, cercatela tra le mie storie, la troverete facilmente. Vi aiuterà a capire un po’ di più chi è questa ridicola ragazza ^^
 
Di Q ho già parlato nel precedente capitolo: è apparso nel romanzo “L change the world” ed è il genio informatico che, tra l’altro, ha messo a punto il sistema di sicurezza del quartier generale antikira.
 
In quanto allo svolgimento di questa storia, vi metto in guardia: mi piacerebbe dedicarmici con un certo ritmo, ma fra studio e lavoro non trovo proprio il tempo. Ho cercato di farmi perdonare scrivendo un capitolo piuttosto lungo, ma non so davvero dirvi quando arriverà il seguito. Abbiate fede, perché se non altro posso assicurarvi che la porterò a termine. Fatemi coraggio!
 
E, da ultimo (anche se avrei dovuto dirlo all’inizio!) ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate o che hanno lasciato commenti. Visto che mi avete fatto capire che non sto scrivendo per me sola, mi impegnerò per non deludervi!
Inoltre, se qualcuno volesse proporsi per farmi da beta-reader sarà il benvenuto.
   
 
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