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Autore: Amethyst10    27/04/2014    2 recensioni
Ophelia all’ amore non ci pensa, non ha tempo, fra lavori part-time, una famiglia da mantenere, l’unica cosa che ricerca è l’equilibrio e si sa che l’amore comporta problemi.
La sua vera passione è la pittura, con cui dipinge i propri dolori e le minuscole gioie, come se già, non fossero indelebili sulla sua pelle.
Ma ora ha solo 24h, per trovare un modo convincente per far cadere la finta confessione, ricevuta da parte di un cyber – bullo, davanti a tutta la classe.
Dal capitolo 3:

- Okay -
Mi accigliai un attimo.
- Come scusa? - domandai.
- Ho detto okay, accetto i tuoi sentimenti -
Sentivo mille occhi trafiggermi, da ogni direzione.
- No - pronunciai solo.
Ero nella più totale confusione. Aveva appena, seriamente accettato la mia dichiarazione? E io avevo appena risolto un problema per ficcarmi in uno più grande, come avevo ben capito?
- Non puoi accettare i miei sentimenti - continuai imperterrita - devi rifiutarmi come hai fatto con le altre. -
Ora era lui a guardarmi con un’espressione aggrottata in fronte.
- Soffri di una doppia personalità o sei semplicemente masochista? - chiese cauto.
- Non ho nessun problema psicologico! - esclamai indignata.
- Davvero? Perché giurerei averti sentito dire che ti piaccio. -
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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~~Capitolo 1

 

Quando una stella collassa per effetto della forza di gravità si trasforma in un minuscolo punto di densità infinita, dove anche il tempo stesso si ferma, si crea una “singolarità”, il cuore di un buco nero.
All’ inizio di tutto anche l’universo doveva essere stato una singolarità, lì il tempo si era fermato, si era raggiunto il vero inizio di tutto. Non esiste passato in cui l’universo poteva aver avuto una causa.
Si è spontaneamente creato nel Big Ben.
Stephen Hawking.

 

 

Ogni istante che si ripete diventa eterno, le nostre scelte comportano la nostra effimera vita.
Spesso ci chiediamo perché siano sempre le stesse, medesime cose, a gravare su di noi, che siano ricche di gioia o meno, la risposta è una sola, perché compiamo sempre la stessa tipologia di decisioni, convinti che siano le migliori, non possiamo sfuggirvi, e non ci soffermiamo a pensare, che effetti queste avranno su di noi, figuriamoci sulle persone che ci stanno accanto.

Eppure le conseguenze si riversano come un’onda infinita, che provoca minime variazioni in quegli istanti, che tanto propensi siamo a celebrare, sempre alla ricerca di una definizione, con cui poter rievocare l’emozioni, nella nostra memoria, che abbiamo assaporato.
La mia vita era ormai, però, collassata, gli stessi eventi giorno dopo giorno si replicavano, senza che io potessi realmente far nulla per arrestare quel processo.
Una solita frase, che mi madre mi ripeteva, era di come l’umanità avesse ormai compreso che la felicità perfetta non esistesse, ma quasi nessuno si rendesse conto che neppure la sua considerazione opposta fosse realmente attuabile; tuttavia, in quel periodo più che mai, il peso delle responsabilità si faceva sentire, come una spada di Damocle, cadente con fare minaccioso e infausto sul mio capo.
Avevo diciassette anni, e se qualcuno mi avesse chiesto qual era la più grande difficoltà, che stavo affrontato in quel momento, non avrei saputo da dove cominciare.
Di certo, comunque, la mia risposta non sarebbe caduta in uno dei quattro ambiti, dove la maggior parte dei problemi adolescenziali nasceva, ovvero: scuola, amicizie, amore e famiglia.
In realtà, avrebbero ben potuto rientrare in quest’ ultima, ma in modo molto amplificato.
Quel giorno, al momento, per l’esattezza, stavo rimuginando, a come saremmo riusciti, a pagare la bolletta dell’elettricità, dopo la batosta dell’affitto.
Nel frattempo camminavo in direzione della scuola, poco lontana.
La realtà e l’indifferenza erano l’unica certezza a cui davvero potessi far affidamento, scudo quotidiano verso ogni azione che potesse minare quella poca tranquillità che ancora mi restava.
I mie sogni erano capitolati, assieme ad ogni speranza, un fatidico giorno dei miei undici anni, quando mi ero ritrovata improvvisamente con una famiglia a cui badare.
Per cui mi sembrava più che normale non aver aspirazioni, che andassero al di là di ciò a cui davvero potessi giungere. Non c’era spazio per errori di quel tipo, o almeno io non avevo la facoltà di poter sperimentare qualcosa, che avrebbe potuto rivelarsi inutile, uno spreco di energie senza nessun rendimento, che non comportasse nessun aiuto.
Con queste convinzioni, dettate dalla mia situazione, era logico pensare che non avessi nessun rapporto con i miei coetanei. Per cui, neppure quella mattina, mi sorpresi nello scoprire di non ricevere nessun saluto.
Mi sedetti al mio banco, mentre il chiacchiericcio dei miei compagni andava smorzandosi con succedersi dei minuti.
Essendo la scuola e i libri di testo gli unici mezzi da cui potessi attingere sapere, quell’ istituto era diventato il mio tempio.
Cercavo di non saltare mai una lezione, ero sempre attenta, o almeno ci provavo, anche quando la stanchezza cercava di prendere il sopravvento, ogni parola, che ritenessi avesse, una qualche importanza, veniva scritta sul quaderno, per non essere più dimenticata.
Avevo quindi uno strano legame con lo studio rispetto alle persone delle mia età, che parevano respingerlo, soffocarlo, attraverso passatemi e divertimenti.
Passavo le ore a leggere e prendere appunti, seduta in fondo all’ aula, all’ estremità opposta di dove si trovavano le finestre, per non distrarmi, affianco al termosifone, in modo che anche in inverno, quando i miei vestiti non erano abbastanza pesanti, non avessi freddo.
Il tema abbigliamento, il mio per essere chiari, era ancora molto discusso all’ interno della classe. Non passava giorno senza che ricevessi qualche occhiata scettica, o disgustata.
Ma a me per prima non piacevano i miei vestiti. Il mio armadio, difatti, era un insieme di tute rattoppate, che cercavo di consumare il meno possibile.
Oggi ne indossavo una grigia, nulla di sorprendente dato che la metà erano di quel colore e l’altra metà erano nere.
Su di me giravano le più disparate voci, dal fatto che fossi la figlia di un mafioso, a quella che ero stata venduta da piccola a un calzolaio, quest’ultima non avevo proprio idea da dove nascesse. Comunque la più accreditata era che riportassi tutti i segreti e i difetti dei miei compagni su un diario segreto, durante le lezioni, che passassi ad osservare, spiare e origliare i presenti.
Non avevo fatto nulla per smentire le loro, infondate, opinioni.
Passai anche quel giorno, dopo cinque ore di lezioni a mangiare da sola, un panino al formaggio, sfogliando il giornalino del quartiere con le offerte dei vari super mercati.
Finita la pausa pranzo presi gli altri libri, facendo ben attenzione, da sotto al banco.
In alcune pagine, infatti, c’ erano scritti diversi insulti, i più disparati, che andavano dal criticare la mia montatura degli occhiali, troppo spessa a dimostrare quanto alcune mie compagne fossero gelose dei miei capelli biondo cenere, sempre raccolti in uno chignon disordinato.
In altri vi era polvere mischiata a fuliggine, che rendeva le pagine nere e illeggibili, l’unico modo, era passarci uno straccio appena umido, più volte, che avevo imparato a portare sempre con me in borsa, ma bisognava stare attenti a non bagnare il libro o a cancellare l’inchiostro.
Poi c’ erano i peggiori, in ogni pagina, su tutti i lati, con il nastro adesivo, erano state attaccate graffette, che rendevano pericoloso anche il solo sfogliare il volume, inutile precisare, che mi ero tagliata più volte, e che ogni volta che rimuovevo i pezzetti taglienti di ferro questi, il giorno dopo ricomparivano magicamente.
Non che mi importasse molto, ma forse, era proprio questo a dar loro fastidio, e che per quel motivo portò Jonny Andersen a confessarsi a me, durante la ricreazione pomeridiana, davanti a tutti.
Si avvicinò di soppiatto, prendendomi alla sprovvista, dato che come io evitavo i miei compagni, loro, sotto tacito accordo, evitavano me.
Alto, molto robusto, ricoperto di acne e con un inizio di barba, me lo ritrovai davanti, intento passarsi una mano trai corti capelli, unti, castani.
Mi guardava con uno strano sorrisetto, mosse impercettibilmente il naso, alzandosi di un poco la montatura degli occhiali, marrone, e iniziò a scrutarmi con quei suoi piccoli occhietti scuri.
Non parlava, mi osservava e basta.
Tornai alla spiegazione di come avvenisse la trascrizione di proteine, all’ interno del nostro corpo, e per tutta risposta lui sbatte una mano sul mio banco, ricevendo attenzione non solo da parte mia, ma anche di tutti gli altri.
Sapevo che tipo di reputazione avesse: nerd, che si divertiva con le primine, ricattandole o semplicemente facendole cadere nella sua rete in cambio di qualche favore.
Non avevo intenzione di cedere o tirarmi indietro, così presi a fissarlo, finché non si decise a parlare.
<< Sai ho riflettuto attentamente sulla tua situazione, e ho deciso di farti un favore… >> si fermò e fece un respiro profondo.
Per tutta risposta io alzai un sopracciglio, continuando a tenere tra le mani il libro di scienze.
<< ti concedo di diventare la mia ragazza, per un mese di prova, e se seguirai i miei ordini allora potrei pensare, forse, di farla diventare una cosa permanente. >>
 Era serio? O era una burla messa in atto per vedere la mia reazione?
Chi accidenti si credeva di essere? Un volontario alla ricerca di un caso humanitas, per mettersi in mostra?
<< Ti ringrazio, per il gentile titolo, di cui vuoi farmi dono, ma credo che declinerò, se non ti spiace >> detto ciò tornai a leggere, ignorandolo.
Probabilmente era rimasto di stucco, data la mia impertinenza, che raramente arrischiavo a mostrare all’ infuori di casa.
Sembrò però non perdersi troppo d’animo.
<< Come se potessi permettertelo, di rifiutarmi, quando lo sanno tutti, in quale situazione ti ritrovi a sguazzare, dopo quello che ti è successo >>
Ora aveva tutta la mia attenzione.
Che sapesse la verità? Difficile da constatare e credere, dato che le voci su di me ne erano ben distanti, doveva trattarsi, dell’ennesimo pettegolezzo, messo in giro.
 << Ovvero? >> chiesi lapidaria.
Lui, dal canto suo, vedevo che stava rivalutando il modo in cui tutti mi avevano inquadrato. Lo vidi farsi coraggio.
<< Vuoi davvero che lo dica davanti a tutta questa gente? >> domandò, con un gesto teatrale, per indicare l’ambiente circostante.
Gli spettatori dal canto loro, portavano avanti un ottimo comportamento, non preferivano parola, ne parevano arrischiarsi a intervenire.
<< Dato che ormai hai sottolineato, che si tratta di un fatto di pubblico dominio, perché non mettere al corrente anche la diretta interessata? >>
<< Dicono, che la tua famiglia ti abbia ripudiata, perché sei rimasta in cinta di Andrew Tyanne, e che adesso sei al secondo mese. >>
Restai a bocca aperta, chi cavolo era Andrew Tyanne?
<< Quindi le tue azioni sono mosse dalla pietà? >> ero curiosa di sapere quale fosse il motivo di tutta quella farsa.
<< Ovviamente no, ma è indiscutibile il fatto che tu abbia bisogno d’ aiuto >>
Si era avvicinato, e non di poco, sentivo l’odore acre del suo alito.
<< Non sono in cinta, non ho bisogno di nessun aiuto, ora per cortesia vattene. >>
Non dette nessun segno di cedimento.
<< Lo so che sei timida, ma arrivare al punto di risultare fredda e maleducata, non mi sembra opportuno. >> mise una mano sulla mia spalla, che per quanto cercassi di spostarla, continuava a premere, provocandomi un dolore sempre più acuto.
<< Lasciami immediatamente, non ho nessuna intenzione di accettare la tua finta dichiarazione >>
Sospirò, senza mollare la presa.
<< Meglio così, almeno non ci saranno malintesi, il mio scopo è tutto un altro >> cominciò lui.
Vale a dire mettermi le mani addosso il prima possibile pensai.
<< non ti conviene continuare ad aspettare il principe azzurro, o morirai seriamente sola, senza un soldo anche, probabilmente, quindi io, ti sto offrendo l’opportunità di acquisire uno status sociale più alto >>
<< Vuoi che diventi la tua… concubina? >> dissi schifata e scioccata, cercando però di non cadere nel volgare.
Sorrise, mostrando i denti storti.
<< Esatto, dato che non troverai mai nessun altro ragazzo, che si degnerà di prenderti in considerazione. >>
Iniziavano a prudermi le mani, ma una serie di immagini, che mostravano quello che sarebbe, facilmente, accaduto dopo averli tirato un pugno o peggio, mi facevano desistere.
La tranquillità scolastica che mi ero costruita in quattro anni non sarebbe crollata per via di un idiota, decerebrato.
<< Preferisco morire sola, che con uno come te. >> risposi acida guardandolo negli occhi.
<< Senti, io ti sto solo mettendo al corrente, quel che voglio me lo prendo >> iniziò  << questo è solo un momento di noia per me, quindi ti sto informando che tu sei la mia prossima preda, ma visto che sei un caso senza speranza, se troverai un modo, per farmi comprendere quanto realmente stia sprecando il mio tempo, con una sfigata, riprovevole, repellente ragazza come te all’ ora ti lascerò in pace. Hai tempo un giorno. >> detto questo se ne andò, probabilmente mosso da qualche istinto di sopravvivenza che ancora aveva dato che non mi diede il tempo di mandarlo a quel paese o mollarli una sberla in pieno volto.
Nella classe tornò caotica e io mi rimisi a studiare.
Ma non riuscivo più a concentrarmi, continuavano a venirmi in mente voci di alcune studentesse degli anni passati.
Foto di amiche, di mentre si cambiavano negli spogliatoi o in casa, che finivano su internet e social network, appese alle bacheche, e inviate ai cellulari di tutti i ragazzi.
Alcune ancora circolavano, ma seppur nessuno avesse mai indicato il colpevole, tutti sapevano chi fosse.
Solitamente preferiva ridurre psicologicamente una persona sua serva, attraverso minacce, ma forse ora si era stufato, proprio come aveva detto, andando a pescare dal cilindro, il coniglietto indifeso, che poteva sempre tener d’ occhio dato che sedeva solo a cinque banchi, per fortuna in diagonale, da lui.
Avrei trovato una soluzione, anche se il panico in quel momento pareva scorrere nelle miei vene, la mia mente era bianca, ma meno di quanto pensassi, dato che una strana, folle, idea stava già prendendo forma.

   
 
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