{ Gli Incidenti Capitano ~ File 0.2 }
Los
Angeles Mercy Hospital.
2013.
«I dottori hanno detto che ti
rimetterai.»
«Lo so.»
«Hanno detto che ti rimetterai
presto.»
«Lo spero.»
«…Quanto presto, Pep?»
E qui Virginia non riuscì a trattenersi dall’alzare gli occhi al soffitto. Per
l’ennesima volta si ritrovò a contare le fascette azzurrine che si rincorrevano
sulla sommità delle pareti e che si riunivano agli angoli con una rifinitura
blu più scura ed elegante. Il sole si rovesciava dalle ampie finestre
dell’ospedale sull’intonaco bianco a bande verde acqua, che dallo zoccolo del
pavimento risalivano fino alla metà dei muri, rendendoli accecanti e difficili
da guardare. O forse era soltanto il pesante mal di testa e il dosaggio
astronomico di medicinali a renderla fotofobica.
Gli stessi intrugli che le avevano
impedito di mettere le mani al collo di Tony, a dire il vero. Almeno uno dei due
poteva dirsi soddisfatto dell’effetto dei tranquillanti.
«Non lo so, Tony, è inutile che lo
chiedi.» lo riprese Pepper, nel torcere il collo sul cuscino per fissarlo
eloquente negli occhi.
Capiva la preoccupazione di Stark e
ne era anche lusingata, in un certo qual modo, pur tuttavia stava iniziando a
non sopportare più gli assalti logorroici del suo datore di lavoro su quanto
aveva male, quando sarebbe tornata, se voleva qualcosa da leggere, quando
sarebbe tornata, se il guanciale era ben sprimacciato e, ciliegina sulla torta,
quando sarebbe tornata. Non che vegetare in un lettino d’ospedale fosse la
massima aspirazione del mese, ovvio, ma più Tony continuava ad assillarla, meno
aveva di sedersi dietro la propria scrivania alle Stark Industries.
«Diciamo…Due settimane? Tre?»
«Tony…»
Ringraziando la morfina, era troppo
imbottita di oppiacei o qualunque altra cosa gli avessero iniettato nelle vene
per replicare con più di un blando richiamo. Non poteva negare a se stessa come
il ricorso ad un vocabolario non consono ad un Amministratore Delegato suo pari
le avrebbe giovato volentieri alla salute –E all’umore. Purtroppo, articolare
una frase di senso compiuto era uno sforzo decisamente mastodontico per la
lingua quanto per il cervello, figurarsi riempirsi la bocca delle peggiori
volgarità a disposizione sul mercato.
Sapeva che, per le Stark Industries
come per Tony, la propria invulnerabilità era diventata leggendaria: in
pratica, la consideravano più inattaccabile dell’armatura di Iron Man. Virginia
poteva vantare inoltre un curriculum di tutto rispetto. Era sopravvissuta ad
Obadiah Stane, a Vanko, all’invasione dei Chitauri e, punta di diamante, apice
della propria carriera esistenziale, aveva vissuto fino a quel momento al
fianco del genio, miliardario, playboy, filantropo Anthony Edward Stark senza
essere sbattuta in cella con l’accusa di omicidio premeditato.
La notizia che Virginia Pepper Potts,
l’intoccabile, la Magnifica Virginia Pepper Potts era finita in ospedale per un
tassista maldestro che le aveva fratturato il bacino e giocato a frisbee coi
menischi, doveva essere stato un fulmine a ciel sereno per l’intero staff delle
Industries.
Happy, che non mancava mai di farle
compagnia –Tranne quando c’era Stark accanto a lei- e non scordava mai di
portarle un mazzo di fiori per augurarle in maniera più sommessa, e gradevole,
una buona guarigione, ecco, Happy le aveva raccontato che Tony, alla notizia,
aveva reagito con aplomb ragguardevole: aveva distrutto soltanto cinque tazze di caffè nel tentativo di prepararsi qualcosa
per mantenere la calma. Il giorno in cui Virginia gli aveva annunciato la fine
della loro storia ne aveva spaccate dieci.
In azienda, invece, era stato lo
sfascio. Gente che si metteva in malattia, segretarie che si licenziavano o
preparavano diffide per molestie prefabbricate, addirittura, si diceva, il
povero ragazzo che le portava ogni mattina ginseng e colazione macrobiotica aveva
mollato tutto, era scappato e adesso vendeva Kebab in una losca stradina di
Manhattan. Questi pettegolezzi, sempre riportarti dal fedele e leale Happy,
erano un toccasana per Pepper, che li ascoltava deliziata e con un caloroso
sorriso sulle labbra.
Certo, la maggior parte delle
situazioni erano inventate di sana pianta o ingigantite a dovere, ma era
inconfutabile che la degenza obbligatoria dell’Amministratore Delegato avrebbe
provocato ben più di un problema. Non tanto perché chi vi lavorava avesse poca
fiducia nei confronti di Tony Stark, ma perché Tony Iron Man Stark non aveva dalla propria il tempo necessario per
occuparsi delle Industries e intanto prendere a repulsori in faccia il cattivo
di turno. Era stato già un miracolo che, saputa la notizia dell’incidente, Tony
avesse acconsentito ad un trasferimento imprevisto a Malibu e all’abbandono dei
lavori di ricostruzione alla Stark Tower.
Insomma, con tutti questi preamboli e
le variabili future del caso, una segretaria non diventava una necessità: era
un bisogno quasi fisico.
Per fortuna, a quello aveva pensato
lo S.H.I.E.L.D. Non per buona disposizione d’animo nei confronti di Tony
–Virginia era dell’idea che Fury avrebbe usato contro di lui la benda a mo’ di
fionda, se solo avesse potuto- quanto come una sorta di ultimo favore in
memoria dell’Agente Coulson –Oh, Phil.
La scelta, comunque, era qualcosa su
cui Tony non perdeva occasione di lamentarsi, di solito dopo aver lanciato
invettive gratuite al servizio sanitario, alla programmazione della ABC e al
caffè imbevibile delle macchinette.
«Non mi piace che tu sia qui.» commentò
Tony, reclinando la nuca all’indietro sulla seggiola in plastica e osservando Virginia di sbieco «L’ufficio è
vuoto, senza di te.»
Fossero stati ancora in una relazione
stabile, Virginia sarebbe arrossita. Visto che così non era, optò per un più
politicamente corretto sorriso d’accondiscendenza.
«Colin è valido quanto me.»
Stark torse la bocca, modellando le
labbra in una smorfia grottesca che accentuava pericolosamente le borse sotto
gli occhi e il colorito pallido del volto smagrito.
«Questo è ancora tutto da vedere.»
«Me lo ha raccomandato lo
S.H.I.E.L.D.»
«Lo S.H.I.E.L.D. non è molto bravo
con segretari e affini. L’ultima era una spia, assassina e pure russa, se la
memoria non mi inganna.»
Un piccolo sospiro fuggì il petto
affaticato e stanco di Virginia. Senza dire una parola di più, tese mollemente
il braccio destro e allungò le dita, il capo appena reclinato nella direzione
del magnate. Questi, dopo aver atteso un tempo prestabilito di cinque secondi
per non intaccare dignità e compostezza, agguantò i lati della seggiola e si
spinse in avanti, facendo sgrattare e arrancare e stridere le gambe metalliche.
Pepper gli rivolse un’occhiata ammonitrice, subito dissolta da un’espressione
più dolce e serena mentre, cintogli le spalle e convintolo ad appoggiarle la
fronte sul ventre, gli lasciava un bacio appena sussurrato fra i capelli e una
carezza accennata alla base della nuca.
«Via, Tony, non essere drammatico.
Non è niente di che.» tentò di scherzare «Lo sai, no? Gli incidenti capitano.»
Località
Sconosciuta.
2011.
Appunti
del Medico.
Il soggetto ha dimostrato una capacità di recupero
invidiabile. Pur concordando col dottor Marlowe che si tratta solo di ordinaria
di amministrazione e non è nulla di così eclatante come ci aspettavamo, devo
ammettere che l’idea di poter studiare questo caso sarebbe più di quanto
immaginato anche nei miei sogni più reconditi.
Il soggetto è arrivato in impianto refrigerato
direttamente dal luogo di ritrovamento ed è stata subito allestita una equipe
specializzata per occuparsene. Da quel che ho potuto capire, il progetto è di
massima segretezza e il dottor Marlowe è stato incluso come supporto psicologico
per affrontare la tensione derivante dalla reclusione e la totale mancanza di
rapporti con l’esterno.
Ero curioso di sapere come ai vertici avrebbero
spiegato l’assenza ingiustificata di parte della sezione medica, ma dopo averne
discusso col dottor Marlowe ho capito che sono questioni meramente
burocratiche, del tutto al di là del mio interesse e del mio ambito lavorativo.
Questa mattina abbiamo cominciato il processo per
consentire al soggetto di recuperare il suo calore, nella speranza che il suo
sangue sia ancora idoneo per le analisi. Non ho mai assistito personalmente
alla cosa, ma ho letto di casi dove un corpo rapidamente congelato è stato
completamente rianimato.
Nonostante i fondi stanziati e le conoscenze che ci
sono state messe a disposizione, non so se i vertici siano più interessati alla
rianimazione o ai suoi fluidi vitali, secondo il dottor Marlowe chiederselo va
oltre l’entità del nostro stipendio. E io sono d’accordo con lui.
Per quanto la mia equipe fosse dubbiosa sul recupero
da parte del soggetto, quanto sta accadendo va oltre le mie più rosee aspettative:
la temperatura corporea del soggetto è stata aumentata nel corso di parecchie
ore e le sue ferite sono state suturate per evitare emorragie. Quando la sua
temperatura è stata vicina ai valori normali, le nostre supposizioni hanno
trovato conferma...tessuti e sangue erano ancora vitali. Gli abbiamo
somministrato elettricità, farmaci cardiopolmonari e adrenalina direttamente
nel cuore.
Stento ancora a crederci, il soggetto è ancora vivo.
E si è risvegliato.
Località
Sconosciuta.
Telecamera
di sicurezza.
2011.
Un
laboratorio. Un lettino al centro. Sei medici intorno. Macchinari alle pareti,
un supporto circolare con innesti luminosi posizionato sopra il volto del
soggetto disteso. Uno dei medici, dopo aver somministrato un farmaco tramite
siringa nel braccio del soggetto, solleva la schiena e si allontana di un passo
dal lettino.
I
medici si guardano tra loro. Guardano le macchine. Uno dei medici scuote il
capo e si toglie la mascherina, rivelando un volto di donna con labbro leporino
e naso schiacciato. Dice qualcosa e subito il medico davanti a lei, si presume
il capo dell’equipe, le punta l’indice contro. Il medico capo si strappa la
mascherina con gesto irato e continua ad abbaiare alla collega.
La
situazione si scalda, potrebbe degenerare, quando uno dei macchinari –Un
elettrocardiogramma- ha un picco e poi ricade. Gli astanti si immobilizzano.
L’elettrocardiogramma ha un guizzo. E poi un altro. E un altro ancora.
Ripetuti. Costanti.
L’attenzione
dell’equipe è ora tutta rivolta al soggetto disteso sul lettino. Nessuno dice o
fa nulla per lunghi minuti, poi un brivido sembra percorrere unanime la squadra.
Un movimento dei muscoli del soggetto, un guizzo di vene che partono dal polso
destro e percorrono l’avambraccio.
Il
medico capo fa segno ai colleghi di farsi indietro.
La
gola del soggetto si solleva bruscamente e poi rimane immobile. Alcuni secondi
di attesa. Le palpebre si stringono. Gli occhi, dietro di esse, hanno un
fremito appena percettibile. Il polso trema. E poi, lentamente, ecco, il
soggetto solleva piano le ciglia, le pupille si dilatano e si restringono, s’assottigliano,
si spalancano, una ruga gli incide la fronte. Alza le spalle, si mette a
sedere, si guarda intorno. L’espressione, dapprima confusa, comincia a
diventare diffidente mano a mano che la vista mette a fuoco gli oggetti e il
cervello comincia ad elaborare i dati e le circostanze in cui è venuto a
risvegliarsi.
Il
medico capo allarga le braccia, a volerlo accoglierlo e rassicurarlo. Il
soggetto non dice nulla, ma una contrazione guardinga è ben visibile alla
mascella, che illividisce. I medici devono essersi accorti del suo disagio e
dell’atmosfera sempre più tesa che si sta creando. Tentano di alleggerire,
provano a dire qualcosa anche loro.
Il
soggetto diventa ancora più vigile, gli occhi guizzano uno alla volta ai visi
dell’equipe e da lì si drizzano a osservare, registrare ogni cosa lo circondi,
ogni cosa sia sopra la testa, davanti a sé, ai lati. Il medico capo abbassa
appena le mani non appena nota l’elettrocardiogramma schizzare e lampeggiare
impazzito. Il suono del macchinario ha messo in allarme il soggetto: subito si
volta verso di esso, torna a fissare il medico, lo sguardo è affilato, i pugni
serrati.
Il
soggetto china appena la fronte e solleva appena le spalle prima di scendere
con un salto dal lettino e cominciare a tirare calci e pugni per liberarsi
dalla presa improvvisa dei medici. I colpi sono calcolati, i movimenti fluidi,
è come una danza tale è la naturalezza con cui il soggetto si muove e cerca di
farsi strada fino all’uscita del laboratorio.
Croydon
Avenue, Los Angeles.
2013.
Darma si torceva le mani mentre
camminava a passettini lungo Croydon Avenue. Era notte inoltrata, forse le due,
forse le tre del mattino, non sapeva dare una definizione precisa dell’ora, se
fosse giorno in ritardo o sera infinita, senza visione futura di stralci di
luce o frammenti di alba.
Si asciugò la fronte con un
fazzolettino viola già lercio di sudore e macchie di caffè, lo appallottolò tra
le dita grassocce e continuò ad avanzare, girando il collo tormentato da vene
rigonfie e bollicine per vedere se qualcuno lo stesse seguendo, se qualche
altro lo stava fissando da dietro le tende, se c’era un cane ad annusare la sua
scia impaurita da dietro i cespugli o se un borseggiatore avesse deciso di fare
di lui una vittima di lavoro.
Quasi sperava che qualcuno si
accorgesse della sua presenza lì, su quello stradone infinito affiancato da
grigi, monotoni prefabbricati che svettano attorno a lui come cassoni
mostruosi, con grandi occhi di vetro e corna di tegole spigolose e fauci di
legno, artigli d’erba tosata, scaglie e squame di recinzione dipinte di bianco
latte. Sperava che una casalinga inghirlandata di bigodini uscisse di corsa
fuori, si fermasse sul viottolo e dalla gola spenzolante carne molla erompesse
un garrulo e stridulo grido “E’ lui! E’ il tassista che ha investito quella
povera ragazza!” e Darma avrebbe fatto di sì con la testa e ninnoli sul petto
avrebbero ondeggiato e tintinnato e lui avrebbe teso i polsi e accettato il
giusto arresto.
Perché avrebbero dovuto arrestarlo,
di questo Darma ne era sicuro. Aveva compiuto un’azione riprovevole, l’aveva
compiuta per mero compenso e ora, adesso, era logico che pagasse. La poverina
era finita in ospedale, Darma l’aveva sentito per caso mentre ciabattava
pendulo dietro l’ampia schiena del proprio salvatore, e lei non gli aveva fatto
niente per meritare di finire in un lettino asettico, magari intubata, magari
in fin di vita, magari in coma…Era stato spinto dalla cupidigia, dalla
ricompensa e dalla prospettiva di passare ogni cosa liscia, di uscirne indenne
e continuare a scarrozzare turisti qua e là per Los Angeles senza noia alcuna
da parte dei poliziotti.
Gli piaceva scarrozzare turisti di
qua e là per Los Angeles senza noia alcuna da parte dei poliziotti, e poi
qualche dollaro in più –Tanti dollari in
più- non gli sarebbero dispiaciuti. E nemmeno a sua moglie. E Darma ci
teneva a Batari, voleva farla felice.
Ah, chissà che avrebbe detto sua
moglie, la sua dolce Batari, sapendo che lui era lì, a bighellonare, tremante
come un topo e coi capelli appiccicati alle tempie, alla ricerca di un
indirizzo e di un uomo che non gli riusciva di trovare! E’ che aveva paura e la
bocca dello stomaco grufolava e guaiva.
Però l’uomo che doveva incontrare era
l’uomo buono che l’aveva salvato alla centrale, col viso gentile e gli occhi
chiari, quindi cosa mai temere?
Dopo innumerevole scartoffie, prese
in giro sull’Indonesia, ore ad aspettare sotto lo sguardo ironico, prepotente
degli altri poliziotti, il signor Shea era comparso davanti a lui come un’epifania
divina e Darma si era subito fidato del suo volto buono e dei suoi occhi
chiari.
Vieni
con me
gli aveva detto e il cuore di Darma si era sciolto Sono venuto a prenderti. Andiamo via di qui.
Gli aveva messo una mano sulla
schiena, il signor Shea, lo aveva fatto alzare, gli aveva offerto il caffè e
scambiato uno sguardo di intesa con un collega. Un poliziotto aveva cercato di
protestare, dicendo che Darma doveva essere interrogato e per nessuna ragione
al mondo lo avrebbe lasciato andare, che la poverina era in ospedale e che era
necessaria un’inchiesta.
Il signor Shea, col suo bel sorriso e
il volto gentile e gli occhi chiari, si era chinato a sussurrare qualcosa all’orecchio
del poliziotto, che era sbiancato, balbettato, spalancato le palpebre come un
pesce e poi annuito. Darma era stato in grado di contare le goccioline di
sudore appese ai baffi marroni del poliziotto mentre il signor Shea lo
osservava soddisfatto e procedeva oltre. Aveva portato Darma fuori dalla
centrale, gli aveva detto di non preoccuparsi, gli aveva chiesto se poteva
aiutarlo in qualche modo e infine, prima di lasciarlo con una stretta di mano,
gli aveva detto di presentarsi per al massimo le tre notte in un dato indirizzo
di Croydon Avenue. Lì, gli aveva assicurato, avrebbe ricevuto l’altra metà di
compenso per il lavoro così egregiamente svolto.
Vicino al signor Shea era sembrato tutto
perfetto e senza fallo. Poi, via via che il tempo passava e si avvicinava l’ora
dell’incontro, a Darma le cose non era parse più così cristalline e lodevoli.
Al contrario, aveva cominciato a sentir montare il panico, il senso di colpa, e
l’idea che un ingranaggio, nel meccanismo losco e complice in cui si era
proprio malgrado trovato in mezzo, non fosse al posto in cui doveva stare. Chi
erano le persone che l’avevano ingaggiato? Chi era il signor Shea? Perché aveva
accettato? Oh, Batari, Batari…!
«Per fortuna, temevo non arrivassi
più.»
Darma sobbalzò alla voce calma del
signor Shea, dietro di lui.
«Non l’ho sentita arrivare.» si scusò
Darma e la bocca divenne arida nell’incontrare gli occhi dell’uomo.
Non era più gentili e caldi: erano
freddi, gelidi, lame, dischi di metallo, proiettili. Lo aspettava con le
braccia conserte al petto, la testa appena sporta in avanti e nessuna
espressione sulle labbra affilate.
Darma deglutì ed ebbe paura.
Raggomitolata sotto le coperte, la
guancia affondata nel cuscino e gli occhi fissi all’alone perlaceo dei lampioni
sulla finestra, Batari non ebbe neanche il più vago sentore di essere appena
diventata vedova.
Note
Abbiamo
cominciato il processo per consentire al soggetto di recuperare il suo calore,
nella speranza che il suo sangue sia ancora idoneo per le analisi. Non ho mai
assistito personalmente alla cosa, ma ho letto di casi dove un corpo
rapidamente congelato è stato completamente rianimato. ; non so se i vertici
siano più interessati alla rianimazione o ai suoi fluidi vitali ; Per quanto la
mia equipe fosse dubbiosa sul recupero da parte del soggetto, quanto sta
accadendo va oltre le mie più rosee aspettative: la temperatura corporea del
soggetto è stata aumentata nel corso di parecchie ore e le sue ferite sono
state suturate per evitare emorragie. Quando la sua temperatura è stata vicina
ai valori normali, le nostre supposizioni hanno trovato conferma...tessuti e
sangue erano ancora vitali. Gli abbiamo somministrato elettricità, farmaci
cardiopolmonari e adrenalina direttamente nel cuore. (Ed Brubaker’s
Collection – Il Soldato d’Inverno )