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Autore: lamialadradilibri    12/05/2014    2 recensioni
«Ciao, Emma. Sono io, Cara. È da un po’ che non ci sentiamo, perché... Be’, ti potrà sembrare strano, ma ora ti sto scrivendo da un altro mondo. Il Mondo Al Di Là, più precisamente. È ancora tutto un po’ confuso, e... Non ho idea di come tornare indietro. Non c’è nessuno che può aiutarmi, qui. Ricordi Alec Mitchell, l’agente di polizia, il dio greco? Be’, è qui anche lui. Questo è il suo mondo, in realtà.
È iniziato tutto in modo così normale (per quanto sia normale finire in commissariato alla mia età a causa d’una sparatoria...!), ma ora nulla è come prima. Abbiamo litigato, lo so. Ma ti chiedo un’unica, piccola, cosa: Aiutami. Fammi uscire di qui. Qui c'è qualcosa di sbagliato, malsano. L'unica cosa che mi tiene in vita è ciò che provo per Alec Mitchell, che credo sia... Amore, sì. Lo è, anzi. Nonostante ciò... Vivere qui è terribile, mi costringono a combattere ogni giorno. Ad uccidere, Emma. E non so nemmeno il perché. Ho paura! Salvami. Tu puoi farlo.»
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo Cinque.

Il Mondo Al Di Là.

NdA. La storia sta prendendo una piega un po' soprannaturale (come genere, intendo...), quindi modificherò la presentazione ed aggiungerò un tag. Avviso a parte, buona lettura! In questo capitolo c'è molto Alec Mitchell c:
 

«Cara?»
Per un secondo mi sembrò che Gabriele volesse abbracciarmi. Per un attimo pensai anche che volesse domandarmi scusa per ciò che aveva causato. Improbabile, sì.
Ma poi la sua espressione cambiò. Radicalmente. Nei suoi occhi passò l’odio e l’ardore di chi è intenzionato a fare del male a qualcuno – a me –, e s’avvicinò a passi pesanti.
Gabriele. Il mio amico. La mia anima gemella.
Ma io ero ancora a metà tra la realtà – tristezza, amarezza, dolore, solitudine, shock, paura, follia, ansia, abbandono – e il limbo – nulla –, così le mie emozioni furono molto attenuate. Non piansi, né gridai, né gli mollai un ceffone. Guardai questo ragazzo così carino e così fatto – “Vuoi vederla? È bellissima, oltre che buonissima” – venirmi incontro, finché a separarci non ci fu che uno strato d’aria sottile.
«Oh, Gabriele, ciao. Anche tu qui? Che sorpresa
Istigare le persone alla violenza mi sembrò altroché eccitante. E Gabriele era la cavia perfetta.
«Cara, non giocare col fuoco» mi avvertì. Il suo respiro sfiorava il mio viso. Ed era caldo, fetido, quasi umido. Sporco.
«Tu non parlarmi di questo, Gabriele. Non puoi più, amico.»
Amico. La parola uscì forzatamente dalla mia gola e sembrò assolutamente fuori luogo.
«Ho giocato con il fuoco, sì. Ed anche tu» ribatté prontamente, con cipiglio sicuro.
«Tu mi hai trascinata nei tuoi giochi» ringhiai, con la rabbia che montava dentro. Io non avevo scelto proprio niente! Mi ero ritrovata in fuga senza nemmeno sapere da cosa scappassi ed il perché.
Il ragazzo ridacchiò, sistemandosi gli occhiali sul naso dritto. La sua risata mi lasciò addosso la sensazione che si prova dopo aver toccato qualcosa di freddo e liscio, ma non solido, come una crema... una gelatina viscida.
«Bazzecole. Non  farmi irritare, Cara. E dimmi perché mi hanno chiamato» continuò, sussurrando, Gabriele. Solo allora notai quant’era teso, come una corda di violino.
Non sapeva.
Ma poteva immaginare, certo.
Cos’avrei dovuto fare?
Tentennai, scioccata. Come diavolo poteva non sapere? Perché non gliel’avevano detto?
«Penso te lo dirà un poliziotto» risposi evasiva, guardando da un’altra parte. Non potevo crederci.
«Senti, già sono incazzato perché mi hanno portato qui ... Ed è colpa tua» precisò. «Quindi ti conviene dirmi la verità in fretta, se vuoi passarla liscia.»
Passarla liscia. Passarla lisca.
«Io sono già nei casini, Gabriele... L’hai capito, è vero?»
Nessuna risposta.
«Gabriele... Sono nella merda anch’io  ed anche tu!» provai ad insistere, con voce grave.
Ciò sembrò riscuoterlo. «Quanto siamo nella merda?»
Nonostante l’idea d’un “noi” piuttosto che un “io” ed un “tu” m’irritasse molto, tentai d’ignorare il fastidio e, con un sorriso di circostanza, borbottai: «Un bel po’.»
Un bel po’. Ovviamente non sapevo ciò che sarebbe accaduto da quel momento in poi.
 
«Cara, tutto a posto?»
Prima che io o Gabriele potessimo dire anche solo un’altra parola, l’agente Rossi ci sorprese e mi si avvicinò rapidamente. Il suo sguardo mi suggerì la preoccupazione che, di lì a poco, potesse accadere qualche cosa di terribile e d’un tratto mi sentii un’idiota ad aver provocato Gabriele. Semmai qualcosa fosse accaduto, la situazione d’entrambi sarebbe peggiorata. Drasticamente.
«Sì, è tutto okay. Ma vorrei andarmene, posso?»
«Devi!» esclamò gravemente l’agente Rossi, portandosi una mano in tasca. Estrasse un accendino rosso di piccole dimensione e iniziò ad accendere e spegnere la fiamma in modo ripetitivo, quasi come fosse una specie di tic nervoso. La mia espressione sorpresa gli suggerì che non ero al corrente dei miei programmi per la giornata – qualcuno s’era limitato a trascinarmi dal mio ex amico drogato per poi abbandonarmi là sola con lui –, così continuò: «Alec non te l’ha detto?» domandò, perplesso. «Beh, devi andare nella sala degli interrogatori. Sai dov’è, no?»
 Ma certo, pensai mentre una sgradevole sensazione m’invadeva il petto. Ormai sono di casa, qui.
In più, Gabriele non stava dicendo una parola. Si limitava ad ascoltare ed osservare, con aria incuriosita ed indispettita. Cosa stava pensando, accidenti?
«Ad ogni modo... Vai lì, c’è l’agente Mitchell. Forse anche tua madre, non ne sono certo».
Annuii, decisamente irritata. «D’accordo ... Andrò lì» mormorai, voltando le spalle all’agente ed a Gabriele. Proprio mentre stavo uscendo, udii l’agente Rossi dire al mio ex amico che era in un mare di guai, perché i suoi test erano risultati...
SBAM!
Lo sbattere brusco d’una porta mi impedì d’ascoltare oltre. Sbuffando, esasperata, mi diressi verso la sala degli interrogatori.
Camminai velocemente per due interi corridoi, ed arrivai alla fatidica porta con il fiatone. Vedevo le stelle. Non ero più abituata a fare esercizio fisico dopo cosa, qualche giorno ferma?
Mi appoggiai al muro più vicino a me. La mia unica speranza di non crollare.
E fu allora che li sentii. L’agente Mitchell. Mia madre.
Stavano parlando. Non proprio a bassa voce, ma nemmeno urlando. Tuttavia, il loro tono era quello di qualcuno adirato, che sta per fare qualcosa di stupido.
«Dimenticherai tutto!» sbottò ad un certo punto mia madre, con voce più alta. Da allora riuscii a comprendere ogni loro  parola, perché iniziarono ad urlare. La domanda era: perché?
«Dimenticare? Non mi interessa più.» M’immaginai che Alec Mitchell stesse ghignando tra sé e sé. Dentro me s’accese un istinto omicida.
«E allora cosa vuoi?» domandò mia madre. Se non la si conoscesse, si potrebbe dire che quella era la sua resa, il suo modo di dire ’’Va bene, hai vinto’’. Ma in realtà quello era il modo di mia madre di vincere. Far credere che inizi a cedere, per poi distruggere l’avversario. Metaforicamente, intendo. Ero io quella a sparare...
«Dille la verità» ringhiò Alec Mitchell. Probabilmente i suoi occhi erano più scuri del solito, e la sua bocca era piegata all’ingiù.
La verità. Una proposta allettante.
Seguì un breve silenzio. Mia madre ... Stava davvero per cedere?
«Alec, non chiedermi una cosa simile» inveì poco dopo, con voce più indecisa, insicura. Più vinta.
Il mio  cuore sobbalzò. Distratta, mi persi qualche parola di ciò che Alec Mitchell stava dicendole. «Dille la verità! È ora che la sappia, anche perché è in pericolo!» esclamò nuovamente, a voce ancor più alta.
In pericolo? Alludeva a Gabriele?
«No...»
«Dille chi è. Perché è  nata. Qual è il suo compito. Cos’è veramente! Questo lo saprà, no? E già che ci sei, dille dov’è suo padre. Dov’è veramente. È ora che sappia qualcosa in più sulla sua vita, non è vero?»
Ed ora mia madre sarebbe scoppiata a ridere, vittoriosa. Avrebbe dichiarato l’avversario vinto, poiché aveva mentito durante un processo – o, in questo caso, una semplice discussione a quattr’occhi. E avrebbe fatto sì che Alec Mitchell non avrebbe mai più insinuato cose simili sul mio conto.
Aspettai che cominciasse, mentre un’ansia strana s’insinuava su per le mie vene, sempre più vicina al cuore.
Passò quasi un minuto. Mamma non aggiunse altro... Non cominciò a distruggere Alec Mitchell... Ormai l’ansia aveva raggiunto il mio cuore e la mia mente.
Ed un pensiero – assurdo. Perché doveva essere assurdo, no? – cominciò a farsi strada nella mia mente.
Ciò che aveva detto Alec Mitchell... era vero?...
Mamma ricominciò a parlare. Ma sapevo già che non era per smentire tutto.
«Perché?» sussurrò, pateticamente.
La voce dell’agente s’indurì. «Come hai potuto mentirle così a lungo? È vero, non è ancora maggiorenne... il problema è ancora un po’ lontano» iniziò, serio. Io non riuscivo a capire. Problema? Quale problema? «Ma già che lei è qua... Velocizziamo i tempi! Tanto più che è in pericolo, ripeto! Non t’interessa davvero niente della sua incolumità?»
«Dannazione, sì! M’interessa. È per questo che non voglio dirle nulla. Così è più al sicuro, ignorando tutto! Alec, non capisci?! Non costringermi a dirle ogni cosa... Ricordati di cos’ho fatto per te!» supplicò mia madre.
Io nemmeno mi sforzavo più di capire.
«Mi ricordo, sta’ tranquilla.»
«Ma...»
«Lei sarà più al sicuro conoscendo ciò che è davvero. Sul serio, devi dirglielo. O lo farò io.»
 
In realtà mia madre non mi chiamò mai. Venne l’agente Mitchell in persona, dopo qualche minuto. Io mi ero sforzata di mettermi in piedi e, con aria perplessa e scioccata, mi ero allontanata velocemente dalla porta. Mi sentivo instabile, ma non ero riuscita ad entrare nel limbo, questa volta.
«Vieni.» Ordinò.
Ed andai. Cos’altro avrei potuto fare?
 
«Mamma?» La mia voce liberò tutta la mia preoccupazione. E confusione, soprattutto. Ma era comprensibile, e lei probabilmente lo ricollegò al fatto che ero finita in un commissariato.
Quando mi guardò, nei suoi occhi lessi rabbia. Non verso me, bensì... Verso sé stessa. Allora era vero. Avevamo trascorso una vita nascondendo una cose all’altra. Solo che io le avevo nascosto d’aver provato a fumare, il fatto che Gabriele si faceva, qualche 5 in chimica... E lei? Cosa non mi aveva detto?
Le sue bugie avevano l’aria d’essere molto più gravi.
«Cara... Vieni, siedi qui» sussurrò, indicando una sedia accanto alla sua. L’agente Mitchell non era lì, ma probabilmente ci stava ascoltando dalla saletta accanto.
«Perché l’agente Mitchell non si unisce a noi, anziché ascoltare da dietro uno specchio?» sbottai, irritata, guardando dritta verso lo specchio in questione. Mi rimandò un’immagine confusa della vecchia me: non avevo più nessuna luce negli occhi, né il mio sorriso brillava.
Andai a sedermi vicino a mia madre. Che non sentivo poi così vicina a me.
«Arrivo subito, Cara» replicò dopo un secondo l’agente Mitchell, con voce divertita. Un attimo dopo s’aprì la porta della stanza e l’agente entrò. Mi rifiutai di guardarlo.
«Allora, perché siamo qua? È per... Gabriele?» stetti al gioco, e fece più male che un pugno allo stomaco.
Soprattutto perché mia madre annuì. Intenzionata, forse, a mentire ancora.
«Lo hai visto? Come affronta tutto ciò?»
Le rivolsi un’occhiata gelida.
«E tu, come affronti tutto ciò?»
Silenzio. Mia madre balbettò qualcosa di sconnesso.
E Alec Mitchell mi smascherò. «Hai origliato, Cara?»
Il mio sguardo lo incenerì. «Mi avevano detto di raggiungervi. E così ho fatto, ovviamente. Parlavate – animatamente – così ho aspettato fuori. Ma poi vi siete messi a urlare, e così sentire è stato ... inevitabile.»
Silenzio. Anche Alec Mitchell avrebbe balbettato qualcosa?
No. Ovvio. «Bene!» esclamò, «Così perderemo meno tempo!»
«Già. Su, c’è un bel po’ di roba che devi dirmi, mamma.»
Ma mamma non parlò. S’era chiusa a riccio. Patetica.
«Solo...» mi ammonì un secondo in ritardo. «Promettimi che mi capirai.»
Il mio sguardo divenne ironico. Tagliente. «No.»
«Per favore.» ribatté lei, prontamente. Ecco, un barlume della mia vera madre. La combattiva.
«No. Io non ti mentirò.» Dissi semplicemente.
«D’accordo... Allora immagino sia ora di dirti un po’ di verità in più.» sussurrò mia madre, osservandomi negli occhi.
Chissà, ora non doveva nutrire più grande stima per l’agente Mitchell, eh? L’aveva costretta in una condizione simile... Per mettermi al sicuro. Ma da cosa? L’avrei scoperto presto.
«Tutta la verità, mamma» precisai. «Ma non partiamo da me» non ero ancora pronta per una cosa simile, no. «Dimmi chi è, per te, l’agente Mitchell. Perché lo stimavi (stimi?) così tanto? Cos’avete in comune? Dimmi tutto.»
Qualcuno tossicchiò alle mie spalle. L’agente.
«Va’, dille tutto. Io sarò di là, sentirò ogni cosa... Ma non credo che vedermi aiuterebbe nessuna di voi» si congedò l’agente, tornando a sparire. Ottimo. Non volevo davvero averlo tra i piedi – non più.
Mia madre prese un bel respiro, guardandosi attorno.
Dai suoi occhi traspariva l’amore nei miei confronti.
La preoccupazione... Di cosa? Di non essere abbastanza forte da dirmi tutta la verità, senza omettere nulla?
E l’odio. L’odio verso Alec Mitchell o, più genericamente, verso ciò che stava per fare.
O forse solo verso sé stessa.
Ed io? Cosa pensavo di lei? Cos’era lei, ora, per me?
«Non è così facile da spiegare...» esordì.
Scrollai le spalle, scocciata. Perché volevo sapere, conoscere. La curiosità ed il dubbio mi divoravano. «Dimmi tutto comunque.»
«Lo farò» promise. «Ma dammi tempo.»
Assottigliai gli occhi. «Hai già avuto una decina d’anni di tempo, mamma.»
Colpita!
«Sì... Ma temo... Sia...»
«Mamma.»
Non l’avevo mai vista così. Mai.
Cosa c’ era di tanto preoccupante nella verità?
«Va bene. Ma non giudicarmi, almeno!» sospirò.
Non risposi.
Non giudicarla? L’avevo già fatto.
Era una bugiarda.
 
«Per spiegarti di Alec ... Dovrò dirti qualcosa in più su tuo padre.»
Non riuscii a resistere e la interruppi: «Dov’è?»
Lei si morse le labbra, guardandomi dritta negli occhi. «In America. New York.»
New York?
«Mamma... Perché non è in Germania, come aveva detto?»
Lei guardò da un’altra parte. «Se è per questo, lui non è nemmeno un commercialista, Cara.»
«E cos’è?»
Continuando a evitare il mio sguardo, rispose: «Lavora per... Un’agenzia segreta, chiamiamola così.»
Un’agenzia segreta. Che razza d’idiozia era? Mio padre non aveva niente di speciale, né nell’aspetto, né nel carattere. Era un normale commercialista... O no?
«E tu, mamma?» mi giunse spontaneo chiedere, con voce tremante ma carica di sarcasmo. «Cosa sei, tu? L’assistente di Capitan America, per restare in tema?».
Lei mi fissò un unico, lungo, istante. «No. Lavoro come giudice e nient’altro. È tuo padre la... Star, se così si può dire.»
«E che cosa cazzo c’entra Alec Mitchell?»
«Lasciami parlare, su.» M’invitò gentilmente, in modo totalmente diverso da come aveva fatto con l’agente Rossi. Annuii, rimanendo in silenzio, così continuò: «Tuo padre lavora per delle persone di... Ecco, ti parrà strano, ma loro sono di un altro mondo. È un mondo buono!» s’affrettò ad aggiungere, come se le avessi detto qualcosa in merito. «Tuttavia, alcuni criminali sono riusciti a scappare di lì... Venendo sulla Terra. Tuo padre  è uno degli agenti che li cercano. Ora credono che i criminali si trovino a New York, per cui lui è lì.»
Due mondi. Criminali. New York. Papà “agente segreto”.
«Mamma... E’ uno scherzo proprio ben riuscito, sai?»
Lei strabuzzò gli occhi. «E’ la verità!» e lo giurò su un qualche dio.
Incrociai le braccia sotto il petto; stavo per inviperirmi sul serio, ora. «E Alec Mitchell? O vogliamo chiamarlo Alec e basta, ma’? Lui, ripeto, che ha a che fare con noi?»
Lei continuò a guardarmi male. Avevo la stessa espressione anch’io. «Alec... Anche lui lavora per quell’agenzia. Solo che lui è dell’altro mondo... Vedi, è un po’ complicato. Ci sono, sulla Terra, agenti dell’uno e dell’altro mondo, però agli umani è quasi proibito visitare il Mondo Al Di Là, come lo chiamo io.»
Silenzio. Non avevo niente da dire, era proprio una gran cazzata.
Proseguì. «E... Be’,  Alec ogni tanto ti tiene sott’occhio. Quel giorno – quando gli hai sparato – lui era appena tornato da New York per vedere come stavi –lo fa una volta alla settimana –, ma poi è successo il putiferio
Sì, come no.
Il putiferio ce l’aveva lei in testa!
«E perché mi tiene d’occhio?» chiesi, tentando di non ridere.
«Perché tu, vedi... Sei speciale. Il tuo compito è quello di prendere le orme di tuo padre, perché ritengono – quelli del Mondo Al Di Là – che tua abbia la sua stessa capacità».
«Quale?»
Lei prese un bel respiro, tentando di calmarsi. «Vedi... Non lo so bene, non l’ho mai davvero capito. Infondo, per me è impossibile anche solo pensarci, comunque... Riuscite ad isolare le emozioni. Paura, terrore, tristezza, ansia... Così siete quasi invulnerabili, capaci di lottare più a lungo.»
Il limbo.
Doveva essere una coincidenza, davvero.
Cambiai discorso, sentendo l’ansia sopraggiungere. E io non ero in grado di dominarla.
«Cos’è successo, in passato, tra te e Alec Mitchell?»
«Ecco...  Negli inseguimenti, quand’era più giovane e gli era più difficile controllare le sue capacità – o poteri, ecco –, ha combinato un po’ di guai sulla Terra. E io l’ho salvato più volte dalla galera.»
Bene. Molto bene.
Non c’avevo capito un’acca.
Ma d’accordo, sì, come no. Avrei finto di crederci.
Mi alzai in piedi, irritata. La sedia raschiò il pavimento. «Io non seguirò le orme di nessuno» Chiarii. «fingerò che tu non sia pazza e che non abbia una probabile relazione con l’agente Mitchell, a causa della quale i rapporti con mio papà – che è in Germania – tra di voi stanno crollando, così lui sta molto tempo via. Fingerò sia tutto okay, normale. Che tu non abbia nominato un altro mondo, criminali e poteri. Vado a prendermi un caffè.»
Ma qualcosa – qualcuno – m’impedì d’andarmene.
Alec Mitchell, sulla porta.
Mi lanciò un’occhiata senz’alcuna emozione e mormorò, sicuro di sé : «Venite con me, dobbiamo andarcene. Ora!»
Solo allora notai che aveva con sé alcune borse. A guardarle meglio, notai che erano valigie mie e di mia madre.
Ma che cosa...
Mia mamma s’alzò e corse fino a noi. Anche la sua sedia raschiò il pavimento polveroso. Mi afferrò una mano e la strinse forte.
«E’ un’emergenza?» s’informò, spaventata.
Quando l’agente Mitchell annuì, cominciammo a correre verso l’uscita del commissariato. L’agente correva per indicarci la via, mamma perché era spaventata ed io perché venivo trascinata da lei, ma non provavo nessuna emozione. Niente.
Quando fui cosciente di quella cosa, un’ansia mi montò dentro, assieme a... Paura? O un senso di potere?
Non riuscii a comprenderlo, perché venni buttata all’interno di un Suv dall’aria costosa. L’agente Mitchell, al quale gli occhi brillavano in maniera innaturale, spargendo una luce celeste nell’abitacolo, mi allacciò la cintura di sicurezza. Quando lo sue mani sfiorarono, inavvertitamente, il mio corpo, un brivido mi percorse. Erano bollenti.
Mamma si sedette sui sedili posteriori. Respirava affannata.
Io mi guardavo attorno, confusa.
«Più tardi qualcuno pagherà per questo scherzo» li avvisai, senza rivolgermi però a qualcuno in particolare.
Alec Mitchell mi lanciò una breve occhiata scostante – i suoi occhi erano completamente celesti, privi di pupilla. Inutile dire che erano meravigliosi e, nonostante la situazione più che assurda, il mio cuore sobbalzò nel petto e quasi arrossii.
Il ragazzo cominciò a guidare guardandosi attorno come un forsennato, mentre mia madre lo aiutava avvertendolo se vedeva qualcuno di sospetto.
Okay, forse la faccenda era seria.
  
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