Aino
entrò nella
pasticceria sfregandosi gli occhi, per togliere ogni traccia delle
lacrime
versate appena fuori dalla soglia della casa di Annika. Ogni tentativo
era
stato inutile, le ore trascorse e le parole spese non erano riuscite a
valicare
il muro che l’amica aveva creato contro di lei, contro tutto
il dolore che lei
aveva provocato. Tra urla e pianti, Annika aveva sfogato tutto
ciò che aveva
provato non solo negli ultimi due anni, ma da quando tutto era
cominciato,
tutta quella frenesia che aveva colpito d’improvviso la vita
di Aino da cui lei
era stata esclusa, senza alcun motivo. Le ultime parole che le aveva
rivolto,
deboli benché cariche di rancore, risuonavano ancora nella
mente di Aino: “Dì pure
a Hannu di venire a prendere le tue
cose, visto che di lui ti fidi.”
La
donna cercò di
scansare i pensieri, allungando il collo per cercare quel viso
familiare tra i
vari tavolini pieni di coppie sorridenti e famiglie felici.
Un’immagine che contribuì
invece al ricomporsi del puzzle di memorie.
Una
risata acuta
e infantile colpì il suo orecchio, facendola voltare di
scatto: vide una
piccola testa ricoperta di capelli biondissimi e dietro di lei il viso
divertito
di Hannu. Lui la notò e sorrise, poi allungò una
mano verso la figlia e le
coprì gli occhi, ammonendola con delle parole che Aino non
udì. Hannu si alzò e
si avvicinò a lei, abbracciandola: il contatto inaspettato
fece irrigidire la
donna, mentre l’amico si ritrasse velocemente e le
bisbigliò imbarazzato:
“Dovevi chiamarmi.”
Lei lo
guardò
negli occhi, cercando di trovare delle parole di convenienza, ma stette
in
silenzio, limitandosi ad alzare le spalle. Si avvicinarono entrambi al
tavolo e
lì Hannu convinse la figlia a togliere le mani dagli occhi e
a scoprire la
sorpresa.
Gli
occhi della
bimba si rabbuiarono tempestosamente, tanto da far temere al padre una
crisi di
pianto, ma lei rimase ferma, le guance tirate e le labbra serrate
l’una
sull’altra.
“Riikka,
non vuoi
salutare Aino? È tornata.” Hannu
accarezzò la guancia della figlia, mentre
dentro di lui si faceva strada la consapevolezza che lei non aveva
dimenticato
e tantomeno perdonato. Riikka scosse la testa e fissò la
tazza di cioccolata,
mentre Aino, immobile, guardava l’amico con impotenza.
Hannu
continuò a
bisbigliare qualcosa all’orecchio della figlia, cercando di
convincerla almeno
a rispondere, con vani risultati. La donna si sedette di fronte a loro,
lo
sguardo nuovamente velato e la gola appesantita dal solito senso di
nausea che
aumentava di ora in ora.
Aveva
già perso
Annika, ora Riikka non osava nemmeno guardarla negli occhi.
Perché era tornata?
“Com’è
andata?”
chiese Hannu, con lo sguardo triste e un braccio attorno alle spalle
della
figlia.
“Come
diresti che
è andata? Non mi vuole più vedere e ne ha tutto
il diritto. Mi ha detto tante
di quelle cose che… Continuano a vorticarmi nella testa le
sue parole, le sue
accuse, il suo rancore. È un muro.”
“Vuoi
che le
parli io?”
“Non
credo
sarebbe utile. Mi odia talmente tanto da sentenziare che tu potrai
essere
l’unico a riprendere le mie cose. Io non potrò
più mettere piede lì dentro. Lì,
dove c’era la mia vita…”
Aino
abbassò lo
sguardo sulle dita intrecciate e tremanti. Inerme, come sempre, non
riusciva a
combattere contro le sue emozioni. Un’ultima grossa lacrima
scese lungo lo
zigomo, presto scacciata in maniera febbrile. La donna si
alzò di colpo, ormai
incapace di reggere un respiro in più.
“Ti
prego, Hannu,
scusami, ho bisogno di andare a casa. È troppo chiederti di
portarmi le mie
cose?”
Lui la
guardò dal
basso, mentre le mani della figlia gli stringevano il maglione. Aveva
troppe
donne da controllare.
“No,
non ti
preoccupare. Se riesci a sopravvivere per un giorno, domani mattina
andrò da
lei e poi passerò a portarti tutto. Riposati,
Aino.”
Aino
se ne andò e
Riikka alzò finalmente gli occhi verso al padre, esplodendo
in singulti di
pianto: “Io la odio! Io odio Aino!”. La reazione
tanto attesa non colpì Hannu,
già da tempo pronto alle conseguenze. Eppure non
riuscì a tenere il passo della
figlia, che cominciò a urlare e scalciare, lasciandolo
interdetto per un
attimo. La prese in braccio, mentre i piccoli stivali di gomma rossi
gli
martoriavano il fianco e uscì di corsa dalla pasticceria,
sotto una nuova nevicata.
Annika
raccolse
l’ultimo coccio dal pavimento per
poi
gettarlo nel cestino. Aveva rotto due piatti e versato tutte le lacrime
che le
erano rimaste finora, incapace di reagire, di nuovo. Chiuse a chiave la
porta e
si diresse nella sua stanza, sedendosi sul letto con il respiro
intervallato
dai singhiozzi.
Perché
era
tornata? Era riuscita a uscire da quella disperazione, aveva quasi
finito il
percorso di analisi e adesso? Provò la stessa sensazione che
avvertì quando
Aino scomparve: freddo.
Un
freddo
intenso, spaventoso, tanto da immobilizzarla sul letto e tagliarle il
fiato,
facendola tremare.
Tutti
i ricordi
di quel giorno la assalirono, costringendola a stringere gli occhi e
ansimare: l’auto
di Aino che sgommava davanti alla porta spalancata, il suo vestito
macchiato di
rosso scuro, gli occhi gonfi di pianto che presagivano un addio.
Annika
allungò la
mano sul comodino, ingoiando subito dopo l’ultima compressa
di antidepressivo.
Una droga, certo. L’unico modo per riuscire a continuare,
giorno dopo giorno,
cancellando il passato, bruciando ogni energia per il lavoro, tutto per
fare in
modo che la sua mente si riempisse di impegni che scacciassero ogni
immagine. Tuttavia,
tutto era così vivido, così reale, come se fosse
successo solo un’ora fa,
mentre i numeri sul calendario sostenevano il contrario.
Il
cellulare
squillò: Hannu.
“Annika. Sono Hannu.”
“Ciao.
Cosa
vuoi?”
“Posso passare a casa tua domattina?
Dovrei…”
“Sì,
portati via
quella roba, non ne posso più.”
“Vuoi parlarne?”
“Non
credi che ne
abbia già parlato abbastanza?”
“Annika, io…”
“Non
mi
interessa, Hannu. E non credo di essere l’unica, giusto? Cosa
ne pensa Riikka
di questo ritorno, eh? Avrà un sorriso a trentadue denti,
ovvio.” Annika
sorrise amaramente dietro allo schermo.
“Lo sai benissimo come l’ha
presa. Io capisco
il tuo punto di vista e vorrei ricordarti che in tutto questo tempo ci
sono
sempre stato per te, non ti ho mai lasciata da sola così
come ho continuato a
crescere Riikka. Credi che sia stato facile per me? Hai ragione,
sì, ne abbiamo
parlato abbastanza.”
Il
cellulare
rimase muto: Hannu aveva riattaccato. Annika si alzò, si
avvicinò alla finestra
e tirò le tende, poi urlò.
Gridò
con forza,
con rabbia, con odio. Sciolse tutte le parole e i pensieri in un unico
suono
straziante, costringendola a lasciarsi cadere sulle ginocchia.
Urlò fino a
quando l’aria smise di uscire, finché le orecchie
non fischiarono troppo forte.
La
donna si
zittì, raccolse le ginocchia e appoggiò la
schiena al muro, cercando di
regolare il respiro. Prese il cellulare da terra e digitò
quel numero ormai
impresso nella memoria: “Dottor Virtanen? Sono Annika Nurmi.
Credo di aver
avuto una ricaduta.”
Ventiquattro
ore.
Aino fissava la finestra dal bordo del cuscino umido. In sole
ventiquattro ore
aveva distrutto la vita di tre persone e doveva ancora affrontare tutte
le
altre. La neve aveva smesso di cadere, ma il freddo vento invernale
aveva
cominciato a creare mulinelli attorno ai bordi delle case, sullo sfondo
di un
cielo violaceo.
La sua
mente
tornò di nuovo a lui.
Non sapeva
nulla, non aveva la minima idea di cosa fosse successo dopo…
Dopo
quell’abominio. Percepì le sue dita tremare come
quella sera, colta da un senso
di impotenza. Un reflusso improvviso di dolore la costrinse ad alzarsi
e
correre, per gettarsi appena in tempo sul lavandino e liberarsi di
tutto, di
ogni parola non detta, di ogni segreto, di ogni schiaffo e ogni lama
nel cuore.
Si
accasciò per
terra, incapace di versare altre lacrime, immobile. Restò
così a lungo, sulle
piastrelle ghiacciate, invasa dalle immagini dell’altro lui, la vera causa di ogni rovina. Troppe
emozioni, troppi sforzi,
tanto freddo. E Aino svenne.
“Basta,
Riikka!
Basta!”
Hannu
aprì la
porta d’ingresso, lasciando che la bambina entrasse,
attirando subito
l’attenzione dei nonni, poi la chiuse con rabbia dietro di
sé e risalì in
macchina, pigiando con forza sul pedale e raggiungendo i cento
chilometri orari
in pochi secondi.
Sfrecciò
sullo
sterrato che conduceva alla casa dei genitori, per poi immettersi sulla
statale
e correre liberamente, lasciando che il paesaggio confluisse con la
velocità
dei suoi ricordi.
“Fanculo.”
Sorpassò irato un fuoristrada, schiacciando a fondo
l’acceleratore e alzando al
massimo il volume della radio, per coprire il rumore dei pensieri.
Un
altro
sorpasso, vari clacson, un auto che frenava di continuo di fronte a
sé.
Un’inchiodata improvvisa, la puzza di bruciato, lo sterzo
impazzito e tutto fu
come quella volta. Le auto dietro di lui ruggirono con violenza, mentre
si
lasciava scivolare sul sedile e accostava nella corsia
d’emergenza.
Appoggiò
la testa
al volante e pianse. Non l’aveva più fatto dal
giorno della morte di Päivi. Non
si addiceva a un uomo, un padre solo, un inutile autista di navette
aeroportuali. E invece eccolo lì, tre anni e ventuno giorni
dopo l’incidente, a
piangere di rabbia sul cruscotto della sua auto ferma nella statale.
Il
cellulare sul
sedile di fianco a lui iniziò a vibrare, visualizzando la
foto dei genitori. Lo
spense e lo gettò nel retro, accasciandosi di nuovo con le
braccia attorno alla
testa.
Voleva
sua
moglie. Voleva stringerla di nuovo tra le braccia, baciarle i polsi e
spogliarla lentamente, sotto la luce delle stelle nella notte di Vappu,
dopo la
sauna e il vino rosso. Voleva rimboccare le coperte della figlia ogni
notte, invece
di ricalcare il tragitto fino all’aeroporto di ora in ora,
lasciandola sola
anche durante gli incubi, costretta a calmarsi da sola succhiando
l’orecchio di
Mikko, il coniglio di pezza della madre. Voleva salvare Aino da quella
situazione, voleva essere tutto ciò di cui lei aveva
bisogno, forte e gentile
allo stesso tempo, capace di rincuorarla in ogni situazione.
Eppure,
l’unico
reale desiderio era quello di sfregiare il volto di Perttu, sferrargli
un pugno
sul fegato e vederlo rantolare a terra, prenderlo a calci
finché ogni singolo
dente non gli si fosse staccato e non avesse navigato nella sua bava di
sangue.
Dei
colpi sul
finestrino lo fecero sobbalzare: un poliziotto batteva le nocche per
attirare
la sua attenzione. Hannu abbassò il vetro e fissò
l’uomo negli occhi. “Signore,
si sente bene?”. Il poliziotto era giovane e infreddolito,
con uno sguardo
misto di compassione e preoccupazione.
“Certo,
perché
non dovrei?” Hannu cercò di sorridere, fallendo
miseramente l’impresa.
“Ha
gli occhi
gonfi. Vuole che la riaccompagni a casa?”
L’autista
si
passò le dita sulle palpebre, fingendo nuovamente.
“No, la ringrazio, avevo
solo bisogno di fermarmi un attimo. Posso andare ora?”
Il
poliziotto
annuì brevemente, sistemandosi il frontino del cappello.
“Stia attento e vada
piano. Torni subito a casa”.
Hannu
gli garantì
che l’avrebbe fatto, avviò il motore e
s’immise nuovamente nella statale,
stavolta rispettando i limiti. Non tornò a casa,
però. Doveva assolutamente
parlare con Tuominen.