Per concludere
Nove mesi dopo aver bevuto quel fatidico cappuccino al bar dopo una lezione di religione, con orgoglio chiudiamo la prima parte di questa storia. E' stato un percorso divertente, talvolta difficile, che però ci ha fatte affezionare ai personaggi e ci ha accompagnate durante quest'anno accademico (cosa da non sottovalutare sotto le sessioni d'esame P:)
Un
grazie a tutti quelli che hanno letto, che hanno trovato il tempo di
lasciare un commento o che ci hanno soltanto pensato. Grazie di cuore a
chiunque si sia fermato qui; per noi, vuol dire davvero molto. ♪
Chiudiamo queste brevi note finali con la speranza di ritrovarvi tutti nella seconda e ultima parte della storia: "Le lacrime di Hevel", che pubblicheremo tra qualche settimana :D
Un bacio a tutti,
Chemical Lady &
Lechatvert
Il destino di Qayin
Le
unghie di Violante affondate nella carne delle sue spalle gli fecero
emettere un gemito più forte degli altri, inducendolo ad
aumentare il ritmo con cui muoveva il bacino mentre con le mani cercava
di liberarsi del lenzuolo che lo accaldava.
Prese Violante per i fianchi e la costrinse a rimanere
nell’esatta posizione in cui era, sdraiata sotto di lui,
prigioniera dei suoi baci e delle sue carezze. Si fermò per
un
istante a guardarla in viso, seguendo i lineamenti del suo volto
affannato e scomposto, per poi riprendere da dove aveva interrotto,
baciandola con tutta la passione di era capace.
Raggiunse il piacere dentro di lei, accoccolandosi poi sul suo petto
con l’orecchio teso a catturare i battiti del suo cuore.
Era la terza volta che facevano l’amore, quella notte, ma
Cristiano ancora non riusciva a dirsi soddisfatto.
Sotto di lui, la ragazza si lasciò sfuggire un mugolio
mentre passava la mano tra le sue ciocche bionde e umide.
«Qualcuno qui è davvero deciso a non farmi
partire. Se
continui così, non riuscirò a camminare,
figurarsi a
saltare di tetto in tetto.»
«Non ti priverei mai e poi mai dell’onore che il
tuo
Mentore ti ha concesso», le rispose Cristiano, alzandosi e
ricoprendole il collo di baci.
Viola rise.
«Mio? Non anche il tuo?»
«Io e Alessandro abbiamo deciso di disconoscerlo»,
dichiarò il ferrarese, passando una mano dal fianco ai seni
della giovane. «Lo abbiamo anche messo per iscritto.
Bengiamino e
Chiara hanno fatto da testimoni.»
«Quindi è ufficiale?»
«A dir poco.» Cristiano scrollò le
spalle,
stendendosi al fianco di Violante nel mentre le rubava l'ennesimo
bacio. «Consegneremo al più presto i documenti
necessari a
Machiavelli», asserì fingendosi quanto
più serio
gli fosse possibile. «Entro stasera, saremo figli liberi e
assolutamente autorizzati a lasciare il Covo per raggiungerti ovunque
tu andrai.» Le sorrise, accarezzandole piano il viso.
«Non
voglio vederti partire. Non hai bisogno di alcun allenamento
aggiuntivo.»
Lei sospirò, accarezzandogli a sua volta la guancia.
«Tutto questo non ha senso. Tu vali dieci volte di
più di
Chiara, Cesco e soprattutto Augusto. Sei il migliore fra noi, a pari
merito con Bengiamino. Non riesco davvero a capire come abbia potuto
lasciarti fuori.» Prese la sua mano, portandola alle labbra
per
baciarne il dorso, prima di appoggiarsi al suo petto e lasciarsi
stringere forte. «Mi prometti che mi aspetterai?»
Cristiano la guardò rattristarsi e la strinse contro il suo
petto con tutta la forza che la notte gli aveva lasciato. Le
baciò i capelli sulla fronte e la accarezzò il
ventre,
ridacchiando piano.
«Spero che tu sia incinta», mormorò,
affondando il
viso nell'incavo tra collo e spalla della ragazza. La sentì
irrigidirsi al solo sentire quelle parole, perciò si
affrettò a darle una spiegazione. «Se lo fossi,
non
saresti costretta a vagare per la penisola rischiando la vita in ogni
bettola di città.» Sospirò, alzando gli
occhi
azzurri al soffitto della stanza quasi stesse vivendo un sogno,
anziché la realtà. «Ci potremmo
sposare, potremmo
stare lontani da questo luogo ... vivere a Bologna, per
esempio.»
«Non devo necessariamente sfornare pargoli, per poter stare
insieme a te», si sbrigò a dire la bolognese, con
tono
leggermente ironico.
Il biondo si alzò, appoggiando un gomito al materasso e
guardandola con una strana luce negli occhi.
«Dici sul serio? Saresti mia, se te lo chiedessi?»,
le domandò, tra il confuso e il felice.
Violante non sembrava il tipo di donna che meditava di accasarsi, anzi.
La sua indipendenza, che tanto piaceva al Principe, si sarebbe
compromessa.
Lei, però, annuì senza nessuna remora,
così lui si decise.
Da sopra il comodino di legno grezzo, prese uno dei suoi anelli, quello
con una grande pietra verde incastonata nell’oro bianco, e
afferrò gentilmente la mano di Viola.
«Vorresti sposarmi, una volta tornata da queste
missioni?»
La giovane sorrise, allargando le dita.
«Sarebbe un piacere farti questo onore, Pagni.»
Questi sorrise a sua volta, infilando l’anello nel dito della
ragazza.
Con rammarico, lei constatò come il gioiello fosse fin
troppo
largo. L’avrebbe appeso ad una catenella d’argento,
che mai
si sarebbe levata. Sarebbe stata la sua ancora.
Felici per quel fidanzamento, si scambiarono un lungo bacio, prima di
tornare ad amarsi nuovamente.
Passi
lontani sul corridoio della torre lo svegliarono nel cuore della notte,
facendolo sobbalzare in quell’unica coperta che una guardia
gli
aveva passato per pietà nel vederlo tremare.
Sotto la luce lunare che filtrava dalle travi del tetto, Marcello
stropicciò gli occhi color del miele e trattenne a stento
uno
starnuto mentre, silenzioso, si metteva a carponi sul pavimento accanto
alle sbarre.
Aveva passato gli ultimi sei mesi in quella cella e, se aveva afferrato
sufficientemente bene le regole del luogo, le visite notturne alle
guardie non erano contemplate, anzi, erano punite con esemplare
severità dal Conte di Ladispoli in persona.
Di solito si trattava di prostitute raccattate per la strada e condotte
fino ai pagliericci nelle celle per soddisfare le guardie in turno.
Non che fossero affari di Marcello, naturalmente, ma civettare sulle
scappatelle degli uomini di Cimaglia era l’unico passatempo
sufficientemente interessante che gli desse la possibilità
di
perderci dietro del tempo.
Si acquattò quindi alle sbarre, tendendo
l’orecchio in
attesa di udire la voce calda e suadente della cortigiana che di solito
giaceva con le guardie nella cella adiacente alla sua.
«Di qua», proruppe all’improvviso il tono
profondo di
Federico Cimaglia. «Troviamo un luogo consono alla nostra
chiacchierata.»
Quando lo strusciare dell’armatura del Conte
cessò,
rimasero solamente dei passi molto leggeri che forse, in
un’altra
occasione, Marcello non avrebbe nemmeno udito.
Il ragazzo stava letteralmente trattenendo il respiro per cogliere
qualsiasi cosa quei due uomini stessero trattando. Doveva trattarsi di
un fatto importante, se Cimaglia si era spinto sino alla
sommità
della torre per parlarne.
«Conto sulla vostra discrezione, Federico. Dovrete riportare
a
Cesare Borgia ogni singola parola con lo stesso scrupolo di un
amanuense che lavora su una Bibbia.»
La voce che si rivolse al carceriere era quella di un ragazzo,
probabilmente non più vecchio dello stesso Marcello. Non
aveva
un timbro poi molto particolare, anzi, era alquanto comune.
«Naturalmente.»
Aggrottando la fronte, Marcello decise di rimanere in ascolto.
«Come procedono i piani?», incalzò di
lì a
poco Cimaglia, fermandosi sul corridoio dinanzi alle celle.
«Non sanno più dove battere la testa per dare la
caccia
alla spia», commentò il suo interlocutore.
«Continuano a incolparsi a vicenda senza riuscire a cavarne
un
ragno dal buco.»
I passi ripresero a risuonare sul corridoio, mentre la voce di Cimaglia
riecheggiava cupa tra le celle.
«Auditore ha scelto i suoi cinque prediletti,
dunque?»
Un ratto si avvicinò a Marcello con fare arrogante,
cominciando
a rosicchiare il cadavere di un suo simile in putrefazione tra la
paglia.
Disgustato da quella visione, il ragazzo si decise ad alzarsi in piedi
e ad appiattire il viso contro le sbarre.
L’oscurità giocava a suo favore, dopotutto: senza
una
misera luce a illuminare loro la via, non c’era pericolo che
i
due sul corridoio lo scoprissero.
Cercò di concentrarsi di nuovo, riprendendo ad origliare
quel discorso che pareva non essere andato avanti.
L’interlocutore misterioso rise cupamente.
«Diciamo che la sua smania di voler dimostrare che
Machiavelli ha
torto offusca fin troppo il suo giudizio»,
commentò,
mettendosi in un punto del corridoio poco distante da Marcello.
Il veneziano non riuscì a distinguere poi molto, da quella
posizione, ma vide che lo sconosciuto indossava un mantello nero con un
cappuccio ampio. Stava di spalle rispetto a lui, quindi non poteva
vedergli il viso.
Cimaglia ridacchiò.
«Una situazione compromettente, per il Mentore
dell’Ordine. Voi, invece? Siete stato scelto?»
Ciò che il giovane disse dopo fece rizzare i peli sulla
schiena
a Marcello. Non per le parole, quanto più per il tono
utilizzato.
«Sono esattamente dove Cesare mi ha chiesto di essere,
Federico.
Come ogni volta.» Il ragazzo si schiarì la voce,
prendendo
qualcosa da sotto al mantello e passandolo al Conte. Una lettera.
«Quelli sono i nomi dei cinque prescelti e qualche
informazione
su di loro e la loro famiglia: Bengiamino Lorenzetti, Chiara Filippi,
Francesco Ventimiglia, Augusto Spallaci e Violante degli
Antoni.»
Marcello prese nota mentale di quell’ultimo nome.
Estrapolato da quel contesto, era a dir poco incantevole. Aveva un
suono armonioso e il ragazzo immaginò subito dovesse
appartenere
a una dama bellissima.
Lo sconosciuto schioccò la lingua contro al palato, prima di
proseguire.
«Sotto ci sono anche i nomi di chi è rimasto al
Covo
dell’Isola Tiberina. Alessandro Corella, Cristiano Pagni,
Maria
Ferrari e Laura Lorenzetti. Insieme a Machiavelli e Auditore,
ovviamente.»
Il Conte grugnì qualcosa, prima di ridere.
«Non avete usato il vostro vero nome, vedo.»
«Sono una persona astuta. Come potevo sperare di entrare
nella
cerchia ristretta di Auditore senza suscitare sospetti, se non
prendendo il posto di uno dei suoi adepti?»
Cimaglia intascò la lettera con poca cura, prima di
accostare
una mano all’elsa della spada, usando l’arma come
appoggio.
«Che fine ha fatto, il poveretto di cui hai preso le
spoglie?»
«L’ho ucciso e buttato in un pozzo. Ormai, di lui
sarà rimasto poco o nulla.»
Marcello si portò una mano alla bocca, mozzando anche quel
flebile respiro che gli impediva di non svenire.
Forse, decidere di origliare non era stata un’idea poi
così brillante.
Si appiattì contro il muro della sua cella ormai con le
lacrime
agli occhi, pregando tutti i Santi del Paradiso affinché i
due
non si accorgessero della sua presenza.
Lo sconosciuto riprese il suo discorso con una risatina.
«Siete stato immensamente fortunato, Federico. Liberarsi
delle
scelte di Auditore sarà più facile del previsto,
se vi
atterrete alle mie direttive.»
«Farò come chiedete»,
acconsentì Cimaglia,
mentre lo sconosciuto si accingeva a seguirlo. «Ora non ci
resta
che aspettare un loro attacco. Saremo pronti a respingerli con tutti i
mezzi necessari.»
«Sarà mia premura mettervi al corrente di ogni
operazione,
non appena Auditore comunicherà le sue intenzioni. Per ora,
restate in attesa.»
Con i passi dei due che si apprestavano a lasciare l’ultimo
piano della torre, Marcello rimase nuovamente solo.
Confuso, smarrito e sconvolto più che mai, si
arrotolò
per bene dentro la sua coperta, fremendo leggermente per il freddo
prima di chiudere gli occhi e provare a dormire un altro po’.
Pregò per quei nomi a lui del tutto nuovi e per la loro
ingenuità che li faceva sedere alla stessa tavola di una
carogna
come quella che aveva appena fatto visita a Cimaglia, augurandosi che
riuscissero a incastrare il traditore prima che lui incastrasse loro.
Benché non passasse giorno in cui non piangesse la sua
solitudine, vedere qualcun altro marcire nella sua stessa cella lo
avrebbe distrutto