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Autore: Carlos Olivera    24/06/2014    1 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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13

 

 

La sala motori era come un gigantesco baratro che occupava da solo l’intera zona poppiera della nave.

Il cuore dell’impianto erano le due immense turbine che alimentavano i propulsori; sopra di esse, una decina di metri più in alto, passerelle più o meno larghe collegavano tra di loro una serie di stanzette, piccoli terrazzamenti e pontili posti a diverse altezze formando un intricato reticolo di metallo che aveva nella stanza di controllo centrale il suo punto di massima sopraelevazione.

Da lassù si poteva controllare tutto, anche se le molte apparecchiature disseminate qua e là lungo le passerelle oscuravano comunque la vista, per non parlare della poca luce e del rumore che, a motori accesi, doveva essere a dir poco assordante.

La sala di controllo era anche l’unico punto da cui si potesse interagire con il nucleo di alimentazione, che come una gigantesca stalattite pendeva dal soffitto arrivando a lambire con la punta il bordo della passerella. Al suo interno, scintillante d’azzurro, e ben visibile attraverso uno sportello di vetro, risplendeva il gigantesco blocco di krylium che, in quanto fonte primaria di energia, veniva di volta in volta letteralmente grattugiato per andare a bruciare nelle turbine.

Come previsto Georg e Raoul trovarono tutti i sistemi di controllo spenti o in stand-by, ma riavviarli non fu un problema.

«Ok, ci sono» disse Raoul resettando l’ultimo computer. «Ora dobbiamo solo aspettare».

Georg, però, era nervoso, e lo divenne ancora di più quando l’energia stentò ad arrivare.

«Ma si può sapere che sta combinando Helen?».

 

Purtroppo, in quel momento, Helen aveva altro a cui pensare.

Dopo aver cercato un altro paio di volte di afferrarla facendo sbucare dall’alto la sua appendice carnosa, arrivando in un’occasione molto vicina a stritolarla, quella maledetta creatura si era infine rivelata in tutta la sua mostruosità.

Di umano aveva solo la parte superiore del corpo, dalla cintola in su, se di umano si poteva parlare, con quella testa rasata e allungata all’indietro, le braccia lunghe e rinsecchite terminanti in tre dita armate di artigli ricurvi lunghi almeno venti centimetri e quella bocca spropositata, da cui uscivano ben tre lingue biforcute; al posto delle gambe aveva invece una lunga coda serpentina, che occupava da sola quasi tre quarti della lunghezza complessiva del corpo, abbastanza forte da sorreggere il busto e veloce quanto bastava da permettergli di scivolare ovunque a grande velocità.

Ma quello che era peggio, era che quel maledetto mostro aveva la capacità di rendersi invisibile; più che di invisibilità vera e propria sembrava trattarsi di una qualche barriera protettiva, dal momento che fin quando rimaneva in quello stato il suo corpo riusciva a respingere qualsiasi attacco magico gli venisse scagliato contro.

Helen si trovò quindi costretta a dover correre e scappare di continuo, acquattandosi di volta in volta dietro le varie postazioni di controllo nella speranza di sentire un rumore, uno strepito, o qualunque cosa che potesse aiutarla a capire la posizione del nemico prima che questi avesse il tempo di saltarle addosso e sbranarla.

Era una situazione ai limiti del dramma.

Le specialità di Sleeping Beauty erano incentrate sulla rapidità e sugli attacchi a sorpresa, che però servivano a ben poco in un ambiente così angusto e pieno di ostacoli, senza contare che l’avversario sfoggiava la medesima tecnica, oltre ad essere quasi immune a qualunque tipo di incantesimo.

Nel tentativo estremo di cavarsi da quella situazione Helen, infilato il suo ultimo caricatore, provò a usare la medesima tecnica sfruttata poco prima contro tutti quegli EDA; atteso che il nemico avesse la propria attenzione rivolta altrove, in silenzio generò una bomba stordente ad alto potenziale, e poggiatala lentamente a terra la guidò con il pensiero fino ai piedi dell’EDA.

Questi se ne accorse solo all’ultimo momento, e quando la bomba gli esplose in faccia accecandolo Helen sbucò fuori dal suo nascondiglio bersagliandolo con una pioggia di fasci luminosi che tagliavano come coltelli e che la pelle dell’EDA, per quanto spessa, non riuscì a respingere.

Il mostro fu investito da più colpi, ma non sembrò accusare particolare dolore, facendosi al contrario ancor più furente, ed alzata la terra la punta della coda prese a menare frustate in ogni direzione, colpendo a più riprese varie apparecchiature e provocando così una tempesta di scintille e scariche elettriche.

La giovane donna riuscì a schivare la maggior parte dei colpi, ma ne arrivavano così tanti e in così rapida successione che dimenticò di tenere d’occhio anche il resto del corpo del mostro; quasi avesse avuto due cervelli, mentre la coda teneva impegnata Helen la testa le arrivò alle spalle, piombandole addosso dall’alto, e quando Helen se ne accorse istintivamente tentò di allungare il braccio dinnanzi a sé per erigere uno scudo.

L’EDA aveva una bocca così grande che riuscì ad azzannarla poco sotto la spalla, e la giovane ebbe quasi l’impressione che all’interno della gola quel mostro avesse avuto file e file di denti più piccoli che come tanti uncinetti le arpionarono la carne in più punti quasi a volerla scarnificare.

Helen, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata in un agghiacciante urlo di dolore, con la forza della disperazione impugnò la pistola, sparando a casaccio tutti i colpi che aveva; fortuna volle che uno dei proiettili centrò l’EDA in un occhio costringendolo a mollare la presa e ad allontanarsi sibilando per poi scomparire alla sua solita maniera, pronto a tendere una nuova imboscata.

Il dolore per Helen fu tale da farla cadere in ginocchio, e quando trovò la forza per guardarsi il braccio quasi non riuscì a crederci; persino la tuta non aveva resistito, e al posto dell’arto la giovane donna non aveva altro che una massa di carne masticata e grondante di sangue, con le falangi che per chissà quale miracolo erano ancora tutte al loro posto, ma i nervi e i tendini erano talmente malridotti che quel braccio non le riusciva quasi più di sentirlo.

Era finita.

Nessuno poteva sopravvivere ad una cosa del genere. Anche se qualcuno fosse stato in grado di salvarla, con quel mostro quel maledetto doveva averle trasmesso una tale quantità di energia infetta che probabilmente nel giro di pochi minuti il suo core sarebbe scoppiato, e per lei sarebbe già stata una fortuna non trasformarsi in un’EDA a sua volta.

Ma se davvero era giunta la fine per lei, non sarebbe morta senza compiere la sua missione. Aveva ancora un incarico da portare a termine.

Il problema era capire come riuscirci, e intanto l’EDA era ancora là attorno, pronto a sferrare l’assalto finale.

Perennemente nascosto dietro il suo specchio illusorio, il mostro si era già portato nuovamente alle spalle della sua preda, ed attendeva solo il momento buono per colpire. Forse aspettava di vederla morire, ma poiché questa per interminabili minuti seguitò a restare in ginocchio, immobile ma apparentemente ancora viva, si risolse invece a fare la propria mossa, e caricatosi a molla scattò all’attacco piovendo un’altra volta dall’alto.

Helen si girò velocissima, i denti serrati e lo sguardo infuocato, e come protese violentemente dinnanzi a sé il braccio menomato tutto il sangue che lo circondava, quasi animato di vita propria, induritosi schizzò verso il nemico, che finì letteralmente impalato su di una selva paletti di sangue.

Blood of Stone.

Ovvero, usare il proprio sangue come un’arma, indurendolo fino a renderlo forte quanto il diamante e tagliente come l’acciaio. Una sublimazione magica volta a creare un attacco fisico.

Mai una volta Helen se n’era servita, perché sapeva quanto fosse pericoloso, poiché non controllando adeguatamente la fuoriuscita vi era il rischio di dissanguarsi, ma in fin dei conti quella sarebbe stata senza ombra di dubbio la sua ultima battaglia.

L’EDA cadde morto prima ancora di potersene rendere conto, ma la missione di Helen non poteva ancora dirsi conclusa.

Tremante, e sorreggendosi malamente sulle gambe, la giovane donna si alzò faticosamente in piedi, facendo appello alle sue ultime forze; riuscì a malapena a raggiungere la consolle di comando, usando l’unico braccio che le restava per digitare la password che Ulrich le aveva fornito poco prima, quindi, piegate le labbra in un ultimo sorriso, si accasciò, spirando con la sicurezza che avendo esaurito del tutto il proprio core non vi era per lei il rischio di poter tornare indietro da mostro.

 

Amanda, Klaus e Vincent non erano più sicuri che difendere ad oltranza quella cambusa fosse la scelta migliore, non ora che la sua impenetrabilità era venuta meno e che, probabilmente, diffondendo l’odore di carne viva molto presto avrebbe condotto gli EDA dritti da loro.

«Forse a questo punto portarli alle scialuppe è davvero l’unica cosa da fare» si azzardò ad ipotizzare Vincent. «Siamo in tre, e ci sono solo due ponti da attraversare.

Con un po’ di fortuna magari…»

«Sei impazzito?» lo interruppe Klaus, guadagnandosi un’occhiata di stupore da parte dei suoi colleghi. «Tanto per cominciare non abbiamo idea di quanti ostili potremmo trovare lungo la strada. E in secondo luogo, da che quello stronzo di Song se n’è andato, non abbiamo ancora sentito il segnale d’allarme che annuncia il distacco delle scialuppe.

A questo punto direi che non ci sono più dubbi su quale deve essere stata la sorte sua e dei poveracci che l’hanno seguito».

Amanda chinò il capo rattristata; alla fine, era successo ciò che aveva previsto.

Tuttavia Vincent, per quanto colpito, non sembrava intenzionato a desistere.

«Se quelli caricano in massa, quel collo di bottiglia non li fermerà per sempre. E una volta che saranno entrati, sarà la fine.»

«Almeno qui possiamo difenderci. Non dobbiamo fare altro che tenere il corridoio sotto tiro. Là fuori potrebbero attaccarci da qualunque direzione.»

«Senti, io capisco che tu stia cercando di salvare queste persone, ma ti ricordo che sono ancora il tuo superiore.

Aspetteremo ancora cinque minuti. Poi, se non accade niente, prenderemo queste persone e le porteremo alle scialuppe.

Devi capire che alle volte salvare alcuni civili è sempre preferibile a non salvarne nessuno».

Klaus temporeggiò, sembrava quasi sul punto di cedere, anche se un’idea simile era una cosa che né lui né Amanda riuscivano razionalmente ad accettare.

Poi, d’incanto, si avvertì un rumore, che pervase come una piacevole musica tutta la nave.

Nella sala motori, Georg e Raoul videro i sistemi di controllo accendersi da un momento all’altro, il nucleo di alimentazione tornare a funzionare, e le turbine che, faticosamente, si rimettevano a girare, emettendo il loro pittoresco e scintillante barlume azzurro.

Al rumore seguirono dei brevi contraccolpi, come di una macchina col motore in panne, e infine una piacevole sensazione di movimento, accentuata dal fatto che il sistema di stabilizzazione pensato per evitare sgradevoli scossoni e simulare una gravità stabile era fuori uso.

Ciò nonostante, nessuno ci fece caso, e anzi tra i superstiti vi fu un’ondata di meravigliato stupore.

«Ci stiamo muovendo!» esclamò qualcuno. «La nave si muove! I motori funzionano di nuovo!».

Tutti si lasciarono andare ad esternazioni di gioia, chi piangendo, chi abbracciando la prima persona che capitava, chi rinvolgendo infiniti grazie ai propri salvatori.

«Il Capitano ce l’ha fatta!» esclamò Amanda.

Ma per Klaus e Vincent non era ancora il momento di sentirsi al sicuro.

«Secondo Lei» chiese Klaus, «Quanto ci impiegheremo a lasciare la Zona Oscura?»

«Non sono un pilota» replicò Vincent, «Ma a questa velocità, direi circa quindici minuti».

Klaus guardò verso la porta aperta.

«Trenta minuti. Tutto quello che dobbiamo fare è tenere questo posto per mezz’ora. Il tempo che la nave esca dalla Zona Oscura e che le navi in arrivo dalla superficie ci aggancino. Quando i loro uomini saranno a bordo ci penserà Ulrich a far sapere loro dove siamo, e così sarà tutto finito».

Stavolta, fu Vincent a tergiversare, passandosi lungamente una mano sulla fronte. Forse, era giunto il momento di dare un po’ di fiducia a quel ragazzo in cui anche lui, come il suo Capitano del resto, aveva sempre creduto, e che finalmente stava iniziando a comportarsi da vero leader.

«Forza, fortifichiamo questo ingresso. Saranno i trenta minuti più lunghi della nostra vita».

 

Georg guardò soddisfatto i motori che tornavano a cantare dopo un lungo silenzio, e anche Raoul non riuscì a trattenere la propria euforia.

«Ce l’abbiamo fatta!»

«Non cantiamo vittoria» lo calmò il Capitano. «Per il momento siamo bloccati qui. Ora si tratta solo di aspettare».

Poco distante si trovava un terminale di comunicazione, e Georg, che pure da tecnico valeva assai poco, prese a lavorarci nel tentativo di stabilire un collegamento con il resto della nave e avere notizie sulla situazione, mentre Raoul si lasciò ben presto rapire dall’alone color turchese emesso dalle turbine, fantasticando nella sua mente di tutte le cose che avrebbe fatto una volta tornato a terra e lasciato per sempre quel lavoro: un nuovo impiego, il matrimonio, tanti figli, una vita felice, e una serena vecchiaia in qualche isola corallina nel mare di New Aalborg.

La morte interruppe di colpo tutti i suoi sogni, presentandosi sottoforma di una specie di lunga zampa di ragno che sbucando alle sue spalle lo trafisse in pieno petto, e a nulla valsero i tentativi di Georg, accortosi del pericolo, di avvertirlo della minaccia, che servirono solo a dargli il tempo per girarsi e guardare in volto il suo assassino.

Sembrava uno di quegli orchi che popolavano le fiabe per bambini, alto e possente, mascella squadrata da scimmia, occhi piccoli e neri, la testa rapata e una bocca enorme, con quattro canini per arcata che sporgevano dalle grosse labbra.

L’unica cosa un po’ insolita erano quelle due specie di protuberanze che sbucavano dalla base delle scapole, forse la parte terminale dell’omero che si era ingrandita a dismisura fuoriuscendo dal corpo, una delle quali era ora piantata per più di metà nel petto di Raoul e fuoriusciva dalla parte opposta, lorda di sangue.

Il cameriere, agonizzante, fu sollevato in aria, e quindi scaraventato di sotto con un rapido movimento dell’artiglio, disintegrandosi a contatto con la luce emessa dalle turbine a causa dell’enorme energia sprigionata.

«Raoul!».

Georg imbracciò il mitra e fece fuoco, ma i proiettili rimbalzarono sulla pelle dell’EDA come su di una parete d’acciaio, e il mostro, furente, lo caricò, scagliandolo via con una poderosa manata che lo lasciò mezzo tramortito a terra e fece volare la sua arma oltre la balaustra.

Il Capitano impiegò diversi secondi a riprendere conoscenza, e fu sorpreso nel constatare che il colpo di grazia stentava ad arrivare; fu solo quando si avvide di come l’EDA avesse concentrato la propria attenzione sul contenitore del krylium, prendendo a tirargli contro pugni furiosi nel tentativo di romperlo, che capì cosa stava succedendo.

Gli EDA rassomigliavano a dei giocattoli a molla, che funzionavano fintanto che potevano disporre di una riserva di energia. Per questo erano attratti dagli esseri umani, e più in Generale da tutto ciò che potesse nutrirli prolungando la loro esistenza miserevole.

Ecco perché quel bestione si era limitato ad uccidere Raoul e tramortire lui: quando mai due corpi umani potevano risultare più appetibili di un intero blocco di purissimo krylium? Dal profondo della sua natura animale non riusciva a comprendere di non potersene nutrire, ma l’energia che esso emetteva era come la luce per le falene, assolutamente irresistibile.

Ma in ogni caso, Georg non poteva permettergli di fare quello che voleva; se quel contenitore fosse andato distrutto il sacrificio di Reynar, Raoul e tanti altri poveri sventurati sarebbe stato inutile.

Sfoderato il pugnale, e urlando per darsi coraggio, Georg saltò letteralmente in groppa al mostro, piantandogli la lama nel collo nella speranza di farlo desistere subito. Il mostro riuscì a disarcionarlo in pochi secondi, afferrandolo con le sue mani ciclopiche per poi sbatterlo violentemente a terra, ma prima che potesse colpirlo nuovamente Georg gli impalò il piede facendolo gridare dal dolore, e dandogli così il tempo di rialzarsi, caricare il destro ed assestargli un violento montante.

Nessuno, soprattutto se privo di poteri magici, si sarebbe mai sognato di affrontare un’EDA a mani nude, ma che altro gli restava da fare?

«Avanti, bestione» disse provocatorio mentre quel mostro, furente come non mai, tornava a fissarlo. «Se vuoi mangiare qualcuno, perché non provi con me?».

 

Il corridoio che conduceva dal cuore delle stive alle cambuse era già stato bloccato e ostruito in vario modo dai superstiti con tutto ciò che era stato possibile accumulare, ma a tempo da record venne riorganizzato da Amanda, Klaus e Vincent per farne una successione di tre barricate che, secondo il piano, avrebbero potuto garantire una continua linea di difesa, anche a costo di dover cedere dei metri.

Tutti coloro che avevano una qualche dimestichezza nell’uso delle armi furono equipaggiati con tutte le pistole, i fucili e le armi d’assalto che fu possibile mettere insieme, e vennero reclutati anche i pochi maghi presenti tra i sopravvissuti.

«Credo sia tutto pronto» disse Klaus osservando la linea ininterrotta di casse, cassoni e ingombri vari che partendo da subito oltre la porta arrivavano fino sul fondo del corridoio. «Ulrich, mi ricevi?»

«Forte e chiaro.»

«Abbiamo bisogno del tuo aiuto. Avvisaci quando li vedi arrivare.»

«State tranquilli. Sto tenendo d’occhio tutti i punti d’accesso. Nessuno si avvicinerà a quella stanza senza che voi lo sappiate per tempo.»

«Non avrei pensato di doverlo dire, Ulrich, ma… grazie del tuo aiuto.»

«Non c’è di che» rispose sornione l’interessato.

A quel punto, ad Ulrich restava solo una cosa da fare.

Per tutto quel tempo, da che era riuscito a ripristinare i sistemi di sorveglianza, il computer aveva accumulato, compattato e messo in ordine quanti più filmati gli era stato possibile, facendone un grande video contenente sia i momenti immediatamente precedenti e successivi allo scoppio dell’emergenza sia le varie fasi di intervento della squadra, trasferendo il tutto all’interno del computer da polso di Ulrich.

Quelle immagini sarebbero state sicuramente molto utili al momento di stilare il rapporto, inoltre avrebbero sicuramente contribuito a comprendere le origini e le cause di quella emergenza, sì da evitare in futuro simili tragedie.

Un rumore proveniente dalle sue spalle gli strozzò di colpo il respiro in gola.

«Ma cosa…».

Per fortuna i riflessi non gli facevano difetto, o l’EDA sbucato all’improvviso dalla porta ancora aperta della stanza del nucleo lo avrebbe azzannato prima che avesse avuto il tempo di sfoderare la pistola e fare fuoco.

Istintivamente, passata la minaccia, Ulrich eresse una barriera a protezione della porta, e fu un bene, perché dopo pochi attimi una ventina di altri mostri vi si avventò contro, trovando in quel fragile scudo tutto ciò che li separava dal loro pasto. Non serviva molta fantasia per immaginare da dove fossero arrivati, e gettando un occhio al corridoio si potevano notare, sul soffitto, diverse botole aperte.

«Ulrich, che succede?» domandò Klaus, che aveva sentito dei rumori attraverso la radio

«Sono qui, Klaus. Sono arrivati dai condotti.»

«Merda! Aspetta, ora vengo ad aiutarti!»

«No, lascia perdere!» gli intimò Drassimovic. «Sono troppo lontano! Sta tranquillo, per ora sono inoffensivi. Senza contare che non possiamo permetterci di perdere la sala del nucleo.» poi guardò i monitor, rimanendo per un attimo in silenzio, sconvolto. «E poi, state per avere visite».

 

Gli EDA, avevano dimostrato analisi autoptiche, non perdevano del tutto al propria coscienza umana al momento della trasformazione.

La memoria e la coscienza venivano alterate e sconvolte, impedendo loro di pensare e sentire razionalmente, ma non scomparivano in maniera completa, e in alcuni casi arrivavano a condizionare il comportamento successivo dell’EDA anche dopo la mutazione.

Quando un pugno di EDA, attratti dall’odore di cibo, raggiunse la zona delle scialuppe trovarono ad attenderli solo un Richard Song ormai mutato, il quale però, Comandante alla guida del proprio esercito, messosi alla testa di un vero battaglione di EDA cominciò a correre schiumante in direzione della stiva, coinvolgendo nella sua discesa verso il basso un numero sempre maggiore di propri simili, e non servì molto perché alle narici di tutti quei mostri giungesse un profumo tale da tramutare una fame istintiva in vera e propria furia distruttrice.

Vincent e Klaus, appostati assieme ad altri lungo la prima e più esposta barricata, li sentirono arrivare quando questi erano ancora a molti metri di distanza, tanto e tale era il fracasso prodotto dal loro avanzare furioso.

«State pronti!» ordinò Klaus.

La paura negli occhi di molti era evidente, e qualcuno era talmente spaventato e tremante da non riuscire a tenere dritta la propria arma, ma bene o male tutti sapevano che a quel punto non si poteva più tornare indietro. O vivere o morire: questa era l’unica scelta che rimaneva a ciascuno di loro.

Come la quiete prima della tempesta, per un istante tutto si fece silenzio; poi, ringhiando e strepitando, i primi EDA dell’interminabile armata si palesarono dalla biforcazione sul fondo. Song guidava la carica, e fu lui il primo a cadere, centrato in pieno da Klaus che non ci pensò due volte a tirare il grilletto appena lo vide comparire nel mirino.

«Ricordate, sparate in testa! Fuoco!» ordinò Vincent.

Klaus aveva letto una storia da piccolo, si diceva il resoconto di un fatto realmente accaduto all’alba dei tempi, quando ai loro antenati vivevano ancora sulla Terra, di un pugno di soldati che riuscivano da soli a respingere un esercito mille volte più grande sfruttando una stretta gola dove il vantaggio dato dal numero era azzerato; forse era anche un po’ in memoria di quella favola che si era convinto della fattibilità di quell’ultima, disperata resistenza, piuttosto che arrischiarsi in una traversata della nave dagli esiti imprevedibili, e inizialmente i fatti parvero dargli ragione.

Esposti al fuoco di sbarramento, impreciso ma comunque intensissimo, gli EDA non smisero un attimo di cadere.

Ma erano tanti. Troppi. E più della metà dei coraggiosi che si erano offerti di aiutare a contrastarli nei fatti non aveva mai toccato un fucile.

Sotto la spinta di quell’onda umana, la prima barricata non impiegò molto a cadere; Klaus ordinò il ripiegamento, ma dei cinque uomini che erano con lui solo due riuscirono a seguirlo fino al secondo sbarramento, e quando anche questo cadde, costringendo i superstiti a rifugiarsi nel terzo, dove li attendeva Vincent, Krietzmann era rimasto solo.

E sarebbe morto anche lui, se un’EDA che era in procinto di saltargli addosso non fosse stato intercettato a mezz’aria e finito provvidenzialmente da un colpo ben piazzato di Vincent, che coprì le spalle al compagno finché questi non l’ebbe raggiunto.

«Questa è l’ultima linea!» gridò Vincent per sovrastare il fragore degli spari. «Se perdiamo anche questa dovremo ripiegare fin nella cambusa!»

«Non succederà!» replicò fiero Klaus sporgendosi e riprendendo a sparare.

Man mano che i rumori si avvicinavano, tra i sopravvissuti montava la paura. Amanda stava dinnanzi alla porta, pronta a coprire un’eventuale fuga ai suoi compagni che ora poteva vedere a poca distanza, mentre tutto attorno a lei il panico tornava a prevalere sulla speranza.

Hilda, che per buona parte del tempo era rimasta in disparte, senza quasi capire il perché si ritrovò a cercare la compagnia di Johanna, che la strinse a sé ricevendo finalmente in cambio un uguale abbraccio.

«Ho paura.» disse la bambina con un filo di voce

«Ce la faremo, piccola. Te lo prometto».

 

L’Aurora aveva ormai raggiunto l’orbita alta di Neos, e tutti gli occhi erano puntati in direzione della Zona Oscura, da cui ci si aspettava di veder sbucare da un momento all’altro la figura esile e scintillante del Megonia, diretto verso la sua ultima destinazione.

A bordo regnavano incertezza e rassegnazione.

Bene o male, in quelle tre ore di volo, tutti si erano convinti che quella era l’unica cosa da fare, ma in pochi apparivano realmente determinati a farla, o quantomeno a farla senza dubbio alcuno.

Il Direttore Generale non aveva più aperto bocca da dopo la partenza, e sedeva come ipnotizzato alla poltrona di comando al centro del ponte, scrutando come gli altri l’immensità dell’universo con occhi quasi spenti, apatici.

Qualche migliaio di chilometri più indietro, la Voyager, la nave scuola della stazione Ares, seguiva la stessa rotta alla sua massima velocità, la stessa che risultando quasi doppia rispetto a quella della ben più grande ma anche più lenta Aurora le aveva permesso di colmare in poco tempo la distanza accumulata.

Anche sul ponte della Voyager regnava il silenzio, ma era un silenzio diverso.

Nessuno, tranne il Direttore Shane, sapeva ancora con certezza cosa stessero andando a fare, o quale fosse l’origine di tutto quel trambusto che aveva sconvolto una normale giornata di lezione, e i cadetti si guardavano increduli tra di loro.

Più l’Aurora si avvicinava, più Shane si faceva nervoso.

«Quanto manca per poterli raggiungere?»

«Ancora dieci minuti, signore».

Poi, d’un tratto, qualcosa apparve alle spalle di Neos, facendo sobbalzare tutti sia sull’Aurora che sul Voyager.

Una sagoma, bianchissima.

Il Megonia.

Procedeva lentamente, in modo incerto, sospinto da dei motori che nonostante i danni riportati riuscivano ancora a funzionare, a riprova del lavoro magistrale degli ingegneri.

Vedendola, Shane sbiancò, e le sue mani presero a tremare.

«Riusciamo a raggiungerli in tempo?»

«Sono ancora troppo distanti, Signore.» rispose timidamente il pilota.

A bordo dell’Aurora la razione fu quasi la stessa, ma lì tutti sapevano cosa stava per succedere.

«Cannone Odin in stand-by.» disse Aoyama.

Nolan si volse verso Geithner.

«Signore?».

Il Direttore Generale strinse forte i braccioli della poltrona, quindi fece un cenno appena visibile con la punta di un dito.

«Caricare Odin.» ordinò quindi Nolan.

 

Se Amaltea aveva Morpheus, la MAB e Caldesia avevano Odin: un’arma innovativa, di cui l’Aurora poteva fregiarsi di essere la prima in assoluto a beneficarne, capace di raccogliere il potere magico presente nel cosmo, anche nelle quantità più infinitesimali, e sommarlo a quello prodotto da una parte del proprio nucleo, sì da dare vita ad una enorme massa di energia capace di produrre un potere distruttivo senza precedenti.

Vedendo comparire una sfera di luce bianca davanti al muso dell’Aurora, che pulsando e palpitando come un cuore cresceva sempre più d’intensità, Shane si sentì scendere il latte alle ginocchia.

«Bastardi» ringhiò, quindi ordinò. «Mettetemi in comunicazione con l’Aurora! Aprite un canale!»

«Ma signore, la loro linea è protetta…»

«Craccatela!».

Nessuno di quei ragazzi era al livello di Ulrich, che bene o male era stato per loro quasi un professore, ma unendo le forze riuscirono comunque a violare i sistemi di sicurezza dell’Aurora, e il volto del Direttore Shane comparve al centro del ponte di comando proprio nel momento in cui il Direttore Generale, sfilatosi dal collo la chiave di controllo di Odin, era sul punto di infilarla nella fessura comparsa da uno sportello sul bracciolo della sua poltrona.

Vedendolo apparire, Nolan imprecò in silenzio, e anche Aoyama ne fu visibilmente contrariato.

«Nathan!? Che ci fai tu qui?»

«La prego, Signore. Non lo faccia. Non condanni a morte tutte quelle persone.»

«Ne abbiamo già parlato, Direttore Shane» tagliò corto Nolan. «La decisione è presa. Il Megonia deve essere sterilizzato.»

«Cannone Odin carico.»

«Ci sono ancora delle persone a bordo. Persone innocenti. Possiamo salvarle. Ho portato con me uomini ed equipaggiamenti. Mi dia trenta minuti, solo trenta minuti, e riprenderemo il controllo della nave.

Metta tutti in quarantena. Li arresti se necessario. Ma non li uccida così».

Geithner guardò in basso, sopraffatto dal peso della sua carica.

«Signore» disse Aoyama. «Qui è in gioco la salvaguardia del nostro pianeta. Che faremo se il contagio a bordo del Megonia dovesse diffondersi?»

«Questa è una decisione di cui potrebbe pentirsi per tutta la vita» incalzò Shane. «Noi siamo la MAB, signore. Il nostro compito è proteggere questo pianeta ed i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti.»

«La nave è nel mirino, Signore.»

«Signore!»

«Signore!».

La mente di Geithner viaggiò lontano.

Ripensò alla sua infanzia, ai racconti di suo nonno, alle gite in montagna; e poi all’accademia, al duro lavoro, alla scalata ai vertici, e a quel sogno di diventare l’uomo più importante del mondo: non per avidità o sete di gloria, ma solo per la volontà incontrollabile di aiutare gli altri, poiché solo la MAB aveva il potere di tramutare Celestis in quello scrigno di grandezza e di utopia che i loro antenati sognavano.

Una cosa però era certa: quella decisione, qualunque fosse stata, avrebbe cambiato il destino non solo della MAB, ma probabilmente dell’intero Celestis. Per sempre.

 

Ulrich guardò di nuovo verso la barriera, su cui quei mostri impazziti ed assetati di sangue spingevano senza sosta, e sulla quale iniziavano a comparire le prime crepe.

Di sicuro, non avrebbe retto ancora a lungo.

 

Georg si era battuto come un leone, e grazie alla sua stazza era riuscito in più occasioni a fare davvero male all’EDA, ma contro un avversario del genere non era facile riuscire a prevalere.

L’orco, all’ennesimo assalto furioso del Capitano, incassò alcuni colpi, poi ne ricevette uno allo zigomo che evidentemente gli fece più male degli altri, e con uno scatto furioso colpì il Capitano con tutta la sua forza, sparandolo contro una parete; e questa volta, neanche la tuta protettiva riuscì a salvare Georg, che nel momento dell’urto sentì distintamente varie ossa scricchiolare, e alcune spezzarsi, tanto che una volta a terra non fu capace di rimettersi in piedi.

Ma l’EDA non aveva ancora finito con lui. Prima ancora che il Capitano potesse cadere del tutto, il mostro scagliò in avanti tutti e due i suoi artigli, trafiggendolo da parte a parte all’altezza del cuore per poi sollevarlo di peso ancora vivo, portandolo tanto vicino a sé che i loro nasi quasi si sfiorarono, quasi quella creatura avesse voluto guardare dritto negl’occhi quell’omuncolo che aveva osato sfidarlo.

Georg dapprima urlò per il dolore, ma quando fu viso a viso con il mostro le sue labbra si piegarono in un ghigno provocatorio, i suoi occhi in uno sguardo di sfida.

«Non… non sai fare più di così?».

 

Nelle cambuse, anche la terza linea era saltata. Oltre a Vincent e Klaus, solo pochi altri erano sopravvissuti abbastanza a lungo da lasciare indenni quel corridoio infernale, e la difesa a spada tratta di quell’ultimo pertugio che era la porta d’ingresso appariva sempre più disperata.

Tutti sparavano, producendo un rumore che rafforzato dallo spazio chiuso risultava assordante, mentre nell’aria continuavano ad echeggiare le urla infernali di quei mostri, che fossero di dolore, di agonia o di rabbia famelica; anche dalle altre porte, tutte ancora sprangate, presero a giungere violenti colpi.

Qualcuno riuscì ad entrare, superando lo sbarramento e aggredendo alcuni dei superstiti, e a quel punto fu il panico Generale, con gente che scappava in tutte le direzioni intralciandosi a vicenda.

«Sto finendo le munizioni!» si continuava a sentire.

Ashley e il signor Gullit, come immersi in un’altra dimensione, si guardarono, scambiandosi un sorriso, mentre lui le sfiorava la guancia con un dito e lei passava una mano sui suoi folti capelli grigi.

«Il Capitano ha detto che usciremo di qui!» urlò Hilda tra le lacrime stringendo la matrigna più forte che poteva. «Lo ha promesso!»

«Và tutto bene, bambina mia!» le sussurrò teneramente la madre nascondendo le proprie, di lacrime. «Và tutto bene. Chiudi gli occhi».

 

Il Direttore Geithner abbassò lo sguardo; quando lo rialzò, guardando il vuoto davanti a sé, una lacrima scese lentamente lungo il volto rugoso.

«Per la pace. Per il mondo. Per l’umanità».

 

  
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