13
La sala motori era come un
gigantesco baratro che occupava da solo l’intera zona poppiera della nave.
Il cuore
dell’impianto erano le due immense turbine che alimentavano i propulsori; sopra
di esse, una decina di metri più in alto, passerelle più o meno larghe
collegavano tra di loro una serie di stanzette, piccoli terrazzamenti e pontili
posti a diverse altezze formando un intricato reticolo di metallo che aveva
nella stanza di controllo centrale il suo punto di massima sopraelevazione.
Da lassù
si poteva controllare tutto, anche se le molte apparecchiature disseminate qua
e là lungo le passerelle oscuravano comunque la vista, per non parlare della
poca luce e del rumore che, a motori accesi, doveva essere a dir poco
assordante.
La sala
di controllo era anche l’unico punto da cui si potesse interagire con il nucleo
di alimentazione, che come una gigantesca stalattite pendeva dal soffitto
arrivando a lambire con la punta il bordo della passerella. Al suo interno,
scintillante d’azzurro, e ben visibile attraverso uno sportello di vetro,
risplendeva il gigantesco blocco di krylium che, in
quanto fonte primaria di energia, veniva di volta in volta letteralmente
grattugiato per andare a bruciare nelle turbine.
Come
previsto Georg e Raoul trovarono tutti i sistemi di controllo spenti o in
stand-by, ma riavviarli non fu un problema.
«Ok, ci
sono» disse Raoul resettando l’ultimo computer. «Ora dobbiamo solo aspettare».
Georg,
però, era nervoso, e lo divenne ancora di più quando l’energia stentò ad
arrivare.
«Ma si
può sapere che sta combinando Helen?».
Purtroppo, in quel momento,
Helen aveva altro a cui pensare.
Dopo
aver cercato un altro paio di volte di afferrarla facendo sbucare dall’alto la
sua appendice carnosa, arrivando in un’occasione molto vicina a stritolarla,
quella maledetta creatura si era infine rivelata in tutta la sua mostruosità.
Di umano
aveva solo la parte superiore del corpo, dalla cintola in su, se di umano si
poteva parlare, con quella testa rasata e allungata all’indietro, le braccia
lunghe e rinsecchite terminanti in tre dita armate di artigli ricurvi lunghi
almeno venti centimetri e quella bocca spropositata, da cui uscivano ben tre
lingue biforcute; al posto delle gambe aveva invece una lunga coda serpentina,
che occupava da sola quasi tre quarti della lunghezza complessiva del corpo,
abbastanza forte da sorreggere il busto e veloce quanto bastava da permettergli
di scivolare ovunque a grande velocità.
Ma
quello che era peggio, era che quel maledetto mostro aveva la capacità di
rendersi invisibile; più che di invisibilità vera e propria sembrava trattarsi
di una qualche barriera protettiva, dal momento che fin quando rimaneva in
quello stato il suo corpo riusciva a respingere qualsiasi attacco magico gli
venisse scagliato contro.
Helen si
trovò quindi costretta a dover correre e scappare di continuo, acquattandosi di
volta in volta dietro le varie postazioni di controllo nella speranza di
sentire un rumore, uno strepito, o qualunque cosa che potesse aiutarla a capire
la posizione del nemico prima che questi avesse il tempo di saltarle addosso e
sbranarla.
Era una
situazione ai limiti del dramma.
Le
specialità di Sleeping Beauty erano incentrate sulla rapidità e sugli attacchi
a sorpresa, che però servivano a ben poco in un ambiente così angusto e pieno
di ostacoli, senza contare che l’avversario sfoggiava la medesima tecnica,
oltre ad essere quasi immune a qualunque tipo di incantesimo.
Nel
tentativo estremo di cavarsi da quella situazione Helen, infilato il suo ultimo
caricatore, provò a usare la medesima tecnica sfruttata poco prima contro tutti
quegli EDA; atteso che il nemico avesse la propria attenzione rivolta altrove,
in silenzio generò una bomba stordente ad alto potenziale, e poggiatala
lentamente a terra la guidò con il pensiero fino ai piedi dell’EDA.
Questi
se ne accorse solo all’ultimo momento, e quando la bomba gli esplose in faccia
accecandolo Helen sbucò fuori dal suo nascondiglio bersagliandolo con una
pioggia di fasci luminosi che tagliavano come coltelli e che la pelle dell’EDA,
per quanto spessa, non riuscì a respingere.
Il
mostro fu investito da più colpi, ma non sembrò accusare particolare dolore,
facendosi al contrario ancor più furente, ed alzata la terra la punta della
coda prese a menare frustate in ogni direzione, colpendo a più riprese varie
apparecchiature e provocando così una tempesta di scintille e scariche
elettriche.
La
giovane donna riuscì a schivare la maggior parte dei colpi, ma ne arrivavano
così tanti e in così rapida successione che dimenticò di tenere d’occhio anche
il resto del corpo del mostro; quasi avesse avuto due cervelli, mentre la coda
teneva impegnata Helen la testa le arrivò alle spalle, piombandole addosso
dall’alto, e quando Helen se ne accorse istintivamente tentò di allungare il
braccio dinnanzi a sé per erigere uno scudo.
L’EDA
aveva una bocca così grande che riuscì ad azzannarla poco sotto la spalla, e la
giovane ebbe quasi l’impressione che all’interno della gola quel mostro avesse
avuto file e file di denti più piccoli che come tanti uncinetti le arpionarono
la carne in più punti quasi a volerla scarnificare.
Helen,
con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata in un agghiacciante urlo
di dolore, con la forza della disperazione impugnò la pistola, sparando a
casaccio tutti i colpi che aveva; fortuna volle che uno dei proiettili centrò
l’EDA in un occhio costringendolo a mollare la presa e ad allontanarsi
sibilando per poi scomparire alla sua solita maniera, pronto a tendere una
nuova imboscata.
Il
dolore per Helen fu tale da farla cadere in ginocchio, e quando trovò la forza
per guardarsi il braccio quasi non riuscì a crederci; persino la tuta non aveva
resistito, e al posto dell’arto la giovane donna non aveva altro che una massa
di carne masticata e grondante di sangue, con le falangi che per chissà quale
miracolo erano ancora tutte al loro posto, ma i nervi e i tendini erano talmente
malridotti che quel braccio non le riusciva quasi più di sentirlo.
Era
finita.
Nessuno
poteva sopravvivere ad una cosa del genere. Anche se qualcuno fosse stato in
grado di salvarla, con quel mostro quel maledetto doveva averle trasmesso una
tale quantità di energia infetta che probabilmente nel giro di pochi minuti il
suo core sarebbe scoppiato, e per lei sarebbe già
stata una fortuna non trasformarsi in un’EDA a sua volta.
Ma se
davvero era giunta la fine per lei, non sarebbe morta senza compiere la sua
missione. Aveva ancora un incarico da portare a termine.
Il
problema era capire come riuscirci, e intanto l’EDA era ancora là attorno,
pronto a sferrare l’assalto finale.
Perennemente
nascosto dietro il suo specchio illusorio, il mostro si era già portato
nuovamente alle spalle della sua preda, ed attendeva solo il momento buono per
colpire. Forse aspettava di vederla morire, ma poiché questa per interminabili
minuti seguitò a restare in ginocchio, immobile ma apparentemente ancora viva,
si risolse invece a fare la propria mossa, e caricatosi a molla scattò
all’attacco piovendo un’altra volta dall’alto.
Helen si
girò velocissima, i denti serrati e lo sguardo infuocato, e come protese
violentemente dinnanzi a sé il braccio menomato tutto il sangue che lo
circondava, quasi animato di vita propria, induritosi schizzò verso il nemico,
che finì letteralmente impalato su di una selva paletti di sangue.
Blood of Stone.
Ovvero,
usare il proprio sangue come un’arma, indurendolo fino a renderlo forte quanto
il diamante e tagliente come l’acciaio. Una sublimazione magica volta a creare
un attacco fisico.
Mai una
volta Helen se n’era servita, perché sapeva quanto fosse pericoloso, poiché non
controllando adeguatamente la fuoriuscita vi era il rischio di dissanguarsi, ma
in fin dei conti quella sarebbe stata senza ombra di dubbio la sua ultima
battaglia.
L’EDA
cadde morto prima ancora di potersene rendere conto, ma la missione di Helen
non poteva ancora dirsi conclusa.
Tremante,
e sorreggendosi malamente sulle gambe, la giovane donna si alzò faticosamente
in piedi, facendo appello alle sue ultime forze; riuscì a malapena a
raggiungere la consolle di comando, usando l’unico braccio che le restava per
digitare la password che Ulrich le aveva fornito poco
prima, quindi, piegate le labbra in un ultimo sorriso, si accasciò, spirando
con la sicurezza che avendo esaurito del tutto il proprio core
non vi era per lei il rischio di poter tornare indietro da mostro.
Amanda, Klaus e Vincent non
erano più sicuri che difendere ad oltranza quella cambusa fosse la scelta
migliore, non ora che la sua impenetrabilità era venuta meno e che,
probabilmente, diffondendo l’odore di carne viva molto presto avrebbe condotto
gli EDA dritti da loro.
«Forse a
questo punto portarli alle scialuppe è davvero l’unica cosa da fare» si azzardò
ad ipotizzare Vincent. «Siamo in tre, e ci sono solo due ponti da attraversare.
Con un
po’ di fortuna magari…»
«Sei
impazzito?» lo interruppe Klaus, guadagnandosi un’occhiata di stupore da parte
dei suoi colleghi. «Tanto per cominciare non abbiamo idea di quanti ostili
potremmo trovare lungo la strada. E in secondo luogo, da che quello stronzo di Song se n’è andato, non abbiamo ancora sentito il segnale
d’allarme che annuncia il distacco delle scialuppe.
A questo
punto direi che non ci sono più dubbi su quale deve essere stata la sorte sua e
dei poveracci che l’hanno seguito».
Amanda
chinò il capo rattristata; alla fine, era successo ciò che aveva previsto.
Tuttavia
Vincent, per quanto colpito, non sembrava intenzionato a desistere.
«Se
quelli caricano in massa, quel collo di bottiglia non li fermerà per sempre. E
una volta che saranno entrati, sarà la fine.»
«Almeno
qui possiamo difenderci. Non dobbiamo fare altro che tenere il corridoio sotto
tiro. Là fuori potrebbero attaccarci da qualunque direzione.»
«Senti,
io capisco che tu stia cercando di salvare queste persone, ma ti ricordo che
sono ancora il tuo superiore.
Aspetteremo
ancora cinque minuti. Poi, se non accade niente, prenderemo queste persone e le
porteremo alle scialuppe.
Devi
capire che alle volte salvare alcuni civili è sempre preferibile a non salvarne
nessuno».
Klaus
temporeggiò, sembrava quasi sul punto di cedere, anche se un’idea simile era
una cosa che né lui né Amanda riuscivano razionalmente ad accettare.
Poi,
d’incanto, si avvertì un rumore, che pervase come una piacevole musica tutta la
nave.
Nella
sala motori, Georg e Raoul videro i sistemi di controllo accendersi da un
momento all’altro, il nucleo di alimentazione tornare a funzionare, e le
turbine che, faticosamente, si rimettevano a girare, emettendo il loro
pittoresco e scintillante barlume azzurro.
Al
rumore seguirono dei brevi contraccolpi, come di una macchina col motore in
panne, e infine una piacevole sensazione di movimento, accentuata dal fatto che
il sistema di stabilizzazione pensato per evitare sgradevoli scossoni e
simulare una gravità stabile era fuori uso.
Ciò
nonostante, nessuno ci fece caso, e anzi tra i superstiti vi fu un’ondata di
meravigliato stupore.
«Ci
stiamo muovendo!» esclamò qualcuno. «La nave si muove! I motori funzionano di
nuovo!».
Tutti si
lasciarono andare ad esternazioni di gioia, chi piangendo, chi abbracciando la
prima persona che capitava, chi rinvolgendo infiniti grazie ai propri
salvatori.
«Il Capitano
ce l’ha fatta!» esclamò Amanda.
Ma per
Klaus e Vincent non era ancora il momento di sentirsi al sicuro.
«Secondo
Lei» chiese Klaus, «Quanto ci impiegheremo a lasciare la Zona Oscura?»
«Non
sono un pilota» replicò Vincent, «Ma a questa velocità, direi circa quindici
minuti».
Klaus
guardò verso la porta aperta.
«Trenta
minuti. Tutto quello che dobbiamo fare è tenere questo posto per mezz’ora. Il
tempo che la nave esca dalla Zona Oscura e che le navi in arrivo dalla
superficie ci aggancino. Quando i loro uomini saranno a bordo ci penserà Ulrich a far sapere loro dove siamo, e così sarà tutto
finito».
Stavolta,
fu Vincent a tergiversare, passandosi lungamente una mano sulla fronte. Forse,
era giunto il momento di dare un po’ di fiducia a quel ragazzo in cui anche
lui, come il suo Capitano del resto, aveva sempre creduto, e che finalmente
stava iniziando a comportarsi da vero leader.
«Forza,
fortifichiamo questo ingresso. Saranno i trenta minuti più lunghi della nostra
vita».
Georg guardò soddisfatto i
motori che tornavano a cantare dopo un lungo silenzio, e anche Raoul non riuscì
a trattenere la propria euforia.
«Ce
l’abbiamo fatta!»
«Non
cantiamo vittoria» lo calmò il Capitano. «Per il momento siamo bloccati qui.
Ora si tratta solo di aspettare».
Poco
distante si trovava un terminale di comunicazione, e Georg, che pure da tecnico
valeva assai poco, prese a lavorarci nel tentativo di stabilire un collegamento
con il resto della nave e avere notizie sulla situazione, mentre Raoul si
lasciò ben presto rapire dall’alone color turchese emesso dalle turbine,
fantasticando nella sua mente di tutte le cose che avrebbe fatto una volta
tornato a terra e lasciato per sempre quel lavoro: un nuovo impiego, il
matrimonio, tanti figli, una vita felice, e una serena vecchiaia in qualche
isola corallina nel mare di New Aalborg.
La morte
interruppe di colpo tutti i suoi sogni, presentandosi sottoforma di una specie
di lunga zampa di ragno che sbucando alle sue spalle lo trafisse in pieno
petto, e a nulla valsero i tentativi di Georg, accortosi del pericolo, di
avvertirlo della minaccia, che servirono solo a dargli il tempo per girarsi e
guardare in volto il suo assassino.
Sembrava
uno di quegli orchi che popolavano le fiabe per bambini, alto e possente, mascella
squadrata da scimmia, occhi piccoli e neri, la testa rapata e una bocca enorme,
con quattro canini per arcata che sporgevano dalle grosse labbra.
L’unica
cosa un po’ insolita erano quelle due specie di protuberanze che sbucavano
dalla base delle scapole, forse la parte terminale dell’omero che si era
ingrandita a dismisura fuoriuscendo dal corpo, una delle quali era ora piantata
per più di metà nel petto di Raoul e fuoriusciva dalla parte opposta, lorda di
sangue.
Il
cameriere, agonizzante, fu sollevato in aria, e quindi scaraventato di sotto
con un rapido movimento dell’artiglio, disintegrandosi a contatto con la luce
emessa dalle turbine a causa dell’enorme energia sprigionata.
«Raoul!».
Georg
imbracciò il mitra e fece fuoco, ma i proiettili rimbalzarono sulla pelle
dell’EDA come su di una parete d’acciaio, e il mostro, furente, lo caricò,
scagliandolo via con una poderosa manata che lo lasciò mezzo tramortito a terra
e fece volare la sua arma oltre la balaustra.
Il Capitano
impiegò diversi secondi a riprendere conoscenza, e fu sorpreso nel constatare
che il colpo di grazia stentava ad arrivare; fu solo quando si avvide di come
l’EDA avesse concentrato la propria attenzione sul contenitore del krylium, prendendo a tirargli contro pugni furiosi nel
tentativo di romperlo, che capì cosa stava succedendo.
Gli EDA
rassomigliavano a dei giocattoli a molla, che funzionavano fintanto che
potevano disporre di una riserva di energia. Per questo erano attratti dagli
esseri umani, e più in Generale da tutto ciò che potesse nutrirli prolungando
la loro esistenza miserevole.
Ecco
perché quel bestione si era limitato ad uccidere Raoul e tramortire lui: quando
mai due corpi umani potevano risultare più appetibili di un intero blocco di
purissimo krylium? Dal profondo della sua natura
animale non riusciva a comprendere di non potersene nutrire, ma l’energia che
esso emetteva era come la luce per le falene, assolutamente irresistibile.
Ma in
ogni caso, Georg non poteva permettergli di fare quello che voleva; se quel
contenitore fosse andato distrutto il sacrificio di Reynar,
Raoul e tanti altri poveri sventurati sarebbe stato inutile.
Sfoderato
il pugnale, e urlando per darsi coraggio, Georg saltò letteralmente in groppa
al mostro, piantandogli la lama nel collo nella speranza di farlo desistere
subito. Il mostro riuscì a disarcionarlo in pochi secondi, afferrandolo con le
sue mani ciclopiche per poi sbatterlo violentemente a terra, ma prima che
potesse colpirlo nuovamente Georg gli impalò il piede facendolo gridare dal
dolore, e dandogli così il tempo di rialzarsi, caricare il destro ed
assestargli un violento montante.
Nessuno,
soprattutto se privo di poteri magici, si sarebbe mai sognato di affrontare
un’EDA a mani nude, ma che altro gli restava da fare?
«Avanti,
bestione» disse provocatorio mentre quel mostro, furente come non mai, tornava
a fissarlo. «Se vuoi mangiare qualcuno, perché non provi con me?».
Il corridoio che conduceva
dal cuore delle stive alle cambuse era già stato bloccato e ostruito in vario
modo dai superstiti con tutto ciò che era stato possibile accumulare, ma a
tempo da record venne riorganizzato da Amanda, Klaus e Vincent per farne una
successione di tre barricate che, secondo il piano, avrebbero potuto garantire
una continua linea di difesa, anche a costo di dover cedere dei metri.
Tutti
coloro che avevano una qualche dimestichezza nell’uso delle armi furono equipaggiati
con tutte le pistole, i fucili e le armi d’assalto che fu possibile mettere
insieme, e vennero reclutati anche i pochi maghi presenti tra i sopravvissuti.
«Credo
sia tutto pronto» disse Klaus osservando la linea ininterrotta di casse,
cassoni e ingombri vari che partendo da subito oltre la porta arrivavano fino
sul fondo del corridoio. «Ulrich, mi ricevi?»
«Forte e
chiaro.»
«Abbiamo
bisogno del tuo aiuto. Avvisaci quando li vedi arrivare.»
«State
tranquilli. Sto tenendo d’occhio tutti i punti d’accesso. Nessuno si avvicinerà
a quella stanza senza che voi lo sappiate per tempo.»
«Non
avrei pensato di doverlo dire, Ulrich, ma… grazie del tuo aiuto.»
«Non c’è
di che» rispose sornione l’interessato.
A quel
punto, ad Ulrich restava solo una cosa da fare.
Per
tutto quel tempo, da che era riuscito a ripristinare i sistemi di sorveglianza,
il computer aveva accumulato, compattato e messo in ordine quanti più filmati
gli era stato possibile, facendone un grande video contenente sia i momenti
immediatamente precedenti e successivi allo scoppio dell’emergenza sia le varie
fasi di intervento della squadra, trasferendo il tutto all’interno del computer
da polso di Ulrich.
Quelle
immagini sarebbero state sicuramente molto utili al momento di stilare il
rapporto, inoltre avrebbero sicuramente contribuito a comprendere le origini e
le cause di quella emergenza, sì da evitare in futuro simili tragedie.
Un
rumore proveniente dalle sue spalle gli strozzò di colpo il respiro in gola.
«Ma cosa…».
Per
fortuna i riflessi non gli facevano difetto, o l’EDA sbucato all’improvviso
dalla porta ancora aperta della stanza del nucleo lo avrebbe azzannato prima
che avesse avuto il tempo di sfoderare la pistola e fare fuoco.
Istintivamente,
passata la minaccia, Ulrich eresse una barriera a
protezione della porta, e fu un bene, perché dopo pochi attimi una ventina di
altri mostri vi si avventò contro, trovando in quel fragile scudo tutto ciò che
li separava dal loro pasto. Non serviva molta fantasia per immaginare da dove
fossero arrivati, e gettando un occhio al corridoio si potevano notare, sul
soffitto, diverse botole aperte.
«Ulrich, che succede?» domandò Klaus, che aveva sentito dei
rumori attraverso la radio
«Sono
qui, Klaus. Sono arrivati dai condotti.»
«Merda!
Aspetta, ora vengo ad aiutarti!»
«No,
lascia perdere!» gli intimò Drassimovic. «Sono troppo
lontano! Sta tranquillo, per ora sono inoffensivi. Senza contare che non
possiamo permetterci di perdere la sala del nucleo.» poi guardò i monitor,
rimanendo per un attimo in silenzio, sconvolto. «E poi, state per avere
visite».
Gli EDA, avevano dimostrato
analisi autoptiche, non perdevano del tutto al propria coscienza umana al
momento della trasformazione.
La
memoria e la coscienza venivano alterate e sconvolte, impedendo loro di pensare
e sentire razionalmente, ma non scomparivano in maniera completa, e in alcuni
casi arrivavano a condizionare il comportamento successivo dell’EDA anche dopo
la mutazione.
Quando
un pugno di EDA, attratti dall’odore di cibo, raggiunse la zona delle scialuppe
trovarono ad attenderli solo un Richard Song ormai
mutato, il quale però, Comandante alla guida del proprio esercito, messosi alla
testa di un vero battaglione di EDA cominciò a correre schiumante in direzione
della stiva, coinvolgendo nella sua discesa verso il basso un numero sempre
maggiore di propri simili, e non servì molto perché alle narici di tutti quei
mostri giungesse un profumo tale da tramutare una fame istintiva in vera e
propria furia distruttrice.
Vincent
e Klaus, appostati assieme ad altri lungo la prima e più esposta barricata, li
sentirono arrivare quando questi erano ancora a molti metri di distanza, tanto
e tale era il fracasso prodotto dal loro avanzare furioso.
«State
pronti!» ordinò Klaus.
La paura
negli occhi di molti era evidente, e qualcuno era talmente spaventato e
tremante da non riuscire a tenere dritta la propria arma, ma bene o male tutti
sapevano che a quel punto non si poteva più tornare indietro. O vivere o
morire: questa era l’unica scelta che rimaneva a ciascuno di loro.
Come la
quiete prima della tempesta, per un istante tutto si fece silenzio; poi,
ringhiando e strepitando, i primi EDA dell’interminabile armata si palesarono
dalla biforcazione sul fondo. Song guidava la carica,
e fu lui il primo a cadere, centrato in pieno da Klaus che non ci pensò due
volte a tirare il grilletto appena lo vide comparire nel mirino.
«Ricordate,
sparate in testa! Fuoco!» ordinò Vincent.
Klaus
aveva letto una storia da piccolo, si diceva il resoconto di un fatto realmente
accaduto all’alba dei tempi, quando ai loro antenati vivevano ancora sulla
Terra, di un pugno di soldati che riuscivano da soli a respingere un esercito
mille volte più grande sfruttando una stretta gola dove il vantaggio dato dal
numero era azzerato; forse era anche un po’ in memoria di quella favola che si
era convinto della fattibilità di quell’ultima, disperata resistenza, piuttosto
che arrischiarsi in una traversata della nave dagli esiti imprevedibili, e
inizialmente i fatti parvero dargli ragione.
Esposti
al fuoco di sbarramento, impreciso ma comunque intensissimo, gli EDA non
smisero un attimo di cadere.
Ma erano
tanti. Troppi. E più della metà dei coraggiosi che si erano offerti di aiutare
a contrastarli nei fatti non aveva mai toccato un fucile.
Sotto la
spinta di quell’onda umana, la prima barricata non impiegò molto a cadere;
Klaus ordinò il ripiegamento, ma dei cinque uomini che erano con lui solo due
riuscirono a seguirlo fino al secondo sbarramento, e quando anche questo cadde,
costringendo i superstiti a rifugiarsi nel terzo, dove li attendeva Vincent, Krietzmann era rimasto solo.
E
sarebbe morto anche lui, se un’EDA che era in procinto di saltargli addosso non
fosse stato intercettato a mezz’aria e finito provvidenzialmente da un colpo
ben piazzato di Vincent, che coprì le spalle al compagno finché questi non
l’ebbe raggiunto.
«Questa
è l’ultima linea!» gridò Vincent per sovrastare il fragore degli spari. «Se
perdiamo anche questa dovremo ripiegare fin nella cambusa!»
«Non
succederà!» replicò fiero Klaus sporgendosi e riprendendo a sparare.
Man mano
che i rumori si avvicinavano, tra i sopravvissuti montava la paura. Amanda
stava dinnanzi alla porta, pronta a coprire un’eventuale fuga ai suoi compagni
che ora poteva vedere a poca distanza, mentre tutto attorno a lei il panico
tornava a prevalere sulla speranza.
Hilda, che
per buona parte del tempo era rimasta in disparte, senza quasi capire il perché
si ritrovò a cercare la compagnia di Johanna, che la
strinse a sé ricevendo finalmente in cambio un uguale abbraccio.
«Ho
paura.» disse la bambina con un filo di voce
«Ce la
faremo, piccola. Te lo prometto».
L’Aurora aveva ormai
raggiunto l’orbita alta di Neos, e tutti gli occhi
erano puntati in direzione della Zona Oscura, da cui ci si aspettava di veder
sbucare da un momento all’altro la figura esile e scintillante del Megonia, diretto verso la sua ultima destinazione.
A bordo
regnavano incertezza e rassegnazione.
Bene o
male, in quelle tre ore di volo, tutti si erano convinti che quella era l’unica
cosa da fare, ma in pochi apparivano realmente determinati a farla, o
quantomeno a farla senza dubbio alcuno.
Il Direttore
Generale non aveva più aperto bocca da dopo la partenza, e sedeva come
ipnotizzato alla poltrona di comando al centro del ponte, scrutando come gli
altri l’immensità dell’universo con occhi quasi spenti, apatici.
Qualche
migliaio di chilometri più indietro, la Voyager, la
nave scuola della stazione Ares, seguiva la stessa rotta alla sua massima
velocità, la stessa che risultando quasi doppia rispetto a quella della ben più
grande ma anche più lenta Aurora le aveva permesso di colmare in poco tempo la
distanza accumulata.
Anche
sul ponte della Voyager regnava il silenzio, ma era
un silenzio diverso.
Nessuno,
tranne il Direttore Shane, sapeva ancora con certezza cosa stessero andando a
fare, o quale fosse l’origine di tutto quel trambusto che aveva sconvolto una
normale giornata di lezione, e i cadetti si guardavano increduli tra di loro.
Più
l’Aurora si avvicinava, più Shane si faceva nervoso.
«Quanto
manca per poterli raggiungere?»
«Ancora
dieci minuti, signore».
Poi,
d’un tratto, qualcosa apparve alle spalle di Neos,
facendo sobbalzare tutti sia sull’Aurora che sul Voyager.
Una
sagoma, bianchissima.
Il Megonia.
Procedeva
lentamente, in modo incerto, sospinto da dei motori che nonostante i danni
riportati riuscivano ancora a funzionare, a riprova del lavoro magistrale degli
ingegneri.
Vedendola,
Shane sbiancò, e le sue mani presero a tremare.
«Riusciamo
a raggiungerli in tempo?»
«Sono
ancora troppo distanti, Signore.» rispose timidamente il pilota.
A bordo
dell’Aurora la razione fu quasi la stessa, ma lì tutti sapevano cosa stava per
succedere.
«Cannone Odin in stand-by.» disse Aoyama.
Nolan si
volse verso Geithner.
«Signore?».
Il Direttore
Generale strinse forte i braccioli della poltrona, quindi fece un cenno appena
visibile con la punta di un dito.
«Caricare
Odin.» ordinò quindi Nolan.
Se Amaltea
aveva Morpheus, la MAB e Caldesia
avevano Odin: un’arma innovativa, di cui l’Aurora
poteva fregiarsi di essere la prima in assoluto a beneficarne, capace di
raccogliere il potere magico presente nel cosmo, anche nelle quantità più
infinitesimali, e sommarlo a quello prodotto da una parte del proprio nucleo,
sì da dare vita ad una enorme massa di energia capace di produrre un potere
distruttivo senza precedenti.
Vedendo
comparire una sfera di luce bianca davanti al muso dell’Aurora, che pulsando e
palpitando come un cuore cresceva sempre più d’intensità, Shane si sentì
scendere il latte alle ginocchia.
«Bastardi»
ringhiò, quindi ordinò. «Mettetemi in comunicazione con l’Aurora! Aprite un
canale!»
«Ma
signore, la loro linea è protetta…»
«Craccatela!».
Nessuno
di quei ragazzi era al livello di Ulrich, che bene o
male era stato per loro quasi un professore, ma unendo le forze riuscirono
comunque a violare i sistemi di sicurezza dell’Aurora, e il volto del Direttore
Shane comparve al centro del ponte di comando proprio nel momento in cui il Direttore
Generale, sfilatosi dal collo la chiave di controllo di Odin,
era sul punto di infilarla nella fessura comparsa da uno sportello sul
bracciolo della sua poltrona.
Vedendolo
apparire, Nolan imprecò in silenzio, e anche Aoyama ne fu visibilmente contrariato.
«Nathan!?
Che ci fai tu qui?»
«La
prego, Signore. Non lo faccia. Non condanni a morte tutte quelle persone.»
«Ne
abbiamo già parlato, Direttore Shane» tagliò corto Nolan.
«La decisione è presa. Il Megonia deve essere
sterilizzato.»
«Cannone
Odin carico.»
«Ci sono
ancora delle persone a bordo. Persone innocenti. Possiamo salvarle. Ho portato
con me uomini ed equipaggiamenti. Mi dia trenta minuti, solo trenta minuti, e
riprenderemo il controllo della nave.
Metta
tutti in quarantena. Li arresti se necessario. Ma non li uccida così».
Geithner
guardò in basso, sopraffatto dal peso della sua carica.
«Signore»
disse Aoyama. «Qui è in gioco la salvaguardia del
nostro pianeta. Che faremo se il contagio a bordo del Megonia
dovesse diffondersi?»
«Questa
è una decisione di cui potrebbe pentirsi per tutta la vita» incalzò Shane. «Noi
siamo la MAB, signore. Il nostro compito è proteggere questo pianeta ed i suoi
abitanti. Tutti i suoi abitanti.»
«La nave
è nel mirino, Signore.»
«Signore!»
«Signore!».
La mente
di Geithner viaggiò lontano.
Ripensò
alla sua infanzia, ai racconti di suo nonno, alle gite in montagna; e poi
all’accademia, al duro lavoro, alla scalata ai vertici, e a quel sogno di
diventare l’uomo più importante del mondo: non per avidità o sete di gloria, ma
solo per la volontà incontrollabile di aiutare gli altri, poiché solo la MAB
aveva il potere di tramutare Celestis in quello
scrigno di grandezza e di utopia che i loro antenati sognavano.
Una cosa
però era certa: quella decisione, qualunque fosse stata, avrebbe cambiato il
destino non solo della MAB, ma probabilmente dell’intero Celestis.
Per sempre.
Ulrich guardò di nuovo verso la barriera, su cui
quei mostri impazziti ed assetati di sangue spingevano senza sosta, e sulla
quale iniziavano a comparire le prime crepe.
Di
sicuro, non avrebbe retto ancora a lungo.
Georg si era battuto come
un leone, e grazie alla sua stazza era riuscito in più occasioni a fare davvero
male all’EDA, ma contro un avversario del genere non era facile riuscire a
prevalere.
L’orco,
all’ennesimo assalto furioso del Capitano, incassò alcuni colpi, poi ne
ricevette uno allo zigomo che evidentemente gli fece più male degli altri, e
con uno scatto furioso colpì il Capitano con tutta la sua forza, sparandolo
contro una parete; e questa volta, neanche la tuta protettiva riuscì a salvare
Georg, che nel momento dell’urto sentì distintamente varie ossa scricchiolare,
e alcune spezzarsi, tanto che una volta a terra non fu capace di rimettersi in
piedi.
Ma l’EDA
non aveva ancora finito con lui. Prima ancora che il Capitano potesse cadere
del tutto, il mostro scagliò in avanti tutti e due i suoi artigli,
trafiggendolo da parte a parte all’altezza del cuore per poi sollevarlo di peso
ancora vivo, portandolo tanto vicino a sé che i loro nasi quasi si sfiorarono, quasi
quella creatura avesse voluto guardare dritto negl’occhi quell’omuncolo che
aveva osato sfidarlo.
Georg
dapprima urlò per il dolore, ma quando fu viso a viso con il mostro le sue
labbra si piegarono in un ghigno provocatorio, i suoi occhi in uno sguardo di
sfida.
«Non… non sai fare più di così?».
Nelle cambuse, anche la
terza linea era saltata. Oltre a Vincent e Klaus, solo pochi altri erano
sopravvissuti abbastanza a lungo da lasciare indenni quel corridoio infernale,
e la difesa a spada tratta di quell’ultimo pertugio che era la porta d’ingresso
appariva sempre più disperata.
Tutti
sparavano, producendo un rumore che rafforzato dallo spazio chiuso risultava
assordante, mentre nell’aria continuavano ad echeggiare le urla infernali di
quei mostri, che fossero di dolore, di agonia o di rabbia famelica; anche dalle
altre porte, tutte ancora sprangate, presero a giungere violenti colpi.
Qualcuno
riuscì ad entrare, superando lo sbarramento e aggredendo alcuni dei superstiti,
e a quel punto fu il panico Generale, con gente che scappava in tutte le
direzioni intralciandosi a vicenda.
«Sto
finendo le munizioni!» si continuava a sentire.
Ashley e
il signor Gullit, come immersi in un’altra dimensione, si guardarono,
scambiandosi un sorriso, mentre lui le sfiorava la guancia con un dito e lei
passava una mano sui suoi folti capelli grigi.
«Il Capitano
ha detto che usciremo di qui!» urlò Hilda tra le
lacrime stringendo la matrigna più forte che poteva. «Lo ha promesso!»
«Và
tutto bene, bambina mia!» le sussurrò teneramente la madre nascondendo le
proprie, di lacrime. «Và tutto bene. Chiudi gli occhi».
Il Direttore Geithner abbassò lo sguardo; quando lo rialzò, guardando il
vuoto davanti a sé, una lacrima scese lentamente lungo il volto rugoso.
«Per la
pace. Per il mondo. Per l’umanità».