Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Shichan    05/07/2014    1 recensioni
«Te l’ho detto» lo interruppe il demone «sembra che ci sia un tuo simile. O addirittura due.»
Haruki vede cose che gli altri non vedono, e ha imparato con il tempo e a sue spese che quella capacità non è affatto un dono.
Hideyuki osserva gli spiriti passargli accanto come se non li vedesse, perché ha imparato che se fingi che non esistano, loro faranno lo stesso con te.
Chiaki, che vorrebbe poter scegliere cosa vedere e cosa no, lascia che tutto le passi davanti agli occhi perché non può fare altro che quello.
Tutti e tre pensavano di essere soli.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

III
Zashiki-warashi, II


The longer I stand here, the louder the silence.
I know you’re gone,
but sometimes I swear that I hear your voice when the wind blows.

 

Shiki continuava a fissarla. Nel suo sguardo c’erano molte cose che a Chiaki sembrava di conoscere bene – il divertimento di fronte a una situazione inaspettata ma curiosa, il leggero fastidio di chi era geloso anche dei propri pensieri, l’indecisione di quando si hanno due possibilità ugualmente stimolanti ma non si riesce a decidere tra esse –, eppure al tempo stesso le sembrava di vedere un viso impossibile da decifrare.
Immobile e ancora nella stessa posizione, pensò che forse era in quelle piccole sfumature che persino un demone dall’aspetto tanto simile a un umano si rivelava per ciò che era. Era come se le emozioni di Shiki fossero incontenibili e sfuggissero al controllo altrui, investendo chi lo circondava come un’onda anomala che non può essere fermata né trattenuta.
Si chiedeva cosa passasse nella mente di un demone in momenti come quello: forse stava decidendo se valesse la pena – o se fosse necessario – ucciderla, liberandosi di qualcuno di scomodo. Ma, sebbene non riuscisse a pensare con lucidità in quella situazione, era abbastanza sicura di non avere una tale importanza da risultare “scomoda” a un essere che avrebbe impiegato meno di una manciata di secondi a liberarsi di lei.
Lo vide sbuffare e ritrarsi, l’aria seccata ma non intenzionato a farle del male.
Almeno per il momento.
«Se non fosse un’immensa seccatura toglierti di mezzo non staremmo nemmeno qui a parlarne.» chiarì, guardandola. Chiaki non si era nemmeno accorta di essere tanto nel panico finché, con Shiki lontano, non aveva ripreso a respirare – rendendosi conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.
«Generalmente gli umani mi piacciono abbastanza, ma su di te non saprei pronunciarmi.» continuò, come se non fosse realmente necessaria la partecipazione di lei in quel discorso: «Come sai che Haruki è maledetto?»
«L’ho sentito.» ammise Chiaki dopo qualche istante; Shiki doveva essersi aspettato qualcosa di diverso, che lo avesse letto da qualche parte, scoperto, intuito magari.
«Quando ci siamo incontrati la prima volta, tu e Haruki-kun stavate seguendo un chochinobake, ricordi?»
Shiki annuì, sistemandosi a gambe incrociate di fronte a lei.
«Quella è una strada che faccio abbastanza spesso. Quando sono passata di nuovo lì, c’erano alcuni youkai che ne parlavano e dicevano che “quella notte il ragazzino maledetto aveva preso la lanterna”. Ho pensato che non dovessero esserci molti altri ragazzini del genere a parte lui. Anche se non so di che maledizione parlassero: ho immaginato si riferissero a te.»
«Grazie tante, ti sembro una maledizione?»
«Non lo sei?»
Non era la prima volta che Shiki lo notava, ma la ragazza aveva il vizio di ribattere alle domande ponendone lei stessa. Era anche interessante, in un certo senso, ma ciò che gli sfuggiva era perché solo in quei momenti l’umana sembrasse non avere timore. O non essere proprio toccata da sentimenti quali la paura – poi però, come poco prima, la sentiva quasi le scorresse nelle vene insieme al sangue.
A prescindere da quello, comunque, non aveva intenzione di fare il bravo e risponderle.
«Questo è un segreto mio e di Haruki.» pronunciò, un sorriso quasi ammiccante e il tono di chi sta insinuando qualcosa senza nemmeno accertarsi di non essere scoperto mentre lo fa.
«Tu piuttosto? Non dovresti preoccuparti di recitare meglio la tua parte?» domandò, mentre Chiaki iniziava a raccogliere le sue cose. Non gli sembrava che avesse finito il suo pranzo, né di leggere il libro che aveva con sé; era facile intuire che il suo fosse un tacito modo di allontanarsi da lui e dal loro discorso.
«Comunque non mi interessa cosa fai con gli altri umani. Ma non metterti in mezzo. Forse quelli della mia specie ti trovano curiosa, ma se provi a cercare un modo per togliere ad Haruki quella che pensi sia una maledizione… allora non esiterò a farti passare la voglia.» minacciò, il sorriso che gli incurvava le labbra che non si estendeva anche gli occhi, creando così un’espressione che la bloccò lì sul posto.
Inspirò. In fondo, Shiki aveva ragione: non erano affari suoi.

Dire di non essere rimasta sorpresa quando, alla fine delle lezioni, aveva intravisto per puro caso Haruki che si affacciava dalla porta avrebbe significato mentire. Dopo la conversazione con Shiki era più che convinta che il demone avrebbe intimato al ragazzo di starle lontano; forse era lì per dirle che sapeva cosa si erano detti? O per rincarare la dose in merito a non impicciarsi dei fatti suoi?
«Hiiragi-san!» verso il suo banco si stava dirigendo Endou, un ampio sorriso sulle labbra; le si avvicinò tanto da poter abbassare la voce ed essere comunque ben udibile: «Quello alla porta non è Kirishima-kun?» domandò incuriosita, ma Chiaki notò che almeno a giudicare dal tono non sembrava esserci nessuna insinuazione di fondo. Somigliava più che altro a un’amica che ti chiede con fare complice cosa c’è tra te e un compagno con cui ti vede parlare spesso.
«Sì. Perché?»
«Credo ti stesse aspettando, ha chiesto di te!» replicò lei divertita, senza nasconderlo minimamente.
Chiaki poteva immaginare che idea si sarebbero fatti di lì a poco i compagni che avessero fatto caso al ragazzo, ma non lo riteneva troppo grave: non aveva nessuno che le piacesse al punto da temere i malintesi.
«Ti ringrazio per avermi avvis—»
«Ohi, Chiaki, muoviti.» sbottò Haruki dalla soglia, impaziente. Probabilmente si era reso conto di essere al centro dell’attenzione, che stesse in silenzio o meno.
Sospirò piano, mettendo nella cartella gli ultimi quaderni e raggiungendolo, con un semplice cenno della mano a Endou; una volta uscita, quasi poté immaginare il brusio in classe.
«Ti serve qualcosa?» domandò, osservando Haruki che camminava con una mano in tasca e l’altra a reggere la cartella, poggiata sulla spalla. Chiaki non era ancora riuscita a capire quanto l’altro facesse volutamente lo sbruffone e quanto, invece, lo fosse sul serio.
«Non dobbiamo andare da Hideyuki?» le fece eco l’altro, perplesso.
«…Giusto. Lo zashiki-warashi.» rifletté lei. Non le capitava spesso di distrarsi da un caso che aveva a che fare con gli youkai, ma aveva dato così per scontato che Shiki avesse parlato con Haruki e che quest’ultimo fosse venuto per chiarire ulteriormente la situazione, che l’accordo a trovarsi nel pomeriggio da Hideyuki le era del tutto passato di mente.
Aveva trovato poco e nulla, per essere sincera: quasi solo conferme di quanto aveva già detto agli altri due, e nessuna novità su insospettabili intenti omicidi di uno spirito tutto sommato innocuo. Non aveva potuto fare ricerche sul perché sia lei che Haruki, pur non essendo padroni di casa nell’appartamento di Hideyuki, vedessero comunque lo spirito. Aveva tentato di dare per scontato che la vista di Haruki, in quanto autentica, fosse la ragione principale per quel che lo riguardava; ma lei? Lei non vedeva per dote naturale. Forse le due cose non erano affatto collegate.
Magari, anche se non era attestato, lo zashiki-warashi poteva decidere autonomamente a chi mostrarsi e solo i bambini a volte ci riuscivano anche se non erano scelti.
«Lo stai facendo di nuovo.» sbottò Haruki, alzando un poco il tono e dando un colpetto agli armadietti all’ingresso dove non si era nemmeno accorta di essere arrivata. Sbatté un paio di volte gli occhi e lo guardò, confusa: «Fare cosa?»
«Chiuderti in quel silenzio inquietante in cui non so mai se stai pensando che hai scordato un quaderno a scuola o ai mille modi di uccidere e torturare youkai, che spero non siano comunque applicabili alle persone, visto che ultimamente sto sempre con te.» commentò.
Fu più forte di lei, e non tentò nemmeno di nasconderlo – non che servisse: portò una mano a coprire la bocca, uno sbuffo divertito che si trasformò quasi subito in un ridacchiare leggero.
Nemmeno Haruki se l’era aspettato, a giudicare dalla faccia che fece quando se ne accorse.
«Non ho mai detto che conosco “mille modi di uccidere e torturare youkai”.» fece presente, cambiandosi le scarpe e mettendo a posto quelle che aveva indossato fin lì.
Haruki approfittò di dover fare lo stesso per darle le spalle: «Che ne so, dici che studi un sacco di roba del genere.»
«Ho studiato solamente i tipi di spiriti che potevo trovare anche qui e i metodi base per difendermi o impedirgli di fare del male alle persone. Ma non ho capacità per esorcismi o simili, quindi non ho studiato troppo in là i rituali. Non sarei comunque in grado di applicarli, forse.»
«Quel forse è inquietante.»
«Credevo volessi dirmi di starti lontana o qualcosa del genere.» disse, anche se non sapeva bene perché. Non aveva particolare interesse a interagire con Haruki, per quanto le sue capacità le sembrassero quasi un segno del dover avere a che fare con lui. Ma la vista sarebbe potuta essere un dono di chiunque e sarebbe stato lo stesso, tanto che tra lui e Hideyuki non trovava differenze in quel senso.
Non era questione né di preferirne la compagnia, né di non voler essere odiata.
Aveva solo la sensazione che Haruki, nei limiti del possibile, fosse sempre immancabilmente sincero. Si sentiva in colpa, a mentire a una persona così.
«Perché mai?»
«Perché ho parlato con Shiki-san, e immaginavo te lo avesse riferito.» spiegò lei, iniziando a muoversi verso l’uscita.
«Lo ha fatto.» chiarì lui quando l’affiancò, senza fermarsi ma proseguendo per uscire e incamminarsi verso casa di Hideyuki: «Più o meno. Potrebbe non avermi detto tutto. Non farti l’idea di due persone molto amiche che si dicono ogni cosa perché non è affatto così. Specialmente se non rivelarmi i dettagli è una cosa che finisce col divertirlo.» si fece seccato, su quell’ultima parte, ma non sembrava arrabbiato.
«Quindi ti ha detto che so che sei maledetto?»
«Sì, ma che non hai idea di quale sia la maledizione. Ma non è questo granché: è ovvio che se vedo cose del genere o che se mi porto dietro un demone, tanto normale non posso essere. Non che tu sia messa meglio di me comunque, maledizione o non.»
Chiaki non era sicura che fosse un’offesa, anche se di sicuro non era nemmeno un complimento. Si limitò a tacere, continuando a camminare.
«Non mi chiedi niente?»
«No. Shiki-san dice che è un segreto tra te e lui.»
«E ti fidi?»
«Non è per fiducia. Penso solo che ci siano cose che non vuoi dire, e in fondo io non ho davvero bisogno né il diritto di saperle. Va bene, visto che ci conosciamo appena.» spiegò, senza approfondire troppo la cosa.
Avrebbe voluto dire che capiva, perché anche se la portata dei loro segreti era diversa, lei – come tutti – aveva cose di cui non voleva parlare né con le persone care, né con le altre. Seppure lei e Haruki fossero stati amici di vecchia data, pensava, non sarebbe stata comunque in grado di dirgli nulla.


Haruki inspirò lentamente, cercando di calmare la fastidiosa sensazione di un mal di testa feroce insieme alla nausea di chi soffriva di mal d’auto e aveva appena fatto dieci minuti ininterrotti di curve.
Impiegò diversi secondi per riuscire a fare mente locale, uscire da quello stordimento in cui nemmeno capiva bene dove fosse, e rimettere insieme gli ultimi avvenimenti. Lui e Chiaki erano arrivati fino a casa di Hideyuki, di questo era sicuro: lui li aveva fatti accomodare, aveva offerto loro il tè e Haruki aveva passato cinque minuti buoni in silenzio mentre Chiaki e l’altro si scambiavano opinioni in base a quello che la ragazza aveva letto su alcuni documenti. Non che ci fossero stati sviluppi inattesi.
Non ricordava bene secondo quale logica si fosse arrivati a tentare un secondo contatto con lo youkai nell’armadio, ma alla fine era sembrata l’unica cosa da fare e fino ad un certo punto Haruki era anche abbastanza sicuro che non ci fossero stati intoppi.
Ma poi…?
«Haruki, stai bene?» sentì chiedere alla propria sinistra e alzò lo sguardo, ancora un po’ intontito, trovando Hideyuki al proprio fianco. Annuì più per riflesso che altro: «Perché sembra come se un camion mi avesse investito?» borbottò, mettendosi a sedere più composto – riuscì finalmente a distinguere l’ambiente dell’appartamento di Hideyuki e a inquadrare, davanti a sé, Chiaki. Era seduta e sveglia, ma non aveva l’aria di chi stava bene.
«Non ci pensare.» lo anticipò Hideyuki «La tua sensazione di essere finito sotto un camion è il risultato di un tentativo di avvicinarti a Chiaki.»
«…Eh?» ribatté, sicuro di non avere un’espressione molto intelligente al momento, mentre qualcosa tornava in modo piuttosto frammentario a farsi strada nei suoi ricordi.
Armadio, spirito, e poi… poi cosa?
«C’è un secondo youkai. Temo abbia posseduto Chiaki.» parlava lentamente, il tono grave ma calmo; Haruki sgranò gli occhi, non capendo come potesse essere tanto tranquillo. Fece per mettersi in piedi, ma una mano di Hideyuki poggiata sulla sua spalla lo trattenne.
«Che diamine stai facendo?!»
«Non ho idea di quale youkai sia, non so come tirarlo fuori da lì e anche se usassi il kotodama rischierei di farle del male senza volere. A me sembra più sensato cercare di capire che cosa stia succedendo. A meno che tu non riconosca uno spirito a vista.» insinuò, in un’ironia piccata e leggera, diversa da quella strafottente di Shiki o da quella seccata dello stesso Haruki.
Digrignò i denti: non ne sapeva un accidente di possessioni, e l’unica che sarebbe servita con tutte le sue stupide nozioni era la posseduta.
«Porca merda.»
«Avverto il bisogno di liberarla solo per dirle “te lo avevo detto di stare lontana dagli youkai”.» proruppe la voce di Shiki, che l’istante dopo era materializzato al fianco di Haruki. Sembrava annoiato per qualcosa che aveva previsto, e seccato perché consapevole che avrebbe perso tempo prezioso.
«Sai di quale spirito si tratta?» lo interrogò Hideyuki, portando lo sguardo su di lui. Era la prima volta, o almeno Haruki non ne ricordava altre al momento, in cui quel ragazzo si rivolgeva direttamente a Shiki; al di là della sorpresa – che ultimamente era sempre minore – nel vedere un essere umano parlare con lui, ad Haruki ricordò vagamente la calma con cui la stessa Chiaki parlava con Shiki. Lei aveva un modo più “impersonale” di rivolgersi al demone, come se parlare con lui o con un umano non facesse alcuna differenza. Hideyuki invece era come qualcuno che non può e non vuole avvicinarsi al fuoco perché sa che brucia, ma che non è spaventato dalla fiamma o dal dolore che essa potrebbe provocargli. Era qualcosa di più, a cui non riusciva a dare un nome preciso.
Shiki incrociò le braccia, sedendosi a terra come se fossero tutti lì per una partita a carte: «Hai idea di quanti youkai effettuino una possessione appropriandosi del corpo e della mente degli umani? Fammi pensare… tutti? O quasi. Cosa vuoi che ne sappia.» ribatté acido, quasi.
Hideyuki aggrottò appena le sopracciglia, ma non disse nulla.
«Questo non significa che non sappia come liberarla.» proseguì il demone «Ma vi avviso che non sarà divertente. Per voi.»
«Puoi farla breve, Shiki? Hai già rotto il cazzo.»
Non era la prima volta che Haruki gli rispondeva a tono, e Hideyuki aveva sempre pensato che – sebbene in un modo che non avrebbe mai compreso – quello fosse il loro modo di comunicare, per quanto strano e particolare. Per questo si stupì quando, contrariamente a tutte le altre volte, Shiki si mosse così veloce da non essere nemmeno visto: in un istante era davanti ad Haruki, una mano al suo collo e l’espressione ferina mentre lo fissava.
Hideyuki lo vide leccarsi le labbra, e stava per aprire bocca – non era sicuro che il kotodama funzionasse sui demoni di alto livello, ma non poteva restare a guardare – quando Shiki, contro ogni previsione, si limitò a parlare; Haruki lo fissava come se nulla fosse, e Hideyuki non capì come si potesse in quella situazione.
«Chiariamo una cosa: io non ho obblighi verso nessuno, tanto più se si tratta di salvare gli esseri umani. Non faccio la carità, e il mio unico interesse è che tu rimanga in vita ancora per un po’. Non scordarti che se non sei ancora morto è perché ci sono io.» sibilò. Nessuno si mosse, finché un mugolio non attirò la loro attenzione: Chiaki si era mossa di pochissimo, e la testa ora ciondolava verso il petto.
Di nuovo silenzio.
Shiki sbuffò, tornando nella posizione iniziale: «L’unico modo è risvegliarle la coscienza e staccare a forza la sanguisuga che ci si è attaccata.» spiegò in breve. Hideyuki e Haruki si guardarono, incerti.
«Non ho idea se quello schifo debba essere cacciato fisicamente o no. Proietterò entrambi nella sua coscienza, ma non potrò fare niente se non comunicare con Haruki e vedere quello che vede lui. C’è anche il rischio che facciate danni, e quando sarà finita – se la ragazzina sarà di nuovo cosciente – non sarà stato piacevole per nessuno.» concluse sbrigativo, guardandoli.
Sbuffò, leggendo la risposta nel cambio di posizione di entrambi.
E dire che lui odiava mescolarsi alla coscienza umana.

«Non mi piace per niente, questa cosa.» borbottò muovendosi con circospezione, Hideyuki un passo dietro di lui.
«Sei sorprendentemente gentile, Haruki.» osservò con un sorriso leggero, facendo la stessa attenzione ad ogni movimento. Nessuno di loro aveva mai pensato che la coscienza fosse così: Hideyuki se l’era sempre immaginata come un lungo corridoio scuro, con tante finestre quanti erano i ricordi che fungevano almeno da perno, o al massimo quelli più vividi per la memoria umana. Magari ce n’era davvero una così, ma non era il caso di Chiaki: niente corridoio con le finestre, niente sala con i quadri, niente stanza piena di porte.
Era solo tutto bianco. Per quanto ne sapevano poteva essere anche una camera di qualche tipo, ma l’assenza di qualsiasi altro colore non gli permetteva di capire se ci fossero dei muri o un soffitto, né da dove fossero entrati data l’assenza di una porta – né da dove sarebbero usciti, tra l’altro.
L’unico concetto materiale era quello di un pavimento, dato che camminavano su una superficie e di fronte a loro c’erano gli oggetti più disparati a terra: un peluche in fondo a sinistra, un vaso di fiori non troppo distante, dei libri sulla destra, una cravatta quasi al centro (sempre che un centro ci fosse), un quadro a terra, quelli che sembravano fogli sparpagliati e così via.
«Gentile un corno.»
«Nemmeno a me piace l’idea di ficcanasare troppo in cose private. Ma non abbiamo scelta, immagino.» osservò, raggiunto poco dopo da un’eco distante che riconobbero entrambi come la voce di Shiki.
Gli oggetti sono la base della coscienza. Di solito rappresentano qualcosa che l’ha influenzata tanto da renderla com’è ora. Per comodità diciamo che è per colpa di questi pezzi di coscienza che voi umani siete come siete.
«Non avrei saputo dirlo meglio…» ironizzò Haruki a mezza bocca: «E adesso?»
Adesso cercate. Chiunque la stia possedendo, è da qualche parte. Di solito una volta che si possiede un frammento di coscienza è perché è il più adatto ad essere posseduto: non sempre è per debolezza, può essere anche il contrario.
«In pratica, cerchiamo alla cieca.» decretò Hideyuki, iniziando ad avanzare. Non aveva la minima idea di che ordine seguire, se dall’oggetto più vicino al più distante, o se dovesse cercare in base ai gusti di Chiaki; ma anche se fosse stato quello il caso, non sapevano affatto quali fossero.
La consapevolezza di non conoscersi affatto lo fece sentire ancora più colpevole all’idea di indagare così nell’anima di qualcun altro.
Non che avessero scelta.
Raggiunsero entrambi il vaso di fiori, sollevandolo da terra.

Chissà perché anche i bambini erano in grado di riconoscere le stanze d’ospedale: anche se ci andavano per la prima volta, anche se erano troppo piccoli per cogliere appieno cosa fosse un ospedale e cosa succedesse al suo interno, loro comunque lo riconoscevano. Capivano, intimamente, che era un posto dal quale non sempre uscivano tutti felici.
Chiaki era una bambina sveglia, lo era sempre stata: c’era chi diceva che avesse preso tutto dal papà, Hiiragi Koichi, che se era un docente universitario doveva pure esserci un motivo. Altri sostenevano che fosse tutta la mamma, che fino a prima del matrimonio era stata una pianista piuttosto famosa e ora insegnava ai piccoli che volevano coltivare il dono per la musica. Sua figlia, stranamente, non aveva mai imparato; tuttavia era una bambina brillante, senza per forza essere la migliore del suo anno a scuola. Aveva più che altro la vivacità mentale di chi ricerca la conoscenza continuamente senza che questa debba essere fissata da un voto scolastico.
Quando la zia – la sorella di suo padre – le aveva detto che sarebbero andate a trovare la mamma insieme, Chiaki aveva capito non tanto che non l’avrebbe più vista, ma che la donna non sarebbe tornata indietro con loro.
Ai suoi occhi, sua madre era pallida e un poco sciupata, ma non sembrava stare male tanto da non poter più scendere dal letto. Promise, come farebbe qualunque bambino, che si sarebbe presa cura di lei: non era brava a cucinare, ma poteva imparare. O poteva cucinare la zia, e lei avrebbe fatto tutto il resto – anche se cosa ci fosse nel “tutto” non lo sapeva.
La zia Hiroko le spiegò che la mamma non stava male fisicamente: «Sta male qui.» e le sfiorò la tempia con le dita, perché non avrebbe pronunciato la parola “pazzia” per tre lunghi anni ancora.
Chiaki non saltò una visita, né dopo mesi, né dopo più di un anno probabilmente.
Vedendola bambina, che raccontava a sua madre cosa aveva fatto a scuola, Hideyuki vide che sul comodino un vaso di fiori freschi colorava una stanza altrimenti troppo bianca e impersonale.

Una volta Chiaki aveva fatto un tema, a scuola: “il lavoro del mio papà”.
Aveva raccontato che suo padre era un insegnante che però faceva lezione con i “bambini grandi”, che leggeva un sacco di libri difficili e che poi le raccontava cosa aveva studiato durante il giorno. Gli parlava di figure che lei non riusciva sempre a immaginare, ma che somigliavano un po’ ai mostri delle favole, solo che non tutti erano brutti e cattivi.
Li chiamava “youkai”, e sosteneva che da qualche parte sicuramente esistevano. A lei il lavoro di suo padre piaceva molto, e ogni giorno non vedeva l’ora che tornasse a casa per raccontarle qualcosa di nuovo – anche se ogni tanto la mamma si arrabbiava perché diceva che alcuni mostri erano troppo spaventosi e che Koichi non avrebbe dovuto dirle quelle cose, che poi lei non avrebbe dormito.
Ma Chiaki e suo padre avevano un’arma segreta – questo nel tema non lo scrisse – una formula magica che pronunciata prima di dormire avrebbe tenuto gli spiriti lontani.
Ogni tanto, quando Hiiragi Koichi faceva tardi nel suo piccolo studio, Chiaki sgattaiolava fuori dalla sua stanza, pronta a usare il bagno come scusa visto che si trovava poco distante; lo vedeva chino su tanti fogli con simboli complicati o la carta giallognola, e pensava che suo padre un giorno avrebbe scoperto il mondo degli spiriti e che insieme sarebbero andati a fare amicizia con quelli buoni.
Nella sua mente di bambina non c’era né il concetto di derisione di chi ridicolizza a priori i sogni altrui, né di pericolo di fronte all’ignoto.
Non seppe mai che quelle ricerche erano qualcosa da temere in più di un modo, finché alla morte di suo padre sua madre non la sgridò, impedendole di cercare o leggere “quelle stupide ricerche che me lo hanno portato via”.
Avrebbe capito solo qualche anno dopo che forse erano state davvero quelle, a fare del male al padre di cui avrebbe conservato solo una vecchia cravatta, regalata chissà quando.

Dopo che sua madre era stata ricoverata, la zia Hiroko l’aveva accolta in casa come se fosse figlia sua, esattamente come i suoi due cugini – che figli lo erano davvero.
Anche se all’inizio aveva cercato di seguire le regole che sua madre aveva imposto alla morte di suo padre, alla fine Chiaki aveva curiosato tra i vecchi documenti di Koichi: ricerche che erano lontane dalle favole a cui era stata abituata, parlavano di creature a volte mostruose e crudeli, altre piccole e innocue. C’erano centinaia di fogli e decine di libri che non parlavano di altro che cultura, folclore, di spiriti che nessuno vedeva; e poi la ricerca di suo padre, quella scritta di suo pugno nemmeno fosse un diario: percezioni di presenze, di esseri non visti e non sentiti, ma che Koichi aveva sempre saputo essere lì.
Ci aveva messo tempo, a ritrovare un ordine in tutti quei documenti, specie perché le prime volte aveva paura di essere sorpresa da Hiroko e rimproverata, o che buttasse via tutte quelle cose che le ricordavano suo padre. Ma con il tempo ci era riuscita, e aveva passato ore a leggere, dalle cose che sembravano più semplici a quelle più difficili, e alla fine era stato come ritrovarsi ad essere l’assistente e l’erede di quel padre che non c’era più.
Gli youkai la spaventavano all’idea che potessero aver fatto del male al padre, ma avevano un fascino che non c’entrava con la mitologia, il folclore o tutto il resto; capiva che non erano immortali, ma erano molto più difficili da uccidere degli uomini, avevano molto più tempo e la maggior parte di loro si consumava dopo secoli di vita o veniva sigillato.
Quella morte che le aveva portato via entrambi i genitori – perché sua madre, lì dov’era senza più percezione di cosa la circondasse, non era più del tutto se stessa –, dava in qualche modo significato alla sua esistenza. Sentiva, però, un’inquietudine terribile: c’erano youkai, nella sua stanza? In casa? A scuola?
Quando camminava per le strade la seguivano perché aveva un odore simile a Koichi? Oppure la ignoravano?
Suo padre aveva creduto nella loro esistenza senza vacillare un solo attimo, affidandosi a niente più di una percezione. Lei non sentiva nulla, o a volte sentiva troppo, e non capiva se fosse perché si autosuggestionava o meno.
«Koichi amava queste cose. Anche se è probabile che tutti lo credessero pazzo.» le aveva detto Hiroko quando aveva scoperto che si perdeva per ore a leggere quei documenti «Quando ha cominciato si era appena iscritto all’università. Avrei voluto dimostrare che non mentiva e che non era pazzo, ma ormai nessuno crede a quello che non vede.»
Chiaki poteva, questo si era detta.
Con un libro tra le mani, e un rituale di marchiatura per permettersi di vedere, avrebbe potuto scoprire se suo padre mentiva oppure no.
Aveva quattordici anni, quando iniziò a vedere gli youkai: erano lì, non toccati dal tempo umano, forti di un’esistenza quasi eterna. Osservandoli con quanta più discrezione le riusciva, si abituava alla loro presenza, e sentiva sempre maggiore disagio verso gli esseri umani.
«Sarà quello?» sussurrò Hideyuki, indicando davanti a sé; ad Haruki sembrò di riemergere da un sonno durato anni. Seguendo quell’indicazione, capì a cosa si riferiva l’altro e desiderò di non averlo visto affatto: era come una grande sanguisuga, in questo Shiki non aveva sbagliato ad apostrofare quello spirito. Le fattezze erano diverse, sì, ma il modo in cui era avviluppato alla Chiaki di quel frammento di coscienza faceva venire la nausea.
Si mosse senza pensare, e con il senno di poi l’avrebbe sicuramente etichettato come qualcosa di molto stupido, ma avere Hideyuki che si muoveva al suo fianco quasi nello stesso istante lo illuse che forse era meno idiota di quanto sembrasse.
Loro tre non avevano nulla da spartire, eppure l’aria in quel posto era così irrespirabile – o almeno aveva quella percezione – che non riusciva a concepire qualcuno che potesse stare bene lì, o al quale avrebbe augurato di restarci.
Allungò la mano, e rimpianse di averlo fatto: un urlo anche troppo acuto per essere umano era iniziato nello stesso attimo in cui sia lui che Hideyuki si erano protesi verso quella Chiaki che era, indubbiamente, più piccola di quella reale. Lei si era ritratta urlando come se l’avessero torturata con quell’unico gesto.
Hideyuki fece un passo indietro, tenendosi la testa fra le mani, senza riuscire a vedere come se la stesse cavando Haruki.
Nella sua testa, risuonava solo quell’urlo insopportabile e un senso di terrore al solo essere sfiorati e che gli fece girare la testa.
Chiaki e tutto il resto sparirono.

«Ohi! Ohi, Hide! Svegliati, cazzo!»
Aprire gli occhi fu la cosa più difficile degli ultimi mesi, se non anni. Sentiva il corpo pesante, e impiegò diversi istanti per mettere a fuoco Haruki che lo scuoteva. La seconda cosa che realizzò fu che c’erano dei colpi di tosse: gli ricordarono vagamente quando era andato in piscina con il gruppo con cui suonava, e quell’idiota di Mitsu aveva bevuto acqua e tossito per i cinque minuti successivi.
Si tirò su, cercando una sorta di equilibrio anche senza un muro a cui poggiarsi. Lentamente i dettagli si fecero più nitidi: la sua stanza, Haruki, Shiki e Chiaki.
«Chiaki…?» anche articolare una frase era complicato al momento, ma almeno era sicuro che la sua mente stesse riacquistando lucidità. L’altro ragazzo si fece di lato, voltando la testa verso Chiaki: tossiva e aveva il respiro velocizzato, ma sembrava essersi ripresa e soprattutto essere cosciente.
Shiki le stava accanto, ma più che altro la teneva d’occhio.
«Ne hai di risorse, eh. Oggetti di protezione per casi disperati come questo, e marchi chissà dove.» esordì quando i colpi di tosse sembrarono farsi più radi e lei parve riuscire a respirare in maniera decente.
Hideyuki, la mano di Haruki sulla spalla, lo sentì stringere la presa fino a fargli male; avrebbe voluto farglielo notare, ma sapeva – lo intuiva, più che altro – che si stava trattenendo.
Riportò lo sguardo su Chiaki che Haruki aveva già esaurito il briciolo di pazienza rimasta.
«Ne sarà valsa la pena, immagino.» mormorò, la voce che gli tremava, finché non le puntò lo sguardo addosso: era arrabbiato, ma Hideyuki pensò che sembrava più che altro incredulo, deluso, e soprattutto sopraffatto da una tristezza così grande da schiacciarlo.
«Marchiarsi con un rituale per vedere gli youkai e farsi quasi ammazzare. Spero ti divertirai la prossima volta, e quella dopo ancora.» aggiunse, il tono che si era andato alzando così come lui, che era in piedi.
Hideyuki non riuscì a vederne l’espressione, ma le spalle che tremavano gli bastarono.
«Io e te non ci siamo mai incontrati.» sibilò.
Anche dopo che la porta dell’appartamento ebbe sbattuto, dividendo loro due da Haruki e Shiki, Chiaki non alzò mai lo sguardo.
Nemmeno quando se ne andò a sua volta, da sola.



 



 

 

Stavolta niente note da Chiakipedia *muore*
Unica cosa, i credits per la citazione in apertura, della canzone “Words” (Skylar Grey).

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Shichan