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Autore: Akiko chan    18/08/2014    4 recensioni
Era evidente che il ragazzo non aveva alcuna intenzione di nasconderle il disprezzo che provava e quel fugace contatto le fu sufficiente per saggiare una parte della furia primitiva di cui era capace, se provocato. Niente di male, la cosa era reciproca.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kojiro Hyuga/Mark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eccomi qui con la mia quarta fanfiction su Captain Tsubasa e la seconda su Mark Lenders. Posso dire che questa fic è un’incompiuta nel senso che l’avevo già iniziata  e postata un paio di anni fa  ma poi l’avevo interrotta al quindicesimo capitolo non sapendo bene come proseguire. Ora l’ho ripresa in mano dall’inizio, modificata e cancellato i passaggi che non mi convincevano. Questa volta ho aspettato di scrivere l’ultimo capitolo prima di pubblicarla, memore dei rimproveri che mi sono giunti per aver deciso di toglierla da EFP. Sarà il personaggio che, essendomi tanto caro, mi crea sempre qualche problema nel creargli una storia … all’altezza. Ciao a tutti e buona lettura. Akiko chan.


CAPITOLO I. FRATELLI
 
Lasciò che la  porta si richiudesse con un tonfo sordo alle sue spalle mentre si affrettava a sfilare gli anfibi zuppi di pioggia. Fuori era in corso un vero e proprio diluvio e lei l’aveva beccato in pieno. Ancora ansante per la corsa, portò una mano al volto per staccare le ciocche fradice dalle guance ghiacciate, ma si bloccò, con il braccio sollevato a mezz’aria, non appena la gioiosa risata di una bimba le giunse dalla cucina.
 
Una pugno allo stomaco le avrebbe fatto sicuramente meno male.
 
Alla voce squillante della bambina fecero seguito quelle di altri bambini, di una donna e di un uomo. Per essere precisi la voce di suo padre, della sua sgualdrina e dei suoi bastardi. Tre per l’esattezza. Una viziata bimbetta di sei anni, un odioso ragazzino di nove e un disgustoso preadolescente di dodici.
 
Una bella famiglia di merda, insomma.
 
Si infilò le ciabatte da casa, sciorinando a denti stretti una colorita serie di volgarità pescando nel suo fornito repertorio, quindi si diresse silenziosamente verso le scale che portavano al primo piano della casa che, fino a un mese prima, aveva condiviso in perfetta e solitaria armonia con suo padre.
 
-Shay…sei in ritardo per la cena…- la figura snella del padre si staccò dalla cornice della porta della cucina, affrettandosi ai piedi delle scale.
 
La ragazza si arrestò con il piede sul terzultimo scalino prima del pianerottolo che dava al piano superiore. Strinse forte il corrimano, facendo sbiancare le nocche delle mani, respirò a fondo appellandosi a tutta la sua forza di volontà per far scemare almeno in parte l’ondata di funesta rabbia che le stava montando dentro, più incalzante di un temporale estivo. Se avesse ceduto e concesso alla sua ira di uscire liberamente, sarebbe saltata come una fiera selvaggia al collo del padre, facendogli schizzare con un sol colpo gli occhi fuori dalle orbite, per poi continuare ad infierire martoriando quel volto, con inaudita cattiveria sino a farlo implorare pietà, ma lei avrebbe proseguito, non si sarebbe placata almeno che non le avesse giurato di sbattere fuori di casa quella mandria di fottutissimi parassiti seduta stante.
 
Bastardi figli di una puttana approfittatrice.
 
Feccia partorita da un’arrivista buona a nulla.
 
Il padre riusciva a fiutare nell’aria l’istinto assassino che si dimenava incontenibile nel petto della figlia -Rosaly ha preparato il tuo piatto preferito e…- nella voce controllata del genitore vibrava un’inusuale nota di insofferenza mentre fissava la schiena rigida della ragazza - … avremmo piacere che tu ci raggiungessi per la cena…-
 
Shay abbassò le palpebre sino a coprire quasi interamente l’azzurro cielo delle sue iridi incupite dalla tensione, strinse a pugno anche l’altra mano, ignorando il fastidio causato dalle unghie che si conficcavano nella carne sensibile del palmo. Il dolore non aveva importanza, nemmeno la ricordava più quel tipo di sofferenza, erano troppo profonde le ferite della sua anima per percepire quelle del corpo.
 
Iniziò mentalmente a contare, pregando che nessun muscolo del suo corpo la tradisse.
 
-Shay…-
 
-Non mangio- la sua voce suonò bassa e cupa come lo scoppiettio del fuoco morente.
 
-Neanche stasera!? Quando finirà questo sciopero della fame? Dai non fare la bambina… -
 
-Non ho fame! Chiaro?- replicò in fretta questa volta con voce stridula, quasi isterica, salendo di corsa la manciata di scalini che la separavano dal pianerottolo.
 
-Non ti permetto di usare questo tono con me!- la riprese il genitore alzando il tono e mettendo da parte l’infruttuosa tecnica delle moine, per nulla disposto a cedere di fronte a quell’ennesimo, incomprensibile capriccio -Vatti a lavare le mani e vieni a tavola- ordinò con un piglio pungente che voleva essere imperioso, ma risultò invece vagamente incerto. Decisamente interpretare la parte del genitore autoritario gli costava un’enorme fatica e non ci era proprio tagliato.
 
La ragazza, giunta ormai all’apice delle scale, si bloccò di colpo voltandosi con pericolosa lentezza per affrontare a viso aperto quel padre che l’aveva così profondamente ferita.
 
Il signor Field indietreggiò di un passo, fissandola con sospetto, perfettamente conscio che quando Shay si muoveva così adagio, simile ad una pantera acquattata tra l’erba, era pronta ad attaccare, anche fisicamente, se si sentiva particolarmente minacciata.
 
Ma Reeve Field si riscosse in fretta, non era disposto a cedere, non ancora, non anche questa volta. Scrutò con rinnovato stupore la rabbiosa adolescente che aveva dinnanzi, in cui, per quanto si sforzasse, non riusciva a identificare la spensierata figlia di poche settimane prima.
 
L’uomo sperò con tutte le sue forze che nei suoi occhi Shay leggesse il dispiacere che gli stava procurando e che riprendesse a ragionare e a comunicare di nuovo con lui. Niente da fare: la freddezza glaciale che da un mese ammantava lo sguardo della figlia era sempre lì. Inalterata. D’altronde non poteva pretendere che un suo ordine, dato con goffaggine e poca convinzione, fosse sufficiente per smuoverla dall’assurda posizione in cui si era trincerata.
 
Lo sapeva più che bene che Shay non era mai stata una ragazzina “facile”, niente a che fare con quelle bambine tanto carine sempre educate e impeccabili. Assolutamente no, la sua piccola era fatta di tutt’altra pasta, niente pizzi o gonnelline a fiori. Il carattere determinato sino alla cocciutaggine, la caparbietà con cui portava avanti una sua idea, la forza d’animo che rasentava a volte la violenza, erano sempre state per lui fonte di grande preoccupazione ma anche motivo di infinito orgoglio. Era sempre stato fiero dell’intelligenza acuta della figlia, del suo sarcasmo che la faceva sempre uscire a testa alta da ogni situazione, aperta a nuove esperienze e dotata di una brillante capacità di critica. La sua bambina, la sua adorata bambina, era tutto quello e molto di più.
 
O almeno lo era.
 
Una smorfia amara incurvava le labbra dell’uomo mentre una profonda ruga di preoccupazione prendeva forma sulla sua fronte già da tempo solcata da sottili linee. Parlare civilmente con Shay era diventato impossibile. Sempre pronta ad attaccare con cattiveria, a rifiutare qualsiasi confronto, offendeva ed inveiva contro chiunque le rivolgesse la parola.
 
Che aveva fatto per meritarsi tutto quell’ingiustificato rancore? Perché Shay non gli concedeva di essere felice accanto alla donna di cui si era innamorato? Perché la sua intelligente bambina non capiva che, a quarant’anni suonati, un uomo poteva essere stufo di una vita di avventurette senza consistenza ed innamorarsi seriamente? Perché lo odiava al punto da non accettare di vederlo finalmente realizzato accanto alla donna che aveva scelto per moglie?
 
Lanciò una lunga, preoccupata occhiata al profilo regolare della figlia, fiocamente illuminato dalla luce del salotto. Un sospiro di rassegnata insofferenza gli sfuggì dalle labbra: doveva aspettarselo che neppure quella sera il miracolo si sarebbe compiuto: Shay non era per nulla persuasa ad abbandonare la dura linea di maleducazione e crudeltà che aveva deciso di tenere nei confronti della sua nuova famiglia.
 
Come richiamata da quei pensieri, la ragazza si soffermò ancora un istante sul volto del padre scrutandolo intensamente. L’uomo si ritrovò a fissare attonito i grandi occhi della figlia dove vibrava una fiamma di odio puro, e il messaggio carico di accuse mai formulate gli arrivò forte e chiaro. Ma come doveva fare? Che doveva dirle per convincerla che tra loro non era cambiato nulla, che Rosaly non si sarebbe mai intromessa tra padre e figlia?
 
-Va la diavolo- ringhiò la ragazza a denti stretti prima di scomparire come un fulmine oltre la porta della sua cameretta.
 
Stordito e atterrito da quella creatura indemoniata che aveva sostituito la sua solare figlia, fece un enorme sforzo su se stesso per non girare sui tacchi ed andarsene, lasciandola sola a sbollire tutto quell’ingiustificato rancore -Io non ti permetto …- ribatté riprendendosi dopo un attimo di esitazione e pronto ad affrontarla una volta per tutte – Ora vedrai…- minacciò già pronto a salire le scale se una presa delicata, ma al contempo decisa all’avambraccio, non lo avesse bloccato –Rose lascia che le parli…- protestò voltandosi indietro e scrutando addolorato il volto supplichevole della donna accanto a lui.
 
-Fermati Reeve…calmati-
 
-No ... non posso più tollerare un simile comportamento- protestò l’uomo con molta meno convinzione di quanto avrebbe voluto.
 
-Cerca di capire, è stravolta, lei non si aspettava che tu ti risposassi e di trovarsi per casa tutti questi fratelli…-
 
-Beh è ora che lo accetti. Sapeva della nostra relazione, non le ho mai tenuto nascosto niente, le ho sempre parlato con franchezza, trattandola come una ragazza matura, ma così non è a quanto pare. È solo una ragazzina viziata che pretende che tutto vada come vuole lei! Ma non si vive così, hai capito Shay?- gridò guardando su per le scale -Non andrà avanti ancora per molto questa storia!Hai cinque minuti di tempo per scendere, poi verrò io a prenderti!-
 
Shay ascoltò quello sfogo paterno con la schiena bagnata appoggiata contro lo spesso pannello della porta, osservando, senza vedere, il disordine che regnava sovrano nella sua camera. Abbassò lievemente il capo mentre un ghigno beffardo le piegava le labbra, strette sino allo spasmo in una linea di ostinata strafottenza.
 
D’altronde era così che da più di un mese aveva deciso di affrontare quella realtà tanto odiata: con violenza, arroganza, forza e sdegno. Un fardello pesante che le gravava addosso e che sempre più spesso le dava la sensazione di soffocarla, piuttosto che proteggerla.
 
Scosse il capo infastidita dallo strepito inutile che il genitore stava proseguendo al piano di sotto. Non lo capiva che era tutto fiato sprecato? Che urlasse pure sino a farsi saltare le corde vocali, che inveisse, che scoppiasse soffocato dalla sua bile, tanto per lei quelle erano solo parole vuote, suoni inarticolati ed indecifrabili che le scivolavano addosso senza toccarla, come le tante insignificanti gocce di pioggia che le scorrevano ancora dappertutto lungo il corpo intirizzito.
 
Un fremito violento la attraversò. Rabbia e freddo.
 
Con uno scatto nervoso, l’ennesimo, tanto che ormai aveva la sensazione di essersi trasformata in un automa capace di muoversi solo a scatti improvvisi, si staccò dalla porta dirigendosi verso l’impianto stereo. Lo accese regolando il volume al massimo livello. Le note graffianti della musica “heavy metal” si diffusero all’istante nell’etere, riempiendo l’aria con le loro note dure. Il rimbombo caotico riecheggiò nella stanza sino a far tremare i muri e, solo allora, Shay si concesse un misero cedimento: sovrastata e protetta da quel baccano infernale, lanciò un urlo liberatorio che la svuotò delle ultime, deboli energie, desiderando ardentemente che con esse uscisse dal suo corpo anche quel demone maligno che vi si era subdolamente annidato.
 
Iniziò a spogliarsi con rabbia, togliendosi un capo dopo l’altro: prima la maglietta fradicia, sfilata dalla testa e scaraventata senza grazia contro l’armadio a muro, quindi gli ampi pantaloni verde militare, completamente incollati ai muscoli duri e scattanti delle gambe, infine quella sequela insulsa di braccialetti ed anelli etnici che si sforzava di indossare perché le sapevano di trasgressivo. Osservò disgustata gli oggetti multicolori che uno dopo l’altro finivano sul pavimento, alcuni rotolando sotto il letto o sotto il comodino senza che lei se ne preoccupasse minimamente.
 
Infine sfilò gli slip neri e il reggiseno sportivo a fascia che le comprimeva e proteggeva le forme generose di cui tanto si vergognava. Non era usuale per una ragazza giapponese superare la seconda e lei, che da quando aveva tredici anni si era ritrovata una quarta, aveva sempre tentato in tutti i modi di contenere e celare quelle curve imbarazzanti. 
 
Si avviò completamente nuda verso il bagno, cercando di togliere la fascia elastica dal groviglio di capelli corvini imbruttiti da vistose striature fucsia che, a causa dell’umidità, le si erano arricciati disordinatamente sul capo. Lanciò uno sguardo disgustato allo specchio del lavabo al suo busto formoso e a quel cespuglio multicolore che si ritrovava calcato in testa, mentre con un violento strattone strappava l’elastico, attorno al quale era rimasta attaccata una consistente ciocca di capelli dal colore indefinibile. Una bravata, neanche a dirlo, compiuta per fare un dispetto al padre che aveva sempre affermato di adorare i suoi lunghissimi capelli neri, sua caratteristica peculiare sino a circa un mese prima. E aveva goduto malignamente del dolore che aveva scorto negli occhi cerulei del genitore, appena più scuri dei suoi, quando il giorno successivo al suo matrimonio, era rincasata con i capelli corti e rigati di viola. In realtà avrebbe desiderato raparli a zero e farsi una bella cresta fluorescente in mezzo, ma poi non aveva avuto il fegato necessario per andare sino in fondo, così si era limitata ad un taglio appena sopra le spalle e ad una colorazione che andava dal viola cupo al fucsia acceso.
 
Gettò l’elastico ormai inservibile nel cestino chiedendosi dove trovasse il coraggio di andare in giro con una testa tanto disordinata e sciupata. Quelle tinte orribili non solo erano sbiadite con i lavaggi, ma avevano anche sfibrato i suoi delicatissimi capelli, rendendoli opachi e stopposi. Shay li scrutò nello specchio con aria critica agitandoli un po’ con le mani, dubitava seriamente che sarebbero mai tornati all’antico splendore. Ma tanto, che le importava? Suo padre non la guardava più e ora aveva ben altre teste da accarezzare, altri capelli da ammirare. Se solo qualcuno si fosse degnato di dirle come cazzo avevano fatto quei bastardi ad accaparrarsi l’amore del suo papà, forse sarebbe stata meglio. O forse no.
 
Un gemito strozzato, a metà tra un ringhio iroso e un singhiozzo trattenuto, le sfuggì dalle labbra mentre apriva il rubinetto della doccia del suo bagno personale. Per fortuna la sua camera era dotata di un piccolo bagno tutto per lei, il solo pensiero di dover dividere uno spazio così intimo con quel branco di estranei, le faceva venire il voltastomaco.
 
Si infilò sotto il getto bollente mentre le note acute della radio, esageratamente alta, sembravano voler frantumare tutti i vetri della casa.
 
Quel boato, quasi intollerabile, la innervosiva, non le piaceva per niente quel genere di musica, ma sapeva che anche suo padre la detestava e, pur di dargli un dispiacere, era disposta anche a farsi scoppiare i timpani.
 
Tum tum tututum…
 
Rivoli bollenti scivolavano giù veloci, accarezzandole impudicamente ogni angolo del corpo tonico, sparendo tra le sinuose morbidezze, un corpo sensuale di cui ignorava il potere, vergognandosi quasi della sua femminilità che non aveva ancora imparato a gestire.
 
Massaggiò con vigore il collo, le spalle irrigidite, le braccia indolenzite, sentendo a poco a poco i brividi di freddo placarsi. Rilassò, uno dopo l’altro, i muscoli tesi e doloranti.
 
Tum tum tututum…
 
Quel pomeriggio in palestra si era letteralmente massacrata. L’allenamento intensivo a cui si era sottoposta, l’aveva fiaccata nel fisico, ma non aveva lenito le sue inquietudini interiori. Aveva colpito e ricolpito quella palla maledetta senza uno scopo preciso, senza una meta. Colpire, colpire, colpire per non pensare. Si era fermata solo quando le sue braccia, pesanti come macigni, avevano iniziato, dapprima a tremare per l’eccessiva produzione di acido lattico, e poi a disubbidire completamente ai suoi comandi. I gesti si erano fatti goffi e scoordinati, facendola quasi piangere di frustrazione. Si era sentita come sull’orlo di un burrone e le gambe malferme, fattesi improvvisamente molli, avevano ceduto senza alcun preavviso, facendola accasciare in mezzo al campo tra la polvere sollevata dall’aria fresca della sera, sola, triste, schiacciata da qualcosa più forte della sua volontà. Aveva atteso pazientemente per parecchi minuti che le forze tornassero, prima di trascinarsi faticosamente in spogliatoio a raccogliere le sue cose.
 
E tutto questo solo per distrarsi, per svuotarsi e non lasciarsi il tempo di pensare a null’altro. Non lo aveva certo fatto per piacere o per perfezionare la sua tecnica. Non le importava più niente di niente: né di migliorare, né di vincere, né di perdere. Tutto quello che un tempo era stata la sua ragione di vita, ora sembrava non avere più alcuna importanza. Da quando suo padre le aveva annunciato la sua intenzione di sposarsi, tutto nella sua vita aveva perso di valore, i parametri con cui sino a quel momento aveva soppesato il mondo, si erano come invertiti.
 
Tum tum tututum…
 
Dio, che schifo quella musica, le faceva scoppiare la testa.
 
Un ricordo invadente le bruciò addosso, come un marchio arroventato che, approfittando di quell’attimo di impotenza, tornava a bussare alla sua memoria. Ogni parola di quella stramaledetta discussione con il padre, avvenuta nel loro ristorante preferito, le risuonò nella testa come una funerea campana stonata, sommandosi e confondendosi con le note assordanti.
 
-Shay ti devo parlare-
-Dimmi papà-
-é una cosa  a cui tengo molto  e temo la tua reazione-
-La mia reazione?-
-Sì,anche se so benissimo che sei una ragazza intelligente e capirai...-
-Che cosa ? Mi stai facendo preoccupare-
-Ti ricordi di Rosaly?-
-Rosaly?!?!No..-
-La mia segretaria...-
-Ah sì, devo averla anche vista un paio di volte...-
-Sì-
-Allora?
-L’amo-
-Cosa? Papà sei impazzito? Ma é la donna che ho visto io? Sinceramente non mi sembra il tipo adatto a te-
-Che vuoi dire?-
-Insomma sono abituata a vederti con donne sofisticate e molto belle e... giovani....quanti anni aveva l’ultima? La mia età?-
-Non esagerare, Julie aveva 24 anni-
-Beh tu ne hai 40...-
-Insomma che c’entra? Quella é una storia chiusa...se di storia si può parlare. Era un’avventura-
-Un’avventura....e la segretaria é un’altra avventura. Eh paparino, ti credevo più originale, la storia d’amore tra la segretaria ed il suo capo é vecchia come il mondo ...-
-Sarà, eppure é successo…-
-Non parlerai mica sul serio?!?!-
-La voglio sposare-
 
Aveva lasciato cadere i sottili bastoncini di legno che, rimbalzando contro il piatto di sushi, erano poi finiti a terra, rotolando sotto il tavolo. Un suono tenue, ma che nella sua memoria riecheggiava più forte di un boato, di un tuono invisibile, come, d’altronde, ogni particolare di quella dannata sera.
 
-Papà, non mi piace-
-Ma non la conosci neanche-
-Non mi sembra la donna adatta a te-
-Come fai a dirlo?-
-Papà NO-
-Cosa sono tutti questi capricci? Basta Shay, amo Rosaly e le ho chiesto di sposarmi, lei ha accettato e tra due mesi sarà mia moglie-
 
E così era stato. Cieco e sordo alle sue proteste, aveva mantenuto la parola. Non l’aveva ascoltata, per la prima volta in vita sua, il suo adorato padre aveva anteposto le sue necessità a quelle della figlia e lei si era ritrovava per casa una perfetta sconosciuta e i suoi tre orribili figli.
 
Perché? Perché doveva sopportare tutto quello? Per amore di suo padre? Lui per amor suo non aveva rinunciato a sposarsi! Le aveva imposto la sua scelta, infischiandosene della sua volontà, dei suoi desideri, delle sue esigenze. No, non meritava né comprensione né collaborazione. La faccenda era chiara ai suoi occhi: o cacciava quegli intrusi o sarebbe stata lei ad andarsene!
 
Ma a diciasette anni dove diavolo poteva andare? Non aveva un soldo in tasca, non vi erano parenti che potessero accoglierla…
 
Tum tum tututum…
 
Chiuse il rubinetto dell’acqua e uscì con passo stanco dalla doccia, forse un po’rinvigorita nel corpo ma di certo non nello spirito. Recuperò l’accappatoio strofinandosi con le poche energie residue la pelle serica, arrossata dall’eccessivo calore dell’acqua mentre dalla stanza accanto risuonava imperterrita quell’orribile musica, con l’unico risultato che ora si ritrovava anche una consistente emicrania. Che fracasso insopportabile!
 
Tum tum tututum…
 
Shay passò la mano sullo specchio appannato dal vapore che impregnava tutto lo stretto spazio del bagno e sorrise senza gioia alla sua immagine riflessa.
 
Dispetti, ripicche, piccole vendette, che tristezza era diventata la sua vita.
 
Fissò con espressione assente l’estranea che aveva di fronte. I capelli, a tratti corvini, erano un groviglio multicolore attorno ad un volto dall’incarnato troppo smorto, nel cui mezzo spiccavano due grandi occhi di un limpido azzurro. Che infinita pena le facevano quelle pupille spiritate, spalancate su un mondo che non le apparteneva più, che tristezza quelle labbra perpetuamente serrate in una brutta smorfia di arrogante sopportazione, piegate per la fatica di trattenere le urla di rabbia e dolore.
 
Tum t…
 
-Ma cosa …??- esclamò accogliendo con incredulità il brusco silenzio sceso nella stanza. Sbatté le palpebre più volte, osservando attonita il suo volto riflesso nello specchio che stava velocemente tornando ad appannarsi. Si voltò di colpo mentre quella certezza la colpiva con la forza di una frustata: qualcuno aveva osato spegnere il suo stereo!?!?!
 
Come si era permesso suo padre di entrare in camera sua?!?!
 
Sino a quel momento i patti tra loro erano sempre stati rispettati: ognuno aveva il suo “territorio invalicabile” e camera sua era decisamente off limits!
 
Allacciò saldamente la cintura dell’accappatoio attorno ai fianchi ed uscì come una furia dal bagno -Come osi....- iniziò fuori di sé ma il fiato le morì in gola di fronte all’enorme sagoma che capeggiava immobile nel bel mezzo della sua cameretta, elemento estraneo e stonato in un bailamme di vestiti, libri, riviste e cuscini multicolori sparpagliati ovunque.
 
Shay rimase impietrita con le pupille dilatate colme di spavento, di fronte al volto ombroso dello sconosciuto. Registrò velocemente tutti i dettagli di quell’inaspettato pericolo: superava sicuramente il metro e ottanta, gli occhi scuri contornati da folte ciglia nerissime scintillavano d’ira, le braccia conserte su un torace incredibilmente ampio … forte e atletico … ogni fibra di quel corpo sembrava forgiata nell’acciaio -E tu chi diavolo sei?- strillò stringendosi istintivamente il bavero dell’accappatoio sul collo, non sarebbe stato un avversario facile da attaccare in quelle condizioni.
 
Era nuda, dolorante, sfinita dalla giornata, non poteva certo affrontare quell’energumeno –Papàààààà- urlò con quanto fiato aveva in gola, arretrando rapidamente sino ad andare a sbattere contro la cassettiera di ciliegio, senza staccare neanche per un attimo gli occhi dal ragazzo che dal canto suo non si era spostato di un millimetro.
 
E infatti lo sconosciuto rimase impassibile di fronte al panico della ragazza, le urla e i goffi tentativi di trovare riparo da lui sembravano non sfiorarlo minimamente. Si limitava a scrutarla con disapprovazione, fors’anche disgusto, con la bocca appena piegata all’ingiù sul volto severo.
 
Shay, suo malgrado, si ritrovò imprigionata da quegli occhi neri come la notte senza luna, in cui ardeva una furia a stento trattenuta, che le rivelò in un solo attimo un carattere selvaggio e pericoloso.
 
Il signor Field entrò di corsa nella stanza richiamato dalle urla della figlia -Shay, tesoro, calmati- tentò di tranquillizzarla avvicinandosi a lei mentre la moglie, che lo aveva seguito agitata, si era arrestata prudentemente sulla soglia della stanza.
 
Le bastò un attimo per capire che al padre quella presenza estranea non era un fatto poi così anomalo -Chi é?- sbraitò la ragazza ignorando il tono pacato del genitore e puntando agitata l’indice in direzione del ragazzo.
 
-é il figlio maggiore di Rose ...- fu infatti la sconcertante risposta che la fece avvampare dalla testa ai piedi -Ti ricordi? Te l’avevo accennato...- proseguì il padre con tono sempre più rassicurante, nella speranza di placare la figlia stravolta.
 
Ma non vi era nulla che potesse calmarla! Tutto il mondo attorno a lei aveva cominciato a vorticare irrimediabilmente, si appoggiò con una spalla al muro per non finire a terra, rivelando così a tutti la sua estrema vulnerabilità. Ma fu solo la debolezza di un attimo, il suo carattere impulsivo e soprattutto la sua cocciutaggine, non poteva abbandonarla proprio in quel momento -Un altro?!!?!? - esplose allontanando con rabbia la mano del padre che, notando il pallore innaturale della figlia, aveva tentato di afferrarla temendo che finisse a terra – Ma questo è un incubo senza fine! Una volta per tutte quanti figli ha questa donna?- chiese brusca sollevando in alto il mento e avvertendo così i presenti che se speravano di vederla sconfitta, non avrebbero avuto alcuna soddisfazione.
 
-Shay- la riprese duramente il signor Field scuotendo la testa in segno di disapprovazione.
 
-No Reeve....- intervenne timidamente Rosaly - Quattro, ne ho quattro-
 
Shay fissò la moglie del padre come se solo in quel momento si fosse accorta della sua presenza -Complimenti! Un coniglio non avrebbe saputo fare di meglio!- replicò con astio la ragazza, distogliendo in fretta lo sguardo dalla donna, come se il solo guardarla fosse per lei uno sforzo sovrumano.
 
-Ora basta mocciosa! Non osare mancare di rispetto a mia madre!-
 
Il timbro cupo di quella voce le esplose in testa come il rimbombo di una campana. Un fremito violento la scosse da capo a piedi facendole correre lunghi brividi giù per spina dorsale. Lo sconosciuto non aveva urlato, anzi la sua voce roca era stata poco più di un sussurro, ma per Shay era peggio che se lo avesse fatto. L’ammonimento severo contenuto nel suo tono e soprattutto nel suo sguardo furente, erano temibili più di qualsiasi atto di forza.
 
Se solo non ci fosse stato di mezzo il suo amatissimo padre, se solo non vi fosse stata la sua vita in gioco, probabilmente avrebbe dato ascolto al suo buonsenso che le urlava di starsene alla larga da quel tipo. Ma purtroppo aveva troppo rancore nel cuore per farsi zittire da un energumeno di un metro e ottanta –Se tua madre non si fosse intrufolata in casa mia, io non le avrei mai mancato di rispetto!- replicò acida mentre la rabbia rimontava in lei facendole recuperare in fretta il terreno perduto.
 
-Qui nessuno si é intrufolato! Se non sbaglio tuo padre l’ha sposata!-
 
-Non ti sbagli purtroppo!- sbottò Shay con la voce rotta di pianto. Oh no stava per cedere! Non ce la faceva più! Il suo sistema nervoso era vicinissimo al collasso.
 
Respirò a fondo sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime e, come al solito, quando stava per piangere, il suo labbro inferiore cominciò pateticamente a tremare ma, a parte quello stupido particolare, nient’altro sul suo volto palesava la sua vergognosa debolezza.
 
Un particolare che poteva non essere colto da chi non la conosceva a fondo, ma a suo padre non poteva certo sfuggire e, animato dall’amore smisurato che solo un genitore può provare nei confronti del figlio, perdonò alla sua bambina i capricci, le cattiverie, la rabbia delle ultime settimane – Insomma basta! Non vedete che Shay è praticamente nuda?- intervenne deciso per evitare alla ragazza di scoppiare a piangere davanti a tutti, umiliazione che sapeva bene l’orgogliosa figlia non avrebbe tollerato –Lasciamo che si rivesta- disse invitando Rosaly ed il figlio ad uscire dalla stanza -Cara ti aspettiamo di sotto … per favore uscite tutti-
 
Shay non si mosse, concentrata nello sforzo di non far cadere neppure una lacrima. Un grosso nodo in gola le impediva di riversare addosso a quegli intrusi le parole cattive che le passavano per la testa. Aveva gli occhi schifosamente lucidi ma non abbassò lo sguardo anche se, col senno di poi, avrebbe preferito mille volte averlo fatto: due occhi neri come la pece la trapassarono impudenti come nessuno mai aveva osato fare, facendole provare sensazioni a cui non era affatto preparata. Era evidente che il ragazzo non aveva alcuna intenzione di nasconderle il disprezzo che provava e quel fugace contatto le fu sufficiente per saggiare una parte della furia primitiva di cui era capace se provocato.
 
Niente di male, la cosa era reciproca.
 
Shay asciugò con rabbia la lacrima solitaria che, nonostante la sua strenua resistenza, era riuscita a scivolare lungo la gota livida. Lasciò cadere a terra l’accappatoio umido e si affrettò a infilarsi un paio di slip ed il reggiseno. Senza pensarci due volte, estrasse dall’armadio la sua tuta rinforzata da motociclista. Infilò l’attillato indumento chiudendone la lunga zip con gesto rabbioso. Raccolse i capelli ancora umidi con una fascia elastica ed infilò i guanti di pelle nera.
 
Scovò il suo cellulare nascosto tra le pieghe della trapunta gettato sul letto insieme ad una miriade di altri oggetti più o meno identificabili e scrisse in fretta un sms “Tra poco sono da te, esci. Prendi il casco. Shay”.
 
Andare a cena? Sedersi a tavola con quegli esseri infami che le avevano stravolto la vita? Come no! Per quanto la riguardava potevano aspettare all’infinito. Aprì le vetrate della finestra ispirando a fondo l’aria fresca della sera che le diede un barlume di sollievo, quindi, con un agile balzo, si issò sul balcone, si diede una poderosa spinta e agile afferrò il ramo sporgente del grande ciliegio che nelle afose giornate estive, riparava la sua stanza dai caldi raggi del sole. Tenendosi con le mani, si avvicinò al tronco dell’albero quindi appoggiò i piedi su un ramo più basso e con tre familiari mosse toccò il suolo.
 
Non appena mise piede a terra sentì il cellulare vibrare nella tasca anteriore della tuta. Lo estrasse e lesse il messaggio di risposta “Scorribanda notturna? Wow! Ti aspetto in strada. Danny”
 
Sorrise compiaciuta dell’entusiasmo con cui l’amico aveva accolto quell’inaspettato invito e si affrettò verso il garage dove era posteggiata la sua 125 Cagiva, regalo che il padre le aveva fatto per il suo sedicesimo compleanno, un anno e sette mesi prima. Accanto alla sua moto blu notte riposava silenziosa l’Honda CBR 900 nera del padre. Un bolide spaventoso.
 
Accarezzò con quella dolcezza celata con certosina cura dietro il lato forte e determinato del suo carattere sfaccettato, il serbatoio scintillante della moto più grossa. Padre e figlia condividevano una passione sfrenata per le due ruote, un amore disincantato per le vere due ruote, quelle che facevano tremare i polsi tanto erano potenti. Passione che la delicata madre non aveva mai né condiviso né apprezzato. In effetti vedere sfrecciare quei bolidi oltre i 200 chilometri orari non doveva essere affatto rassicurante.
 
La sua decisione fu talmente fulminea che sorprese lei per prima e, ancor prima di rendersi conto di cosa stesse facendo, aveva recuperato le chiavi dell’Honda dall’armadietto appeso alla parete ed era salita a cavallo della moto. L’aveva già guidata al circuito sotto l’attenta sorveglianza del padre, ma non l’aveva mai presa senza il suo consenso. Era una follia. Se l’avesse fermata la polizia stradale sarebbe stato un grosso pasticcio. Un minore non poteva guidare quel missile.
 
Infilò la chiavetta argentata nel cruscotto e rimase immobile con la mano chiusa attorno ad essa. Perché indugiava? Era disposta a tutto pur di fare l’ennesimo dispetto al padre, anche spezzarsi l’osso del collo a 300 chilometri all’ora in balia di un motore troppo selvaggio per obbedire ai suoi comandi.
 
Si raddrizzò sulla sella solo un istante per far scattare la chiusura del casco, poi, questa volta senza esitazioni, accese il potente motore che squarciò il silenzio del piccolo garage come un tuono che irrompeva improvviso nel cielo d’estate. Qualsiasi scrupolo che avesse potuto ancora trattenerla, scomparve soffocato dal suono inebriante dei cavalli pronti allo scatto. Un colpo secco, un’unica profonda accelerata e la moto sfrecciò sulla strada inghiottita dalla notte.  
 
Il rimbombo provocato dal motore del bolide giunse sino alla piccola cucina adiacente al garage, dove la famiglia Field era da poco riunita intorno al tavolo imbandito -Cos’é questo rumore?- chiese Micheal, il secondogenito di Rosaly, alzando il capo dal piatto e tendendo le orecchie incuriosito.
 
-Non so...- rispose la donna preoccupata versando dell’acqua nel bicchiere di Madaleine, la figlia minore.
 
-Io sì lo so!- sbraitò il signor Field scattando in piedi bianco come un cencio -Maledizione Shay!- imprecò fiondandosi come una furia verso la porta che conduceva al garage e spalancandola con foga -Ma che diavolo ha in testa, quella benedetta ragazza?-
 
L’uomo, se possibile, sbiancò ancor di più, constatando che non solo sua figlia se n’era andata, come d’altronde aveva già capito, ma aveva anche preso la sua Honda! Ora Shay aveva superato qualsiasi limite umanamente tollerabile!
 
-Reeve? Che succede?- chiese Rosaly impaurita dal pallore spettrale del marito – Ti senti male?-indagò appoggiando una mano candida sull’avambraccio contratto dell’uomo che fissava incredulo la porta spalancata del garage da dove era appena fuggita sua figlia.
 
-Dio mio, dio mio- mormorò portandosi entrambe le mani al volto e passandosele poi tra i capelli -Quella pazza ha preso la mia moto!- urlò l’uomo, fremendo di rabbia ed apprensione. Il suo cuore di padre era annientato dall’orrore: Shay era un’abile centaura, ma l’Honda era ancora troppo pericolosa per lei.
 
-E per dove é uscita?- chiese il ragazzo che aveva tanto sconvolto Shay qualche minuto prima sopraggiungendo alle spalle dell’uomo.
 
-Dalla finestra- rispose meccanicamente il signor Field osservando impotente la saracinesca del garage mentre la paura per la sorte della figlia cancellava velocemente qualsiasi altro sentimento.
 
-Ma se é al secondo piano...- constatò il ragazzo perplesso.
 
-Uhm bastasse quello a fermarla. É una furia quando si mette....- borbottò Reeve scuotendo desolato il capo.
 
Il ragazzo guardò dubbioso l’uomo –E’ la prima volta che va via in moto?-  
 
-Sì-
 
-La sa guidare?- insistette cogliendo infastidito l’espressione di terrore che oscurava i begli occhi del nuovo marito di sua madre.
 
-Sì é un’ottima motociclista ma .... accidenti è minorenne e quella é una Honda CPR 900! Ma mi sente, ah se mi sente ... appena torna ...- ma la preoccupazione ebbe la meglio sull’ira dell’uomo che non fu neppure in grado di terminare la frase.
 
-Uh! Ti farai mettere nel sacco un’altra volta – commentò con velato sarcasmo il giovane -Sei troppo buono con quella mocciosa viziata-
 
-Mark! Non parlare così. Per Shay non é una situazione facile da accettare- intervenne prontamente Rosaly mettendo a tacere il suo primogenito.
 
-Non é facile per nessuno mamma. Ma noi non ci comportiamo da irresponsabili come fa lei. Credetemi, merita una lezione coi fiocchi!- sbuffò squadrando tutti con sufficienza -Ma voi continuate a difenderla e a dargliele tutte buone. Basta che lei finga di piangere e siete tutti ai suoi piedi. Bah...fate come credete ma non permettetele di rovinarvi la vita- sbottò minaccioso – E comunque stare qui in contemplazione del viale deserto non la farà certo tornare indietro e…la cena si sta raffreddando!-
 
  
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