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Autore: Amaya Lee    24/08/2014    1 recensioni
Arashi si scrive con lo stesso simbolo di "tempesta".
Questa storia comincia con due ferite verdi, limpide ma impenetrabili, e una cappa nera che viaggia imperturbata nella neve.
Poi gocce di sangue, un ticchettio semplice, distinto, elementare, che scandisce ogni istante di un tempo che scade.
L'attesa di un cambiamento si tramuta nella speranza di sopravvivere, scendendo a patti con incubi radicati troppo in profondità, mentre paure ipnotiche e scomode sbocciano in passione dolorosa.
La creatura più fragile non può sciogliere le catene del suo destino, non può ribellarsi al compito per cui è stata scelta, e più si dimena, più le ombre la trascinano a fondo.
Chi ha pianificato tutto questo e impugna i fili del fato resta nell'ombra, nell'attesa che la tempesta si faccia domare. Una risata disumana si eleva dalle profondità del Lago, una risata che per secoli è rimasta sepolta nell'oblio, nell'attesa di essere udita.
L'ultima parola di questa storia è "vendetta", e deve ancora essere pronunciata.
{tratto dal testo}
[...] Si trattava della legge del più forte, una regola che nemmeno le preghiere avrebbero potuto spezzare.
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kanato Sakamaki, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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I

Sundown



 




 

Essere immortale è cosa da poco.
Tranne l'uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte:
la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali.

Jorge Luis Borges

 












 

Nessuno può fermare il tempo. Riavvolgerlo ed immaginare ciò che sarebbe stato è possibile solo nella propria mente, tuttavia è inutile.

Rimpiangere l'immutabile scorrere degli eventi è facile, come starsene semplicemente a guardare.
In definitiva, partecipare attivamente alla propria vita è una delle imprese più ardue dell'uomo, ciò a cui tutti aspirano e che molti si convincono di fare, ingannando loro stessi. Ma il tempo, il tempo è il nostro vero padrone.

Esso non aspetta, non perdona, non giustifica, e sfibra le nostre vite una ad una, finché di noi non rimangono che le ossa.

Talvolta vorremmo che scorresse più lentamente, per permetterci di vivere appieno i momenti più felici, e che accelerasse durante quelli più dolorosi, per risparmiarci sofferenze fisiche e morali.

Alcuni di noi desiderano così tanto ardentemente che il tempo si arresti, che arrivano persino a porre fine alla propria vita. Si tratta, in fondo, di ricerca del potere, qualcosa a cui tutti aspiriamo, volontariamente o meno. Il potere su noi stessi.

Non tutti hanno il privilegio di possederlo.

Il momento in cui lo persi fu preciso, ma me ne resi conto soltanto molto tempo dopo. Le diciannove e due minuti di un pomeriggio piovoso, con tre semplici parole che risuonarono del soggiorno.

“Sei stata scelta.”

Colsi una tetra sfumatura in quell'affermazione, ma non ci feci subito caso.
Mia madre ripose l'ombrello gocciolante nell'apposito contenitore, con un gesto frettoloso e urgente. Sul suo volto c'era il solito cipiglio, che però gli conferiva un'espressione tormentata. L'uomo che la seguì all'interno dell'abitazione, mio padre, appariva preoccupato.

Doveva essere accaduto qualcosa di serio alla riunione della comunità.
Mi stupii, perché era insolito che sorgessero problemi nella nostra Chiesa. Non mi interessavo più del dovuto alle faccende dei miei genitori, ma, facendo parte di una delle famiglie più importanti del nostro gruppo religioso, ero tenuta a partecipare alle celebrazioni e ad ogni sorta di attività.
Non mi piaceva per niente questo aspetto della mia vita.
La causa di ciò non era l'obbligo di prendere parte alla vita di comunità, quanto il fatto che chiunque si aspettasse da me comportamenti che non mi appartenevano.

Quel giorno, fingendomi sovraccaricata di studio, mi ero rifiutata di accompagnare i miei genitori alla riunione mensile, alla quale partecipavano tutte le chiese dei dintorni. Il nostro era un piccolo e soffocante paese, sperduto nella campagna, ma il numero di fedeli era altissimo.

Le cerimonie di mio padre erano sempre molto seguite. Avrei dovuto andarne fiera, ma in verità non provavo alcun orgoglio. Non pensavo spesso a Dio, e raramente riflettevo davvero sui sermoni che i miei genitori mi offrivano quotidianamente su di Lui.

Non pensavo di aver bisogno di Dio.

Scelta?”ripetei, perplessa.

Mia madre si morse il labbro carnoso, atteggiamento che non rispecchiava il suo carattere. Questo mi insospettì.

Vedendo che lei non rispondeva, intervenne mio padre. “Sei stata scelta dalla Chiesa” sussurrò, con un tono di voce molto diverso di quello che usava durante le prediche. “Per ricevere una borsa di studio. La conservavamo da tempo.”

L'espressione seria e melanconica di entrambi non concordava con la notizia che mi era stata appena trasmessa.
Nella stanza si era instaurata un'atmosfera infelice, che mi fece accapponare la pelle. “Ho ricevuto una borsa di studio...” mormorai, incerta. Mia madre annuì, confermando le mie parole.
“Per dove?” chiesi, restando immobile al mio posto. Loro, fermi sulla porta, si scambiarono un'occhiata, ma non fecero un passo nella mia direzione.

“Una scuola prestigiosa. La frequentano generalmente i figli di politici e personalità di rilievo.” Fu mio padre a rispondere, ma lo fece come se dovesse strapparsi una spina dalla carne.

“D'accordo” asserii, scrollando le spalle. Raramente ero d'accordo con i miei genitori su qualcosa, e questo rafforzò la sensazione che quella situazione fosse estremamente strana, quasi surreale.

Di malavoglia, li aiutai a togliersi di dosso i cappotti bagnati, ma non appena appesi quello di mia madre questa mi avvolse con le braccia esili, stringendomi più forte di quanto avesse mai fatto. Rimasi allibita da quel gesto d'affetto, dal momento che quasi mai ce ne scambiavamo. Mi si arrossarono le guance per l'imbarazzo, ma trovai il coraggio di ricambiare l'abbraccio, cercando di ricordare l'ultima volta in cui mi fossi ritrovata in una circostanza simile con mia madre, invano.

Mio padre, fortunatamente, mi scompigliò dolcemente i capelli con la sua enorme mano, poi scomparve in cucina.

Mia madre lo seguì, riassumendo l'aspetto impenetrabile che aveva trasmesso a me. Sapevo che fosse solamente un atteggiamento, ma era comunque capace di mettermi a disagio.
Il silenzio che aleggiò durante tutta la cena fu un altro indizio che qualcosa turbava i miei genitori. Nessuno fece una parola sulla borsa di studio o sulla misteriosa scuola che avrei frequentato, ci limitammo a gustare il sushi in scatola che mia madre aveva acquistato sulla strada di ritorno.

Alzarmi per tornare in camera mia fu un sollievo.
“Buonanotte, Arashi-chan” mormorarono entrambi, mestamente.

Avrei presto lasciato quella casa e mi sarei trasferita lontano, questo era ovvio. Non c'erano scuole prestigiose nei pressi del mio paese, e come minimo avrei dovuto uscire dalla sterminata campagna che lo circondava, interrotta solamente dalle montagne a nord. Il motivo per cui sembravano così sconfortati doveva per forza essere questo, ma una parte di me non ne era del tutto certa.

Avrebbero almeno potuto mostrare un po' di entusiasmo per la borsa di studio.
Trascorsi quella sera sdraiata sul letto, leggendo i manga che nascondevo nel cassetto della scrivania, e che i miei mi proibivano severamente. Li trovavano “indecenti”.

Purtroppo nemmeno l'indecenza riuscì a distrarmi dal mio rimuginare.
Non mi dispiaceva per niente andarmene. Aspettavo da tutta la vita il momento in cui mi sarei allontanata da quella casa, andando a stare per conto mio. Certo, forse quindici anni erano pochi per essere indipendente, ma abbastanza perché potessi cavarmela lontana dalla famiglia.

Riposi i manga nel cassetto, chiudendolo a chiave, e mi rigirai questa tra le mani. Con una chiave avrei sigillato le porte del mio passato, avrei ricominciato.
Il buio aveva inghiottito la mia camera, ma i miei occhi delinearono ugualmente la figura di una bambina dai codini biondi, catturata da una foto sul mio comodino. Da troppi anni, ormai, mi imponevo di dimenticare, senza riuscirci. Ero consapevole che la cosa migliore da fare fosse lasciarmi la sua morte alle spalle.
Ma ogni volta che chiudevo gli occhi, e il nero mi si presentava davanti, non potevo fare a meno di vedere il sangue gocciolare dai suoi capelli, riempire un grosso cratere rosso nel suo cranio. Quel buio assomigliava terribilmente alla morte. Era un nero odioso, ne avevo paura, e nonostante questo mi incantava. Era come se, fin da quando i miei occhi avevano incontrato per la prima volta la luce, avessi sempre conosciuto l'oscurità, come se essa costituisse una parte di me, e la morte di Umiko l'avesse solo riportata a galla.

La morte era nata in me, e non mi aveva più abbandonata da quel giorno.





















Buon pomeriggio :)
Sono stata via qualche giorno, e purtroppo non ho avuto modo di aggiornare pur avendo il capitolo pronto nel pc, comunque eccomi tornata! Preciso che questo è un capitolo di avvio, e mi scuso se l'avete trovato noioso, ma i prossimi cercheranno di rivelarsi un po' più interessanti. Chi ha già visto l'anime o giocato al videogioco, saprà già di quale "scelta" si parla, ma non anticipo niente. 
Ringrazio UnaScuotitriceDiParole per essere stata la prima a recensire la storia, ti adoro, inoltre ringrazio Violys per aver aggiunto la storia alle seguite. ♥
Vi invito a lasciare una recensione, nel frattempo vi saluto
al prossimo capitolo :)
Nico 



 

 

  
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