Anime & Manga > Diabolik Lovers
Segui la storia  |       
Autore: Amaya Lee    21/08/2014    1 recensioni
Arashi si scrive con lo stesso simbolo di "tempesta".
Questa storia comincia con due ferite verdi, limpide ma impenetrabili, e una cappa nera che viaggia imperturbata nella neve.
Poi gocce di sangue, un ticchettio semplice, distinto, elementare, che scandisce ogni istante di un tempo che scade.
L'attesa di un cambiamento si tramuta nella speranza di sopravvivere, scendendo a patti con incubi radicati troppo in profondità, mentre paure ipnotiche e scomode sbocciano in passione dolorosa.
La creatura più fragile non può sciogliere le catene del suo destino, non può ribellarsi al compito per cui è stata scelta, e più si dimena, più le ombre la trascinano a fondo.
Chi ha pianificato tutto questo e impugna i fili del fato resta nell'ombra, nell'attesa che la tempesta si faccia domare. Una risata disumana si eleva dalle profondità del Lago, una risata che per secoli è rimasta sepolta nell'oblio, nell'attesa di essere udita.
L'ultima parola di questa storia è "vendetta", e deve ancora essere pronunciata.
{tratto dal testo}
[...] Si trattava della legge del più forte, una regola che nemmeno le preghiere avrebbero potuto spezzare.
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kanato Sakamaki, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



Prologo

 




A me la vendetta e la retribuzione,
quando il loro piede vacillerà.
Poiché il giorno della sventura è vicino,
e ciò che li aspetta non tarderà.

Deuteronomio; Antico Testamento

 

 










 

La donna misurava ogni passo con estrema e controllata lentezza, lasciando dietro di sé una scia di impronte nella neve fresca. La cappa color inchiostro, abbottonata fino al collo, rimaneva inviolata dalla purezza dei fiocchi di neve, che neppure sfioravano il tessuto. Persino le lunghe ciocche di capelli scuri che sporgevano dal cappuccio, il quale copriva perfino gli occhi della dama che avanzava, emergevano nel paesaggio completamente bianco. Nemmeno l'ombra di un fiocco di neve osava adagiarsi sull'inquietante figura.

Essa procedeva sulla sua strada, imperturbabile, e senza esitazione.

Quel suo camminare, ricordava vagamente il movimento regolare del pendolo di un orologio. Nessuno può fermarlo, poiché nessuno è in grado di fermare il tempo.

Accade, di tanto in tanto, che gli eventi siano incerti e non vengano preannunciati, e che il cammino, ignoto al viandante, sia estremamente confuso, come lo era quella strada di campagna ricoperta da un manto indistinto di neve. Fortunatamente, quella candida notte, non passavano carrozze da quelle parti, altrimenti avrebbero di certo smarrito la via.
I lembi della strada non si distinguevano dal resto dei campi, e non c'era nulla a delineare il percorso. Eppure la donna proseguiva sicura, come se la via fosse lampante sotto i suoi occhi.
Chiunque l'avesse vista avrebbe pensato che fosse una strega, nonostante fosse risaputo da ormai molto tempo che le streghe non esistessero. Erano solo dicerie, leggende, baggianate plasmate dalla mente delle madri per spaventare i bambini e convincerli a mangiare la minestra.

La verità, in questo caso, non è una sola, ed attinge dalla menzogna.

Prima verità: la donna non era affatto una strega. Seconda verità: ogni leggenda, senza eccezione, nasconde una minuscola e indecifrabile parte di realtà. Terza verità, e forse la più importante: la parte riguardante la donna nella neve era, senza alcun dubbio, terribilmente oscura.

Nei dintorni non c'era nessuno a testimoniare la lenta avanzata di quella creatura, fonte delle più antiche voci, matrice dei temibili incubi che popolavano i sonni degli uomini fin da tempi remotissimi.

Il tempo trascorreva incessantemente, e il vento si liberò dalle membra dei monti. Non un solo refolo si azzardò a sfiorare la Dama, che era ormai giunta a destinazione.

Persino il vento portava rigorosamente rispetto per lei, come la neve.

La donna si fermò di fronte all'edificio in rovina. Le imposte erano tutte chiuse, e dei battenti avevano sbarrato la porta, che però con il passare delle stagioni, a causa del caldo e del freddo che spesso si alternavano nella valle, era marcita. Il complesso, che sorgeva solitario in quella vasta campagna, isolato dai paesi e dai borghi vicini, cadeva a pezzi.

Sforzando un po' gli occhi, e con un pizzico di intuito, si poteva ancora leggere l'insegna posizionata sopra il portone principale.

Istituto Psichiatrico Murakomi.

Quattro piani, in totale settantatré stanze. Robusti muri portanti, che racchiudevano gelosamente l'eco delle grida di centinaia di pazienti. Il personale era composto solamente da donne, per la maggior parte giovani, e provenivano tutte dalla parte emarginata e svantaggiata della popolazione, quella per cui i ricchi fingono di mostrare compassione.

Le famiglie della gran parte di quelle ragazze erano state importunate dall'egoismo dell'aristocrazia, che si riempiva le tasche grazie alla loro fame. Per quelle poverette non era rimasta altra possibilità che spostarsi in quel manicomio fuori dal mondo, sudando per guadagnare il minimo indispensabile per la sopravvivenza. Le visite dai familiari dei ricoverati erano ammesse solamente due volte l'anno, in estate e in inverno, ma solitamente non si presentava nessuno.

Poi l'ospedale fu chiuso per mancanza di fondi, i pazienti ricoverati erano stati cacciati, e la stessa cosa valeva per le infermiere. Chi aveva una casa alla quale fare ritorno poteva ritenersi molto fortunato. Chi non ce l'aveva diventava vagabondo, e viaggiava per il paese in cerca d'asilo. Oppure, più semplicemente, moriva.

L'istituto Murakomi aveva smesso di esistere da un giorno all'altro, ne rimaneva soltanto lo spettro. Un fragile scheletro, privato di tutto, che non valeva nemmeno la pena togliere di mezzo.

Nessuno lo ricordava con piacere, nei paesi vicini. Le terapie a cui i pazienti erano sottoposti venivano considerate brutalità immani, disumane, delle quali soltanto parlare era vietato. La vera tortura, alla quale nessuno faceva caso, era la mancanza di un tetto, l'improvvisa vulnerabilità a cui moltissime persone erano state esposte di punto in bianco.

Malcontento, sofferenza e subordinazione. Queste erano le basi del desiderio di vendetta, qualcosa di cui quell'edificio pericolante era pregno.

Sulle labbra della donna si disegnò un sorriso folle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La piccola bionda scese velocemente i gradini della chiesa, le cui guglie svettavano nel cielo tinto d'azzurro, senza nemmeno una nuvola. Si apprestava ad essere una giornata meravigliosamente serena.

“Arashi-chan!” chiamò, rivolgendosi ad una bambina dai capelli color della notte, e incrociando i suoi occhi verde smeraldo, che brillavano come giada sul fondo di un fiume.

La mora era rimasta indietro, ostacolata dalle scarpine eleganti che calzavano i minuscoli piedini, e dal vestito svolazzante che i suoi genitori l'avevano obbligata con la forza ad indossare.

La bionda era stata più fortunata, quella domenica. Infilata comodamente nei suoi pantaloncini e nelle scarpe con i lacci, provava una punta di compassione per l'amica.

“Umiko-chan! Aspettami!” urlò la mora, agitando la folta chioma di riccioli e rovinando l'accurata acconciatura che la madre le aveva preparato.

Ma la celebrazione era terminata, perciò non c'era problema.

La bionda mostrò un sorriso sdentato, scuotendo i codini biondi. “Prendimi!”

Divertita da quel gioco, la piccola non si voltò verso la strada alla quale stava correndo incontro, e non si accorse dell'automobile proprio in quel momento svoltava la curva.

La mora non scordò mai gli istanti che seguirono, e le immagini che si impressero come un marchio nei suoi occhi verdi e nella sua giovane mente.
L'espressione di sorpresa dell'amica. Il suono esplosivo di un clacson. Il rumore di una frenata, di un urto violento, di una lacerazione. E poi la macchia rossa che si espandeva sull'asfalto, l'orrore sui volti dei passanti, lucenti capelli biondi sparsi qua e là. Le urla di una bambina.

Arashi Hisoka, più tardi, si rese conto che quelle grida agghiaccianti appartenevano a lei. 



















Nota Dell'Autrice:
Salve! Questa è la mia prima long (e il mio primo lavoro) nel fandom di Diabolik Lovers, perciò probabilmente non mi conoscete. Mi chiamo Nicole, e vi informo che ho visto solo l'anime, per ora, ma sicuramente mi informerò anche sul videogioco, perché mi ha preso davvero tanto :)
Detto questo, sono davvero contenta di scrivere in questa sezione, perché sono davvero ispirata per la storia e spero la apprezziate con il susseguirsi dei capitoli.
Vi ho già annoiati troppo con questo intervento, perciò concludo chiedendovi di lasciare una recensione, anche breve, per comunicarmi che ne pensate del Prologo. Infondo non fa male a nessuno♥
Un bacio e a presto, 
Nico

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Diabolik Lovers / Vai alla pagina dell'autore: Amaya Lee