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Autore: TheGreyJon    31/08/2014    1 recensioni
"Unitevi a noi, fratelli e sorelle. Unitevi a noi nell’oscurità dove resistiamo vigili. Unitivi a noi poiché compiamo il dovere che non può essere rinnegato. E semmai doveste morire, sappiate che il vostro sacrificio non sarà dimenticato. E che un giorno, noi ci uniremo a voi..."
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Non-con
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CAPITOLO 1:  Le Origini
Giunti sulla cima della collina, io e Ser Gilmore non rallentammo il passo, ma la selvaggia bellezza del paesaggio non ci sfuggì. La valle era una distesa verde di alberi, i quali circondavano quasi per intero Castel Cousland. Solo dal lato est, opposto a dove ci trovavamo, il paesaggio si apriva alla pianura e ai campi coltivati. Su ogni altro versante, montagne e foreste fungevano da scudo per il castello. Dalla nostra posizione potevano riuscire ormai a distinguerne senza difficoltà i profili delle torri che si stagliavano contro il cielo, mentre il vessillo della mia casata sventolava sui pennoni.
  Odore di sottobosco che stuzzicava le narici, un cavallo purosangue lanciato al galoppo in una tiepida giornata di maggio, il mantello che schioccava sonoramente alle mie spalle gonfiato dal vento: quella giornata procedeva nel migliore dei modi. La mia noia esistenziale quotidiana era interrotta solo saltuariamente da momenti come questo, in cui partivo per andare a caccia, lasciando vessilli, servitori e buone maniere alle mie spalle. Seguire la pista di un cervo, magari gareggiare a chi abbatte più quaglie, oppure limitarsi ad una cavalcata spensierata era sempre un piacevole diversivo.
  Rispuntammo sulla strada principale, lasciando dietro di noi le piste e i sentierini selvatici dei cacciatori.
  “Facciamo a chi arriva prima, Ser Gilmore?” Chiesi trattenendo il cavallo per aspettare che il cavaliere mi si affiancasse. Era un ragazzo di poco più grande di me. Era il quarto figlio di uno dei nostri alfieri ed era stato inviato ad Altura Perenne in quanto protetto di mio padre, il quale lo aveva allevato per tutta la fanciullezza ed adolescenza. Era stato anche il mio principale compagno di giochi o, come diceva nostra madre, “complice di turpi misfatti”. Fin dall’età di sette anni, mi divertivo a trascinarlo nelle cucine della vecchia Nan per saccheggiarne assieme le scorte, e a fare con lui scherzi di ogni genere alla servitù, tanto che mio padre dovette più volte minacciarmi di spedirmi in un monastero se non mi fossi dato una regolata. Fu Ser Gilmore a sbollire la mia testa calda. Se, infatti, all’inizio ero io a cacciarci sempre nei guai, lui, crescendo, era diventato quello che ce ne cavava fuori e, a volte, evitava addirittura che ci finissimo.
  “Come volete, Mio Signore.” Rispose con ironica cortesia, e, prima ancora che potessi aggiustare la mia postura sulla sella, egli diede di speroni, incitando la sua cavalcatura a tutta velocità verso il castello. Imprecando a denti stretti, seguii il suo esempio, piantando i talloni nel ventre del mio cavallo e lanciandomi al suo inseguimento. Fu una sfida combattuta, nella quale ci destreggiammo in un violento testa a testa, dove spintoni, frustate al cavallo avversario e insulti politicamente scorretti erano ben accetti. Fu il vedere un il manipolo di uomini a cavallo che ci sbarravano la strada a decretare la fine della corsa. Strattonammo entrambi le redini, bloccandoci di colpo a pochi metri da loro. Erano sette soldati, due dei quali reggevano aste con il vessillo di Casa Cousland, due rami d’ulivo intrecciati in campo blu.
  “Alfieri di tuo padre” mi bisbigliò Ser Gilmore “temo che siate in ritardo per l’incontro con Lord Howe”
  “Come!? Era oggi? Ah, merda…”
Uno degli armigeri si portò leggermente avanti.
  “Mio signore, il Lord tuo padre mi manda a prendervi. Vi prego di volermi seguire.”
  Non che avessi davvero una scelta. Con un sospiro, mi rassegnai a seguire i soldati di mio padre verso il castello. Un quarto d’ora dopo, raggiungemmo le stalle, dove consegnai il mio cavallo alle amorevoli cure di Tom lo stalliere; poi varcai l’arcata delle mura esterne per dirigermi verso la sala grande.
  Non avevo prestato grande attenzione al mio abbigliamento quel giorno e non ero sicuro di poter ricevere uno dei nostri principali vassalli vestito in quel modo. Dopotutto, un farsetto di cuoio e brache di pelle da cavalcata non costituivano certo il completo più elegante. L’unico capo un po’ più raffinato era il mantello: di velluto blu, con il simbolo della mia famiglia ricamato, e assicurato alla spalla sinistra con un fermaglio intarsiato.
  Rapidamente attraversai il cortile e, saliti i gradini antecedenti al portale principale, ordinai ad una guardia di farmi entrare. Un po’ annoiato, tormentavo l’impugnatura della mia spada che pendeva al mio fianco mentre varcavo la soglia.
  La sala grande era il cuore della fortezza. Si trattava di una lunga stanza in solida pietra, posta come primo baluardo della fortezza oltre la cancellata, al cui interno era contenuto lo scranno di mio padre. Per tutta la lunghezza della sala pendevano gli arazzi nobiliari, alternandone uno dei Cousland ad uno dei nostri alfieri principali. Sulle vetrate, poste proprio alla base dell’ambio soffitto a volta, erano rappresentati gli eventi principali della storia della nostra casata, a partire dalla leggendaria morte di Bann Conobar Elstan, ad opera di Flemeth, passando poi per la ribellione contro Amaranthine, fino ad arrivare all’era oscura, dove finalmente ottenemmo lo stato di teyrnir.
  Lord Rendon Howe e mio padre stavano discutendo dei dettagli della partenza vicino al camino.
  Molto sangue era stato versato tra le nostre due case; prima combattemmo gli uni contro gli altri per ottenere l’indipendenza dalla loro autorità e, secoli dopo, per opporci ad Orlais. I Cousland avevano infatti appoggiato Re Maric, mentre il padre dell’attuale Lord Howe si era schierato a favore degli stranieri. A dispetto di ciò, Rendon, ancora giovane e forte, si era unito a mio padre e a mio nonno nella guerra, dando origine ad un’alleanza molto stretta. Mio padre lo considerava un amico, ma non poteva mai permettersi di dimenticare che Howe restava pur sempre un vassallo e che come tale andava trattato. Doveva dimostrarsi generoso nei suoi confronti e rendergli omaggio per la sua posizione di rilievo tra gli altri alfieri, tuttavia senza mai fidarsi totalmente di lui. Gli Howe era meglio averli come amici che come nemici, su questo non aveva mai avuto nessun dubbio, e la loro ambizione era sempre stata pericolosa, perfino tra i più giusti e nobili di loro;  per rendere più salda la loro alleanza e sicuro il loro appoggio, aveva quindi bisogno di un contratto matrimoniale tra le nostre famiglie. Non sarebbe toccato a mio fratello maggiore. Fergus era l’erede, ma mio padre si era già affrettato a trovargli un’altra moglie: Lady Oriana, una graziosa ragazza proveniente da Antiva, di ricca famiglia, che aveva contribuito al bilancio familiare in modo piuttosto marcato. Mio padre avrebbe invece preferito sistemare me con una donna di casa Howe; in questo modo avrebbe assicurato in un colpo solo il mio futuro e la pace nelle nostre terre. In ogni caso, anche se fino ad ora Lord Rendon si era sempre dimostrato fedele a mio padre, le ferite che le nostre due casate si erano inflitte durante la guerra contro Orlais erano troppo recenti per essere ignorate.
  “…e come dicevo, Mio Signore, ho ricevuto notizia di un ulteriore ritardo da parte delle mie truppe. Chiedo venia, questa è tutta colpa mia.”
  “No, no, la notizia del Flagello ci ha colti tutti alla sprovvista. Io stesso ho ricevuto la chiamata del Re solo pochi giorni fa.”
  Eppure, a differenza del vassallo, era stato piuttosto rapido nel radunare le sue forze. Da giorni ormai erano pronti per la partenza, ma degli uomini di Howe nessuna traccia. Fergus e mio padre dovevano aspettare l’arrivo di questi rinforzi prima di partire, ma temporeggiare troppo con la Corona era rischioso e assai poco saggio: non rispondere alla chiamata del Re in caso di guerra, molto spesso portava al patibolo o al ceppo del boia…
  E questa era la principale preoccupazione di mio padre rispetto alla guerra contro il Flagello che imperversava nel paese. Ma che si trattasse davvero di un Flagello? Certo, i prole oscura erano usciti in forze dalle vie profonde e si erano ammassati a sud, presso le rovine di Ostagar, ma non c’era alcuna traccia di un Arcidemone alla testa dell’orda. Magari si trattava solo di un’incursione particolarmente violenta. In ogni caso c’erano già state diverse battaglie nel sud, tutte vinte, ma, a quanto si diceva, l’esercito nemico era in costante crescita e presto dei rinforzi dal nord avrebbero fatto comodo.
  Mi schiarii la gola per palesare la mia presenza e, quando i due uomini si voltarono, chinai leggermente il capo in segno di rispetto verso l’ospite.
  “Ah, eccoti qui, figliolo. Rendon, vi ricordate di mio figlio, Velor?”
  “Certo, ma vedo che è diventato davvero un forte e giovane uomo…”
  Peccato che il tempo non fosse stato altrettanto cortese con Howe, il quale dimostrava molti più anni di quanti non ne avesse. Aveva i capelli completamente bianchi, era basso e magro, con il volto incavato e un grosso naso arrossato da un consumo eccessivo di vino. L’aspetto era quello di un uomo apparentemente insignificante, eppure ai suoi tempi doveva essere stato un guerriero di una certa fama e bravura. Aveva cavalcato con mio padre nella battaglia del Fiume Bianco e ne era uscito vivo, nonostante la tremenda sconfitta. I due dovevano essere quasi coetanei, eppure Bryce Cousland, a dispetto dei capelli grigi, era ancora un uomo forte, alto e dalla cui persona traspariva subito il vigore che doveva averlo animato da giovane e che cominciava solo ora a scemare.
  “È un piacere incontrarvi, Mio Signore.”
  “Mia figlia Delilah ha chiesto di te…” rispose con un ampio sorriso “forse dovrei portarla con me prossima volta che vengo”
  Come già detto, mio padre e Lord Rendon pianificavano da tempo un matrimonio, e Delilah sarebbe presto potuta diventare la mia dolce metà. In effetti non avevo ancora deciso se l’idea di sposarla mi piacesse oppure no… Diavolo non l’avevo mai neanche vista!
  “Ecco… Mio Signore… lei è parecchio… più giovane di me.”
Praticamente una bambina; un’altra cosa che non mi piaceva affatto. Ridendo Howe, rispose:
  “Invecchiando, questi anni di differenza diventeranno sempre meno importanti: una dura lezione, ma che impariamo tutti.”
  “Dubito che mio figlio vi darà retta” intervenne mio padre ridendo. “Ha altre cose per la testa in questo periodo: è un giovane che si infiamma per guerre e battaglie. Temo consideri di secondaria importanza le questioni dinastiche…”
  “Ah, la sua abilità con la spada è ben nota. Il suo temperamento ne ha fatto un valoroso combattente.”
Tutte quelle chiacchere inutili mi stavano uccidendo: dovevo darci un taglio.
  “Padre, mi hai mandato a chiamare?”
  “Ah, sì, è una cosa importante. Mentre tuo fratello ed io saremo via, lascerò te al comando del castello.”
  La notizia mi lasciò piacevolmente sorpreso. In genere era mia madre a tenere in riga la servitù e ad occuparsi di tutte quelle faccende formali quando il Lord era via. Tuttavia avevo 19 anni, ormai non potevo più essere considerato un ragazzino.
  “Io… farò del mio meglio.”
  “Eccellente. Solo un piccolo contingente rimarrà qui. Io e Lord Howe attenderemo l’arrivo del suo esercito, mentre tuo fratello si metterà in viaggio con il grosso delle nostre forze già questa notte. Sono sicuro che una volta solo te la caverai benissimo, dovrai cercare di mantenere sicura la regione e di far quadrare i conti per il tempo in cui saremo via. Contando che avrai validi consiglieri ad aiutarti, non dovrebbe essere difficile. Ah, quasi dimenticavo, c’è anche qualcun altro che devi conoscere…” poi rivolto ad una delle guardie del salone, aggiunse: “fate entrare Duncan!”
  Il soldato si batté un pugno sulla placca pettorale, dando ordine ai suoi sottoposti di aprire il portone al nuovo ospite. Si trattava di un uomo alto, di età compresa tra i quaranta e cinquant’anni, ma ancora estremamente vigoroso. I capelli, raccolti in una corta coda di cavallo, sembravano puro inchiostro, tanto erano scuri, così come la folta barba che gli cresceva dalle ispide e rigogliose basette fino al mento, coronata da larghi baffoni. La carnagione era olivastra, scura, il volto severo, dai lineamenti duri e dagli zigomi alti, mentre gli occhi erano sottili e neri anch’essi. Indossava una corazza leggera, adatta al viaggio, sopra a lunghe vesti logore. L’aspetto generale dava l’idea di un viandante un po’ trasandato, ma tutto in quell’uomo sembrava incutere nel prossimo una sorta di reverenziale rispetto.
  “È per me un onore essere ospite qui, nella vostra sala, Vostra Signoria.”
La voce dell’uomo era posata, calma e le parole erano scandite con chiarezza. Notai Lord Howe osservare il nuovo arrivato con una certa sorpresa… quasi disagio.
  “Mio signore… Non mi avevate accennato che un Custode Grigio sarebbe stato presente.”
  Digrignai i denti e serrai la mascella. Lord Rendon non mi piaceva e confesso che ero un po’ prevenuto nei suoi confronti, ma chi gli dava il diritto di sindacare su chi noi decidessimo di accogliere tra le nostre mura? Questa era casa nostra, e lui era solo un ospite: chi ammettere al nostro cospetto era una decisione che non lo riguardava minimamente.
  Notai con piacere che anche mio padre la vedeva così. Naturalmente mantenne il suo contegno, ma io che lo conoscevo bene, notai una celata nota di fastidio nella sua voce, quasi di rimprovero, quando rispose.
  “Duncan è arrivato da poco. Non annunciato. È forse un problema, Mio Signore?”
Non mancai di notare il gelo con cui pronunciò quel “Mio signore” finale.
  Ci fu un attimo di esitazione da parte di Howe. Forse aveva intuito il suo errore, e tentò subito di recuperare, intonando una scusa con voce bonaria:
  “Certamente no…! È solo che un ospite di tale rilievo richiede un certo… protocollo. Sono colto alla sprovvista!”
  Quasi mi scappò da ridire. Certo, nutrivo grande rispetto per l’ordine dei Custodi Grigi e mi sarei rivolto a loro con tutte le cortesie degne di un mio pari, ma… non credo proprio che sia necessario preoccuparsi del protocollo con loro. Sono guerrieri. Molti sono anche di origini piuttosto umili. Sono abituati a viaggiare molto, a dormire per strada e… a mostrare un certo pragmatismo quando si tratta di prole oscura. Anche Duncan, per quanto formidabile potesse apparire, aveva l’aspetto di uno che aveva probabilmente viaggiato al risparmio, dormendo ospite in case di umili contadini e spezzando il pane con loro. Di certo era una persona ben più interessata a difendere il mondo dall’apocalisse che a spettegolare sulle scarpe nuove di questa o quella nobildonna.
  “Effettivamente è un raro privilegio poterne ospitare uno sotto il proprio tetto” concesse mio padre molto diplomaticamente. “Figliolo, Fratello Aldous  ti ha insegnato di certo chi sono i Custodi Grigi, vero?”
  Come chiedere ad un contadino se avesse mai sentito parlare di una zappa.
  “Certamente, padre. Sono un antico ordine di guerrieri eccezionali.”
  “Sono eroi leggendari. Coloro che terminarono il primo Flagello salvando le terre degli uomini dalla distruzione. Duncan sta cercando nuove reclute prima di unirsi a noi e marciare verso sud. Penso che stia tenendo d’occhio Ser Gilmore…”
  “Se posso permettermi l’ardire…” intervenne Duncan. “Anche vostro figlio sarebbe un eccellente candidato.”
  Istintivamente mio padre fece un passo nella mia direzione, fulminando l’ospite con uno sguardo severo.
  “Per quanto possa esserne onorato, è di mio figlio che stiamo parlando. Non ho così tanti eredi da poterli mandare tutti in guerra. Quindi, a meno che non vogliate avvalervi del diritto di coscrizione…”
  “Non temete, Mio Signore” si affrettò il Custode. “Non ho alcuna intenzione di impormi in questo modo sull’argomento.”
  Credo che a nessuno di noi fosse sfuggito il sollievo dipingersi sul volto del Lord mio padre.
  “Figliolo, ti occuperai tu che Duncan abbia tutto ciò di cui ha bisogno mentre sarò via.”
Con un sospiro, risposi:
  “Certo, padre.”
  “Ottimo. Nel frattempo trova Fergus e digli di partire subito e di condurre le truppe in mia vece verso Ostagar. Dovrebbe essere nelle sue stanze con Lady Oriana.”
  Annuii impercettibilmente e mi congedai con un rapido inchino, dirigendomi poi verso il cortile. L’idea di restare bloccato qui mentre mio fratello si copriva di gloria nel sud non mi era affatto piaciuta all’inizio, ma ora che sapevo che sarei rimasto a governare in vece di Lord, beh… la prospettiva di restare imboscato non era più tanto grama. Intendiamoci, era solo un premio di consolazione, un premio che avrebbe richiesto molti sforzi e grande impegno da parte mia, per non parlare delle notti in bianco che avrei dovuto trascorre ad occuparmi di tutta la burocrazia. Era una faccenda seria, non certo un gioco. Comunque l’idea di essere chiamato Lord Cousland e di prendere decisioni che avrebbero coinvolto l’intero feudo… beh, era troppo allettante per ignorarla!
  Mentre mi dirigevo verso gli alloggi della famiglia, sentii Ser Gilmore che mi chiamava alle mie spalle. Notai che, mentre io ero stato impegnato nel mio breve colloquio, il ragazzo si era cambiato, e ora indossava il suo migliore farsetto, quello con il mabari nero ricamato su sfondo giallo, simbolo della sua famiglia, abbinato ad un ampio mantello da cavaliere e alla sua fida spada di famiglia.
  “Ah, Velor, ti ho cercato ovunque! Senti, io…” esordì scordandosi che, in genere, le persone tendono a salutarsi quando si incontrano.
  “Ehm… ciao anche a te?” Lo interruppi, in modo da fargli notare la sua mancanza. Non che mi importasse molto, infondo c’eravamo separati da poco tempo, eppure era per me un piacere punzecchiarlo in materia di cortesia.
  “Sì, sì, scusa… è solo che tua madre mi ha mandato a dirti che… beh, ecco, che c’è un piccolo problema con il tuo cane.”
  Alzai gli occhi al cielo.
  “Che è successo questa volta? Quale terribile crimine potrà mai aver commesso?”
  “A dire il vero si è intrufolato nelle cucine. Di nuovo. E Nan minaccia di lasciare il castello se la questione non viene risolta.”
  “Oh, suvvia…”
  “Sai come sono questi mabari… estremamente fedeli al loro padrone, capaci quasi di capire il linguaggio umano, ma… terribilmente pericolosi se avvicinati dalla persona sbagliata.”
  Ridacchiai alla sua affermazione, ricordandogli quale bestia avesse ricamata sul farsetto.
  “È buffo che proprio tu, che porti un mabari sul petto, ne tema uno… Andiamo, su, occupiamoci della faccenda.”
  “Andiamo?! E io che c’entro? Ho faccende molto importanti da sbrigare, come ad esempio la mia pennichella!”
  “Dal momento che tu sei l’araldo della mia noia e delle mie commissioni barbose, mi accompagnerai in questa impresa. Orsù, mio baldo scudiero, in marcia!”
  Mentre ci avviammo verso le cucine lo udii distintamente borbottare qualcosa del tipo: “io dovrei essere un cavaliere, in teoria…”
  Per raggiungere il luogo del misfatto, notai, fu sufficiente seguire le grida della vecchia Nan e dei garzoni. Per non parlare dei latrati del mio cane.
  Nan era stata la mia balia e sapevo quanto a volte potesse essere una donna… difficile, per così dire.  Mi era molto affezionata e, anche se fingeva di non sopportare il mio segugio, infondo gli voleva bene. Il castello era tutto il suo mondo; era nata nel castello e sarebbe morta nel castello… ecco perché non temevo affatto che se ne andasse
  Entrati nelle cucine, le trovammo in disordine: pentolame sparso ovunque e un po’ di farina versata sul pavimento, ma nessun problema particolarmente grave. La vecchia Nan stava strigliando per bene una coppia di elfi, i suoi aiutanti, i quali piantonavano la porta della dispensa, chiusa alle loro spalle.
  “… se non riuscirò ad entrare in quella dannata stanza, vi scuoierò vivi entrambi, razza di inutili elfi!”
  “Ehm… calmatevi” intervenne Ser Gilmore, facendosi avanti per tranquillizzare la donna. “Siamo arrivati: ci pensiamo noi.”
  “Tu e soprattutto tu! Quel dannato pulcioso è entrato nella mia dispensa! Dovrebbe essere abbattuto, altroché!”
  Mi fece sorridere il modo in cui calcò il tu rivolto a me. Forse avrei preso più seriamente la faccenda se non avessi trovato così ridicola l’intera situazione.
  “Ehi, non chiamatelo pulcioso! È un mabari purosangue!” Dissi con finta indignazione, sghignazzando sotto i baffi.
  “Basta che tu lo faccia uscire di lì. Subito.”
  “Va bene, va bene, ce ne occuperemo…”
  Sospirando, oltrepassai l’anziana domestica e spalancai la porta della dispensa. Questa era davvero stata messa sottosopra e il grosso e tozzo cagnone sporco di farina che saltellava allegramente nella stanza, ne sembrava il principale responsabile.
  “Ehi, bello, che combini?” Dissi inginocchiandomi per potergli grattare la testa dietro alle orecchie.
  “Guarda, sembra che voglia indicarti qualcosa.”
Effettivamente, il mabari si era messo a ringhiare verso alcune pesanti casse di alimentari impilate una sull’altra a ridosso della parete opposta.
  “Dogmeat…? Hai visto qualcosa?”
Il latrato che ricevetti come risposta fu sufficiente. Io e Ser Gilmore afferrammo due di quelle casse e le sollevammo, rivelando una coppia di enormi ratti delle selve, che si nascondevano dietro di esse. Dogmeat, prima che chiunque di noi potesse fare qualcosa, balzò in avanti, addentando i grossi sorci e sbranandoli con facilità.
  “Mhm…” commentò Ser Gilmore asciugandosi il sudore dalla fronte “mi sembra l’inizio di una di quelle scadenti storie di avventura che mio nonno era solito raccontarmi…”
  Tornati in cucina, Nan sembrava essersi calmata un pochino. Ora era seduta in un angolo, con la testa china e la fronte tenuta fra le mani, mentre il resto della servitù cercava di ripulire il disastro. Le comunicammo quanto era accaduto e che in realtà Dogmeat non voleva saccheggiare la dispensa, ma solo dare la caccia a dei topi giganti. La notizia della presenza di ratti grossi come gatti nella cucina dove lavorava parve non rallegrarla molto. In ogni caso, io ero deciso più che mai a tornare ad occuparmi dei miei affari, mentre Ser Gilmore mi disse di dover andare a porgere i suoi omaggi a Lord Howe. Dopo avergli fatto le mie più sentite condoglianze per questa sua noiosa commissione, ritornai sui miei passi. Mentre camminavo nel cortile, con Dogmeat che trotterellava dietro di me, incrociai mia madre, intenta a discute con Lady Landra, la moglie di uno dei nostri Bann.
  “Caro…” mi richiamò lei. “Vedo che ti sei occupato di quella faccenda del segugio. Ottimo. Ti ricordi di Lady Landra, la moglie di Bann Loren?”
  Certo che me la ricordavo! Si era ubriaca all’ultima festa tenuta in casa nostra, difficile dimenticare una persona tanto divertente. Era una donna davvero piacevole e di compagnia: apprezzava il buon vino (anche troppo), scherzava volentieri ed era una persona molto schietta. Mi piaceva.
  “Naturalmente. È un piacere rivedervi, mia signora.”
Con lei c’erano anche suo figlio, un ragazzotto per bene con il quale avevo scambiato sì e no un paio di parole in tutta la mia vita, e la sua dama di compagnia, un’elfa di città davvero molto graziosa. Normalmente mi sarei offerto di parlare con lei in privato, cercando di accattivarmi le sue simpatie, ma al momento non avevo molto tempo per pensare alle donne.
  “A dire il vero” disse Lady Landra con un’espressione confusa in volto. “L’ultima volta che ci siamo incontrati non avevo passato l’intera serata a bere e a cercare di sedurvi?”
  Scoppiai a ridere. Adoravo quella donna, lei diceva sempre ciò che pensava. Ah, se solo tutta la nobiltà del Ferelden fosse stata come lei, fare il Lord sarebbe stato molto più divertente!
  “Temo… temo proprio di sì, Mia Signora” dissi cercando di ridarmi un contegno.
  “Vedi, Dairren? Non ero poi così ubriaca come sostenevi, dal momento che ricordo tutto nei mini dettagli” disse poi rivolta al figlio. “Voi vi conoscete già? Credo vi siate scontrati nell’ultimo torneo.”
  “E mi avete battuto anche con una certa facilità, potrei aggiungere…” disse il ragazzo.
  “Suvvia, siete troppo modesto. Vi siete battuto bene.”
Era una bugia colossale. Lo scontro con lui nella grande mischia era stato quasi imbarazzante, ma… era risaputo  che si trattava più di un intellettuale che di un combattente.
  “E questa è la mia dama di compagnia, Iona. Coraggio, dì qualcosa, mia cara” disse Lady Landra rivolta alla giovane elfa.
  “È un onore, Mio Signore. Ho sentito cose davvero ammirevoli sul vostro conto.”
  “Oh, guardate, Lady Eleanor, credo che la nostra giovane fanciulla si sia presa una cotta.”
  “Lady Landra! Vi prego, mi mettete in imbarazzo!”
Forse, dopotutto, avrei anche potuto trovare il tempo per conoscerla meglio, ma… successivamente. Per il momento dovevo trovare Fergus e salutarlo.
  “Madre, c’era altro che volevi dirmi?”
  “Immagino che tuo padre ti abbia già detto che sarai tu a governare in sua assenza. Beh, sappi che sono d’accordo e che ho deciso che andrò nella tenuta di Lady Landra per un po’ a tenerle compagnia mentre i nostri mariti non ci sono. Credo che sia meglio che io sia lontana, così non rischierò di mettere in ombra la tua autorità.”
  Riuscivo a comprendere il suo punto di vista. Non doveva essere facile per lei farsi da parte, ma era importante che me la cavassi da solo. Un giorno sarei potuto diventare signore di un castello, magari nei pressi di Amaranthine, ed era essenziale che io fossi preparato. Forse una volta tanto i miei genitori avevano deciso di concedermi un po’ di fiducia. Ne fui quasi commosso.
  “Grazie, madre, non ti deluderò. Lo prometto.”
  “Lo so, tesoro” disse, sfiorandomi la guancia con la mano. “Ora vai a trovare Fergus.”
  “Molto bene. Mio Signore, Mie Signore, confido ci rivedremo per cena. Buona serata.”
Mi congedai e, sperando di non venire interrotto da nessun altro, arrivai agli alloggi di famiglia, nel cuore del mastio. Trovai mio fratello nei suoi appartamenti con la moglie e il figlio.
  Bussai con delicatezza contro lo stipite della porta della loro stanza, lasciata aperta. Attendendo sulla soglia, lo osservai mentre, in ginocchio davanti al figlio, rispondeva alle sue incalzanti domande.
  “Ci sarà davvero una guerra, papà? Mi porterai indietro una lana?” Chiese Oren quasi saltellando sul posto per l’eccitazione.
  “Si dice ‘lama’, Oren. E ti prometto che ti porterò la più possente che riuscirò a trovare! Sarò di ritorno prima che tu te ne accorga.”
  “Vorrei davvero che la vittoria fosse così scontata!” Intervenne Oriana con una severa espressione accigliata. La notizia della partenza di Fergus l’aveva turbata molto e la spavalderia del marito la irritava ancora di più.
  “Non spaventare il bambino, mia amata. Io dico il vero… Oh, guarda chi si vede, il mio fratellino venuto a salutarmi!”
  Rialzandosi mi fece cenno di entrare. Con un sorriso sul volto mi avvicinai e, a dispetto dell’armatura che indossava, lo abbracciai.
  “Vorrei poter venire con te, Fergus.”
Rispose al mio abbraccio con vigore. Credo che anche lui ne avesse bisogno. Lo conoscevo fin troppo bene e sapevo che tutta  quella spavalderia era per lui una maschera, una sorta di armatura per nascondere il fatto che, in realtà, aveva molta paura. Quando si sciolse dalla mia stretta, mi rispose con il suo solito sorriso sornione:
  “Lo vorrei anche io, sarà stancante uccidere tutti quei prole oscura da solo…”
Lady Oriana mi sfiorò il braccio con la mano e mi sorrise candidamente.
  “Vostro padre non poteva certo mettere in pericolo entrambi i suoi eredi…” mi spiegò lei con dolcezza. Naturalmente sapeva che me ne rendevo perfettamente conto, eppure questo era per lei l’unico modo che aveva per provare a rendere meno dura la separazione.
  “Se ti può consolare, fratellino, passerò i prossimi mesi a congelare nel fango e nella melma, senza uno straccio di contatto umano.”
  Improvvisamente mi venne in mente di Duncan, e mi chiesi se non fosse il caso di dirgli che avevamo un Custode Grigio nel castello. Sicuramente ne avrebbe incontrati molti sul campo di battaglia, ma comunque era una notizia che lo avrebbe interessato.
  “Sapevi che c’è un Custode qui da noi?”
Come sospettavo, Fergus si sorprese… e Oren quasi fece una capriola per l’emozione.
  “E… e… e cavalcava un grifone?!?” Chiese con due occhioni spalancati per lo stupore.
  “Shh…” intervenne Oriana. “I grifoni esistono sono nelle storie.”
  “Chissà cosa lo porterà qui… Se io fossi un Custode, è certo che cercherei di reclutarti. Non che nostro padre lo acconsentirebbe mai.”
  Anche fin troppo giusto. Sebbene i Custodi Grigi avessero il diritto di coscrivere chiunque tra i loro ranghi, raramente vi facevano ricorso, specialmente quando c’era di mezzo la nobiltà. Custode o no, calpestare i piedi a un Teyrn non era mai una buona idea, ragion per cui un reclutamento nell’ordine era fuori questione. Inoltre avevo superato quel genere di fantasie e avevo capito che al primo posto veniva sempre la famiglia.
  “Ah, Fergus, nostro padre ti comunica che devi partire subito, mentre lui e Arle Howe attenderanno l’arrivo dei soldati da Amaranthine…”
  “Quindi sono davvero in ritardo! Neanche camminassero all’indietro!” Fergus sospirò distrattamente e aggiunse: “Allora devo andare. A presto amore mio. Ci rivedremo in un mese o due…”
  In quel momento la porta della stanza si aprì ed entrambi i nostri genitori entrarono.
  “Speravamo che ci avresti aspettato per partire, figliolo…” disse nostro padre.
  “Pregherò per la tua salvezza notte e giorno…” Mamma era quasi sull’orlo delle lacrime, ma da donna forte qual era le reprimeva. Non voleva mostrare segni di cedimento o debolezza, doveva restare salda per Fergus e per il resto della famiglia.
  “Che il Creatore vegli su di noi, ci protegga tutti e ci porti serenità” intervenne Oriana serafica.
  “… e anche una cortigiana o due…” aggiunse Fergus con un ghigno sul volto talmente divertito da poter quasi essere definito blasfemo. Notando poi lo sguardo velenoso che la moglie gli aveva appena scoccato si affrettò ad aggiungere: “… Oh, ehm… Per le truppe, naturalmente!”
  Sconcertata e  incredula, Oriana gli sferrò uno scappellotto dietro la nuca.
  “Fergus! Vi sembrano cose da dire davanti a vostra madre?!”
  “Che cos’è una cortigiana???” Chiese Oren sgranando gli occhi scuri. “È una di quelle grosse bottiglie per il vino?” Era chiaro che si stava confondendo con una damigiana.
  Ormai sull’orlo delle lacrime, non riuscii più a trattenermi e scoppiai a ridere, mentre mia madre diventava sempre più paonazza. Dopo avermi fulminato con lo sguardo per la mia incapacità di autocontrollo, scoccò un’occhiata a mio padre che pareva dire… “Tu hai cresciuto questi due figli degeneri, e ora TU spiegherai a tuo nipote cos’è una cortigiana!”
  “Vedi, Oren” intervenne allora con voce incerta. “Una cortigiana è una donna che ha molta raffinatezza… o che non ne ha affatto!”
  Notai che, non cogliendo ovviamente il bambino il doppio senso della frase, mio padre si stava apprestando a spiegargli il concetto con termini più diretti, quando mia madre decise che era troppo.
  “Ma insomma! Mi sembra di essere circondata da un gruppo di ragazzini!”
E questo mi fece ripiombare in una nuova crisi di ilarità incontrollata, alla quale Fergus si unì di buon grado.
  “Ah… mi mancherai, madre! Velor, ti prenderai cura tu di lei mentre sarò via, vero?”
Con la voce ancora un po’ soffocata dagli ultimi spasmi delle risate, risposi:
  “Contaci, fratello. Con me sarà al sicuro.”
  “Oh, mi fa piacere sapere di essere in così buone mani!” Disse lei parecchio seccata.
Concedendosi un’ultima risata, meno intensa della precedente, mio fratello prese congedo:
  “Come dite voi, madre. Ora devo andare, io… spero di rivedervi tutti presto. Padre, confido che calcheremo assieme il campo di battaglia quanto prima.”
  Dopo gli immancabili abbracci tra parenti, Fergus baciò con passione un’ultima volta la moglie e scompigliò i capelli arruffati del figlio. Infine, lasciò la stanza. Noi altri, ci affrettammo tutti sui camminamenti esterni del mastio centrale per guardarlo partire. Lo osservammo montare a cavallo nel cortile e risalire la colonna dei soldati già disposti per la partenza, prendendo posizione in testa. Presto, un lungo serpente di rostri e acciaio, vessilli e insegne, uomini e cavalli, iniziò a strisciare lungo la strada per Ostagar, per poi essere inghiottito dall’orizzonte, ormai baciato dal sole. Non rividi mio fratello per molto tempo. Quasi una vita intera, dal mio punto di vista.
 
 
  Nell’attesa che la cena fosse pronta, passando per lo studio del castello, ebbi modo di conoscere meglio Dairren, il figlio di Lady Landra. Era un ragazzo piacevole. A dispetto di una scarsa attitudine per le faccende militari, che pure lo interessavano ed affascinavano moltissimo, era una persona estremamente intelligente ed istruita. Aveva letto una buona metà dei libri presenti tra i nostri ben nutriti scaffali, e non solo quelli che raccontavano storie di imprese eroiche o passionali (per quanto, comunque, restassero le sue preferite) ma anche trattati filosofici e scientifici ben più pesanti. In particolare mi aveva colpito la sua approfondita conoscenza de “Il Trattato sul Buon Governo et Giusti Costumi”, un volume di un certo spessore risalente a parecchi anni fa. Mi spiegò che, nonostante molte teorie lette tra quelle pagine gli sembrassero un po’ troppo conservatrici, altre, invece, le avrebbe prese seriamente in considerazione nel momento in cui avesse ereditato lo scranno del padre. Capii subito che sarebbe stato un eccellente governante.
  Dopo aver discusso tanto piacevolmente, anche se il mio contributo alla conversazione era stato più che altro passivo, mi svelò con emozione che mio padre gli aveva dato l’incarico di fargli da scudiero mentre sarebbero stati ad Ostagar. Gli chiesi se avrebbe combattuto, e lui, con una strana luce negli occhi, mi rispose che lo sperava ardentemente. Non dissi nulla. Da quel poco che avevo visto, non sarebbe stato in grado di uscire vivo da una battaglia, non una su larga scala. Con tutta probabilità, mio padre si sarebbe limitato a fargli pulire la corazza dal fango e dal sangue. Prima che potessi, comunque, aggiungere altro, entrò Iona, la dama di compagnia di Lady Landra. Mi congedai rapidamente dal mio interlocutore e mi decisi a parlare con la giovane elfa.
  Oltre ad essere una ragazza piuttosto avvenente, scoprii molte cose su di lei e sulla sua famiglia, da molto tempo al servizio di Bann Loren. Mi raccontò tutto della sua vita e io ascoltai ogni singola parola, perdendomi nel contempo nei suoi grandi occhi blu, o nella sua cascata di capelli biondi. Mi resi conto presto di esserne ormai invaghito, se non addirittura innamorato! In più di un’occasione, fui tentato di interromperla con un bacio, così, su due piedi, ma, me ne mancò sempre il fegato. Alla fine presi coraggio e, nonostante la gola secca e l’improvvisa mancanza di saliva le dissi:
  “Signorina Iona, io credo che…” la ragazza mi scrutava con i suoi occhioni da cerbiatta, sbattendo le palpebre con ingenuità, quasi non fosse consapevole della sua bellezza. Sentii che mi mancavano le parole, ma, proprio mentre credevo che non sarei riuscito a concludere la frase, esse sgusciarono fuori dalle mie labbra con naturalezza: “… credo che dovremmo conoscerci meglio.”
  “Ma, mio signore, non lo stiamo facendo già?” Rispose lei con una risatina ed un’innocenza nella voce che, almeno al momento, noi fui in grado di giudicare se vera o falsa.
  “Beh, sì, ma… io intendevo, conoscervi meglio in privato…”
  La ragazza sorrise timidamente mentre le gote le si arrossavano. Abbassando lo sguardo, rispose quasi sussurrando:
  “Oh, capisco, Lord Cousland. In effetti, credo che mi piacerebbe smettere di darvi del voi, almeno per il momento.”
  Avvertii un sorriso dipingermisi sul volto. Quell’insieme di innocenza e sfacciataggine mi dava davvero alla testa e sentivo crescere in me il desiderio di… di… beh, di lei.
  Diedi un’occhiata attorno a me e, assicuratomi che nello studio ci fosse solo Dairren, impegnato in qualche lettura, di getto mi feci avanti, afferrai la ragazza per le spalle e le stampai un impetuoso ma rapido bacio sulle labbra. La ragazza divenne anche più rossa di prima e abbassò ulteriormente lo sguardo.
  “Mio signore… siete temerario. Forse, dopo cena, potrei, ecco, venire a farvi compagnia, sì, nella vostra stanza.”
  Non ci fu un solo attimo di esitazione nella mia voce.
  “Sarebbe per me un onore e un piacere e… vi consentirò di darmi del tu!”
Con una risatina, la ragazza si alzò in punta di piedi e, sorreggendosi a me, mi sfiorò, prima la guancia, e poi la bocca con le sua labbra.
  “A questa sera, mio Lord Cousland”
  Mai l’attesa per un pasto mi parve così lunga. Per ingannarla e tenere impegnata la mia mente, me n’ero andato nelle mie stanze a cercare qualcosa di consono per l’occasione. Dopo alcuni minuti di riflessione, scelsi un comodo farsetto di cuoio con dettagli e rifiniture ricamate con i colori della mia famiglia ed il fermaglio con il simbolo della nostra casata.
  Giunta finalmente l’ora, scesi al piano terra per recarmi in sala da pranzo. Naturalmente, a mio padre spettava il posto a capo tavola, con alla sua destra Lord Howe e alla sua sinistra mia madre. Vicino a lei sedeva Lady Landra, fronteggiata da Dairren, assieme a Iona. Io ero affiancato al giovane e di rimpetto alla ragazza. Seguivano Ser Gilmore, Duncan, e altri membri della corte.
  Rendon Howe e mio padre discussero tutta la cena di non so quali importanti argomenti politici che non mi riguardavano minimamente (i dettagli del mio matrimonio, probabilmente), mentre Dairren intratteneva Ser Gilmore con discorsi simili a quelli a cui mi aveva sottoposto nello studio, e Lady Landra spettegolava con mia madre. Io e Iona fingevamo di ascoltare un po’ tutte le conversazioni dei commensali, senza seguirne mai davvero una, preferendo concentrare la nostra attenzione nel lanciarci discrete occhiatine e celati sorrisi. Fu una piacevole serata che si concluse parecchio sul tardi. La prima a ritirarsi fu mia madre, seguita de Lady Landra e altri commensali. Quando anche Ser Gilmore e Dairren si alzarono da tavola, praticamente tutti li imitammo, solo mio padre decise di non andare ancora a dormire, proponendo a Lord Howe di proseguire nello studio.
 
1
 
  “Mio signore…” disse Iona raggiungendomi sul balcone.
  Non risposi immediatamente, concedendomi qualche ultimo secondo per contemplare le stelle. Avevo deciso che invece di stendermi subito sul mio letto, volevo respirare un po’ di fresca brezza notturna, ideale per schiarirsi un po’ le idee. Forse, dopo la pesantezza della giornata di oggi, mi ero meritato un momento con me stesso.
  “Iona, non si era detto che avreste potuto darmi del tu?”
  La ragazza mi sfiorò la mano con la punta delle dita affusolate e mi sorrise dolcemente.
  “Solo quando fossimo stati soli, Mio Signore…”
  Mi voltai e scrutai oltre la porta che riconduceva all’interno, nell’ala degli alloggi padronali, dove al momento buio e solitudine regnavano sovrani.
  “Ma, Iona” dissi cingendola improvvisamente e impetuosamente per i fianchi. “Noi siamo soli.”
  La baciai con entusiasmo, piegandomi in avanti. Lei rispose al bacio, passandomi le mani dietro la nuca e afferrandomi i capelli alla radice. Stringendoci abbracciati, la condussi verso la mia camera da letto.
 
2
 
  Non avrei saputo dire quanto mancasse all’alba, ma non mi importava: avrei potuto restare tutta la notte a guardarla dormire stretta al mio corpo. Il profilo appena abbozzato delle sue gambe sotto le coperte, la pressione dei suoi seni sul mio petto, il leggero respiro appena percettibile nel silenzio della camera da letto, i suoi capelli biondi distesi a cascata sul guanciale, le sue rosse labbra piene socchiuse che fremevano appena nel sonno; i miei occhi la guardavano attraverso l’oscurità alla quale ormai si erano abituati, passando rapiti da un dettaglio all’altro, per poi tornare a concentrarsi nuovamente sulla sua persona in generale. Le scostai una ciocca di capelli che le ricadeva sul viso e gliela sistemai dietro l’orecchio. Continuai a guardarla e mi sembrava che questo fosse l’apice del piacere umano, che non ci sarebbe stato un altro posto, né in cielo, né in terra, nel quale mi sarei voluto trovare. Ero felice. Poi il flusso dei miei pensieri venne interrotto da un mugolio ai piedi del letto: Dogmeat si era alzato sulle zampe drizzando le orecchie. Ci fu un rumore, ma non capii di cosa si trattasse. Era come se qualcosa di pesante fosse caduto a terra. Sentii Iona muoversi nel sonno, mentre il mio cane emise un gutturale ringhio dal profondo della propria gola. Qualcosa non andava, non mi servivano altri indizi per capirlo. Mi sciolsi dall’abbraccio della ragazza, la quale emise un suono lamentoso di protesta, senza però svegliarsi, e mi alzai dal letto. Nel buio rischiai di inciampare nei vestiti che ci eravamo tolti la sera prima e che avevamo lanciato ovunque per la stanza, ma raggiunsi il mio cane. Dogmeat era molto nervoso con il pelo ritto sul collo e i denti esposti.
  “Ehi, che succede, bello?” Dissi inginocchiandomi alla sua altezza. Poi ci furono altri rumori, tra i quali riconobbi… un grido? Seguirono uno schianto più violento e suoni indistinti.
  “Ma cosa…?” Iona si mise a sedere sul letto. La coperta le era scivolata via di dosso lasciando esposto il suo seno perfetto. Mi alzai in piedi e feci per dirle di non muoversi, quando la porta si spalancò di schianto e la mia vita cambiò per sempre.
 
 
CAPITOLO 2: Tu Quoque
 
  Accadde in un attimo. La luce del corridoio rese quasi cechi i miei occhi abituati all’oscurità, mentre sulla porta appariva Kyle il macellaio. “Mio Signore! Il castello è sotto atta…”
  Con uno spruzzo di sangue, la punta di una freccia che gli trapassava la gola recise a metà la frase, trasformandola in un confuso gorgoglio gutturale. Rimasi immobile, con la bocca spalancata; Dogmeat iniziò ad abbaiare furiosamente verso chiunque fosse all’esterno della stanza; qualcuno, probabilmente Iona, lanciò un grido terrorizzato. E io rimasi immobile. Tutto mi sembrava lentissimo, quasi mi trovassi in un sogno. Il soldato in maglia di ferro oltre l’uscio che incoccava un’altra freccia, il mio cane che latrava spaventato, Iona che urlava… tutto un sogno. Io rimasi immobile. Proprio mentre la freccia che mi avrebbe riportato alla realtà stava per essere scoccata, ci fu un altro grido, più profondo e decisamente più terrorizzato. L’uomo cadde atterra, mentre un grosso segugio mabari gli saltava addosso ringhiando e mordendo. Un attimo dopo la giugulare del nemico venne recisa e i suoi lamenti si interruppero con l’allargarsi sul pavimento di una grossa macchia scarlatta. Capii solo all’ora che Dogmeat mi aveva appena salvato la vita. Altri uomini, però, attendevano all’esterno. Senza esitazione Dogmeat ne caricò uno con un latrato di guerra, mentre contemporaneamente un altro soldato entrava in camera. Il nemico levò in alto la propria ascia da combattimento gridando. Io, terrorizzato, mi feci da parte appena in tempo per evitare il colpo, e finii riverso atterra. Sentii sotto il mio copro la presenza di vestiti appallottolati, indumenti maschili e femminili lanciati malamente a terra la sera prima e… qualcosa di più duro: sentivo l’impugnatura della mia spada premermi contro il costato. Rotolai di fianco, evitando un secondo colpo da parte del mio assalitore e trovando contemporaneamente una posizione più consona per recuperare la mia spada. Con un movimento rapido afferrai l’impugnatura, la estrassi dal fodero con un movimento fluido, che trasformai in un colpo alla base del ventre del mio nemico, lacerando cuoio, lana e carne. Con un urlo di dolore, questo cadde in ginocchio tenendosi lo squarcio slabbrato con entrambe le mani, mentre il suo sangue sgorgava a fiumi. Mi alzai in piedi e gli assestai un colpo di grazia alla base del collo. Fu in quel momento che mi accorsi di essere completamente nudo e coperto di sangue. Per quanto ciò mi facesse sentire debole e vulnerabile come mai in vita mia, non avevo scelta: dovevo combattere anche in questo stato. Mi lanciai fuori dalla porta, e vidi che Dogmeat era riuscito a sbranare un secondo aggressore, ma un terzo armato di lancia lo stava tenendo alla distanza.
  “Cane di merda!” Gridava, mentre lo pungolava con la lancia e il segugio rispondeva con righi intrisi di sangue.
  “Figlio di puttana!” Urlai e mi lanciai verso di lui. Prendendolo alle spalle, l’uomo non avrebbe avuto alcuna chance di battermi, eppure egli si dimostrò più rapido del previsto. Schivò all’ultimo momento il mio fendente, scartando verso sinistra, e evitò anche l’immediato contrattacco del cane schermandosi con lo scudo. Fatto ciò, si mosse all’indietro, in modo da avere la parete alle spalle a impedirci di aggirarlo. In questo modo era più facile per lui tenerci bloccati, dal momento che né io, né tantomeno Dogmeat, possedevamo armature, mentre lui aveva il vantaggio di un’arma dalla portata piuttosto lunga. Dovetti rischiare: mi lanciai in avanti. Lui provò ad infilzarmi con la lancia, ma fui lesto a deviare il suo affondo, assestando all’asta un fragoroso colpo di spada. Non potei, però, superare la difesa del suo scudo, che egli usò per respingermi e gettarmi a terra. Tuttavia, ciò diede a Dogmeat l’opportunità di superare le difese dell’uomo, colpendolo al fianco che era stato costretto a scoprire per un attimo. Una volta caduto atterra, all’uomo non restava altro destino se non quello di essere sbranato. Mentre osservavo il mio cane banchettare con la giugulare dell’avversario sconfitto, sentii Iona gridare. Mi volti verso la porta di camera mia con l’orrore dipinto sul volto. Rapido, accorsi alla mia stanza, dove trovai un uomo con le braghe mezze calate che teneva la ragazza stretta contro il muro. Con una mano cercava in vano di tenerle chiusa la bocca, mentre con l’altra le tastava spasmodicamente il bel corpo nudo. Vidi le sue viscide dita che le percorrevano ogni centimetro di pelle, che le stringevano con folle brama ora il seno, ora la natica, ora la coscia, mentre la sua virilità eretta si strusciava contro l’intimità di lei. Le labbra e la lingua lasciavano umidi aloni di saliva ovunque le si premessero contro o leccassero, passando dalla guancia al capezzolo, al collo e al ventre in una frenetica estasi di lussuria, mentre il porco continuava a grugnire di piacere.  Imbracciai la mia spada lunga con entrambe le mani e corsi verso lo stupratore, gridando di cieco furore. “Lasciala!!!”
  Sollevai la mia lama sopra la mia testa e la feci calare sul nemico con tutta la forza che avevo nelle braccia prima ancora che questo potesse rendersi conto di cosa stesse accadendo. Gli aprii uno squarcio in diagonale dalla spalla sinistra fino al fianco destro, in una purpurea pioggia di sangue. Osservando quell’uomo morire, mi diedi dello stupido: non l’avevo notato entrare. Un errore del genere avrebbe potuto davvero costarmi la vita!
  “Iona, oh per il Creatore! Stai bene? È riuscito… lui ti ha… ti ha…?”
La ragazza scoppiò a piangere e, in lacrime, mi abbracciò. La strinsi con forza.
  “Coraggio” le dissi. “Non possiamo cedere. Dobbiamo fare qualcosa.”
Se volevamo sopravvivere non potevamo permetterci esitazioni, dovevamo combattere. Le dissi di indossare qualcosa velocemente, mentre io cercavo nella mia stanza i pantaloni di cuoio e gli stivali. Proprio mentre li stavo indossando, udii la porta che conduceva agli alloggi padronali spalancarsi. Allarmato, afferrai la spada e corsi fuori  a controllare. Vidi mia madre e tirai un sospiro di sollievo. Era vestita di cuoio borchiato e imbracciava un arco, mentre i lunghi capelli grigi le ricadevano sulle spalle, ora liberi da qualsiasi abbellimento e acconciatura.
  “Velor! O, Creatore! Stai bene, vero? Non sei ferito?” Disse correndomi incontro.
Annuii gravemente, mentre Iona mi si affiancava ancora scossa dalle lacrime.
  “Madre, tu sei ferita? Sei in grado di combattere? Dov’è papà?” Chiesi poi con veemenza.
  “Sto bene” rispose lei. “Ma non so dove sia tuo padre, non è venuto a letto ieri notte!” Una lacrima le rigò il volto. “Temo che possa essergli accaduto qualcosa.”
  Mi sentii mancare. Mio padre. Dov’era mio padre? Cosa stava accadendo là fuori? Chi ci stava attaccando?
  “L’ultima volta che l’ho visto si stava recando nello studio con Lord Howe, forse saranno ancora assieme”
  Mia madre sbiancò a quelle parole.
  “Hai visto i simboli sugli scudi di quegli uomini?” Disse indicandomi il cadavere del lancere. “Sono uomini di Howe!”
Con sgomento, mi voltai verso il mio nemico ucciso e osservai lo scudo, al cui simbolo non avevo prestato molta attenzione: era un orso, emblema di casa Howe. Ma perché farci questo? Perché? Poi compresi.
  “Ci attacca mentre il grosso delle nostre forze è lontano…” non ci fu alcun bisogno che completassi la frase.
  “Stai dicendo che i suoi uomini erano in ritardo… di proposito…? Quel bastardo traditore! Gli taglierò la gola personalmente! Vuole sfruttare il caos che la guerra ha generato per eliminare la nostra famiglia e…” si interruppe, quasi un fulmine l’avesse folgorata. “Oren! Oriana! Dobbiamo controllare come stanno!”
  Sentii la bocca dello stomaco che mi si chiudeva. Se quello che pensavamo era vero, allora ad Howe non servivano ostaggi. Gli serviva soltanto che morissimo tutti.
  Mi voltai all’improvviso e corsi lungo il corridoio, verso le stanze di mio fratello. Mentre mi avvicinavo e sentivo il mio cuore battere sempre più forte, notai da lontano la porta sfondata e capii in un attimo che era tutto perduto. Mi bloccai sulla soglia e ciò che vidi fu ben peggio di ciò che mi sarei potuto aspettare di vedere. Oriana giaceva riversa al suolo, nuda, con la gola tagliata da orecchio a orecchio e il volto grazioso deturpato e sfigurato. Qualcuno aveva scritto sul muro la parola “troia” con il suo stesso sangue. Crollai in ginocchio a osservare quella scena, impotente. Sentii gli occhi inumidirsi, ma fu solo quando alzai lo sguardo al cielo che le lacrime ebbero la meglio su di me: dal soffitto dell’ampia sala da letto pendeva il freddo corpicino di mio nipote, impiccato ad una trave con le lenzuola. Era bianco come una statua di cera, tranne che per il volto, quasi nero, i capelli rossicci erano incrostati di sangue, e mani e piedi penzolavano inerti e freddi, quasi fossero stati solo cuciti al busto. Sembrava un pupazzo.
  Il mio fu un pianto silenzioso, di calde lacrime. Volevo urlare, ma non ci riuscivo. La gola era completamente occlusa. Difficile dire cosa stessi provando, dal momento che si trattava di un’emozione del tutto nuova che comprendeva a sua volta molteplici emozioni: rabbia, tristezza, disperazione, odio, sconforto, abbandono… Tutte queste e altre ancora.
  Mi sentii scuotere la spalla. Alzai lo sguardo e vidi mia madre. Dalla sua espressione, dalle sue lacrime, capii che provava quello che provavo io.
  “Velor, dobbiamo cercare tuo padre” mi disse con voce rotta dal pianto.
  Ma a me non importava più niente. Che mi uccidessero, se era quello che volevano. Che venissero pure, che si prendessero la mia testa, se tanto la desideravano!
  “Non mollare, figliolo. Tu devi vivere.”
  Era lei quella forte. Me ne resi conto in un attimo. Tutte quelle volte in cui io e Fergus ci eravamo divertiti a prenderla in giro per l’età e per il temperamento bacchettone… e alla fine era lei ad essere quella forte. Dietro le nostre spacconerie, i nostri sorrisi beffardi e le nostre stupide battute, non eravamo altro che bambini. Bambini che giocavano a fare i grandi.
  Mi alzai in piedi. Non so dove trovai la forza, ma lo feci. E poi sentii l’odio prendere il sopravvento. Bene, mi dissi: la rabbia è meglio della disperazione. Mi feci forza, spalancai l’armadio di mio fratello e ne trassi fuori una cotta di maglia ed una giubba di cuoio. Le indossai in fretta e furia e mi preparai a combattere: una battaglia infuriava all’esterno.
 
1
 
Spalancate le porte del mastio centrale, il freddo notturno ci accolse in tutta la sua pungente severità. Alzai lo sguardo alle stelle, le stesse stelle che erano state testimoni del mio bacio con Iona, le stesse stelle che avevo benedetto solo poche ore prima come gli araldi della notte più magica che avessi vissuto, e che ora maledivo per avermi portato via Oren e Oriana e chissà quanti altri ancora.
  “Sentite questi rumori?” Chiese Iona intimorita, riferendosi al clangore di spade che proveniva da ogni direzione attorno a noi. “La battaglia deve essere ovunque.”
  La cancellata principale del nostro castello era situata nel cortile, che a sua volta dava sulla Sala Grande. Questa era assai difendibile ed era probabile che il grosso dei difensori, per quanto colto alla sprovvista, si fosse raccolto lì. La sala era anche il punto da cui si snodavano i sentieri acciottolati che conducevano alle varie alee del castello, tra cui il poderoso mastio centrale, dove ci trovavamo noi. Era di vitale importanza, dunque, che questa fosse protetta, altrimenti i nemici si sarebbero sparsi a centinaia e centinaia ovunque nella fortezza, rendendo futile ogni tentativo di fuga. Probabilmente, però, alcuni sparuti gruppi di nemici dovevano già essere riusciti a oltrepassare le mura o aggirare le difese: non c’erano sentinelle sufficienti a pattugliare strade e camminamenti. Tanto sarebbe bastato per portare il caos nel castello, per razziarlo ed eliminare ogni opposizione dall’interno.
  “Dobbiamo sbrigarci e raggiungere lo studio…” disse mia madre, incamminandosi lungo il sentiero che ci avrebbe condotto alla Sala Grande. Fatti pochi passi, però, da dietro l’angolo un drappello di guardie in fuga ci venne in contro. Erano inseguiti da un nutrito manipolo di soldati di Howe.
  “Mio Signore!” Disse uno dei nostri notandoci mentre correva. “Dobbiamo scappare!”
Estrassi la spada.
  “Non siate codardi! Combattete per proteggere il vostro castello!”
Probabilmente vedere un Cousland ancora in piedi e determinato, diede agli uomini il coraggio di voltarsi e combattere. Anche se non molto convinti, infatti, essi cessarono di fuggire e si prepararono allo scontro. Impattarono con una quindicina di armigeri nemici, superiori a noi di numero, ma gestibili se fossimo riusciti a giocarci bene le nostre carte.
  “Se qualcosa va storto” dissi rivolto a Iona. “Tu scappa nel castello e nasconditi. Con un po’ di fortuna domani non noteranno una giovane elfa che cammina a testa bassa tra le sale.”
  La ragazza mi rispose con uno spaventato cenno del capo. Me lo feci bastare e, gridando, mi gettai nella mischia. Avevo la fama di essere uno dei migliori spadaccini del nord: era il momento di metterla alla prova. Con Dogmeat che correva al mio fianco e mia madre che mi copriva le spalle bersagliando gli avversari di frecce, lanciai il mio grido di battaglia: “Altura Perenne!”. Mi si fece in contro il primo avversario. Era un uomo alto e robusto che brandiva un’ascia da guerra e uno scudo con l’insegna degli Howe. Con un ringhio, egli vibrò un micidiale colpo con la sua arma, che, però, fui in grado di schivare, mentre il mio cane saltava a mordergli il braccio. Gridando, l’uomo lasciò cadere l’ascia e crollò in ginocchio, permettendomi di sferrargli un colpo fatale alla nuca con la mia lama. Si riversò al suolo privo di vita. Subito, però, un altro uomo mi fu addosso, con la propria spada. Le nostre lame cozzarono a mezz’aria, tra scintille e stridii, per più volte. L’uomo non aveva alcuna tecnica e brandiva il suo acciaio come se si trattasse di un martello o di una mazza. Parai i suoi colpi con facilità, poi, dopo l’ennesimo incrocio di lame, assecondai la sua forza spostandomi lateralmente e scaricando la potenza del suo colpo a terra, e sinuosamente la mia spada scattò verso l’alto, incontrastata, colpendo violentemente sotto l’ascella, in un’esplosione di sangue e anelli di maglia. Il nemico indietreggiò con un urlo, lasciando la sua arma. Io mi lanciai in avanti, esibendomi un affondo in pieno petto. La punta della mia spada penetrò senza difficoltà la maglia dell’armatura, sfondando lo sterno e sbucando dall’altra parte. Anche questo avversario cadde al suolo morto.
  Prima che altri due mi si potessero affiancare, mia madre ne uccise uno con un colpo di precisione del suo arco e Dogmeat ammazzò il secondo con balzo leonino. Gli uomini di Howe avevano cominciato a perdere il loro vantaggio numerico e in poco tempo vennero sopraffatti. Con i superstiti del gruppo di soldati, ci dirigemmo poi verso la Sala Grande, mentre sentivo in me rinascere la determinazione. Tenni vicino a me Iona, in modo da proteggerla meglio e da evitare di perderla di vista. Giunti all’ingresso laterale, trovammo la porta sbarrata. Bussai con forza.
  “Aprite! Sono Velor Cousland! Con me c’è anche mia madre.”
Sentii qualcuno armeggiare con la sbarra in legno massiccio e subito dopo la porta venne aperta. La scena non era delle più rosee. Solo un terzo dei soldati rimasti a Castel Cousland erano radunati lì. Anche con l’intero contingente militare, la vittoria non sarebbe stata facile, ma in queste condizioni sperare in essa era quasi folle. Osservai per un attimo i circa trenta soldati intenti a fortificare le difese del portone principale, il quale era scosso pericolosamente a intervalli regolari da un ariete.
  “Velor!” Udii qualcuno chiamarmi. Mi voltai e vidi Ser Gilmore avvicinarsi a me, pallido in volto e dall’aria stanca. “Velor, sei vivo! Oh, Creatore, ti ringrazio! Temevo che gli uomini di Howe fossero già riusciti a passare.”
  “In effetti ci sono riusciti! I suoi sgherri sono ovunque nel castello che razziano, stuprano e uccidono chiunque incontrano!”
  “Io… io ho provato…”
  “Ser Gilmore” intervenne mia madre. “Dobbiamo trovare Bryce Cousland.”
  “Non lo avete incontrato, Mia Signora?” Rispose con aria un po’ confusa. “L’ho incrociato non molto tempo fa, subito dopo l’inizio dell’attacco. Sembrava ferito, anche se non gravemente. Mi ha ordinato di radunare qui le nostre forze e mi ha detto che vi avrebbe cercato alle cucine. Sosteneva che voi conosceste un… passaggio segreto? È possibile, Mia Signora?”  Mia madre annuii. “Allora dovete andare da lui!” Aggiunse con tono concitato. “Non reggeremo a lungo, ma dovete trarre in salvo il Teyrn.”
  “Ma questo significa…” dissi io “significa… che tu… tu…”
  “Significa che combatterò fino all’ultimo respiro per darvi un po’ di vantaggio.”
I colpi dell’ariete si fecero più intensi e il rumore sordo di un esplosione in lontananza fece tremare le pareti: stavano usando le catapulte contro le nostre mura.
  “No, non puoi. Vieni con me”
Ser Gilmore scosse il capo con espressione cupa.
  “Velor sei stato un grande amico per me e io sono contento di morire per l’uomo che… che più ho sentito come mio padre in questi anni.” Rispose appoggiandomi una mano sulla spalla.
  Lo guardai per alcuni secondi, cercando di immaginarmi come sarebbe potuta essere la mia vita senza di lui. Avevamo passato assieme così tanti momenti, vissuto così tante esperienze che… un mondo senza di lui sembrava privo di senso, come un libro le cui pagine sono tutte bianche. Non seppi cosa rispondere. Fortunatamente, fu lui a trovare la cosa giusta da fare, abbracciandomi.
  “Addio, amico mio…”
Il portone vibrò sonoramente, minacciando di aprirsi per davvero questa volta, ma resse ancora quel colpo.
  “Ora vai. Subito!”
  L’entrata in legno massiccio venne spalancata con un fragore di tuono e gli uomini di Lord Howe si riversarono all’interno con la violenza di un fiume in piena. Prima dieci, poi venti, cento, centoventi: già nei primi secondi di battaglia i nemici superavano i difensori di quattro a uno e la situazione sarebbe presto peggiorata. Osservai in silenzio quei brevi primi attimi di scontro senza poter fare niente. Vidi Ser Gilmore imbracciare la propria spada e partire alla carica. Abbatté un nemico, poi un altro, poi un altro ancora, solo per finire circondato da quattro avversari. Parò un colpo, ne schivò un altro, si lanciò in avanti con un affondo, eliminando uno degli uomini di Howe, ma alla fine la lancia di un nemico gli perforò il polpaccio e lui si ritrovò in ginocchio. Parò debolmente un fendente che gli arrivava dall’alto, ma senza nessuna convinzione e la spada gli sfuggì placidamente dalle mani. Abbassò lo sguardo, i lunghi capelli rossicci, madidi di sudore, che gli si appiccicavano in faccia, mentre la morte incombeva su di lui. Uno dei suoi nemici impugnò comodamente la lancia con due mani e, con tutta calma, gliela piantò nel petto, senza che lui opponesse più alcuna resistenza. L’asta penetrò nella carne per svariate spanne. Il ragazzo emise un breve grugnito soffocato, mentre le labbra gli si tingevano di rosso. Alzò lo sguardo sul suo carnefice: disprezzo. Il nemico estrasse con uno strattone la picca, accompagnando il gesto con un notevole spruzzo vermiglio. Osservai il mio migliore amico riversarsi inerte sul suo fianco sinistro mentre il suo bel farsetto decorato si inscuriva sempre più di sangue e il mabari ricamato sopra di esso veniva lentamente cancellato dal denso liquido scuro.
  Dopo di che la battaglia fu ovunque. I nemici ci circondavano completamente e, ovunque mi girassi il caos regnava sovrano. Non c’erano due linee di combattenti, ma una bolgia unica che infestava tutta la sala. Mi guardai attorno preoccupato. Afferrai Iona e mia madre per mano e iniziai a correre verso l’altra porta di uscita laterale. Mi feci largo a spintoni tra gli uomini immersi nel pieno del combattimento, evitando il più possibile di scontrarli, ma nella confusione generale era praticamente impossibile muoversi senza inciampare in un soldato morente, in due cavalieri che duellavano all’arma bianca o in piccoli gruppi di combattenti intenti a dare il tutto per tutto. Ad un certo punto un uomo mi si parò davanti per impedirmi la fuga, costringendomi a lasciare mia madre; la mano destra, ora libera, corse all’impugnatura della spada e la estrasse appena in tempo per intercettare un colpo che altrimenti mi avrebbe certamente ucciso. Fu uno dei miei uomini, passante di lì, però, ad ucciderlo, infilzandolo alle spalle. Feci per riprendere la corsa, quando mi resi conto che la mano sinistra era vuota: Iona non c’era più. Non capii. Ero incredulo. Com’era possibile? Rimasi fermo a fissarmi il palmo vuoto, quasi potessi trovarvi la risposta al problema, ma per quanto intensamente lo guardassi nulla cambiava i fatti. Avevo perso Iona.
  “Velor!” Mi madre mi scosse per le spalle. “Dannazione, Velor! Dobbiamo muoverci!”
  Mi guardai attorno freneticamente. Cercavo Iona, ma ovunque il mio sguardo si posasse, vedevo solo morte, e, se non volevo che questa prendesse anche noi, capii che dovevo andarmene di lì. A testa bassa, mi gettai verso la porta, Dogmeat, spaventato e furioso, mi precedeva di pochi passi, aprendoci la strada. Giunto alla porta, mi ci gettai contro con tutto il peso del mio corpo e la aprii con un boato. Senza rallentare, continuai la mia corsa attraverso la brina del primissimo mattino senza voltarmi indietro. Quando mi fermai senza più fiato, mi accorsi che non mi veniva da piangere, no, mi sentivo semplicemente vuoto dentro. Non proposi neppure a mia madre di tornare indietro per cercare Iona, ormai la ragazza era già morta. Mi accasciai contro il muro di cinta, sferrando un pugno contro il granito. Poi un altro e un altro ancora.
  “Ora basta!” Mi ammonì mia madre “Comportati da uomo! Dobbiamo trovare tuo padre!”
  Impotente: ecco la parola che meglio mi avrebbe potuto descrivere in quel momento. Incapace di costruirmi il mio destino, vittima e preda degli eventi, insignificante pedina ribelle in una scacchiera troppo grande per me. Tutti termini piuttosto azzeccati.
  “Senti…” mi disse lei tirandomi via e iniziando ad avviarsi di buon passo verso le cucine “Il castello cadrà. Ora, tu puoi startene lì appoggiato a piangere su una situazione che non puoi cambiare, oppure puoi lottare per chi ancora può essere salvato. La decisione spetta a te, ma scegli in fretta.”
  Sapevo ciò che volevo, e non era né la lotta, né la rivalsa: era la vendetta. Volevo la testa di Arle Howe su una picca e volevo essere io a spiccargliela dal collo. Volevo guardarlo negli occhi mentre moriva, volevo che lasciasse questo mondo con la consapevolezza che tutto ciò che di caro aveva avuto ora era andato di strutto. Volevo questo e molto altro. Ma per ottenerlo dovevo andarmene.
  “Molto bene…” risposi quasi ringhiando.
 
2
 
  “Qui vicino c’è la tesoreria” disse mia madre interrompendo per un attimo la sua corsa. “Dobbiamo trovarla e impedire ad Arle Howe di mettere le mani sulla spada di famiglia! Non può cadere nelle sue mani, appartiene ai Cousland da generazioni, ormai!”
  Ogni famiglia davvero importante aveva un cimelio o una spada da tramandare di generazione in generazione, passando dal capofamiglia all’erede. Noi avevamo Vendetta Grigia, la leggendaria spada in acciaio bianco, forgiata durante l’era oscura per fronteggiare le orde di mannari. Era nostra, non avrei dato a quel bastardo il piacere di posare il suo ossuto culo raggrinzito sullo scranno di mio padre con la nostra spada al fianco. No, non glielo avrei permesso!
  Svoltammo l’angolo e trovammo la porta blindata. Mia madre inserì la sua chiave nella toppa e ci ritrovammo nell’anticamera. Questa era vuota: probabilmente le guardie erano accorse alla Sala Grande tempo prima. Una grossa porta d’acciaio era l’unica cosa che ci separava dal tesoro della famiglia. La aprimmo e davanti a noi vedemmo una piccola sala absidata, con alcuni bauli lungo le pareti e vari manichini, che esponevano alcune delle più famose armature che antichi membri della nostra famiglia avevano indossato in grandi battaglia passate. Sul fondo, in una sorta di abside, appeso al muro c’era un grosso scudo a mandorla finemente decorato con il simbolo di Altura Perenne, e una magnifica spada lunga. Mi avvicinai per osservarla meglio. L’elsa presentava decorazioni sobrie ma eleganti, con il giusto equilibrio tra solido acciaio e oro brillante, mentre il pomo rappresentava al simbolo della nostra casata con la testa di un mannaro decapitato tra i due rami di ulivo. La sganciai dalla parete e la estrassi dal fodero. Era semplicemente eccezionale, di puro acciaio bianco, perfettamente bilanciata, leggera, ma possente: praticamente un’estensione del braccio.
  “Superba…” sussurrai.
  “Legatela alla cintura e dammi la tua, potrebbe farmi comodo più avanti.”
  Obbedii, ma non potei fare a meno di sentirmi un po’ un ladro nell’assicurarmela in vita. Quella era una lama da Teyrn e io fino ad ora non me ne ero dimostrato molto degno. Avevo passato metà del tempo a disperarmi, ero fuggito dalla battaglia, avevo abbandonato il mio migliore amico e avevo perso Iona. Bel cavaliere che ero! Ma non c’era tempo per questo. Dovevamo trovare mio padre e fuggire da qui. Poi Rendon Howe avrebbe pagato per quello che ci aveva fatto. Tirai giù anche lo scudo dal suo supporto e poi lo imbracciai: tanto valeva essere un ladro fino in fondo a questo punto.
 
3
 
Ci precipitammo tutti e tre all’interno della stanza e chiudemmo la porta dietro di noi.
  “Per ora dovremmo averli seminati…” disse mie madre con la voce rotta dalla fatica. Eravamo riusciti a raggiungere la cucina, finalmente, ma non prima di essere sfuggiti ad un branco di soldati Howe che ci avevano seguito per tutta quell’ala del cortile.
  “Coraggio, madre. Ci siamo quasi” commentai io. “Dove dobbiamo andare?”
  “Per di qua, il passaggio segreto dovrebbe essere nella dispensa.”
Attraversammo di corsa la cucina, buia, tetra e silenziosa. Era strano pensare che fino a ieri pomeriggio lì ci lavorava la vecchia Nan e che mia madre mi ci aveva spedito a recuperare Dogmeat. Quello però sembrava davvero un tempo lontano… una vita lontana.
  Trovammo la porta della dispensa aperta e, oltre quella, seduto debolmente con la schiena appoggiata contro la parete, mio padre. Era pallido, il volto trasformato in una maschera di dolore e le vesti imbrattate di sangue. Teneva le mani premute contro il fianco, dove qualcuno gli aveva inferto un brutta ferita.
  “Padre!” Gridai precipitandomi verso di lui.
  Com’era potuto accadere? Ser Gilmore mi aveva detto che non era ferito gravemente! Poi notai una seconda ferita, decisamente più lieve, alla spalla e capii quel che doveva essere successo.
  “Eccovi qui…” rispose in un sussurro. “Vi stavo cercando, ma mi hanno trovato prima gli uomini di Arle Howe. Quel… bastardo.”
  “Zitto, non parlare” lo interruppe mia madre. “Dobbiamo portarti via di qui e trovare una magia curativa. Resisti.”
  Gli prese le mani nelle sue e strinse con forza, ma Bryce non fu in grado di ricambiare.
  “Non… sopravvivrei allo sforzo. Dovete andare… voi. Anche potessi… muovermi… vi sarei solo… d’intralcio.”
  “Non dire sciocchezze, papà! Ci salveremo tutti.”
  “Temo che Teyrn Cousland abbia ragione” affermò una voce calma alle nostre spalle. Voltandoci vedemmo entrare Duncan, con la spada in mano e coperto di sangue dalla testa ai piedi. “Gli uomini di Howe sono ovunque, la Sala Grande sta per cedere e le mura sono circondate. Non hanno ancora trovato questo passaggio, ma lo faranno presto.”
  Duncan raggiunse il nostro capezzale e si chinò su mio padre. L’espressione che fece quando poté osservare meglio la sua ferita confermò quello che temevo: era oltre ogni possibile guarigione magica.
“Voi… voi siete un Custode Grigio. Non avete obblighi nei miei confronti, ma… Ah! Vi prego, anzi, vi imploro: portate in salvo la mia famiglia”
  L’uomo abbassò un attimo lo sguardo e sospirò, quasi si stesse facendo coraggio per fare qualcosa di alquanto sgradevole.
  “Temo” disse infine. “Di dovervi chiedere qualcosa in cambio, Mio Signore.”
  “Qualunque cosa.” Rispose subito mio padre senza la minima esitazione.
  Sentii crescere dentro di me un senso di rabbia. Che genere di opportunista pretende qualcosa da un padre morente il cui unico desiderio è salvare la propria famiglia? Quell’uomo era un Custode, avrebbe dovuto essere un eroe!
  “Sono venuto qui alla ricerca di reclute per fronteggiare i prole oscura. La minaccia di un Flagello impone che non me ne vada via senza. Voglio il permesso di reclutare vostro figlio.”
  “Accordato. Basta che li salvi…”
  Ero sul punto di protestare, dire che non ero d’accordo, che i suoi dannati Custodi Grigi potevano anche andarsene a fare in culo, se per reclutarmi aveva dovuto ricattare un uomo morente, ma prima che potessi farlo, fu mia madre a parlare:
  “Io resterò con te.”
  “Amore, non dire… assurdità!”
  “Taci…” rispose baciandolo lievemente sulle labbra. “Ucciderò ogni bastardo che oserà varcare quella soglia. Ti difenderò fino a quando avrò vita.”
  A bocca aperta mi chiesi se fossero diventati tutti matti.
  “Madre, no! Non lascerò che ti sacrifichi, è una follia!”
  Lei sorrise. E fu un sorriso dolce, un sorriso da mamma. Mi sfiorò la guancia con la propria mano e, con la voce che usava per spiegarmi le cose più semplici che non capivo quando ero piccolo, mi disse:
  “Il mio posto è accanto a tuo padre. Tu devi vivere.”
  “E vendicarmi…” aggiunsi quasi senza accorgermene.
  “Sì” disse mio padre “vendicarci. Vendicarci tutti…”
Sentimmo un rumore e capimmo che qualcuno stava cercando di sfondare la porta della cucina. Duncan si guardò attorno allarmato ed intervenne:
  “Non abbiamo più tempo, dobbiamo andare.”
  Annuii debolmente, restando però ancora in ginocchio mentre il Custode Grigio si alzava in piedi.
  “Addio…” Bisbigliai, mentre Duncan mi rimetteva in piedi tirandomi per la spalla. Rivolsi un ultimo sguardo incerto ai miei genitori e poi, finalmente, voltai le spalle a quella che era stata la mia vecchia vita per così tanto tempo, sapendo che non avrei più rivisto nessuno di loro.
 
 
  
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