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Autore: Framboise    31/08/2014    5 recensioni
Italia, anno domini 1381: Eufemia ha diciotto anni ed è figlia di un macellaio piuttosto importante nella Corporazione dei Beccai. Non è come la vorrebbe suo padre, remissiva e pronta ad un buon matrimonio, ma gestisce la bottega di famiglia con pugno di ferro, proprio come un uomo. Quando però arriva un matrimonio combinato ad intralciare i suoi piani, la ragazza non ha che una soluzione: fuggire, nonostante la guerra che da anni insanguina la sua città ed il Comune vicino sia appena ricominciata...
Genere: Avventura, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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CAPITOLO 11:

 

Eufemia era distesa con gli occhi spalancati sul terreno freddo, sotto alla tenda logora che fungeva da infermeria nell’accampamento dei mercenari. Poteva udire i rumori della battaglia, leggermente attutiti dalla lontananza e sovrastati di tanto in tanto dai gemiti degli altri feriti, ma il non poter prendere parte ai combattimenti le procurava una sensazione simile al dolore. Queste fitte le sembravano più reali di quelle che di tanto in tanto la attraversavano, partendo dalla ferita al petto e propagandosi poi al resto del suo corpo, a causa delle quali era stata costretta a non partecipare allo scontro.

Tutto era cominciato pochi giorni prima. I superstiti dell’armata di Agilulf si erano uniti ad un altro plotone che era stato decimato in una battaglia precedente, sotto la guida di un comandante di dubbia fama. Non avevano mai avuto a che fare con lui ma, stando a ciò che avevano sentito dire dagli altri soldati, era famoso per non prendere quasi mai parte agli scontri in prima persona: spesso, infatti, affidava il comando al suo luogotenente e rimaneva nelle retrovie. Questo cambiamento non era piaciuto agli uomini, ma non si poteva fare altrimenti: Agilulf non si era ancora ripreso del tutto dalle ferite riportate nello scontro nel bosco. Non sembrava più in pericolo di vita ed aveva ripreso conoscenza, ma era molto debole e non era ancora in grado di reggersi in piedi o di rimanere seduto per più di pochi minuti.
Anche la ragazza era andata con loro, perché riteneva di essere abbastanza in forze per ricominciare a combattere, ma durante i giorni in cui i comandanti discutevano, decidendo nuove tattiche e strategie per ritornare in una posizione di vantaggio rispetto ai nemici, aveva cominciato a sentirsi sempre più debole e la ferita aveva ricominciato a dolerle. I primi giorni aveva cercato di ignorare il dolore, ma con il passare del tempo esso si era fatto sempre più insistente e non aveva più potuto fare finta di niente, inoltre si sentiva perennemente febbricitante e spesso le girava la testa. Nonostante avesse cercato di nasconderlo, la sera prima della battaglia anche Alois si era accorto del suo malessere.
«C’è un’infezione, ecco perché ti è venuta la febbre. Non puoi combattere in queste condizioni» le aveva detto dopo averla portata vicino al bosco, lontano dall’accampamento, per non rischiare di essere uditi dai loro commilitoni.
«Certo che posso!» aveva replicato lei, veemente.
«Assolutamente no! Non avresti i riflessi abbastanza pronti da poter combattere e verresti quasi sicuramente ferita, se non peggio... e se verrai ferita, stavolta scopriranno te».
«Mi scopriranno anche se andrò in infermeria!» esclamò Eufemia, sull’orlo della disperazione. Doveva ammettere che il suo amico aveva ragione, ma non voleva darsi per vinta. Il ragazzo tacque, pensoso, appoggiandosi una mano al mento e socchiudendo gli occhi.
«Non preoccuparti, loro non lo faranno. So che cosa fare» rispose improvvisamente, alzandosi di scatto. «Aspettami qui!» le gridò, mentre correva verso le tende dalle quali si erano allontanati poco prima.
Alois fece ritorno alcuni minuti dopo, mentre la ragazza, ancora seduta a terra, cominciava a chiedersi dove fosse andato. Stringeva in mano delle bende pulite e delle erbe medicinali.
«Devi cambiarti la fasciatura. Mentre tu fai questo, io andrò all’accampamento a preparare una medicina: un medico giovane mi ha dato le erbe che servono e ha mi spiegato cosa fare» spiegò, porgendole le strisce di stoffa.
«Va bene... ma sei sicuro che funzionerà?» rispose lei, prendendole.
«Penso di sì, ma naturalmente tu dovrai riposare, o non guarirai. Devi andare in infermeria».
«Ma se proveranno a curarmi verrò subito scoperta!»
«No: adesso ci sono molti casi più gravi di cui i dottori devono preoccuparsi e dopo la battaglia saranno ancora di più. I medici sono pochi e stanchi, accettano ogni aiuto che si propone loro... ho promesso all’uomo che mi ha spiegato come preparare il decotto che mi occuperò io dei casi meno gravi. Tu fai parte di questi ultimi, quindi non preoccupa... preoccuparti. Devi solo riposarti e soprattutto non venire a combattere» le disse lui, tranquillo.
«Caspita, hai pensato a tutto» mormorò lei. «In ogni caso, immagino di non avere molta scelta. Hai vinto tu, domani in battaglia dovrai cavartela da solo» continuò, con un mezzo sorriso.
Il ragazzo sospirò, tranquillizzato, poi si alzò. Eufemia lo imitò, anche se per un attimo venne colta da un capogiro, poi i due ritornarono verso l’accampamento. Dopo avere preparato il decotto che gli aveva consigliato il medico ed avere costretto l’amica a berlo, Alois la accompagnò alla tenda che fungeva da infermeria e si diresse verso il punto dove lo aspettavano gli altri mercenari.
«Aspetta!» lo chiamò in quel momento la ragazza. Lui si voltò, guardandola interrogativamente.
«Volevo solo ringraziarti per il tuo aiuto, per le medicine... non eri obbligato a farlo...» mormorò, maledicendosi mentalmente: le sembrava che non fosse un ringraziamento adeguato, ma come sempre non riusciva ad esprimere adeguatamente ciò che provava. Ciononostante, il ragazzo annuì, mostrando di capire ciò che intendeva dire.
«Non devi dire grazie a me, Lodovico. Siamo amici... giusto? Tu sei mio amico e io voglio che tu stai... no, stia bene» rispose, chiamandola con il suo falso nome per non insospettire i soldati che si muovevano attorno a loro.
Femia lo osservò per un attimo, come indecisa se aggiungere qualcosa o se tacere, poi sembrò prendere una decisione e scrollò le spalle.
«Fai attenzione domani, va bene? Non mi sento tranquillo, se penso che non ci sarò io a guardarti le spalle» gli disse, con un ghigno che cercava di mascherare il suo tono improvvisamente preoccupato.
«Starò attento, te lo prometto» replicò Alois, con uno dei suoi sorrisi disarmanti. Inaspettatamente le strinse una mano, quasi a suggellare un accordo, poi si allontanò e scomparve tra la folla di soldati che si camminavano in ogni direzione. La ragazza lo seguì per un po’ con lo sguardo, poi si voltò ed entrò nella tenda, stendendosi accanto ad Agilulf, che dormiva.

Eufemia rimase sveglia a lungo, nel buio della tenda. Si sentiva nervosa, come non era mai stata nemmeno prima di battaglie in cui sapeva di avere poche possibilità
di sopravvivenza. Non sopportava l’idea di non poter combattere insieme ai suoi compagni. Sapeva che era una preoccupazione inutile: anche se avesse potuto partecipare allo scontro, non avrebbe certo potuto aiutarli tutti, né guardargli costantemente le spalle.
“Detesto non sapere che cosa sta succedendo loro. Almeno lì potrei fare qualcosa, dare una mano, ma qui... sono completamente inutile. Mi sento come quando eravamo stati assediati!” pensò, cercando di ignorare i gemiti degli uomini ed i passi dei medici che di tanto in tanto passavano tra i feriti, controllando le ferite e cambiando bende. Si rendeva conto che tutti loro erano combattenti esperti ed erano perfettamente in grado di cavarsela, ma questo non le impediva di angosciarsi, soprattutto per il suo amico. Al pensiero di Alois, ripensò anche al suo gesto di poco prima e sorrise involontariamente, anche se l’ansia si fece ancora più forte. “Sarà meglio che tu faccia ritorno intero, ricordatelo” pensò, quasi che lui potesse sentirla. “Ma... che cosa significava esattamente, quella stretta di mano?”
Dopo un po’, senza accorgersene, scivolò nel sonno.
La mattina dopo cercò di tenersi occupata in tutti i modi possibili, per dimenticare il senso di impotenza che la pervadeva: cercò di rendersi utile aiutando i pochi medici rimasti per qualche ora. Di tanto in tanto, nei rari momenti di calma, qualcuno di loro le rivolgeva la parola, oppure dei soldati che passavano di lì per controllare le condizioni dei compagni raccontavano loro ciò che accadeva al di fuori dell’infermeria.
«Sapete che i comandanti stamattina presto hanno ricevuto uno straniero nella loro tenda?» aveva raccontato uno di loro, rivolto a tutti i presenti. Subito gli uomini si voltarono verso di lui, interessati.
«Sul serio? Che tipo di straniero?» gli domandò il cerusico più esperto, un uomo alto e completamente calvo in perenne movimento, sempre affaccendato attorno a questo o a quell’altro paziente.
«Non ne sono sicuro, ma gira voce che sia un messaggero dei nemici. Ciò che è certo  è che deve avere molte cose da dire, perché nessuno è ancora uscito dalla tenda» spiegò il mercenario inarcando le sopracciglia, allusivo, con il tono di chi la sa lunga. Un giovane medico poco distante da lui alzò gli occhi al cielo, imitato da altre persone: evidentemente, il nuovo arrivato non era una fonte di informazioni affidabile.
«Smettila di darti delle arie... sappiamo tutti che non hai la più pallida idea di ciò che si stanno dicendo e lo sai anche tu, quindi non c’è bisogno di tentare di farcelo credere. Sei un pessimo bugiardo!» gli gridò in quel momento un altro soldato, con un ghigno di scherno sul volto mal rasato. L’uomo gli lanciò un’occhiata di fuoco ed uscì dall’infermeria, bestemmiando sonoramente.
Eufemia scosse la testa, continuando ad armeggiare con le bende di un uomo che aveva perso una mano in combattimento e giaceva supino, guardandosi di tanto in tanto il braccio con occhi sconvolti.
Continuò ad occuparsi dei casi meno gravi fino a quando il dolore ed i capogiri non si fecero troppo forti. A quel punto, ritornò a stendersi al suo posto, accanto al comandante. L’uomo aveva dormito un sonno irrequieto per tutta la mattinata, senza svegliarsi nonostante le voci di medici e soldati, le grida dei moribondi ed i rumori provenienti dalle retrovie del campo di battaglia. “Sembra invecchiato di anni in pochi giorni... quella sconfitta è stata davvero un brutto colpo per tutti, ma per lui è stata persino peggio” pensò, guardandolo distrattamente. Era ancora più pallido del solito ed i suoi occhi erano circondati da due occhiaie profonde. Quando Femia si sedette accanto a lui, girò la testa verso di lei e socchiuse gli occhi.
«L-Lodovico... cosa ci fai qui?» domandò, con evidente sforzo. La sua voce, di solito forte, era ridotta ad un sussurro, tanto che la ragazza dovette avvicinarsi per capire ciò che stava dicendo.
«Infezione ad una ferita, signore. Avrei voluto andare a combattere lo stesso, ma...»
«Per cosa? Per farti ammazzare? Hanno fatto bene ad impedirtelo» replicò Agilulf, riacquistando con poche parole la sua autorità. «Non fare quella faccia. So come ti senti... pensi che non vorrei essere là anche io? Se la caveranno, non preoccuparti» continuò, poi si interruppe all’improvviso e si portò la mano alla ferita con un gemito.
«Tutto bene, signore?» gli chiese la ragazza, allungando istintivamente una mano verso di lui.
«Certo, è tutto a posto» replicò l’altro, nonostante entrambi sapessero che stava mentendo. «Piuttosto, cosa è successo stamattina? Prima mi è sembrato di sentire i medici parlare di uno straniero...»
«Sì. Un uomo è stato ricevuto dai comandanti questa mattina e qualcuno ha messo in giro la voce che si tratti di un messaggero nemico, ma nessuno ne è sicuro... anche perché, a quanto pare, nessuno è ancora uscito dalla tenda» gli spiegò lei.
Il capitano chiuse per un attimo gli occhi, come se si sentisse troppo affaticato per continuare la conversazione, ma quando li riaprì, Femia notò che erano pieni della ferrea determinazione che lo aveva sempre caratterizzato.
«Devo ascoltare anche io quello che lo straniero ha da dire. Anche con queste ferite, sono pur sempre un comandante!»
«Non può! Deve riposare... non riesce neanche a reggersi in piedi!» si lasciò sfuggire lei. L’uomo la ignorò e si mise faticosamente a sedere.
«Aiutami, per favore...» mormorò, passandole un braccio attorno alle spalle e cercando di alzarsi.
«Ma signore...»
«Niente ma, Lodovico. Aiutami ad arrivare alla tenda dei comandanti. È un ordine!» ribatté seccamente Agilulf.
Eufemia non poté far altro che obbedire: passando una mano dietro la schiena dell’uomo, riuscì ad aiutarlo a sollevarsi, quindi i due si incamminarono barcollando.
“Un uomo con un piede nella fossa ed una ragazza febbricitante... quantomeno, in due formiamo una persona normale” pensò mentre si avvicinavano alla tenda dei capitani, presidiata da due soldati. Inizialmente questi ultimi bloccarono loro il passo, ma quando riconobbero Agilulf li lasciarono passare. Femia sollevò il lembo di stoffa che chiudeva la tenda, quindi entrarono, stringendo gli occhi per l’improvvisa penombra che li avvolse.
All’interno si trovavano i comandanti di tutti i plotoni, seduti attorno ad un tavolino basso ricoperto di fogli di pergamena sparpagliati. Tra di loro, a capotavola, sedeva il messaggero. Era un uomo muscoloso e di media statura, anche se l’autorità che emanava lo faceva sembrare più alto. Sul suo volto abbronzato spiccava un naso lungo ed aquilino e gli occhi piccoli e penetranti scintillavano. Tutti gli sguardi si concentrarono sui nuovi arrivati.
«Agilulf! Cosa ci fai qui? Dovresti essere in infermeria!» esclamò stupito un soldato. «Infatti vengo proprio da lì, ma ora sto abbastanza bene per partecipare alla riunione. Lodovico resterà con noi, in caso mi serva aiuto» replicò l’altro, che non si appoggiava più ad Eufemia, ma fronteggiava gli uomini dritto come un fuso. «Non vi preoccupate, è degno della massima fiducia. Garantisco io per lui» continuò, interrompendo sul nascere qualsiasi obiezione e prendendo posto davanti al tavolo, mentre due suoi commilitoni si spostavano per fargli spazio.
Lo straniero, dopo averlo squadrato attentamente, riprese il suo discorso dal punto in cui si era interrotto.
«Come vi stavo dicendo, signori, è ormai noto a tutti che il Comune che state servendo presto potrebbe cominciare ad avere grosse difficoltà a garantirvi il compenso che vi è stato accordato; è per questo che i governatori della nostra città mi hanno mandato a proporvi un accordo».
«Questo ce l’ha già fatto capire. In cosa consisterebbe questo... accordo?» domandò un comandante basso e robusto dal volto rubizzo, sporgendosi verso l’uomo. Quest’ultimo raddrizzò la schiena. Tutti gli sguardi seguirono i suoi movimenti, come ipnotizzati, mentre il silenzio sembrava farsi sempre più pesante ogni secondo che passava: l’uomo si lasciò sfuggire un sorriso a labbra strette, che non si estese agli occhi, poi appoggiò entrambe le mani sul piano del tavolo.
«I consoli della mia città vi propongono di passare al nostro servizio, naturalmente in cambio di uno stipendio maggiore di quello che ricevete adesso. Vista la situazione economica in cui presto verserà la “vostra” città, sarebbe un affare davvero vantaggioso per voi».
«Sempre parlando per ipotesi, di quanto esattamente aumenterebbe il nostro soldo?» chiese uno dei suoi interlocutori. La sua voce, sgradevolmente melliflua, ricordò alla ragazza quella di Ruggero. Rabbrividì istintivamente, osservando il volto del suo comandante: sembrava scolpito nella pietra, osservava guardingo il messo senza lasciar trapelare alcuna emozione.
In effetti, il compenso sarebbe... vediamo... sarebbe superiore a quello che percepite ora del trenta per cento circa» replicò quest’ultimo, con finta noncuranza.
Eufemia spalancò gli occhi, sconvolta, osservando attonita gli sguardi della maggior parte dei comandanti farsi improvvisamente avidi e calcolatori, quasi rapaci.
«Trenta per cento... non male» mormorò l’uomo dalla voce untuosa, fregandosi inconsapevolmente le mani. «La vostra è un’offerta che vale certamente la pena di considerare».

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Ecco (anche se all'ultimo minuto... di nuovo!) il secondo capitolo del mese! Spero che vi piaccia...
 

  
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