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Autore: Niglia    24/10/2014    6 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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9
Persephone Escapes
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I signori Duncan erano rientrati a Pemberley Manor nella tarda mattinata del 26 ottobre, ormai certi di non correre più il pericolo di incontrare qualcuna delle anime in pena che attendevano quella particolare notte dell’anno per tornare ad essere visibili e cercare di terrorizzare gli abitanti mortali del castello. I due coniugi sapevano tuttavia che non era soltanto dei morti che avrebbero dovuto avere paura, quanto piuttosto dell’altro inquilino con cui condividevano il maniero, e che nel corso degli anni si era rivelato assai più pericoloso degli spiriti; ma per ora egli aveva il suo passatempo, e ciò avrebbe concesso loro un po’ di pace.
Ma a quale prezzo? Continuò ciò nondimeno a domandarsi Mrs. Duncan, il pensiero costantemente rivolto alla povera lady Moore. Non appena ebbe rimesso piede nel castello il primo istinto della donna fu quello di andare a controllare la stanza della giovane padrona – vuota e gelida, come aveva immaginato, con il letto sfatto e le braci fredde nel camino e le tende ancora chiuse – e poi salire in quella di Miss Radcliffe, dove l’istitutrice, ancora sotto l’effetto delle polveri che la signora Duncan aveva iniziato a somministrarle già nella settimana del loro arrivo, dormiva ignara il sonno dell’incoscienza.
Sembrava infine che il piano del padrone fosse perfettamente riuscito: ora rimaneva da vedere fin quando egli aveva intenzione di portare avanti la farsa.
Il giorno dopo, mentre Margareth Duncan e Lydia erano impegnate a spolverare di buona lena l’immenso ingresso del castello, dalle scale alle ringhiere, dai candelabri ai vasi e dalle statue alle finestre, quasi a voler scacciare con la pulizia infauste presenze – in tutto il piano terra risuonò il suono assordante ed elettrico del campanello, che per un attimo le lasciò stordite e confuse; la signora Duncan si era dimenticata quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta in cui l’aveva udito, mentre Lydia da parte sua era convinta di non averne mai avuto il piacere.
Posando dunque lo straccio e cercando di darsi una sistemata all’acconciatura scarmigliata e alla gonna impolverata, la governante attraversò rapida l’atrio e raggiunse il portone, togliendo i vari catenacci prima di spalancarne un’anta. Quando i suoi occhi si posarono sull’inattesa persona di Sir Arthur Carlisle, amico per così dire della sua giovane padrona, la donna dovette usare tutto il suo ferreo autocontrollo per non manifestare il disagio e l’irritazione che quella visita aveva risvegliato.
«Buongiorno, Sir Carlisle», lo salutò dunque con un breve inchino, riuscendo persino ad accennare un sorriso. «Chiedo scusa per le condizioni in cui mi trovate, ma stavamo riordinando; desiderate?»
Senza attendere che la donna lo facesse entrare, egli la scansò gentilmente e fece qualche passo all’interno della casa, levandosi il cappello e fermandosi quasi subito non appena vide di essere capitato in piene pulizie. Accennò un saluto a Lydia, che tornò rapidamente alle sue faccende, e poi si rivolse di nuovo a Mrs. Duncan. «Sono venuto a trovare lady Moore. È in casa, suppongo?»
Mrs. Duncan non batté ciglio. «Oh sì, signore, ma non può ricevere visite: sfortunatamente, milady è indisposta. Non è scesa neppure per colazione, e io e Lydia ci stiamo prendendo cura di lei. Solo un’infreddatura, normale in questa stagione… Forse è meglio che torniate un altro giorno.»
Sir Carlisle appariva ben poco convinto, ma non era in suo potere forzare la mano alla governante e imporsi alla padrona di casa senza essere desiderato. Diede un’occhiata intorno nel foyer deserto e annuì brevemente, pensieroso. «Desiderate che faccia venire qui il dottor Carew?»
«Oh no, no, io stessa l’ho proposto a milady ma ha detto che non era il caso di scomodarlo. Davvero, signore, nulla di cui preoccuparsi», insisté Mrs. Duncan. Poi, vedendo che il gentiluomo indugiava ancora e si guardava attorno con aria assorta, la donna continuò. «C’è qualcosa che volete che riferisca a milady?»
Egli si riscosse dai suoi pensieri e tornò a dedicare l’attenzione alla governante, annuendo appena. «Mh, sì. Potete dire a lady Moore che ero venuto a invitarla a pranzo ad Ashfield, giacché mia moglie desidera fare la sua conoscenza; ma che considerate le sue condizioni di salute, forse dovremmo fare un altro giorno. Sì, potete riferirle questo, e ditele anche che le auguro una rapida guarigione.»
«Molto bene, signore, glielo dirò», garantì Mrs. Duncan. «Sono sicura che milady apprezzerà l’invito.»
«Sì… sì. Molto bene. Credo sia ora di andare, ho già disturbato a lungo il vostro lavoro», disse infine con un breve sospiro. «Grazie per la vostra pazienza. Buongiorno.»
Indossò nuovamente il cappello e ne sfiorò il bordo in segno di saluto, dopodiché lasciò le due domestiche alle loro faccende. C’era ancora qualcosa che non gli tornava, in realtà, ma che cosa avrebbe potuto fare? Insistere di vedere lady Emma sulla base di un discutibile istinto e contagiato dalle sciocche superstizioni che si sussurravano al villaggio?
Si era allontanato solo di pochi passi quando, obbedendo a uno strano impulso che non seppe spiegarsi, si fermò all’improvviso e si voltò verso il castello, studiandone la facciata con aria assorta. Per un po’ non trovò nulla di strano – solo la stanca pesantezza di un edificio sul quale gravavano secoli di storia, così antico che avrebbe di sicuro visto l’ascesa e la caduta di numerose altre generazioni, circondato da un cupo cielo grigio di ottobre denso di umidità e da un’aria di inevitabile mistero. Onestamente, non era difficile comprendere come mai fosse al centro di così tante storie del macabro e dell’occulto – ma, per sua natura, Arthur Carlisle si vantava d’essere un uomo dall’animo scettico.
Eppure sussultò quando, in una delle finestre più alte, forse quarto o quinto piano, il suo sguardo notò qualcosa. Un’ombra, la vaga sagoma di una figura umana – da quella distanza non avrebbe potuto essere più chiaro – e poi il rapido spostamento di una tenda che veniva richiusa bruscamente. Nulla di così allarmante, in fondo, poteva trattarsi di uno dei domestici… Ma ciò non spiegava il motivo della maschera bianca.
Guidato da un brutto presentimento, e cercando di ignorare l’improvviso brivido che gli aveva percorso la schiena, sir Arthur diede di nuovo le spalle a Pemberley Manor e raggiunse frettolosamente la sua automobile. Un’idea si era fatta largo nella sua mente, e aveva ogni intenzione di realizzarla.



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Al suo risveglio Emma trovò una calda colazione ad aspettarla, posata sul comodino accanto al letto. Alcune candele erano state accese, in modo che potesse probabilmente trovare conforto nella luce, e su una poltrona era stato adagiato un abito da giorno: chiunque lo avesse preparato, e ormai ne aveva una chiara idea, doveva aver frugato nel suo armadio, giacché lo riconosceva per essere uno dei suoi. Non lo aveva ancora indossato da quando si trovava a Pemberley – non era nero, tanto per cominciare, e lei era moralmente obbligata a portare il lutto intero per almeno altri quattro mesi – il che le fece supporre che il suo ospite, o carceriere che dir si volesse, desiderasse vederglielo indosso.
Per quanto l’idea di indispettirlo e ignorare l’abito la tentasse, non avrebbe potuto fare diversamente: a meno che non volesse continuare ad indossare la camicia da notte per i seguenti sette giorni, dato che non le era possibile raggiungere la sua camera e i suoi averi, avrebbe dovuto limitarsi a sopportare i voleri di quel miserabile. Si alzò dal letto estraneo – pensare di aver dormito nel giaciglio di un uomo era terribilmente imbarazzante, e non aveva intenzione di sprecarci un altro pensiero – e si avvicinò al tavolino: il profumo del tè aveva risvegliato la fame che le serrava lo stomaco, e rammentò di essere digiuna probabilmente da più di un giorno.
Ma la fame passò nuovamente in secondo piano quando vide che sul vassoio, posato contro la teiera, c’era una lettera con il suo nome sopra. Incuriosita più dalla natura del contenuto che non dal mittente – giacché non aveva dubbi che si trattasse dell’uomo mascherato – prese il foglio e lo dispiegò, avvicinandolo alla fiamma della candela per distinguere meglio ciò che vi era scritto. Una prima occhiata alla calligrafia le bastò per svelare il mistero del biglietto che aveva trovato nella sua stanza, qualche settimana prima, e che aveva avuto la malaugurata idea di bruciare: dunque era stato sempre lui ad averle lasciato quella frase di Barbablù come monito – quella scrittura spigolosa e sottile, da bambino, leggermente inclinata verso destra da una mano molto probabilmente mancina, e l’eccentrico inchiostro rosso erano inequivocabili.
Milady, iniziava la lettera.

Mi auguro che abbiate dormito meglio della notte scorsa. Mi rendo conto che avete dovuto fare i conti con una realtà ben strana in così poche ore, e che questo può aver inciso sulla nostra conoscenza e reso il nostro primo incontro poco gradevole; per questo motivo vi invito a prepararvi non appena leggerete questa nota – vi informo che avete dormito tutto il giorno, e che non ho osato svegliarvi poiché avevate sicuramente bisogno di riposare.
Ah: accanto al letto, dietro una tenda, troverete la sala da bagno. Mi sono assicurato che ci sia tutto ciò di cui potete aver bisogno, per cui mettetevi pure a vostro agio.
Per cena sarete mia ospite: verrò a prendervi un’ora e mezzo dopo il vostro risveglio.
Il vostro amico,
Adam

«Sono finita nelle mani di un pazzo», sussurrò Emma scioccata, rimettendo a posto la nota sul vassoio. Ora, la fame le era passata del tutto: fissò con improvviso sospetto la teiera – e se avesse cercato di avvelenarla, o drogarla, per poterla avere completamente alla sua mercé? Dubitava che nelle intenzioni di quel folle ci fosse quella di ucciderla, dato che in tal caso non si sarebbe preso la briga di prepararle delle banalità come cibo e vestiti e l’occorrente per la toilette, ma il solo pensiero di ciò che avrebbe potuto farle approfittando della sua incapacità di ribellarsi la faceva inorridire. Che cosa poteva fare?
Doveva prendere una decisione al più presto, decidere in che modo sarebbe stato meglio affrontare l’uomo – Adam, diceva di chiamarsi, e avrebbe fatto meglio a prendere l’abitudine di rivolgersi a lui in quel modo, giacché avvolgerlo nelle tenebre di un’identità ancora più misteriosa non avrebbe fatto che accrescere il baratro di disequilibrio che già si era formato tra loro – insomma, decidere con quale approccio porsi. Come se non bastasse, poi, l’idea della cena la metteva in agitazione; sedere allo stesso tavolo con la stessa persona che aveva cercato di aggredire, e che l’aveva minacciata, e di cui non conosceva le intenzioni… Nulla di tutto ciò che aveva letto o studiato era servito a prepararla a un’eventualità del genere! Ma no, doveva restare calma: accalorarsi non sarebbe servito, anzi, aveva bisogno di tutta la freddezza di cui disponeva per poter rimanere lucida e studiare un modo per scampare alle sue grinfie e andare a cercare aiuto da qualche parte. Per cui, l’unica soluzione era assecondarlo: avrebbe ascoltato ciò che aveva da dirle, gli avrebbe fatto compagnia – che cosa ridicola, santo cielo! – dopodiché, quando egli avrebbe ormai pensato di averla completamente in suo potere… lei sarebbe fuggita!
Infiammata da quella nuova risolutezza, Emma prese una candela e si diresse verso la stanza da bagno.


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Esattamente un’ora e trenta minuti dopo il suo risveglio, Emma udì tre colpi secchi alla porta della camera – dubitava che fosse una richiesta per entrare, quanto piuttosto un modo per evitare di piombare dentro con il rischio di trovarla ancora mezzo svestita. O perlomeno questo sarebbe stato ciò che avrebbe fatto un comune gentiluomo. Mormorò un “Avanti” senza molta convinzione, e subito udì lo scatto della serratura che veniva aperta con gesti che parevano impazienti.
Egli entrò senza attendere oltre, fermandosi sull’uscio e reggendo davanti al viso un candelabro a tre braccia; a quella vista Emma si alzò nervosamente dal bordo del letto, lisciandosi le pieghe del vestito in un gesto che mal celava la sua angoscia, e osservando con la coda dell’occhio le ombre proiettate dalle fiamme delle candele sulla porcellana bianca della maschera, rendendola grottesca e raccapricciante. Sforzandosi di distogliere da essa la sua attenzione, prese un profondo sospiro; non avendo specchi non avrebbe saputo giudicare il proprio aspetto – vestirsi senza l’ausilio di una cameriera era un’operazione oltremodo scomoda e difficile, per non parlare dell’acconciarsi i capelli – ma malgrado ciò accennò un elegante inchino e raddrizzò la schiena, con l’aria di chi si prepara per la battaglia. Voleva apparire al meglio, quasi che con la sua raffinata disinvoltura avesse potuto intimidire il suo carceriere.
Se anche lui trovò sospetto quell’improvviso cambio di comportamento, così mansueto, non lo diede a vedere – non che si sarebbe potuto comprendere qualcosa, dalle espressioni assenti della sua maschera. Il solo guardarla la innervosiva, ed era ormai convinta che quell’oggetto immobile fosse assai più spaventoso e inquietante di qualsiasi orrendo segreto l’uomo stava cercando di nascondere. Decise comunque di non coinvolgere quella maschera nella conversazione, poiché aveva capito che si trattava di un argomento che lui – Adam – non trovava particolarmente di suo gradimento; e visto che Emma era giunta alla conclusione di cercare di non indispettirlo più del necessario, non ne fece menzione né cercò ancora di togliergliela.
Rimasero ad osservarsi in silenzio per un tempo più lungo di quanto raccomandasse l’educazione, forse cercando entrambi qualcosa da dire che rompesse il ghiaccio. Ma Emma aveva la lingua pietrificata – non avrebbe saputo dire alcunché neanche se da ciò fosse dipesa la sua vita – per cui fu lui a parlare per primo, e la sua voce risuonò chiara e tonante benché, in fondo, si fosse limitato a mormorare. «Se volete seguirmi, milady…»
Emma deglutì e lo raggiunse in pochi passi, nascondendo le mani tra le pieghe del vestito: si era accorta di star tremando, e non voleva che lui se ne accorgesse. Coraggio, sciocca, si riprese mentalmente, ignorando i battiti feroci del proprio cuore. Fingiti sicura di sé e padrona della situazione come hai sempre fatto. Non sarà poi troppo diverso dall’assistere a un ballo mondano, giusto? Perlomeno qui devi fare i conti con gli occhi avidi e indagatori di una sola persona.
Lasciò che l’uomo le facesse strada, seguendolo silenziosamente attraverso gli scuri corridoi dell’ala Ovest. Benché fosse già stata in quella parte del castello, Emma non poté fare a meno di considerare che, adesso, ogni cosa le appariva aliena, differente, come se la presenza del suo accompagnatore fosse capace di influire e modificare l’ambiente che lo circondava – rendendolo macabro e terrificante. Sollevò lo sguardo sulle volte e venne ricambiata dalle espressioni maligne e spaventose di gargoyle e mostri medievali, scolpiti probabilmente per scacciare oscure presenze dal castello: bocche spalancate e piene di zanne, volti mostruosi, bestiali, bulbi privi di iridi, ciechi e che tuttavia parevano seguirla nel suo cammino. Abbassò rapidamente gli occhi, ma ormai quelle figure erano impresse a fuoco nella sua memoria: di sicuro le avrebbe sognate. Dovette contraddirsi – non aveva mai messo piede in quegli anfratti, se ne sarebbe di certo ricordata.
L’ala Ovest doveva essere molto più vasta di quanto avesse immaginato.
Stava seguendo come una falena la flebile ma anelata luce del candelabro ch’egli teneva in mano, a scandagliare l’oscurità e aprir loro un varco nel buio; qualcosa, tuttavia, le diceva che Adam doveva essere ben capace di vedere attraverso di esso, e che quelle candele esistevano solamente a uso e consumo della sua ospite. Cercò suo malgrado di rimanere al passo con lui, perché l’idea di perdersi in quelle gallerie, di rimanere sola, era intollerabile – e persino la presenza minacciosa del suo carceriere era preferibile alla solitudine.
Il silenzio era una presenza ingombrante, rotto solo dal rumore dei loro passi, ma Emma non pareva intenzionata a spezzarlo: temeva di dire qualcosa che avrebbe potuto insultarlo o offenderlo – il suo umore era troppo volubile, e poiché egli aveva il coltello dalla parte del manico non voleva rischiare di risvegliare la sua ira come quel mattino – e ad ogni modo che genere di civile conversazione avrebbe potuto tenere con l’uomo che l’aveva rapita? Lasciandosi sfuggire un sospiro rassegnato cercò di accelerare il passo, dato che lui l’aveva inconsciamente distanziata di diversi metri e pareva proseguire a sua volta immerso in chissà quali pensieri, arrivando a dimenticarsi della sua presenza.
Forse, pensò Emma con vago trasporto, avrebbe potuto approfittare della sua distrazione per fare dietro front e provare a fuggire… se avesse corso come se avesse avuto il diavolo alle calcagna, cosa poi non tanto lontana dalla verità, forse avrebbe potuto raggiungere l’ala Est, e da lì a uscire da Pemberley sarebbero bastati pochi passi… Ma avrebbe dovuto fare i conti col buio, e con l’abito che le avrebbe rallentato i movimenti, e con il fatto che fintantoché si fosse trovata entro le mura del maniero sarebbe stata inequivocabilmente prigioniera del suo proprietario. Inoltre, anche ponendo il caso che fosse riuscita a uscire dal castello, dove contava di andare in piena notte, a piedi e da sola, nel bel mezzo della brughiera?
Il solo pensiero bastava a gettarla nello sconforto, e sospirò ancora.
 «Siamo quasi arrivati», disse a quel punto la voce profonda dell’uomo, probabilmente rispondendo al suo sospiro e fraintendendolo. Emma non rispose, e allora fu lui a sospirare; non aggiunse altro, limitandosi a voltarsi leggermente per accertarsi che lei lo stesse ancora seguendo, dopodiché proseguì.
Ciò le provocò un brevissimo ma mesto sorriso: non aveva per nulla intenzione di rendergli le cose facili, e se lui credeva che si sarebbe arresa senza neanche una parola di ribellione, ebbene, era chiaro che ancora non la conosceva.
Comunque Adam aveva ragione: non mancava molto. Alla fine di quell’ennesimo corridoio egli si fermò davanti a una porta non diversa da tante altre che avevano superato; spostò il candelabro dalla mano sinistra a quella destra e usò la prima per abbassare la maniglia – dunque aveva intuito bene, era mancino – per poi spostarsi di lato e voltarsi verso di lei. Le fece cenno di entrare per prima con quello che avrebbe voluto essere un gesto galante, ma che lei vide solo come il cenno del carceriere che intima al suo prigioniero di precederlo per evitare strani scherzi; e quando ebbe superato la soglia non poté fare a meno di sussultare nell’udire il tonfo minaccioso della porta che si richiudeva alle sue spalle. Cercando di non pensare al suo essere bloccata in una stanza insieme a un uomo di cui non conosceva neppure le sembianze, Emma si guardò intorno studiando il nuovo ambiente.
L’architettura di quella che era una sala da pranzo si differenziava parecchio dal resto del maniero che aveva già avuto modo di vedere. Essa era un piccolo gioiello di puro stile Tudor, con arazzi che ricoprivano le pareti e complessi intarsi di rampicanti sui pannelli di mogano che rivestivano queste ultime, per poi convergere nel punto focale della stanza incarnato dall’immenso camino in pietra: le fiamme vivide e danzanti del fuoco illuminavano la stanza creando ombre che si allungavano come spettri su ogni superficie, dando vita a una strana atmosfera a metà tra il sogno e l’incubo.
Eppure, la prima cosa che Emma notò non appena vi ebbe messo piede fu che il tavolo era stato imbandito lautamente per una sola persona. Era un tavolo piccolo e intimo, se paragonato a quello della sala da pranzo padronale dove aveva consumato i pasti da quando si trovava a Pemberley, ed era talmente ricolmo di cibo che avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca persino all’uomo più sazio della terra: piatti pieni di frutta fresca e frutta secca si alternavano in un’altalena di forme e colori, teiere di salse e vassoi con patate bollite facevano a gara a occupare più spazio, rametti di fiori odorosi colmavano i vuoti e le fiamme dei due candelabri posti a centrotavola illuminavano le stoviglie d’argento facendole brillare come preziosi tesori. Tuttavia Emma aveva lo stomaco strettamente annodato, e dubitava che sarebbe riuscita a mangiare qualcosa anche malgrado il suo digiuno.
L’uomo la condusse verso il suo posto, scostandole la sedia davanti all’unico punto apparecchiato, e attese pazientemente ch’ella vi prendesse posto; dopodiché, con gesti fluidi ed eleganti, iniziò a servirla. Sotto lo sguardo perplesso e confuso della giovane, egli le versò il vino e le avvicinò un vassoio da cui si elevava un delizioso profumo – roast beef con patate dolci e brandy, un piatto che peraltro aveva già avuto modo di assaggiare grazie a Mrs. Duncan. Si mosse più per istinto che per bisogno, versandosi una piccola porzione di roast beef, e rimase poi ad osservare mentre il suo anfitrione si spostava per andare a sedersi a sua volta all’altro lato del tavolo, incrociando le mani sulla superficie lucida del legno.
Attese per un po’, incerta, prima di parlare. «Voi… Non mangiate?» Domandò, senza osare toccare il suo cibo. Malgrado tutto, le pareva una mancanza di educazione mangiare davanti a qualcuno che pareva ostinato nel suo digiuno – senza contare l’imbarazzo del venire osservata durante l’operazione.
Eppure egli sembrava tutto fuorché a disagio. «No», fu la sua risposta pronunciata in maniera quasi ironica. «Sarebbe difficile, considerando che non ho intenzione di togliere la maschera.»
Ah! – faceva persino del sarcasmo. Accarezzando con gli occhi tutto quel ben di Dio, un’altra questione di non scarsa importanza fece capolino tra i suoi pensieri. «Avete preparato voi tutto questo?»
Gli sfuggì un breve riso soffocato. «Sono abile in molte cose, milady, ma la cucina non rientra in una di esse.»
C’era qualcosa, nel tono della sua voce, nel modo che aveva di comporre le frasi, che lasciava intuire come la maggior parte di ciò che diceva avesse un qualche significato recondito, e con fini di dubbia moralità. Forse era solo la sua immaginazione a parlare, forse aveva letto davvero troppi libri come spesso le avevano rimproverato bonariamente sia Caledon che suo padre, ma l’idea non l’abbandonava. E, ancora, non osava prendere in mano le posate e mangiare.
Egli parve notare la sua ritrosia, ma se ne rimase offeso fu abbastanza gentile da non darlo a vedere. «Potete mangiare tranquillamente», disse soltanto, a bassa voce. «Non ho intenzione di avvelenarvi durante la cena.»
Più per una questione di principio – quale, non avrebbe saputo dirlo – che per timore di offenderlo ancora Emma prese in mano forchetta e coltello e iniziò a tagliare la carne invitante che l’attendeva paziente sul piatto; voleva fargli capire che non aveva paura di lui, o perlomeno voleva farglielo credere, e accettare il suo cibo era un modo come un altro per sostenere la sua posizione. Sempre in silenzio assaggiò il roast beef e le patate, sorseggiò il vino e provò il pudding, ma era più un piluccare nervoso che una vera e propria degustazione della cena.
Sentiva i suoi occhi addosso mentre masticava lentamente, gli occhi chini su un punto indefinito davanti a sé e le spalle rigide, all’erta, quasi che temesse di venire aggredita da un momento all’altro in quell’attimo di vulnerabilità. C’era qualcosa di terribilmente intimo nel mangiare davanti a qualcuno; e la faccenda della maschera rendeva il tutto ancora più indecente, poiché aveva l’impressione di essere spiata di nascosto in una situazione che sarebbe dovuta essere privata. Non sapeva neanche lei come descrivere quella sensazione senza apparire ridicola: sapeva solo che la faceva sentire a disagio.
Si sentiva come Persefone, costretta a nutrirsi dalla mano del temibile Ade e condannandosi così a non poter più lasciare l’Oltretomba.
All’improvviso, Emma decise che il silenzio era durato abbastanza. «Ho una domanda», esordì con cautela, posando coltello e forchetta a lato del piatto. Aveva a malapena toccato il suo cibo, ma per quanto esso fosse delizioso e il suo corpo lo bramasse, la nausea e l’ansia che provava le impedivano di mandar giù altro.
«Immagino che ne abbiate molte. Vi prego», la invitò, facendole cenno con una mano guantata di parlare liberamente.
Oh sì, ne aveva parecchie. Avrebbe voluto chiedergli di miss Radcliffe, di Aramis, persino dei domestici – che fine avevano fatto i signori Duncan? Possibile che non si fossero accorti della sua assenza, o che non ne fossero interessati? Ma, prima di tutto, era più curiosa di sapere a cosa diavolo avesse assistito la notte prima, quando lo shock l’aveva fatta svenire come non le era mai capitato.
Così, con un sospiro, la giovane si apprestò a dare voce a quel pensiero che non le dava pace. «Ieri notte… non so bene a cosa ho assistito, ma… Sono sicura… C’era un incendio, nella biblioteca? E quelle persone, santo cielo, chi erano? Come sono entrate qui?»
Adam la osservò a lungo prima di parlare, probabilmente riflettendo su quanto fosse opportuno rivelarle; lo vide giocherellare con i gusci di alcune noccioline, schiacciandoli tra le dita fino a non lasciare che briciole e polvere, finché con un sospiro non riportò lo sguardo su di lei.
«Ci sono cose che, milady, se ve le raccontassi, non vi farebbero dormire la notte», esordì a mezza voce, con fare pacato. «E non voglio che gettino ombra su una cena piacevole. Vi basti sapere che ciò che è accaduto la notte scorsa non si ripeterà, e che finché sarete sotto la mia protezione non avrete nulla da temere.»
«Non crederete che questo possa risolvere la faccenda», ribatté lei, sconcertata. «Sono stata aggredita in casa mia, ho visto delle persone – persone ricoperte di sangue, per l’amor di Dio – aggirarvisi liberamente e proferendo minacce, e voi mi dite che non ho nulla da temere? Per chi mi avete presa, signore, per una sciocca? Ho forse l’aria di esserlo?»
Emma non vide l’improvviso irrigidimento che aveva avviluppato l’uomo, ma non le sfuggì la sfumatura gelida della sua risposta. «Sapete che non è mia intenzione offendervi. Non ho a cuore che il vostro benessere, e se vi dico che fareste meglio a dimenticare ciò a cui avete assistito non è per prendermi gioco di voi, ma per evitarvi di venire a patti con qualcosa che non potreste capire.»
«Come fate a dirlo? Mettetemi alla prova, parlatemene! O finirò con il credere di essere diventata pazza, e di aver avuto delle visioni che mi perseguiteranno finché avrò vita», insisté lei, piegandosi istintivamente verso di lui come se avesse potuto raggiungerlo e istigarlo a rivelare i suoi enigmi. Non mentiva quando parlava di pazzia, poiché quella era al momento l’unica spiegazione plausibile che riusciva a darsi; in che altro modo interpretare quelle figure oscene, uscite da chissà quale incubo, mutilate e grondanti sangue e bruciate vive che vagavano indisturbate nei corridoi di Pemberley?
«Non vi siete ancora guadagnata il diritto di pretendere simili risposte da parte mia, milady», le rispose a quel punto, con un tono talmente velenoso da farla ritrarre d’istinto verso lo schienale della sedia. Un brivido la percorse, e le rammentò di quando le aveva fatto rimpiangere l’idea di aggredirlo – poteva quasi sentire ancora il fantasma delle sue dita intorno alla gola. «Sono ancora io il padrone, e mio è il privilegio di decidere di quali segreti mettervi a parte. Siete ancora scossa per tutto ciò che è accaduto, ne sono consapevole, e non vi biasimerò per questa vostra scarsa delicatezza; ma vi chiedo di non farmi altre domande al riguardo, perché non potrei sopportarlo.»
«Voi non potreste sopportarlo? Mi state chiedendo di accettare e basta un qualcosa che non comprendo e che mi terrorizza», gli rispose piano e con altrettanta freddezza, squadrando la sua maschera bianca.
«Sì», ammise lui senza fronzoli. «E vi chiedo perdono. Ma non c’è nulla che io vi possa dire, al momento; eppure sappiate che, se avrò ragione a potermi fidare del vostro giudizio, prima o poi ve ne parlerò di mia spontanea volontà... poiché sapervi spaventata o addolorata per qualcosa di cui sono involontariamente la causa mi riempie d’angoscia.»
Emma avrebbe voluto urlare dalla frustrazione. Credeva davvero che sarebbe bastato un po’ di carisma e fascino per ammansirla, per convincerla a dimenticare? Se c’era qualcosa che mal tollerava era venir trattata con quel genere di condiscendenza, come una bambina che non può comprendere i discorsi degli adulti e viene pertanto lasciata nell’ignoranza più assoluta. Era faticosamente riuscita a far perdere quel vizio a suo padre – che aveva iniziato a trattarla da pari solo durante la malattia della contessa di Grantham, quando Emma si era dimostrata più che capace di gestire situazioni drammatiche – mentre con Caledon la strada da percorrere era ancora piuttosto lunga, benché egli probabilmente si vantasse di avere un buon rapporto di uguaglianza con lei; e se non riusciva a sopportare quel comportamento da parte del fidanzato, figurarsi se poteva subirlo dall’uomo che la teneva rinchiusa e le imponeva la propria presenza!
Probabilmente il silenzio si era protratto troppo a lungo, perché fu di nuovo la voce dell’uomo a spezzarlo. «Ebbene, milady, non rispondete?»
Emma scosse piano la testa, senza guardarlo. «Come io non posso costringervi a dirmi qualcosa se voi non volete farlo, allora voi non potete impedirmi di essere infastidita e arrabbiata», ribatté sottovoce, certa comunque che lui l’avrebbe udita.
«Siete arrabbiata con me?» L’incredulità nel suo tono non celava alcuno scherno: sembrava sinceramente sorpreso e desideroso di comprendere. «Perché?»
«Perché?» Gli fece inconsciamente il verso. Poi, incapace di trattenersi oltre, esplose. «Ho trascorso un’intera giornata rinchiusa in una stanza che non mi appartiene, a domandarmi quale sarebbe stata la mia sorte, a chiedermi che cosa ne è stato della mia istitutrice, dei domestici, del mio cucciolo, e a ripercorrere minuto per minuto ciò che ho visto la notte scorsa, sperando… sperando di poter contare su di voi per avere qualche risposta sensata… E invece tutto ciò che siete riuscito a dire non ha fatto che confondermi ulteriormente e aggiungere domande su domande! E come se non bastasse, signore, il fatto che vi ostiniate a indossare quella maschera non contribuisce ad alleviare il mio disagio!»
Stupida ragazzina ingrata.
Adam sussultò, mentre parole estranee rimbombavano nella sua testa. Non si aspettava di udirle così all’improvviso e in una situazione di cui era sicuro di avere l’assoluto controllo; prima di farsi prendere dal panico distolse lo sguardo da Emma e serrò gli occhi, cercando di riprendere il dominio del proprio corpo con dei profondi respiri. Intanto, però, la voce continuava, sempre più minacciosa e aggressiva, e a nulla servivano le suppliche silenziose dell’uomo.
Non permetterle di parlare in questo modo! Lei non sa niente, niente!
(Taci, taci, oh buon Dio, taci, non osare dirmi cosa devo o non devo fare…)
Guardati, sciocco, guarda come ti stai facendo trattare! Le hai aperto la tua casa, le hai offerto protezione, e guarda come ti ripaga!
(Smettila… vattene!)
All’improvviso la voce si fece più morbida, suadente, parve accarezzarlo dall’interno del cranio e sfregarsi contro di esso come un gatto selvaggio che finge di fare le fusa prima di attaccare e mordere la mano del padrone.
Lascia che venga io, Adam. Lasciami solo con lei… le farò capire con chi ha a che fare! E tu avrai la coscienza pulita, come al solito, perché tu sai quanto io tenga a te e alla tua nobile morale…
(No, maledizione, è mia ospite! Mia! Hai già avuto la tua occasione, oggi, e l’hai sprecata!)
Ha cercato di ucciderci!
(Ah! Puoi biasimarla?)
Maledizione a te, ruggì stavolta la voce, con rinnovata ferocia. Non discutere! Se non sei capace di farti rispettare, lascia che lo faccia io!
(Ho detto no! Tornatene nella tua tana e lasciami in pace!)
Grazie ad anni di esercizio e a un’invidiabile forza di volontà, Adam riuscì a racimolare abbastanza energia per mettere a tacere quel mostro che lo divorava come un cancro, e che albergava nel suo corpo alla stregua di un demone che godeva nel vederlo agonizzare. Ansimò quando udì l’urlo di risentimento dell’altro, gemito che misericordiosamente venne celato dalla maschera; ma il dolore che seguì la momentanea sparizione fu tale che d’istinto si artigliò il petto attraverso i vestiti, come se così facendo avesse potuto arginare una ferita interna ancora sanguinante. Doveva essere veramente arrabbiato, rifletté confusamente.
«Mi… mi dispiace, che la pensiate così», riuscì a dire alla fine con notevole sforzo, rispondendo in ritardo al comprensibile sfogo della ragazza.
Quanto a lei, Emma aveva assistito in silenzio a quello scambio senza poter neanche lontanamente immaginare che cosa stesse accadendo in realtà; tutto ciò che poté vedere fu l’uomo tremare come se stesse trattenendo un’ira tanto grande e mortale da roderlo dall’interno, e per un attimo – breve e vergognoso – fu divisa tra terrore e preoccupazione. Ma per quale motivo avrebbe dovuto preoccuparsi? Per quello che poteva saperne lei, poteva trattarsi solo di un trucco – un trucco per impietosirla e renderla più bendisposta nei suoi confronti, nei confronti del povero sfortunato Adam che lottava con se stesso e non chiedeva che un po’ di comprensione.
Invece di rispondere e continuare quello che sarebbe di certo sfociato in un ulteriore alterco, la giovane preferì passare ad altri discorsi. «I vostri occhi sono azzurri», riprese dopo una piccola pausa, in maniera quasi accusatoria.
Non potendo vedere le sue espressioni, Emma poté solo immaginarlo mentre aggrottava la fronte. «Mi complimento per il vostro spirito di osservazione», mormorò, perplesso dal rapido cambio d’argomento.
«Ero convinta che fossero neri. Mi sono sembrati neri, questa mattina», insisté lei, ormai non più intimidita dal suo tono gelido e seccato. Era come se, adesso che aveva mangiato alla sua tavola, si sentisse all’improvviso al sicuro – merito forse dell’usanza antica di secoli secondo cui un ospite che era stato accudito e nutrito sotto il tetto del suo padrone di casa poteva considerarsi sacro.
«Al buio vi saranno parsi scuri. Venite», disse poi, liquidando bruscamente l’argomento e portandosi dietro la sua sedia con l’intento galante di scostargliela. «Vogliamo spostarci in salotto?»
Sembrava a sua volta deciso a non discutere con lei, e poiché Emma non aveva ancora idea di che cosa aspettarsi da lui né di come sarebbe stato meglio relazionarcisi, non poté che accettare il piccolo ramo d’ulivo.
Una porticina, quasi nascosta tra i pannelli di legno, collegava a mo’ di passaggio segreto la sala da pranzo a un salottino più piccolo: esso era dotato a sua volta di un camino acceso, due poltrone, un tavolino quadrato con una scacchiera le cui pedine erano pronte alla battaglia, un mobiletto porta liquori, altri arazzi e vari candelabri in ottone.
«Fate attenzione ai gradini», l’avvisò con solerzia la sua voce, proveniente da qualche punto dinnanzi a lei. Presto la penombra del nuovo ambiente si dissipò, man mano che Adam accendeva le candele, ed Emma poté vedere meglio ciò di cui aveva solo indovinato le ombre. Ora notò un altro tavolo, ricoperto da un consumato panno rossiccio, su cui erano ordinatamente posati un mazzo di carte, un servizio da tè in argento e una scatola in legno che di sicuro conteneva sigari.
«Desiderate del caffè?» Le domandò, accennando alla teiera – ora lo notava – fumante.
Sembrava che conoscesse ogni suo gusto, notò. «Sì, grazie.» Lo osservò di sbieco mentre versava la bevanda bollente in due tazzine, per poi lasciar cadere con sicurezza una zolletta di zucchero in quello che le porse. Sì, decise aggrottando leggermente la fronte, decisamente conosceva i suoi gusti. Dunque aveva trascorso davvero le scorse settimane a spiarla, e trovò assurdo riconoscere di non essersi mai accorta di nulla.
Terminò di bere il caffè e si sentì d’un tratto più rinvigorita, più lucida: il calore e il gusto leggermente amaro presero a scorrerle nelle vene rinforzando la sua determinazione. Senza aspettare un’altra parola dal suo misterioso compagno si avvicinò a una delle poltrone, e vide sulla seduta il piccolo tomo grigio che pareva non attendere che lei. Emma prese con gentilezza tra le mani il volume dalla copertina lisa e leggermente sbiadita, come di un libro stanco di essere letto, e lasciò scorrere gli occhi su titolo e autore con un sopracciglio inarcato: L’isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson.
«Uno dei miei primi libri», le spiegò a mezza voce Adam con un tono che pareva quasi affettuoso, prendendo posto accanto a una delle poltrone in attesa che lei si sedesse per prima. «Vi dispiacerebbe leggerlo?»
Lei lo guardò, perplessa. «Dovrei… leggere ad alta voce?»
«Se non vi aggrada, milady, l’alternativa è di conversare con me.» Il suo tono nascondeva un che di beffardo, ed Emma riuscì a cogliere l’accenno di sfida in esso: peccato che non avesse voglia di raccoglierla.
«Molto bene», ribatté, piuttosto seccamente. Non aveva intenzione di chiacchierare del più e del meno con quell’uomo come se fosse stata la cosa più normale del mondo, fintanto che lo poteva evitare; inoltre, come aveva già dimostrato la cena, conversare con lui si era rivelata una cattiva idea. Voleva evitare di dire qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire il giorno seguente, se possibile. «Stevenson, dunque?»
Egli non rispose, limitandosi a un cenno affermativo del capo, ed Emma prese posto sulla poltrona posta di fronte alla sua aprendo il libro direttamente al primo capitolo. Non aveva idea che il suo ospite nutrisse simili gusti in fatto di lettura – chissà perché si era fatta l’idea che gradisse di più saggi o testi filosofici e fisici piuttosto che romanzi da tempo libero – e per un attimo tale scoperta glielo rese assai più umano e rassicurante di come lo avesse considerato fino a quel momento. Quanto poteva essere cattivo un uomo che apprezzava romanzi su bucanieri e tesori nascosti e ragazzini spauriti? Sollevò gli occhi brevemente per accertarsi ch’egli avesse a sua volta preso posto; e a quel punto, poiché aveva infine scelto di rispettare la sua decisione di assecondarlo, iniziò a leggere.
«“Il signor Trelawney, il dottor Livesey e gli altri gentiluomini mi hanno chiesto di mettere per iscritto tutti i dettagli riguardanti l'Isola del Tesoro, dal primo all'ultimo, senza omettere nulla salvo la posizione dell'isola, e questo solo perché una parte del tesoro non è stata ancora portata alla luce…”»
Per tutta la durata della lettura, Emma sentì i suoi occhi addosso come se fossero state mani pressanti che sfioravano ogni centimetro del suo corpo. Si trovava in una situazione insolita con un personaggio ancor più singolare, e inizialmente non poté evitare alla propria voce di tremare e inciampare in qualche parola; era da parecchio che non leggeva per qualcuno – le ultime volte l’aveva fatto per sua madre, quando la donna era troppo stanca e provata dalla malattia per poter far altro che non fosse dormire e mormorare parole di tanto in tanto – e dunque aveva perso l’abitudine. Ma presto, merito della trama interessante del volume e della calma che si era impadronita gradualmente di lei, la sua lingua prese a scivolare abile su frasi e paragrafi e capitoli senza balbettare. In fondo, pensò, se questo era tutto ciò che egli voleva da lei non era poi così male.
Lei certo non poteva saperlo, assorta com’era nel libro, ma Adam l’ascoltava rapito come se avesse potuto abbeverarsi di ogni suono che le usciva dalle labbra, e non staccava gli occhi da lei per il semplice motivo che, in quel momento, la ragazza gli appariva così bella che sembrava intagliata in una perla; la luce del camino creava una strana aureola dorata intorno ai suoi morbidi capelli d’un castano scuro, e il calore delle fiamme le aveva arrossato le gote e la piccola porzione di pelle tra gola e clavicole lasciata nuda dall’abito che aveva scelto per lei. Teneva il libro leggermente sollevato e la schiena appena curva su di esso, come se avesse voluto entrare nella storia stessa: Adam comprendeva quella brama, e fu deliziato nel ritrovarla in lei. L’aveva osservata spesso nelle settimane passate, mentre leggeva nella biblioteca del maniero, ma sempre da lontano, sempre da qualche nascondiglio, timoroso di fare il più piccolo rumore e disturbarla. E adesso invece le era così vicino che se avesse allungato una mano sarebbe riuscito a sfiorarla… non che avrebbe osato farlo, ma comunque… Il solo pensiero di esserne capace era quasi sufficiente. A un certo punto le parole del capitolo iniziarono a diventare confuse ed egli perse ogni interesse per il contenuto di quel libro che conosceva a memoria, catturato dalla melodia della voce di Emma e talmente concentrato da aver inconsciamente regolato il proprio respiro al suo.
E per un attimo si immaginò mentre immergeva le dita tra quei capelli per saggiarne la morbida sericità, sfilando le forcine una per una e lasciandole cadere per terra, in modo che la sua chioma si liberasse in lunghe onde castane fino a ricoprirle spalle e schiena come un prezioso mantello; e poi massaggiarle con le punte dei polpastrelli il cuoio delicato della nuca per poi scivolare lentamente e delicatamente verso il collo – ricordava la sensazione di averlo sotto le mani, solo che ora immaginava un altro tipo di stretta, non minacciosa, non letale, ma sensuale, lasciva. Socchiuse gli occhi e si vide mentre le sue dita le scioglievano i lacci del vestito e poi quelli del corsetto, allentandoli e permettendo alla carne bianca di venire alla luce come un frutto maturo che viene sbucciato. Poteva persino udire il fruscio della stoffa mentre sfregava sulla sua pelle e scivolava con lentezza ai suoi piedi… La sua immaginazione plasmò impudentemente quel corpo che non aveva mai osato spiare – benché il suo desiderio fosse bruciante non sarebbe mai arrivato a tanto – e gli diede sostanza, colore, pienezza, fin quando non riuscì a percorrere con gli occhi della mente la linea sottile della sua spina dorsale, e le sue braccia non si avvolsero voraci intorno alla voluttuosità dei suoi fianchi. Pensò a come sarebbe potuto essere respirare il profumo dei suoi capelli e della sua pelle, e sentirseli piovere addosso nello slancio di una passione di cui avrebbe dovuto vergognarsi per il semplice averla desiderata…
Per un attimo le immagini furono talmente vivide che dovette stringere con forza i braccioli della poltrona alla ricerca di un appiglio sulla realtà, irrigidendo le dita contro l’imbottitura al punto da farsi male. Non poteva perdere il controllo. Se si fosse distratto, anche solo un momento – se avesse abbassato troppo la guardia allora nulla avrebbe potuto frapporsi tra lei e l’altro… E come aveva dimostrato il breve episodio durante la cena, lui era ancora troppo irritato dall’incidente con il candelabro di quella mattina per potergli permettere di prendere il sopravvento. Sarebbe bastato un solo passo falso per guastare quella labile atmosfera di pacata e dubbiosa accettazione, e per quanto gli era possibile avrebbe cercato di evitarlo. Emma doveva innanzitutto imparare a fidarsi di lui, e poi, in seguito, forse… se anche l’altro si fosse comportato bene… Beh, ci avrebbe pensato allora.
Per il momento preferiva tenere la ragazza tutta per sé.
Emma smise di leggere solo quando il prezioso orologio a pendolo suonò i primi rintocchi della mezzanotte. Sorpresa, poiché non aveva idea che fosse già trascorso tutto quel tempo, sollevò gli occhi dalle pagine del libro e si guardò brevemente intorno prima di realizzare dove e soprattutto con chi fosse. Il silenzio era tale, nella stanza, che si udiva solo il crepitio del fuoco, ed Emma si era quasi convinta di essere sola: ma di fronte a lei c’era ancora la solida presenza di Adam, che aveva istintivamente distolto lo sguardo non appena lei si fu risvegliata dalla trance indotta dal libro.
Chiuse il volume preoccupandosi di tenere un dito in mezzo alle pagine a mo’ di segnalibro, e raddrizzò la schiena per sgranchirla. «Si è fatto tardi…» Osservò piano, mentre l’eco degli ultimi rintocchi si perdeva come fumo nell’aria. Adesso avvertiva una certa sonnolenza calare sulle sue membra, benché avesse trascorso tutta la giornata a sonnecchiare e rimuginare a letto: poteva aver dormito, ma di certo non aveva riposato. E adesso quella stanchezza iniziava a farsi sentire, unita all’effetto del vino che aveva sorseggiato a cena e del calore quasi soffocante del piccolo salottino.
«Ah… sì», convenne lui, osservando brevemente l’orologio a pendolo. Sembrava essere indeciso su come concludere la serata, su cosa ci si aspettasse da lui in quanto anfitrione. «Volete… mh… Volete ritirarvi?»
Emma annuì, sperando di non contrariarlo. «Sono stanca», spiegò con cautela; la magia della lettura pareva essere cessata insieme ai rintocchi, come in una delle fiabe che le leggeva Lizzie quando era bambina, e tutto ciò che restava adesso erano due sconosciuti che si fissavano come gatti impauriti e diffidenti dai lati opposti della stanza. «E quel vino rosso, credo… Credo che mi abbia dato un po’ alla testa.»
Si alzò con movimenti goffi, come se non sapesse bene entro quale spazio muoversi, e poi si chinò di nuovo per posare il libro sulla poltrona, palesemente a malincuore.
«Oh, no, potete tenerlo», si affrettò a dirle Adam, alzandosi a sua volta e accennando d’istinto un passo nella sua direzione. «Se vi interessa, intendo. Io lo conosco già a memoria.»
«Oh», fece lei. Riprese il libro e lo tenne con cura tra le mani, annuendo appena. «Sì. Vi ringrazio.»
Senza più sapere che scusa inventarsi pur di trattenerla ancora, Adam si avvicinò a prendere uno dei candelabri e spense gli altri, dandosi una rapida occhiata intorno per controllare di non aver scordato nulla; lei lo osservò con fare distratto, accarezzando la copertina stranamente morbida del libro e pensando che, in fondo, la serata non era stata orribile quanto aveva preventivato.
«Vogliamo andare?» Le domandò a mezza voce, facendole cenno di precederlo verso la porta. Malgrado tutto gli fu grata che non le avesse porto il braccio mettendola nell’imbarazzante condizione di rifiutare – per quanto potesse comportarsi da gentiluomo, infatti, ciò non cancellava il modo in cui l’aveva indotta in quella stravagante situazione, e da parte sua aveva ancora parecchi scrupoli. Tuttavia lo seguì senza fiatare.
Stavolta a Emma parve che avessero impiegato meno tempo per raggiungere la sua camera da letto rispetto all’andata, o forse era talmente immersa nei suoi pensieri da non aver prestato la medesima attenzione al tragitto. Le sembrava di camminare in un sogno, stordita e confusa, cercando la logica in un luogo che ne era privo; adesso l’intera serata le pareva avvolta dall’ombra ovattata di una visione, come se non l’avesse davvero vissuta in prima persona ma attraverso gli occhi di qualcun altro.
Sempre con la medesima prospettiva osservò Adam fermarsi davanti alla porta della camera e spalancarla, attendendo che lei entrasse per prima – più per timore che a lei potesse venire l’idea di chiuderlo dentro e fuggire che per cavalleria, pensò – per poi seguirla e poggiare su un tavolino il candelabro.
«Questo lo lascio a voi, potrebbe servirvi», puntualizzò, indietreggiando di qualche passo.
Emma annuì, gli occhi puntati sulle fiamme danzanti delle candele come ipnotizzata. «Grazie», disse per l’ennesima volta; non credeva che si sarebbe ritrovata a ringraziarlo così spesso e nell’arco di un’unica notte.
«Buonanotte, milady», mormorò Adam con un inchino, prima di voltarsi e raggiungere la porta.
Lo scatto della chiave all’esterno risvegliò in lei ciò che per un momento si era concessa di dimenticare durante quello strano dopocena: la cupa consapevolezza di essere ancora prigioniera.

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Prima di riuscire a prendere sonno – cosa oltremodo difficile, dopo l’incredibile serata che aveva appena trascorso – Emma si ritrovò a riflettere a lungo e a fare un punto della situazione. Il suo primo pensiero andò ai signori Duncan, con particolare interesse per la governante: la giovane iniziava a dubitare, infatti, che i custodi della tenuta fossero completamente all’oscuro che Pemberley fosse abitata da un personaggio tanto insolito. Intanto era sempre più convinta che la cena fosse opera di Mrs. Duncan – iniziava a riconoscere il tocco della donna nei vari piatti, benché non avesse mangiato molto quella sera – e di certo se dietro a tutto ciò ci fosse stato effettivamente il suo zampino molte cose avrebbero avuto una spiegazione. A partire dal suo monito di evitare l’ala Ovest il primo giorno in cui era arrivata a Pemberley, per finire con la sua fuga al villaggio proprio la notte in cui lei era stata rapita… Buon Dio, miss Radcliffe aveva avuto ragione per tutto il tempo, avrebbero dovuto avvisare suo padre! E adesso, invece, era da sola, da sola in un castello maledetto in mezzo alla brughiera, con l’unica compagnia di un uomo mascherato e di domestici ambigui che chiaramente lavoravano per lui… Persino Caledon era lontano, e sarebbero trascorsi un’altra decina di giorni prima che il suo fidanzato rientrasse dalla Scozia!
Per la prima volta, avvertì tutto il peso della disperazione e della solitudine gravare su di sé. Non trovava alcuna via d’uscita alla situazione, se non stringere i denti e assecondare il suo carceriere finché non si fosse stancato di lei e avesse accettato di lasciarla andare; oppure, oppure… L’alternativa restava sempre la stessa, ossia cercare un modo per fuggire. Ma come avrebbe potuto farlo, se lui non la perdeva di vista un solo istante e se la chiudeva a chiave in quella stanza senza altre porte né finestre?
Si addormentò piangendo, vinta più dalla stanchezza delle lacrime che dal sonno vero e proprio. E rimase così per poche ore, cullata da strani rumori provenienti da qualche punto sopra o tutt’intorno a lei – rumori di oggetti striscianti e ululati che avrebbero potuto appartenere ad animali o semplicemente al vento che soffiava attraverso imposte rotte o canne di camini. Dormì poco e dormì male, sognando maschere che la spiavano dall’oscurità e mani che si allungavano per ghermirla.

Nel cuore della notte, poco tempo dopo che anche l’ultima anima nel castello si fu addormentata, dei passi silenziosi scivolarono nel corridoio all’esterno della stanza dove Emma era rinchiusa. Essi si avvicinarono trepidanti alla porta, e mani pallide e delicate si posarono sulla maniglia opaca; una chiave apparve da sotto le pieghe di un mantello, e si infilò con sorprendente facilità nel buco della serratura. Uno scatto leggero, e la porta si aprì dolcemente.
La figura si avvicinò piano all’immenso letto a baldacchino somigliante più a un catafalco che non a un confortevole giaciglio ispirante sonni sereni, e si piegò appena sulla fanciulla addormentata senza aver bisogno di candele per distinguerne le linee del volto e la treccia gettata da un lato con un gesto infastidito. I suoi occhi vedevano bene nel buio e non gli fu difficile notare le ombre rosse attorno a quelli della fanciulla, le sue labbra piegate in una smorfia sofferente, le guance striate da lacrime ormai asciutte. Deglutì, intristito, e allungò una mano tremante verso di lei, fino a posargliela sulla spalla.
«Sveglia, signora», sussurrò, scuotendola con scarsa delicatezza. «Presto, sveglia.»
Quando Emma aprì gli occhi, strappandosi faticosamente alle spire del sonno, non riuscì a trattenere un gemito spaventato nel vedere il viso pallido e circondato da una zazzera scomposta di capelli biondi di Noah Duncan, il figlio dei domestici che ormai non vedeva da quando aveva messo piede a Pemberley. Era stato lui a svegliarla, benché nel sogno le era parso di udire la voce di Caledon, e sempre sue erano le mani gelide che le stringevano le spalle.
«Sssht!» Mormorò lui, gli occhi larghi e lucidi colmi di terrore. «Devi venire con me, signora, presto.»
«Come… come hai fatto a entrare?...» Domandò confusa, ricordando vagamente una porta che veniva chiusa a chiave e la sensazione di essere in trappola. Di certo, pensò, stava ancora sognando.
«Dopo, dopo», insisté lui, tirandola per un braccio per farla scendere dal letto. «Ora tu vieni!»
L’insistenza del giovane era tale che Emma non trovò quasi nulla di strano nello scostare le coperte e nell’abbandonare il caldo tepore dell’alcova, pronta a seguirlo docilmente. Egli le indicò i suoi vestiti gettati su una poltroncina, e le intimò con gesti vari di indossarli e di rimanere in silenzio.
«Stanotte andrai via, signora», le sussurrò piano, passandole l’abito con gentile premura.
Emma sgranò gli occhi, incredula: aveva udito bene? Noah la stava aiutando a fuggire, davvero? «Intendi… intendi che andrò via dal castello? Mi farai scappare, Noah?» Sussurrò di rimando, prendendogli le mani tra le sue e stringendole forte, come per accertarsi di essere sveglia.
Lui annuì, accennando un sorriso ma senza perdere lo sguardo terrorizzato. «Sì, sì. Presto, però.»
La ragazza non trovò nulla da dire per contestare, e ancora stordita dal sonno si rivestì alla bell’e meglio: non avendo niente di meglio da indossare, infilò l’abito da sera che aveva utilizzato per la cena, poche ore prima, direttamente sopra la camicia da notte, senza curarsi di indossare corsetto o sottoveste, e gli stivaletti senza calze, giacché non le usava per dormire. Sopra si gettò il mantello che le aveva portato il caro Noah, probabilmente in vista della fuga – rimpianse il suo bel cappotto con gli interni foderati, ma non c’era il tempo di raggiungere la sua camera e frugare nell’armadio: non aveva idea di quanto avesse a disposizione, visto che per quel che ne sapeva lei Adam sarebbe potuto essere proprio dietro l’angolo, pronto a riagguantarla.
Così lasciò che Noah la prendesse per mano e la trascinasse fuori, nel corridoio buio, correndo il più silenziosamente possibile e ringraziando tra sé e sé i tappeti che attutivano i loro passi concitati. Tramite le loro mani unite, Emma notò che quelle del ragazzo tremavano, sudate, e non poté fare a meno di provare una forte gratitudine nei confronti di quel poverino che, malgrado temesse il castello al punto da sfiorare la follia – e, sinceramente, ora come ora lei non si sentiva di biasimarlo – era comunque entrato, penetrando fino alla maledetta ala Ovest, pur di venire ad aiutarla. Non aveva idea di come avesse fatto a sapere di lei, né a sapere dove si trovasse, e tuttavia non le importava; oramai era circondata da tanto di quel soprannaturale che aveva smesso di cercare la logica in ogni cosa.
Noah la condusse alle scuderie tramite stretti passaggi che Emma non sarebbe riuscita a ritrovare nemmeno volendo; probabilmente era passato attraverso i corridoi dei domestici, ossia nelle lunghe e strette scale a chiocciola che si celavano dietro i muri e permettevano alla servitù di raggiungere tutte le stanze senza passare negli stessi anditi riservati ai padroni di casa. Ogni parete pareva celare un segreto: anche ad Hambleton vi erano simili spazi, ma chissà perché tutto a Pemberley pareva molto più infido e misterioso – persino le piccole cose di tutti i giorni alle quali Emma era abituata.
Il giovane le lasciò la mano soltanto quando raggiunsero il recinto di un cavallo già strigliato e sellato, il cui manto grigio e bianco spiccava come uno spicchio di luna nell’oscurità della stalla. Il meraviglioso animale era lo stesso che lei aveva preso per la sua piccola gita al vecchio camposanto, e quando allungò una mano per posarglielo sul muso umido e vellutato il cavallo si lasciò accarezzare volentieri, dando segno di riconoscerla.
Prima di montare in sella, il suo pensiero raggiunse brevemente Adam. In fondo non avevano trascorso una serata spiacevole – se si escludeva come aveva replicato alle sue più che lecite domande bisognava ammettere che si era comportato in modo impeccabile, come le aveva promesso, non aveva alzato un solo dito su di lei se non per accompagnarla di stanza in stanza, e benché non avessero conversato granché poteva dire con certezza ch’egli non pareva voler avere cattive intenzioni.
Ma comunque, rifletté ancora, ciò non toglieva che la stava tenendo prigioniera – e nella sua stessa casa! E quella maschera, poi, cosa sarebbe accaduto se avesse celato l’identità di un qualche malintenzionato ricercato nella contea? Poteva davvero fidarsi? Che cosa avrebbero pensato suo padre, Miss Radcliffe?
Oh buon dio, miss Radcliffe! Non posso andarmene e lasciarla qui!
Stava per dar voce a questa considerazione quando Noah l’afferrò a un braccio, scuotendola leggermente. «Non c’è tempo, signora», mormorò febbrilmente. «Non preoccuparti: ci prenderemo cura noi di lei. Ma tu devi andare via!»
Emma lo fissò come se avesse dinnanzi un fantasma. «Come fai a sapere… parli di miss Radcliffe?...»
«Non c’è tempo, non c’è tempo», continuò a ripetere, angosciato. «Tornerai per lei. Ma ora vattene, ti prego, signora!»
Lo sguardo terrorizzato del giovane insieme a quella sua improvvisa loquacità rese davvero tangibile il pericolo in cui si trovava, e comprese che indugiare ancora avrebbe reso vane le sue intenzioni.
Se non scappo ora, non andrò mai più via da qui.
«Tornerò, Noah, per te e per miss Radcliffe. Domani», lo rassicurò risoluta, non riuscendo a trattenersi dall’abbracciarlo. Gli sfiorò entrambe le guance con due rapidi baci e poi si voltò per montare a cavallo, afferrando le redini. «Grazie di tutto», aggiunse ancora.
Il ragazzo annuì, gli occhi ancora sgranati per quell’inattesa manifestazione d’affetto, poi indietreggiò di qualche passo. «Via, signora, via!» Diede una pacca decisa al posteriore dell’animale ed esso partì senza neppure un nitrito, quasi comprendesse la gravità della situazione. Emma si voltò ancora una volta per ringraziare il giovane con lo sguardo, ma egli era già sparito all’interno delle stalle, serrando il portone con un tonfo secco.
Sperando di non aver perso già troppo tempo, mormorò una preghiera e spronò l’animale al galoppo.

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Una fitta foschia circondava il castello, talmente densa da rendere impossibile vedere qualsiasi cosa che si trovasse a più di una spanna dal proprio naso; era sinistra e minacciosa, dissimulava i luoghi familiari e confondeva chiunque fosse stato tanto stolto da uscire di casa con un tempo del genere. Il cavallo incespicava nel terreno, nitrendo nervosamente, ma Emma l’incitava senza pietà a proseguire, spingendolo al limite delle sue forze.
Onestamente, non sapeva dove andare né quale strada stesse seguendo. Era stato abbastanza semplice percorrere il vialetto giù per la collina, ma una volta raggiunto il limitare della boscaglia che circondava l’altura sulla quale sorgeva il castello ogni visibilità era stata come inghiottita dal buio e dalla nebbia. Benché fosse una notte di luna piena, infatti, essa pareva essere stata divorata dalle nubi scure e dalla bruma, e la visibilità sarebbe stata la stessa anche se la giovane avesse avuto gli occhi bendati. Emma non osava rallentare – non sapeva quanto vantaggio avesse a disposizione, qualcosa le diceva però che Adam non avrebbe impiegato troppo tempo ad accorgersi della sua scomparsa e a venirle dietro – per cui spronò ancora una volta il cavallo, facendolo tuffare nel bel mezzo della vegetazione.
Il suo intento, sempre se avesse riconosciuto il sentiero, era di raggiungere la casa di Sir Carlisle; l’uomo le era parso gentile e a modo, sempre pronto ad aiutarla, e oramai lo conosceva da abbastanza tempo da sapere di poter contare su di lui alla stregua di un parente. Di certo, se gli avesse raccontato l’intero accaduto, egli si sarebbe mobilitato per risolvere il mistero e cacciare la misteriosa presenza da Pemberley Manor; e avrebbe potuto domandargli il favore di ospitarla per il resto della notte in attesa che il mattino giungesse con delle risposte. Non era certo la cosa più educata da fare, giungere ad Ashfield nel cuore della notte senza essere annunciata e pretendere soccorso, ma cercare di raggiungere il villaggio in quelle condizioni era ancora più pericoloso, senza contare che avrebbe rischiato che i paesani la prendessero per pazza. Già immaginava che cosa avrebbero detto di lei… La figlia del conte di Grantham che fugge dalla sua tenuta in abiti scomposti e infangati, e attraversa miglia e miglia di brughiera nel cuore della notte!... Se avesse gettato una simile macchia sulla propria reputazione né suo padre né Caledon l’avrebbero mai perdonata, ed era per questo motivo che aveva deciso di andare innanzitutto da Sir Carlisle: poteva ben contare sulla discrezione dell’uomo, non nutriva alcun dubbio al riguardo.
Ma il suo sollievo durò ben poco: non aveva percorso neppure un miglio, quando udì un allarmante rumore di zoccoli provenire da qualche parte alle sue spalle. Buon Dio, pensò, terrorizzata. L’aveva già scoperta? La stava inseguendo?
Premette i talloni contro i fianchi dell’animale per farlo andare più in fretta, ma l’incalzante fragore dietro di lei si faceva via via più nitido, sempre più vicino, come una tempesta in arrivo che non si può vedere ma di cui si può udire in lontananza il rimbombo dei tuoni. L’unica soluzione per confondere il suo inseguitore e guadagnare tempo era abbandonare la strada battuta, così, seppur a malincuore, diresse il cavallo verso destra, in mezzo agli alberi e ai cespugli, in un groviglio di vegetazione selvaggia che avrebbe dovuto nascondere lei e rallentare chiunque avesse alle calcagna.
Rimpianse quasi subito la sua idea, tuttavia: la boscaglia era così fitta e aggrovigliata che i lunghi rami dei rovi si aggrapparono alla stoffa dei suoi abiti, tendendosi verso di lei come artigli adunchi che parevano volerla trattenere dal proseguire; il cavallo nitrì, infastidito, ma Emma non aveva il tempo di essere pietosa nei suoi confronti. Lo spinse ad andare oltre, strappando con le mani i tralci dai propri vestiti e chinando il capo per evitare di rimanere incastrata con i capelli; gemette quando le spine le graffiarono le mani prive di guanti e i polpacci nudi che spuntavano dal vestito, facendoli sanguinare, ma non demorse: ci sarebbe stato il tempo di leccarsi le ferite più tardi, sperava, una volta al sicuro dalla malsana presenza di Adam.
«Vai, bello», sussurrò, accarezzando il collo irrigidito del cavallo, cercando di tranquillizzarlo. «Andiamo via di qui.»




















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* Il fatto che Adam legga tra tutti Robert Louis Stevenson non è solo perché è appassionato di romanzi di viaggi e avventure (potete biasimarlo? È praticamente nato e cresciuto tra quattro mura, sogna di vedere il mondo – i suoi libri sono un po’ lo specchio magico della Bestia che gli mostrava il mondo esterno), ecco, dicevo, ma anche perché Stevenson ha scritto “Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Signor Hyde”, che è uno dei romanzi che mi hanno ispirato per questa storia, e dunque mi sembrava carino inserire un piccolo… omaggio.
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Note dell'Autrice.
Ed eccomi qui con un nuovo aggiornamento, giusto in tempo per Halloween! Detto-fatto, ciò è la dimostrazione che quando voglio posso essere di parola anche io :D Inoltre questo capitolo è lunghissismo e succede tanta roba, non me lo aspettavo. °_° Comunque, spero che vi sia piaciuto come i precedenti ^^
Ringrazio, come al solito, chiunque legga e aggiunga la storia alle Seguite e alle Preferite, nonché e soprattutto le splendide Sylphs, savy85, Nimel17, Se7f, JollyJ e dachedas per aver recensito lo scorso capitolo: sono davvero molto, molto contenta che Adam vi sia piaciuto - ho una sorta di ansia da prestazione per questo personaggio, l'ho detto e lo ripeto - e spero sinceramente che continui ad essere di vostro gusto anche nei prossimi capitoli. :) Sto cercando di rendere questa storia il più "corale" possibile, di curare sia i personaggi principali che quelli secondari, in modo da avere una chiara visione dell'insieme e di non focalizzarmi soltanto su Emma-Adam dato che questa non sarà unicamente una storia d'amore ma anche - o almeno così spero che esca, chi lo sa poi quale sarà il risultato xD - una storia di mistero, azione e paura. Insomma, uno stile po' alla Dracula - lungi da me osare paragonarmi a quel romanzo, però - dove più o menso sappiamo cosa combinano tutti i personaggi. :D
And now, ladies and gentlemen. Vi lascio con due meravigliosi regali che mi sono stati fatti in onore di questa storia e le cui autrici non smetterò mai di ringraziare - okay, lo ammetto, ho promesso i miei primogeniti, ma credetemi che ne è valsa la pena. Sono lieta di presentarvi:

- Il video-trailer "Requiem for a Dream" - by @Christine23
- La meravigliosa copertina della storia - by @kenjina
Spero che vi lascino a bocca aperta così come è successo a me *__* (Non so se merito tutto questo ammore, sono commossa ç_ç)
Ora vado prima di piangere altre lagrime amare. A presto, mie darling!
Sempre la vostra affezionatissima
Niglia.
   
 
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