9
Persephone Escapes
I
signori Duncan erano rientrati a Pemberley Manor nella tarda mattinata
del 26
ottobre, ormai certi di non correre più il pericolo di
incontrare qualcuna
delle anime in pena che attendevano quella particolare notte
dell’anno per
tornare ad essere visibili e cercare di terrorizzare gli abitanti
mortali del
castello. I due coniugi sapevano tuttavia che non era soltanto dei
morti che
avrebbero dovuto avere paura, quanto piuttosto dell’altro
inquilino con cui
condividevano il maniero, e che nel corso degli anni si era rivelato
assai più
pericoloso degli spiriti; ma per ora egli aveva il suo passatempo, e
ciò
avrebbe concesso loro un po’ di pace.
Ma a quale prezzo? Continuò
ciò nondimeno a domandarsi
Mrs. Duncan, il pensiero costantemente rivolto alla povera lady Moore.
Non
appena ebbe rimesso piede nel castello il primo istinto della donna fu
quello
di andare a controllare la stanza della giovane padrona –
vuota e gelida, come
aveva immaginato, con il letto sfatto e le braci fredde nel camino e le
tende
ancora chiuse – e poi salire in quella di Miss Radcliffe,
dove l’istitutrice,
ancora sotto l’effetto delle polveri che la signora Duncan
aveva iniziato a
somministrarle già nella settimana del loro arrivo, dormiva
ignara il sonno
dell’incoscienza.
Sembrava
infine che il piano del padrone fosse
perfettamente riuscito: ora rimaneva da vedere fin quando egli aveva
intenzione
di portare avanti la farsa.
Il
giorno dopo, mentre Margareth Duncan e Lydia erano impegnate a
spolverare di
buona lena l’immenso ingresso del castello, dalle scale alle
ringhiere, dai
candelabri ai vasi e dalle statue alle finestre, quasi a voler
scacciare con la
pulizia infauste presenze – in tutto il piano terra
risuonò il suono assordante
ed elettrico del campanello, che per un attimo le lasciò
stordite e confuse; la
signora Duncan si era dimenticata quanto tempo fosse trascorso
dall’ultima
volta in cui l’aveva udito, mentre Lydia da parte sua era
convinta di non
averne mai avuto il piacere.
Posando
dunque lo straccio e cercando di darsi una sistemata
all’acconciatura
scarmigliata e alla gonna impolverata, la governante
attraversò rapida l’atrio
e raggiunse il portone, togliendo i vari catenacci prima di spalancarne
un’anta. Quando i suoi occhi si posarono
sull’inattesa persona di Sir Arthur
Carlisle, amico per così dire della sua giovane padrona, la
donna dovette usare
tutto il suo ferreo autocontrollo per non manifestare il disagio e
l’irritazione che quella visita aveva risvegliato.
«Buongiorno,
Sir Carlisle», lo salutò dunque con un breve
inchino, riuscendo persino ad
accennare un sorriso. «Chiedo scusa per le condizioni in cui
mi trovate, ma
stavamo riordinando; desiderate?»
Senza
attendere che la donna lo facesse entrare, egli la scansò
gentilmente e fece
qualche passo all’interno della casa, levandosi il cappello e
fermandosi quasi
subito non appena vide di essere capitato in piene pulizie.
Accennò un saluto a
Lydia, che tornò rapidamente alle sue faccende, e poi si
rivolse di nuovo a
Mrs. Duncan. «Sono venuto a trovare lady Moore. È
in casa, suppongo?»
Mrs.
Duncan non batté ciglio. «Oh sì,
signore, ma non può ricevere visite:
sfortunatamente, milady è indisposta. Non è scesa
neppure per colazione, e io e
Lydia ci stiamo prendendo cura di lei. Solo un’infreddatura,
normale in questa
stagione… Forse è meglio che torniate un altro
giorno.»
Sir
Carlisle appariva ben poco convinto, ma non era in suo potere forzare
la mano
alla governante e imporsi alla padrona di casa senza essere desiderato.
Diede
un’occhiata intorno nel foyer deserto e annuì
brevemente, pensieroso.
«Desiderate che faccia venire qui il dottor Carew?»
«Oh
no, no, io stessa l’ho proposto a milady ma ha detto che non
era il caso di
scomodarlo. Davvero, signore, nulla di cui preoccuparsi»,
insisté Mrs. Duncan. Poi,
vedendo che il gentiluomo indugiava ancora e si guardava attorno con
aria
assorta, la donna continuò.
«C’è qualcosa che volete che riferisca a
milady?»
Egli
si riscosse dai suoi pensieri e tornò a dedicare
l’attenzione alla governante,
annuendo appena. «Mh, sì. Potete dire a lady Moore
che ero venuto a invitarla a
pranzo ad Ashfield, giacché mia moglie desidera fare la sua
conoscenza; ma che
considerate le sue condizioni di salute, forse dovremmo fare un altro
giorno.
Sì, potete riferirle questo, e ditele anche che le auguro
una rapida
guarigione.»
«Molto
bene, signore, glielo dirò», garantì
Mrs. Duncan. «Sono sicura che milady
apprezzerà l’invito.»
«Sì…
sì. Molto bene. Credo sia ora di andare, ho già
disturbato a lungo il vostro
lavoro», disse infine con un breve sospiro. «Grazie
per la vostra pazienza.
Buongiorno.»
Indossò
nuovamente il cappello e ne sfiorò il bordo in segno di
saluto, dopodiché
lasciò le due domestiche alle loro faccende. C’era
ancora qualcosa che non gli
tornava, in realtà, ma che cosa avrebbe potuto fare?
Insistere di vedere lady
Emma sulla base di un discutibile istinto e contagiato dalle sciocche
superstizioni che si sussurravano al villaggio?
Si
era allontanato solo di pochi passi quando, obbedendo a uno strano
impulso che
non seppe spiegarsi, si fermò all’improvviso e si
voltò verso il castello,
studiandone la facciata con aria assorta. Per un po’ non
trovò nulla di strano
– solo la stanca pesantezza di un edificio sul quale
gravavano secoli di
storia, così antico che avrebbe di sicuro visto
l’ascesa e la caduta di
numerose altre generazioni, circondato da un cupo cielo grigio di
ottobre denso
di umidità e da un’aria di inevitabile mistero.
Onestamente, non era difficile
comprendere come mai fosse al centro di così tante storie
del macabro e
dell’occulto – ma, per sua natura, Arthur Carlisle
si vantava d’essere un uomo
dall’animo scettico.
Eppure
sussultò quando, in una delle finestre più alte,
forse quarto o quinto piano, il
suo sguardo notò qualcosa. Un’ombra, la vaga
sagoma di una figura umana – da
quella distanza non avrebbe potuto essere più chiaro
– e poi il rapido spostamento
di una tenda che veniva richiusa bruscamente. Nulla di così
allarmante, in
fondo, poteva trattarsi di uno dei domestici… Ma
ciò non spiegava il motivo
della maschera bianca.
Guidato
da un brutto presentimento, e cercando di ignorare
l’improvviso brivido che gli
aveva percorso la schiena, sir Arthur diede di nuovo le spalle a
Pemberley
Manor e raggiunse frettolosamente la sua automobile. Un’idea
si era fatta largo
nella sua mente, e aveva ogni intenzione di realizzarla.
Al
suo risveglio Emma trovò una calda colazione ad aspettarla,
posata sul comodino
accanto al letto. Alcune candele erano state accese, in modo che
potesse
probabilmente trovare conforto nella luce, e su una poltrona era stato
adagiato
un abito da giorno: chiunque lo avesse preparato, e ormai ne aveva una
chiara
idea, doveva aver frugato nel suo armadio, giacché lo
riconosceva per essere
uno dei suoi. Non lo aveva ancora indossato da quando si trovava a
Pemberley –
non era nero, tanto per cominciare, e lei era moralmente obbligata a
portare il
lutto intero per almeno altri quattro mesi – il che le fece
supporre che il suo
ospite, o carceriere che dir si volesse, desiderasse vederglielo
indosso.
Per
quanto l’idea di indispettirlo e ignorare l’abito
la tentasse, non avrebbe potuto
fare diversamente: a meno che non volesse continuare ad indossare la
camicia da
notte per i seguenti sette giorni, dato che non le era possibile
raggiungere la
sua camera e i suoi averi, avrebbe dovuto limitarsi a sopportare i
voleri di
quel miserabile. Si alzò dal letto estraneo –
pensare di aver dormito nel
giaciglio di un uomo era terribilmente imbarazzante, e non aveva
intenzione di
sprecarci un altro pensiero – e si avvicinò al
tavolino: il profumo del tè
aveva risvegliato la fame che le serrava lo stomaco, e
rammentò di essere
digiuna probabilmente da più di un giorno.
Ma
la fame passò nuovamente in secondo piano quando vide che
sul vassoio, posato
contro la teiera, c’era una lettera con il suo nome sopra.
Incuriosita più
dalla natura del contenuto che non dal mittente –
giacché non aveva dubbi che
si trattasse dell’uomo mascherato – prese il foglio
e lo dispiegò,
avvicinandolo alla fiamma della candela per distinguere meglio
ciò che vi era
scritto. Una prima occhiata alla calligrafia le bastò per
svelare il mistero
del biglietto che aveva trovato nella sua stanza, qualche settimana
prima, e
che aveva avuto la malaugurata idea di bruciare: dunque era stato
sempre lui ad
averle lasciato quella frase di Barbablù come monito
– quella scrittura spigolosa
e sottile, da bambino, leggermente inclinata verso destra da una mano
molto
probabilmente mancina, e l’eccentrico inchiostro rosso erano
inequivocabili.
Milady, iniziava la lettera.
Mi auguro che
abbiate dormito meglio della notte scorsa. Mi rendo conto che avete
dovuto fare
i conti con una realtà ben strana in così poche
ore, e che questo può aver
inciso sulla nostra conoscenza e reso il nostro primo incontro poco
gradevole;
per questo motivo vi invito a prepararvi non appena leggerete questa
nota – vi
informo che avete dormito tutto il giorno, e che non ho osato
svegliarvi poiché
avevate sicuramente bisogno di riposare.
Ah: accanto al
letto, dietro una tenda, troverete la sala da bagno. Mi sono assicurato
che ci
sia tutto ciò di cui potete aver bisogno, per cui mettetevi
pure a vostro agio.
Per cena sarete mia
ospite: verrò a prendervi un’ora e mezzo dopo il
vostro risveglio.
Il vostro amico,
Adam
«Sono
finita nelle mani di un pazzo», sussurrò Emma
scioccata, rimettendo a posto la
nota sul vassoio. Ora, la fame le era passata del tutto:
fissò con improvviso
sospetto la teiera – e se avesse cercato di avvelenarla, o
drogarla, per
poterla avere completamente alla sua mercé? Dubitava che
nelle intenzioni di
quel folle ci fosse quella di ucciderla, dato che in tal caso non si
sarebbe
preso la briga di prepararle delle banalità come cibo e
vestiti e l’occorrente
per la toilette, ma il solo pensiero di ciò che avrebbe
potuto farle
approfittando della sua incapacità di ribellarsi la faceva
inorridire. Che cosa
poteva fare?
Doveva
prendere una decisione al più presto, decidere in che modo
sarebbe stato meglio
affrontare l’uomo – Adam, diceva di chiamarsi, e
avrebbe fatto meglio a
prendere l’abitudine di rivolgersi a lui in quel modo,
giacché avvolgerlo nelle
tenebre di un’identità ancora più
misteriosa non avrebbe fatto che accrescere
il baratro di disequilibrio che già si era formato tra loro
– insomma, decidere
con quale approccio porsi. Come se non bastasse, poi, l’idea
della cena la
metteva in agitazione; sedere allo stesso tavolo con la stessa persona
che
aveva cercato di aggredire, e che l’aveva minacciata, e di
cui non conosceva le
intenzioni… Nulla di tutto ciò che aveva letto o
studiato era servito a
prepararla a un’eventualità del genere! Ma no,
doveva restare calma:
accalorarsi non sarebbe servito, anzi, aveva bisogno di tutta la
freddezza di
cui disponeva per poter rimanere lucida e studiare un modo per scampare
alle
sue grinfie e andare a cercare aiuto da qualche parte. Per cui,
l’unica
soluzione era assecondarlo: avrebbe ascoltato ciò che aveva
da dirle, gli
avrebbe fatto compagnia – che cosa
ridicola, santo cielo! – dopodiché, quando egli
avrebbe ormai pensato di averla
completamente in suo potere… lei sarebbe fuggita!
Infiammata
da quella nuova risolutezza, Emma prese una candela e si diresse verso
la
stanza da bagno.
Esattamente
un’ora e trenta minuti dopo il suo risveglio, Emma
udì tre colpi secchi alla
porta della camera – dubitava che fosse una richiesta per
entrare, quanto
piuttosto un modo per evitare di piombare dentro con il rischio di
trovarla
ancora mezzo svestita. O perlomeno questo
sarebbe stato ciò che avrebbe fatto un comune gentiluomo. Mormorò
un
“Avanti” senza molta convinzione, e subito
udì lo scatto della serratura che
veniva aperta con gesti che parevano impazienti.
Egli
entrò senza attendere oltre, fermandosi sull’uscio
e reggendo davanti al viso
un candelabro a tre braccia; a quella vista Emma si alzò
nervosamente dal bordo
del letto, lisciandosi le pieghe del vestito in un gesto che mal celava
la sua
angoscia, e osservando con la coda dell’occhio le ombre
proiettate dalle fiamme
delle candele sulla porcellana bianca della maschera, rendendola
grottesca e
raccapricciante. Sforzandosi di distogliere da essa la sua attenzione,
prese un
profondo sospiro; non avendo specchi non avrebbe saputo giudicare il
proprio
aspetto – vestirsi senza l’ausilio di una cameriera
era un’operazione oltremodo
scomoda e difficile, per non parlare dell’acconciarsi i
capelli – ma malgrado
ciò accennò un elegante inchino e
raddrizzò la schiena, con l’aria di chi si
prepara per la battaglia. Voleva apparire al meglio, quasi che con la
sua
raffinata disinvoltura avesse potuto intimidire il suo carceriere.
Se
anche lui trovò sospetto quell’improvviso cambio
di comportamento, così
mansueto, non lo diede a vedere – non che si sarebbe potuto
comprendere
qualcosa, dalle espressioni assenti della sua maschera. Il solo
guardarla la innervosiva,
ed era ormai convinta che quell’oggetto immobile fosse assai
più spaventoso e
inquietante di qualsiasi orrendo segreto l’uomo stava
cercando di nascondere.
Decise comunque di non coinvolgere quella maschera nella conversazione,
poiché
aveva capito che si trattava di un argomento che lui – Adam
– non trovava particolarmente di suo gradimento; e visto che
Emma era giunta alla conclusione di cercare di non indispettirlo
più del
necessario, non ne fece menzione né cercò ancora
di togliergliela.
Rimasero
ad osservarsi in silenzio per un tempo più lungo di quanto
raccomandasse
l’educazione, forse cercando entrambi qualcosa da dire che
rompesse il
ghiaccio. Ma Emma aveva la lingua pietrificata – non avrebbe
saputo dire
alcunché neanche se da ciò fosse dipesa la sua
vita – per cui fu lui a parlare
per primo, e la sua voce risuonò chiara e tonante
benché, in fondo, si fosse
limitato a mormorare. «Se volete seguirmi,
milady…»
Emma
deglutì e lo raggiunse in pochi passi, nascondendo le mani
tra le pieghe del
vestito: si era accorta di star tremando, e non voleva che lui se ne
accorgesse. Coraggio, sciocca, si
riprese mentalmente, ignorando i battiti feroci del proprio cuore. Fingiti
sicura di sé e padrona della
situazione come hai sempre fatto. Non sarà poi troppo
diverso dall’assistere a
un ballo mondano, giusto? Perlomeno qui devi fare i conti con gli occhi
avidi e
indagatori di una sola persona.
Lasciò
che l’uomo le facesse strada, seguendolo silenziosamente
attraverso gli scuri
corridoi dell’ala Ovest. Benché fosse
già stata in quella parte del castello,
Emma non poté fare a meno di considerare che, adesso, ogni
cosa le appariva
aliena, differente, come se la presenza del suo accompagnatore fosse
capace di
influire e modificare l’ambiente che lo circondava
– rendendolo macabro e
terrificante. Sollevò lo sguardo sulle volte e venne
ricambiata dalle
espressioni maligne e spaventose di gargoyle e mostri medievali,
scolpiti
probabilmente per scacciare oscure presenze dal castello: bocche
spalancate e
piene di zanne, volti mostruosi, bestiali, bulbi privi di iridi, ciechi
e che
tuttavia parevano seguirla nel suo cammino. Abbassò
rapidamente gli occhi, ma
ormai quelle figure erano impresse a fuoco nella sua memoria: di sicuro
le
avrebbe sognate. Dovette contraddirsi – non aveva mai messo
piede in quegli
anfratti, se ne sarebbe di certo ricordata.
L’ala Ovest doveva
essere molto più vasta di quanto avesse immaginato.
Stava
seguendo come una falena la flebile ma anelata luce del candelabro
ch’egli
teneva in mano, a scandagliare l’oscurità e aprir
loro un varco nel buio;
qualcosa, tuttavia, le diceva che Adam doveva essere ben capace di
vedere
attraverso di esso, e che quelle candele esistevano solamente a uso e
consumo
della sua ospite. Cercò suo malgrado di rimanere al passo
con lui, perché
l’idea di perdersi in quelle gallerie, di rimanere sola, era
intollerabile – e
persino la presenza minacciosa del suo carceriere era preferibile alla
solitudine.
Il
silenzio era una presenza ingombrante, rotto solo dal rumore dei loro
passi, ma
Emma non pareva intenzionata a spezzarlo: temeva di dire qualcosa che
avrebbe
potuto insultarlo o offenderlo – il suo umore era troppo
volubile, e poiché
egli aveva il coltello dalla parte del manico non voleva rischiare di
risvegliare la sua ira come quel mattino – e ad ogni modo che
genere di civile
conversazione avrebbe potuto tenere con l’uomo che
l’aveva rapita? Lasciandosi
sfuggire un sospiro rassegnato cercò di accelerare il passo,
dato che lui
l’aveva inconsciamente distanziata di diversi metri e pareva
proseguire a sua
volta immerso in chissà quali pensieri, arrivando a
dimenticarsi della sua
presenza.
Forse, pensò Emma con vago trasporto, avrebbe
potuto approfittare della sua
distrazione per fare dietro front e provare a fuggire… se
avesse corso come se
avesse avuto il diavolo alle calcagna, cosa poi non tanto lontana dalla
verità,
forse avrebbe potuto raggiungere l’ala Est, e da
lì a uscire da Pemberley
sarebbero bastati pochi passi… Ma avrebbe dovuto
fare i conti col buio, e
con l’abito che le avrebbe rallentato i movimenti, e con il
fatto che
fintantoché si fosse trovata entro le mura del maniero
sarebbe stata
inequivocabilmente prigioniera del suo proprietario. Inoltre, anche
ponendo il
caso che fosse riuscita a uscire dal castello, dove contava di andare
in piena
notte, a piedi e da sola, nel bel mezzo della brughiera?
Il
solo pensiero bastava a gettarla nello sconforto, e sospirò
ancora.
«Siamo quasi arrivati», disse a quel
punto la
voce profonda dell’uomo, probabilmente rispondendo al suo
sospiro e
fraintendendolo. Emma non rispose, e allora fu lui a sospirare; non
aggiunse
altro, limitandosi a voltarsi leggermente per accertarsi che lei lo
stesse
ancora seguendo, dopodiché proseguì.
Ciò
le provocò un brevissimo ma mesto sorriso: non aveva per
nulla intenzione di
rendergli le cose facili, e se lui credeva che si sarebbe arresa senza
neanche
una parola di ribellione, ebbene, era chiaro che ancora non la
conosceva.
Comunque
Adam aveva ragione: non mancava molto. Alla fine di
quell’ennesimo corridoio
egli si fermò davanti a una porta non diversa da tante altre
che avevano
superato; spostò il candelabro dalla mano sinistra a quella
destra e usò la
prima per abbassare la maniglia – dunque
aveva intuito bene, era mancino – per poi spostarsi
di lato e voltarsi
verso di lei. Le fece cenno di entrare per prima con quello che avrebbe
voluto
essere un gesto galante, ma che lei vide solo come il cenno del
carceriere che
intima al suo prigioniero di precederlo per evitare strani scherzi; e
quando
ebbe superato la soglia non poté fare a meno di sussultare
nell’udire il tonfo
minaccioso della porta che si richiudeva alle sue spalle. Cercando di
non
pensare al suo essere bloccata in una stanza insieme a un uomo di cui
non
conosceva neppure le sembianze, Emma si guardò intorno
studiando il nuovo
ambiente.
L’architettura
di quella che era una sala da pranzo si differenziava parecchio dal
resto del
maniero che aveva già avuto modo di vedere. Essa era un
piccolo gioiello di
puro stile Tudor, con arazzi che ricoprivano le pareti e complessi
intarsi di
rampicanti sui pannelli di mogano che rivestivano queste ultime, per
poi
convergere nel punto focale della stanza incarnato
dall’immenso camino in
pietra: le fiamme vivide e danzanti del fuoco illuminavano la stanza
creando
ombre che si allungavano come spettri su ogni superficie, dando vita a
una
strana atmosfera a metà tra il sogno e l’incubo.
Eppure,
la prima cosa che Emma notò non appena vi ebbe messo piede
fu che il tavolo era
stato imbandito lautamente per una sola persona. Era un tavolo piccolo
e
intimo, se paragonato a quello della sala da pranzo padronale dove
aveva
consumato i pasti da quando si trovava a Pemberley, ed era talmente
ricolmo di
cibo che avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca persino
all’uomo più sazio della
terra: piatti pieni di frutta fresca e frutta secca si alternavano in
un’altalena di forme e colori, teiere di salse e vassoi con
patate bollite
facevano a gara a occupare più spazio, rametti di fiori
odorosi colmavano i
vuoti e le fiamme dei due candelabri posti a centrotavola illuminavano
le
stoviglie d’argento facendole brillare come preziosi tesori.
Tuttavia Emma
aveva lo stomaco strettamente annodato, e dubitava che sarebbe riuscita
a
mangiare qualcosa anche malgrado il suo digiuno.
L’uomo
la condusse verso il suo posto, scostandole la sedia davanti
all’unico punto
apparecchiato, e attese pazientemente ch’ella vi prendesse
posto; dopodiché,
con gesti fluidi ed eleganti, iniziò a servirla. Sotto lo
sguardo perplesso e
confuso della giovane, egli le versò il vino e le
avvicinò un vassoio da cui si
elevava un delizioso profumo – roast beef con patate dolci e
brandy, un piatto
che peraltro aveva già avuto modo di assaggiare grazie a
Mrs. Duncan. Si mosse
più per istinto che per bisogno, versandosi una piccola
porzione di roast beef,
e rimase poi ad osservare mentre il suo anfitrione si spostava per
andare a
sedersi a sua volta all’altro lato del tavolo, incrociando le
mani sulla
superficie lucida del legno.
Attese
per un po’, incerta, prima di parlare.
«Voi… Non mangiate?» Domandò,
senza
osare toccare il suo cibo. Malgrado tutto, le pareva una mancanza di
educazione
mangiare davanti a qualcuno che pareva ostinato nel suo digiuno
– senza contare
l’imbarazzo del venire osservata durante
l’operazione.
Eppure
egli sembrava tutto fuorché a disagio.
«No», fu la sua risposta pronunciata in
maniera quasi ironica. «Sarebbe difficile, considerando che
non ho intenzione
di togliere la maschera.»
Ah! – faceva
persino del sarcasmo.
Accarezzando con gli occhi tutto quel ben di Dio, un’altra
questione di non
scarsa importanza fece capolino tra i suoi pensieri. «Avete
preparato voi tutto
questo?»
Gli
sfuggì un breve riso soffocato. «Sono abile in
molte cose, milady, ma la cucina
non rientra in una di esse.»
C’era
qualcosa, nel tono della sua voce, nel modo che aveva di comporre le
frasi, che
lasciava intuire come la maggior parte di ciò che diceva
avesse un qualche
significato recondito, e con fini di dubbia moralità. Forse
era solo la sua
immaginazione a parlare, forse aveva letto davvero troppi libri come
spesso le
avevano rimproverato bonariamente sia Caledon che suo padre, ma
l’idea non
l’abbandonava. E, ancora, non osava prendere in mano le
posate e mangiare.
Egli
parve notare la sua ritrosia, ma se ne rimase offeso fu abbastanza
gentile da
non darlo a vedere. «Potete mangiare
tranquillamente», disse soltanto, a bassa
voce. «Non ho intenzione di avvelenarvi durante la
cena.»
Più
per una questione di principio – quale, non avrebbe saputo
dirlo – che per
timore di offenderlo ancora Emma prese in mano forchetta e coltello e
iniziò a
tagliare la carne invitante che l’attendeva paziente sul
piatto; voleva fargli
capire che non aveva paura di lui, o perlomeno voleva farglielo
credere, e
accettare il suo cibo era un modo come un altro per sostenere la sua
posizione.
Sempre in silenzio assaggiò il roast beef e le patate,
sorseggiò il vino e
provò il pudding, ma era più un piluccare nervoso
che una vera e propria degustazione della cena.
Sentiva
i suoi occhi addosso mentre masticava lentamente, gli occhi chini su un
punto
indefinito davanti a sé e le spalle rigide,
all’erta, quasi che temesse di
venire aggredita da un momento all’altro in
quell’attimo di vulnerabilità.
C’era qualcosa di terribilmente intimo nel mangiare davanti a
qualcuno; e la
faccenda della maschera rendeva il tutto ancora più
indecente, poiché aveva
l’impressione di essere spiata di nascosto in una situazione
che sarebbe dovuta
essere privata. Non sapeva neanche lei come descrivere quella
sensazione senza
apparire ridicola: sapeva solo che la faceva sentire a disagio.
Si sentiva come
Persefone, costretta a nutrirsi dalla mano del temibile Ade e
condannandosi
così a non poter più lasciare
l’Oltretomba.
All’improvviso,
Emma decise che il silenzio era durato abbastanza. «Ho una
domanda», esordì con
cautela, posando coltello e forchetta a lato del piatto. Aveva a
malapena
toccato il suo cibo, ma per quanto esso fosse delizioso e il suo corpo
lo
bramasse, la nausea e l’ansia che provava le impedivano di
mandar giù altro.
«Immagino
che ne abbiate molte. Vi prego», la invitò,
facendole cenno con una mano
guantata di parlare liberamente.
Oh sì, ne aveva
parecchie. Avrebbe
voluto chiedergli di miss Radcliffe, di Aramis, persino dei domestici
– che
fine avevano fatto i signori Duncan? Possibile che non si fossero
accorti della
sua assenza, o che non ne fossero interessati? Ma, prima di tutto, era
più
curiosa di sapere a cosa diavolo avesse assistito la notte prima,
quando lo
shock l’aveva fatta svenire come non le era mai capitato.
Così,
con un sospiro, la giovane si apprestò a dare voce a quel
pensiero che non le
dava pace. «Ieri notte… non so bene a cosa ho
assistito, ma… Sono sicura… C’era
un incendio, nella biblioteca? E quelle persone, santo cielo, chi
erano? Come
sono entrate qui?»
Adam
la osservò a lungo prima di parlare, probabilmente
riflettendo su quanto fosse
opportuno rivelarle; lo vide giocherellare con i gusci di alcune
noccioline,
schiacciandoli tra le dita fino a non lasciare che briciole e polvere,
finché
con un sospiro non riportò lo sguardo su di lei.
«Ci
sono cose che, milady, se ve le raccontassi, non vi farebbero dormire
la notte»,
esordì a mezza voce, con fare pacato. «E non
voglio che gettino ombra su una
cena piacevole. Vi basti sapere che ciò che è
accaduto la notte scorsa non si
ripeterà, e che finché sarete sotto la mia
protezione non avrete nulla da
temere.»
«Non
crederete che questo possa risolvere la faccenda»,
ribatté lei, sconcertata. «Sono
stata aggredita in casa mia, ho visto delle persone – persone
ricoperte di sangue, per l’amor di Dio
–
aggirarvisi liberamente e proferendo minacce, e voi mi dite che non ho
nulla da
temere? Per chi mi avete presa, signore, per una sciocca? Ho forse
l’aria di
esserlo?»
Emma
non vide l’improvviso irrigidimento che aveva avviluppato
l’uomo, ma non le
sfuggì la sfumatura gelida della sua risposta.
«Sapete che non è mia intenzione
offendervi. Non ho a cuore che il vostro benessere, e se vi dico che
fareste
meglio a dimenticare ciò a cui avete assistito non
è per prendermi gioco di
voi, ma per evitarvi di venire a patti con qualcosa che non potreste
capire.»
«Come
fate a dirlo? Mettetemi alla prova, parlatemene! O finirò
con il credere di
essere diventata pazza, e di aver avuto delle visioni che mi
perseguiteranno
finché avrò vita», insisté
lei, piegandosi istintivamente verso di lui come se
avesse potuto raggiungerlo e istigarlo a rivelare i suoi enigmi. Non
mentiva
quando parlava di pazzia, poiché quella era al momento
l’unica spiegazione
plausibile che riusciva a darsi; in che altro modo interpretare quelle
figure
oscene, uscite da chissà quale incubo, mutilate e grondanti
sangue e bruciate
vive che vagavano indisturbate nei corridoi di Pemberley?
«Non
vi siete ancora guadagnata il diritto di pretendere simili risposte da
parte
mia, milady», le rispose a quel punto, con un tono talmente
velenoso da farla ritrarre
d’istinto verso lo schienale della sedia. Un brivido la
percorse, e le rammentò
di quando le aveva fatto rimpiangere l’idea di aggredirlo
– poteva quasi
sentire ancora il fantasma delle sue dita intorno alla gola.
«Sono ancora io il
padrone, e mio è il privilegio di decidere di quali segreti
mettervi a parte.
Siete ancora scossa per tutto ciò che è accaduto,
ne sono consapevole, e non vi
biasimerò per questa vostra scarsa delicatezza; ma vi chiedo
di non farmi altre
domande al riguardo, perché non potrei
sopportarlo.»
«Voi non potreste sopportarlo? Mi state
chiedendo di accettare e basta un qualcosa che non comprendo e che mi
terrorizza», gli rispose piano e con altrettanta freddezza,
squadrando la sua
maschera bianca.
«Sì»,
ammise lui senza fronzoli. «E vi chiedo perdono. Ma non
c’è nulla che io vi possa
dire, al momento; eppure sappiate che, se avrò ragione a
potermi fidare del
vostro giudizio, prima o poi ve ne parlerò di mia spontanea
volontà... poiché
sapervi spaventata o addolorata per qualcosa di cui sono
involontariamente la
causa mi riempie d’angoscia.»
Emma
avrebbe voluto urlare dalla frustrazione. Credeva davvero che sarebbe
bastato
un po’ di carisma e fascino per ammansirla, per convincerla a
dimenticare? Se
c’era qualcosa che mal tollerava era venir trattata con quel
genere di
condiscendenza, come una bambina che non può comprendere i
discorsi degli
adulti e viene pertanto lasciata nell’ignoranza
più assoluta. Era faticosamente
riuscita a far perdere quel vizio a suo padre – che aveva
iniziato a trattarla
da pari solo durante la malattia della contessa di Grantham, quando
Emma si era
dimostrata più che capace di gestire situazioni drammatiche
– mentre con
Caledon la strada da percorrere era ancora piuttosto lunga,
benché egli
probabilmente si vantasse di avere un buon rapporto di uguaglianza con
lei; e
se non riusciva a sopportare quel comportamento da parte del fidanzato,
figurarsi se poteva subirlo dall’uomo che la teneva rinchiusa
e le imponeva la
propria presenza!
Probabilmente
il silenzio si era protratto troppo a lungo, perché fu di
nuovo la voce
dell’uomo a spezzarlo. «Ebbene, milady, non
rispondete?»
Emma
scosse piano la testa, senza guardarlo. «Come io non posso
costringervi a dirmi
qualcosa se voi non volete farlo, allora voi non potete impedirmi di
essere
infastidita e arrabbiata», ribatté sottovoce,
certa comunque che lui l’avrebbe
udita.
«Siete
arrabbiata con me?» L’incredulità nel
suo tono non celava alcuno scherno:
sembrava sinceramente sorpreso e desideroso di comprendere.
«Perché?»
«Perché?» Gli fece
inconsciamente il
verso. Poi, incapace di trattenersi oltre, esplose. «Ho
trascorso un’intera
giornata rinchiusa in una stanza che non mi appartiene, a domandarmi
quale
sarebbe stata la mia sorte, a chiedermi che cosa ne è stato
della mia
istitutrice, dei domestici, del mio cucciolo, e a ripercorrere minuto
per
minuto ciò che ho visto la notte scorsa,
sperando… sperando di poter contare su
di voi per avere qualche risposta sensata… E invece tutto
ciò che siete
riuscito a dire non ha fatto che confondermi ulteriormente e aggiungere
domande
su domande! E come se non bastasse, signore, il fatto che vi ostiniate
a
indossare quella maschera non contribuisce ad alleviare il mio
disagio!»
Stupida ragazzina
ingrata.
Adam
sussultò, mentre parole estranee rimbombavano nella sua
testa. Non si aspettava
di udirle così all’improvviso e in una situazione
di cui era sicuro di avere
l’assoluto controllo; prima di farsi prendere dal panico
distolse lo sguardo da
Emma e serrò gli occhi, cercando di riprendere il dominio
del proprio corpo con
dei profondi respiri. Intanto, però, la voce continuava,
sempre più minacciosa
e aggressiva, e a nulla servivano le suppliche silenziose
dell’uomo.
Non permetterle di
parlare in questo modo! Lei non sa niente, niente!
(Taci,
taci, oh buon Dio, taci, non osare dirmi cosa devo o non devo
fare…)
Guardati, sciocco,
guarda come ti stai facendo trattare! Le hai aperto la tua casa, le hai
offerto
protezione, e guarda come ti ripaga!
(Smettila…
vattene!)
All’improvviso
la voce si fece più morbida, suadente, parve accarezzarlo
dall’interno del cranio
e sfregarsi contro di esso come un gatto selvaggio che finge di fare le
fusa prima di attaccare e mordere la mano del padrone.
Lascia che venga
io, Adam. Lasciami solo con lei… le farò capire
con chi ha a che fare! E tu
avrai la coscienza pulita, come al solito, perché tu sai
quanto io tenga a te e
alla tua nobile morale…
(No,
maledizione, è mia ospite! Mia! Hai già avuto la
tua occasione, oggi, e l’hai
sprecata!)
Ha cercato di
ucciderci!
(Ah!
Puoi biasimarla?)
Maledizione a te, ruggì stavolta la voce,
con
rinnovata ferocia. Non discutere! Se non
sei capace di farti rispettare, lascia che lo faccia io!
(Ho
detto no! Tornatene nella tua tana e
lasciami in pace!)
Grazie
ad anni di esercizio e a un’invidiabile forza di
volontà, Adam riuscì a
racimolare abbastanza energia per mettere a tacere quel mostro che lo
divorava
come un cancro, e che albergava nel suo corpo alla stregua di un demone
che
godeva nel vederlo agonizzare. Ansimò quando udì
l’urlo di risentimento dell’altro,
gemito che misericordiosamente venne celato dalla maschera; ma il
dolore che
seguì la momentanea sparizione fu tale che
d’istinto si artigliò il petto
attraverso i vestiti, come se così facendo avesse potuto
arginare una ferita
interna ancora sanguinante. Doveva essere
veramente arrabbiato, rifletté confusamente.
«Mi…
mi dispiace, che la pensiate così»,
riuscì a dire alla fine con notevole
sforzo, rispondendo in ritardo al comprensibile sfogo della ragazza.
Quanto
a lei, Emma aveva assistito in silenzio a quello scambio senza poter
neanche
lontanamente immaginare che cosa stesse accadendo in realtà;
tutto ciò che poté
vedere fu l’uomo tremare come se stesse trattenendo
un’ira tanto grande e
mortale da roderlo dall’interno, e per un attimo –
breve e vergognoso – fu
divisa tra terrore e preoccupazione. Ma per quale motivo avrebbe dovuto
preoccuparsi? Per quello che poteva saperne lei, poteva trattarsi solo
di un
trucco – un trucco per impietosirla e renderla più
bendisposta nei suoi
confronti, nei confronti del povero sfortunato Adam che lottava con se
stesso e
non chiedeva che un po’ di comprensione.
Invece
di rispondere e continuare quello che sarebbe di certo sfociato in un
ulteriore
alterco, la giovane preferì passare ad altri discorsi.
«I vostri occhi sono
azzurri», riprese dopo una piccola pausa, in maniera quasi
accusatoria.
Non
potendo vedere le sue espressioni, Emma poté solo
immaginarlo mentre aggrottava
la fronte. «Mi complimento per il vostro spirito di
osservazione», mormorò,
perplesso dal rapido cambio d’argomento.
«Ero
convinta che fossero neri. Mi sono sembrati neri, questa
mattina», insisté lei,
ormai non più intimidita dal suo tono gelido e seccato. Era
come se, adesso che
aveva mangiato alla sua tavola, si sentisse all’improvviso al
sicuro – merito
forse dell’usanza antica di secoli secondo cui un ospite che
era stato accudito e nutrito sotto il
tetto del suo padrone di casa poteva considerarsi sacro.
«Al
buio vi saranno parsi scuri. Venite», disse poi, liquidando
bruscamente
l’argomento e portandosi dietro la sua sedia con
l’intento galante di
scostargliela. «Vogliamo spostarci in salotto?»
Sembrava
a sua volta deciso a non discutere con lei, e poiché Emma
non aveva ancora idea
di che cosa aspettarsi da lui né di come sarebbe stato
meglio relazionarcisi,
non poté che accettare il piccolo ramo d’ulivo.
Una
porticina, quasi nascosta tra i pannelli di legno, collegava a
mo’ di passaggio
segreto la sala da pranzo a un salottino più piccolo: esso
era dotato a sua
volta di un camino acceso, due poltrone, un tavolino quadrato con una
scacchiera le cui pedine erano pronte alla battaglia, un mobiletto
porta
liquori, altri arazzi e vari candelabri in ottone.
«Fate
attenzione ai gradini», l’avvisò con
solerzia la sua voce, proveniente da
qualche punto dinnanzi a lei. Presto la penombra del nuovo ambiente si
dissipò,
man mano che Adam accendeva le candele, ed Emma poté vedere
meglio ciò di cui
aveva solo indovinato le ombre. Ora notò un altro tavolo,
ricoperto da un
consumato panno rossiccio, su cui erano ordinatamente posati un mazzo
di carte,
un servizio da tè in argento e una scatola in legno che di
sicuro conteneva
sigari.
«Desiderate
del caffè?» Le domandò, accennando alla
teiera – ora lo notava –
fumante.
Sembrava che
conoscesse ogni suo gusto,
notò. «Sì, grazie.» Lo
osservò di sbieco mentre versava la bevanda bollente in
due tazzine, per poi lasciar cadere con sicurezza una zolletta di
zucchero in
quello che le porse. Sì, decise
aggrottando leggermente la fronte, decisamente
conosceva i suoi gusti. Dunque aveva trascorso davvero le
scorse settimane
a spiarla, e trovò assurdo riconoscere di non essersi mai
accorta di nulla.
Terminò
di bere il caffè e si sentì d’un tratto
più rinvigorita, più lucida: il calore
e il gusto leggermente amaro presero a scorrerle nelle vene rinforzando
la sua
determinazione. Senza aspettare un’altra parola dal suo
misterioso compagno si
avvicinò a una delle poltrone, e vide sulla seduta il
piccolo tomo grigio che
pareva non attendere che lei. Emma prese con gentilezza tra le mani il
volume
dalla copertina lisa e leggermente sbiadita, come di un libro stanco di
essere
letto, e lasciò scorrere gli occhi su titolo e autore con un
sopracciglio
inarcato: L’isola del tesoro, di
Robert Louis Stevenson.
«Uno
dei miei primi libri», le spiegò a mezza voce Adam
con un tono che pareva quasi affettuoso,
prendendo posto accanto a una delle poltrone in attesa che lei si
sedesse per
prima. «Vi dispiacerebbe leggerlo?»
Lei lo
guardò, perplessa. «Dovrei… leggere ad
alta voce?»
«Se
non vi aggrada, milady, l’alternativa è di
conversare con me.» Il suo tono
nascondeva un che di beffardo, ed Emma riuscì a cogliere
l’accenno di sfida in
esso: peccato che non avesse voglia di raccoglierla.
«Molto
bene», ribatté, piuttosto seccamente. Non aveva
intenzione di chiacchierare del
più e del meno con quell’uomo come se fosse stata
la cosa più normale del mondo,
fintanto che lo poteva evitare; inoltre, come aveva già
dimostrato la cena,
conversare con lui si era rivelata una cattiva idea. Voleva evitare di
dire
qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire il giorno seguente, se
possibile. «Stevenson,
dunque?»
Egli
non rispose, limitandosi a un cenno affermativo del capo, ed Emma prese
posto
sulla poltrona posta di fronte alla sua aprendo il libro direttamente
al primo
capitolo. Non aveva idea che il suo ospite nutrisse simili gusti in
fatto di
lettura – chissà perché si era fatta
l’idea che gradisse di più saggi o testi
filosofici e fisici piuttosto che romanzi da tempo libero – e
per un attimo tale
scoperta glielo rese assai più umano e rassicurante di come
lo avesse considerato
fino a quel momento. Quanto poteva essere cattivo un uomo che
apprezzava
romanzi su bucanieri e tesori nascosti e ragazzini spauriti?
Sollevò gli occhi
brevemente per accertarsi ch’egli avesse a sua volta preso
posto; e a quel
punto, poiché aveva infine scelto di rispettare la sua
decisione di assecondarlo, iniziò a leggere.
«“Il signor Trelawney, il dottor Livesey e
gli
altri gentiluomini mi hanno chiesto di mettere per iscritto tutti i
dettagli
riguardanti l'Isola del Tesoro, dal primo all'ultimo, senza omettere
nulla
salvo la posizione dell'isola, e questo solo perché una
parte del tesoro non è
stata ancora portata alla luce…”»
Per
tutta la durata della lettura, Emma sentì i suoi occhi
addosso come se fossero
state mani pressanti che sfioravano ogni centimetro del suo corpo. Si
trovava
in una situazione insolita con un personaggio ancor più
singolare, e
inizialmente non poté evitare alla propria voce di tremare e
inciampare in
qualche parola; era da parecchio che non leggeva per qualcuno
– le ultime volte
l’aveva fatto per sua madre, quando la donna era troppo
stanca e provata dalla
malattia per poter far altro che non fosse dormire e mormorare parole
di tanto
in tanto – e dunque aveva perso l’abitudine. Ma
presto, merito della trama
interessante del volume e della calma che si era impadronita
gradualmente di
lei, la sua lingua prese a scivolare abile su frasi e paragrafi e
capitoli
senza balbettare. In fondo, pensò, se questo era tutto
ciò che egli voleva da
lei non era poi così male.
Lei
certo non poteva saperlo, assorta com’era nel libro, ma Adam
l’ascoltava rapito
come se avesse potuto abbeverarsi di ogni suono che le usciva dalle
labbra, e
non staccava gli occhi da lei per il semplice motivo che, in quel
momento, la
ragazza gli appariva così bella che sembrava intagliata in
una perla; la luce
del camino creava una strana aureola dorata intorno ai suoi morbidi
capelli
d’un castano scuro, e il calore delle fiamme le aveva
arrossato le gote e la
piccola porzione di pelle tra gola e clavicole lasciata nuda
dall’abito che
aveva scelto per lei. Teneva il libro leggermente sollevato e la
schiena appena
curva su di esso, come se avesse voluto entrare nella storia stessa:
Adam
comprendeva quella brama, e fu deliziato nel ritrovarla in lei.
L’aveva
osservata spesso nelle settimane passate, mentre leggeva nella
biblioteca del
maniero, ma sempre da lontano, sempre da qualche nascondiglio, timoroso
di fare
il più piccolo rumore e disturbarla. E adesso invece le era
così vicino che se
avesse allungato una mano sarebbe riuscito a sfiorarla… non
che avrebbe osato
farlo, ma comunque… Il solo pensiero di esserne capace era
quasi sufficiente. A
un certo punto le parole del capitolo iniziarono a diventare confuse ed
egli
perse ogni interesse per il contenuto di quel libro che conosceva a
memoria, catturato
dalla melodia della voce di Emma e talmente concentrato da aver
inconsciamente
regolato il proprio respiro al suo.
E
per un attimo si immaginò mentre immergeva le dita tra quei
capelli per
saggiarne la morbida sericità, sfilando le forcine una per
una e lasciandole
cadere per terra, in modo che la sua chioma si liberasse in lunghe onde
castane
fino a ricoprirle spalle e schiena come un prezioso mantello; e poi
massaggiarle con le punte dei polpastrelli il cuoio delicato della nuca
per poi
scivolare lentamente e delicatamente verso il collo –
ricordava la sensazione
di averlo sotto le mani, solo che ora immaginava un altro tipo di
stretta, non
minacciosa, non letale, ma sensuale, lasciva. Socchiuse gli occhi e si
vide
mentre le sue dita le scioglievano i lacci del vestito e poi quelli del
corsetto, allentandoli e permettendo alla carne bianca di venire alla
luce come
un frutto maturo che viene sbucciato. Poteva persino udire il fruscio
della
stoffa mentre sfregava sulla sua pelle e scivolava con lentezza ai suoi
piedi… La
sua immaginazione plasmò impudentemente quel corpo che non
aveva mai osato spiare – benché il
suo desiderio fosse bruciante non sarebbe mai arrivato a tanto
– e gli diede
sostanza, colore, pienezza, fin quando non riuscì a
percorrere con gli occhi
della mente la linea sottile della sua spina dorsale, e le sue braccia
non si
avvolsero voraci intorno alla voluttuosità dei suoi fianchi.
Pensò a come
sarebbe potuto essere respirare il profumo dei suoi capelli e della sua
pelle,
e sentirseli piovere addosso nello slancio di una passione di cui
avrebbe
dovuto vergognarsi per il semplice averla desiderata…
Per
un attimo le immagini furono talmente vivide che dovette stringere con
forza i
braccioli della poltrona alla ricerca di un appiglio sulla
realtà, irrigidendo
le dita contro l’imbottitura al punto da farsi male. Non
poteva perdere il controllo. Se si fosse distratto, anche
solo
un momento – se avesse abbassato troppo la guardia allora
nulla avrebbe potuto
frapporsi tra lei e l’altro… E
come aveva dimostrato il breve episodio durante la cena, lui era
ancora troppo irritato
dall’incidente con il candelabro di quella mattina per
potergli permettere di prendere
il sopravvento. Sarebbe bastato un solo passo falso per guastare quella
labile
atmosfera di pacata e dubbiosa accettazione, e per quanto gli era
possibile
avrebbe cercato di evitarlo. Emma doveva innanzitutto imparare a
fidarsi di
lui, e poi, in seguito, forse… se
anche l’altro si fosse comportato
bene… Beh, ci avrebbe pensato allora.
Per
il momento preferiva tenere la ragazza tutta per sé.
Emma
smise di leggere solo quando il prezioso orologio a pendolo
suonò i primi
rintocchi della mezzanotte. Sorpresa, poiché non aveva idea
che fosse già
trascorso tutto quel tempo, sollevò gli occhi dalle pagine
del libro e si
guardò brevemente intorno prima di realizzare dove e
soprattutto con chi fosse.
Il silenzio era tale, nella stanza, che si udiva solo il crepitio del
fuoco, ed
Emma si era quasi convinta di essere sola: ma di fronte a lei
c’era ancora la
solida presenza di Adam, che aveva istintivamente distolto lo sguardo
non
appena lei si fu risvegliata dalla trance indotta dal libro.
Chiuse
il volume preoccupandosi di tenere un dito in mezzo alle pagine a
mo’ di
segnalibro, e raddrizzò la schiena per sgranchirla.
«Si è fatto tardi…»
Osservò
piano, mentre l’eco degli ultimi rintocchi si perdeva come
fumo nell’aria.
Adesso avvertiva una certa sonnolenza calare sulle sue membra,
benché avesse
trascorso tutta la giornata a sonnecchiare e rimuginare a letto: poteva
aver
dormito, ma di certo non aveva riposato. E adesso quella stanchezza
iniziava a
farsi sentire, unita all’effetto del vino che aveva
sorseggiato a cena e del
calore quasi soffocante del piccolo salottino.
«Ah…
sì», convenne lui, osservando brevemente
l’orologio a pendolo. Sembrava essere indeciso
su come concludere la serata, su cosa ci si aspettasse da lui in quanto
anfitrione. «Volete… mh… Volete
ritirarvi?»
Emma
annuì, sperando di non contrariarlo. «Sono
stanca», spiegò con cautela; la
magia della lettura pareva essere cessata insieme ai rintocchi, come in
una
delle fiabe che le leggeva Lizzie quando era bambina, e tutto
ciò che restava
adesso erano due sconosciuti che si fissavano come gatti impauriti e
diffidenti
dai lati opposti della stanza. «E quel vino rosso,
credo… Credo che mi abbia
dato un po’ alla testa.»
Si
alzò con movimenti goffi, come se non sapesse bene entro
quale spazio muoversi,
e poi si chinò di nuovo per posare il libro sulla poltrona,
palesemente a
malincuore.
«Oh,
no, potete tenerlo», si affrettò a dirle Adam,
alzandosi a sua volta e
accennando d’istinto un passo nella sua direzione.
«Se vi interessa, intendo.
Io lo conosco già a memoria.»
«Oh»,
fece lei. Riprese il libro e lo tenne con cura tra le mani, annuendo
appena. «Sì.
Vi ringrazio.»
Senza
più sapere che scusa inventarsi pur di trattenerla ancora,
Adam si avvicinò a
prendere uno dei candelabri e spense gli altri, dandosi una rapida
occhiata
intorno per controllare di non aver scordato nulla; lei lo
osservò con fare
distratto, accarezzando la copertina stranamente morbida del libro e
pensando
che, in fondo, la serata non era stata orribile quanto aveva
preventivato.
«Vogliamo
andare?» Le domandò a mezza voce, facendole cenno
di precederlo verso la porta.
Malgrado tutto gli fu grata che non le avesse porto il braccio
mettendola
nell’imbarazzante condizione di rifiutare – per
quanto potesse comportarsi da
gentiluomo, infatti, ciò non cancellava il modo in cui
l’aveva indotta in
quella stravagante situazione, e da parte sua aveva ancora parecchi
scrupoli. Tuttavia
lo seguì senza fiatare.
Stavolta
a Emma parve che avessero impiegato meno tempo per raggiungere la sua
camera da
letto rispetto all’andata, o forse era talmente immersa nei
suoi pensieri da
non aver prestato la medesima attenzione al tragitto. Le sembrava di
camminare
in un sogno, stordita e confusa, cercando la logica in un luogo che ne
era
privo; adesso l’intera serata le pareva avvolta
dall’ombra ovattata di una
visione, come se non l’avesse davvero vissuta in prima
persona ma attraverso
gli occhi di qualcun altro.
Sempre
con la medesima prospettiva osservò Adam fermarsi davanti
alla porta della
camera e spalancarla, attendendo che lei entrasse per prima –
più per timore che a lei potesse venire
l’idea di chiuderlo dentro e fuggire che per cavalleria,
pensò – per poi
seguirla e poggiare su un tavolino il candelabro.
«Questo
lo lascio a voi, potrebbe servirvi», puntualizzò,
indietreggiando di qualche
passo.
Emma
annuì, gli occhi puntati sulle fiamme danzanti delle candele
come ipnotizzata.
«Grazie», disse per l’ennesima volta; non
credeva che si sarebbe ritrovata a
ringraziarlo così spesso e nell’arco di
un’unica notte.
«Buonanotte,
milady», mormorò Adam con un inchino, prima di
voltarsi e raggiungere la porta.
Lo
scatto della chiave all’esterno risvegliò in lei
ciò che per un momento si era
concessa di dimenticare durante quello strano dopocena: la cupa
consapevolezza
di essere ancora prigioniera.
Prima di riuscire a prendere sonno – cosa
oltremodo difficile, dopo l’incredibile serata che aveva
appena trascorso –
Emma si ritrovò a riflettere a lungo e a fare un punto della
situazione. Il suo
primo pensiero andò ai signori Duncan, con particolare
interesse per la
governante: la giovane iniziava a dubitare, infatti, che i custodi
della tenuta
fossero completamente all’oscuro che Pemberley fosse abitata
da un personaggio
tanto insolito. Intanto era sempre più convinta che la cena
fosse opera di Mrs.
Duncan – iniziava a riconoscere il tocco della donna nei vari
piatti, benché
non avesse mangiato molto quella sera – e di certo se dietro
a tutto ciò ci
fosse stato effettivamente il suo zampino molte cose avrebbero avuto
una
spiegazione. A partire dal suo monito di evitare l’ala Ovest
il primo giorno in
cui era arrivata a Pemberley, per finire con la sua fuga al villaggio
proprio
la notte in cui lei era stata rapita… Buon Dio, miss
Radcliffe aveva avuto
ragione per tutto il tempo, avrebbero dovuto avvisare suo padre! E
adesso,
invece, era da sola, da sola in un castello maledetto in mezzo alla
brughiera,
con l’unica compagnia di un uomo mascherato e di domestici
ambigui che
chiaramente lavoravano per lui… Persino Caledon era lontano,
e sarebbero
trascorsi un’altra decina di giorni prima che il suo
fidanzato rientrasse dalla
Scozia!
Per la prima volta, avvertì tutto il peso
della disperazione e della solitudine gravare su di sé. Non
trovava alcuna via
d’uscita alla situazione, se non stringere i denti e
assecondare il suo
carceriere finché non si fosse stancato di lei e avesse
accettato di lasciarla
andare; oppure, oppure… L’alternativa restava
sempre la stessa, ossia cercare
un modo per fuggire. Ma come avrebbe potuto farlo, se lui non la
perdeva di
vista un solo istante e se la chiudeva a chiave in quella stanza senza
altre
porte né finestre?
Si addormentò piangendo, vinta più dalla
stanchezza delle lacrime che dal sonno vero e proprio. E rimase
così per poche
ore, cullata da strani rumori provenienti da qualche punto sopra o
tutt’intorno
a lei – rumori di oggetti striscianti e ululati che avrebbero
potuto
appartenere ad animali o semplicemente al vento che soffiava attraverso
imposte
rotte o canne di camini. Dormì poco e dormì male,
sognando maschere che la spiavano
dall’oscurità e mani che si allungavano per
ghermirla.
Nel cuore della notte, poco tempo dopo che
anche l’ultima anima nel castello si fu addormentata, dei
passi silenziosi
scivolarono nel corridoio all’esterno della stanza dove Emma
era rinchiusa.
Essi si avvicinarono trepidanti alla porta, e mani pallide e delicate
si
posarono sulla maniglia opaca; una chiave apparve da sotto le pieghe di
un
mantello, e si infilò con sorprendente facilità
nel buco della serratura. Uno
scatto leggero, e la porta si aprì dolcemente.
La figura si avvicinò piano all’immenso letto
a baldacchino somigliante più a un catafalco che non a un
confortevole
giaciglio ispirante sonni sereni, e si piegò appena sulla
fanciulla
addormentata senza aver bisogno di candele per distinguerne le linee
del volto
e la treccia gettata da un lato con un gesto infastidito. I suoi occhi
vedevano
bene nel buio e non gli fu difficile notare le ombre rosse attorno a
quelli
della fanciulla, le sue labbra piegate
in una smorfia sofferente, le guance striate da lacrime ormai asciutte.
Deglutì, intristito, e allungò una mano tremante
verso di lei, fino a
posargliela sulla spalla.
«Sveglia, signora»,
sussurrò, scuotendola
con scarsa delicatezza. «Presto, sveglia.»
Quando
Emma aprì gli occhi, strappandosi faticosamente alle spire
del sonno, non
riuscì a trattenere un gemito spaventato nel vedere il viso
pallido e
circondato da una zazzera scomposta di capelli biondi di Noah Duncan,
il figlio
dei domestici che ormai non vedeva da quando aveva messo piede a
Pemberley. Era
stato lui a svegliarla, benché nel sogno le era parso di
udire la voce di
Caledon, e sempre sue erano le mani gelide che le stringevano le spalle.
«Sssht!» Mormorò lui,
gli occhi larghi e
lucidi colmi di terrore. «Devi venire con me, signora,
presto.»
«Come…
come hai fatto a entrare?...» Domandò confusa,
ricordando vagamente una porta
che veniva chiusa a chiave e la sensazione di essere in trappola. Di
certo, pensò, stava ancora sognando.
«Dopo,
dopo», insisté lui, tirandola
per un
braccio per farla scendere dal letto. «Ora tu
vieni!»
L’insistenza del giovane era tale che Emma
non trovò quasi nulla di strano nello scostare le coperte e
nell’abbandonare il
caldo tepore dell’alcova, pronta a seguirlo docilmente. Egli
le indicò i suoi
vestiti gettati su una poltroncina, e le intimò con
gesti vari di indossarli e di rimanere in silenzio.
«Stanotte
andrai via, signora», le sussurrò piano,
passandole l’abito con gentile
premura.
Emma
sgranò gli occhi, incredula: aveva udito bene? Noah la stava
aiutando a fuggire,
davvero? «Intendi… intendi che andrò
via dal castello? Mi farai scappare,
Noah?» Sussurrò di rimando, prendendogli le mani
tra le sue e stringendole
forte, come per accertarsi di essere sveglia.
Lui
annuì, accennando un sorriso ma senza perdere lo sguardo
terrorizzato. «Sì, sì.
Presto, però.»
La ragazza non trovò nulla da dire per
contestare, e ancora stordita dal sonno si rivestì alla
bell’e meglio: non
avendo niente di meglio da indossare, infilò
l’abito da sera che aveva
utilizzato per la cena, poche ore prima, direttamente sopra la camicia
da
notte, senza curarsi di indossare corsetto o sottoveste, e gli
stivaletti senza
calze, giacché non le usava per dormire. Sopra si
gettò il mantello che le
aveva portato il caro Noah, probabilmente in vista della fuga
– rimpianse il
suo bel cappotto con gli interni foderati, ma non c’era il
tempo di raggiungere
la sua camera e frugare nell’armadio: non aveva idea di
quanto avesse a
disposizione, visto che per quel che ne sapeva lei Adam sarebbe potuto
essere proprio
dietro l’angolo, pronto a riagguantarla.
Così lasciò che Noah la prendesse per mano e
la trascinasse fuori, nel corridoio buio, correndo il più
silenziosamente
possibile e ringraziando tra sé e sé i tappeti
che attutivano i loro passi
concitati. Tramite le loro mani unite, Emma notò che quelle
del ragazzo
tremavano, sudate, e non poté fare a meno di provare una
forte gratitudine nei
confronti di quel poverino che, malgrado temesse il castello al punto
da
sfiorare la follia – e, sinceramente, ora come ora lei non si
sentiva di
biasimarlo – era comunque entrato, penetrando fino alla
maledetta ala Ovest,
pur di venire ad aiutarla. Non aveva idea di come avesse fatto a sapere
di lei,
né a sapere dove si trovasse, e tuttavia non le importava;
oramai era circondata
da tanto di quel soprannaturale che aveva smesso di cercare la logica
in ogni
cosa.
Noah la condusse alle scuderie tramite
stretti passaggi che Emma non sarebbe riuscita a ritrovare nemmeno
volendo;
probabilmente era passato attraverso i corridoi dei domestici, ossia
nelle
lunghe e strette scale a chiocciola che si celavano dietro i muri e
permettevano alla servitù di raggiungere tutte le stanze
senza passare negli
stessi anditi riservati ai padroni di casa. Ogni parete pareva celare
un
segreto: anche ad Hambleton vi erano simili spazi, ma chissà
perché tutto a
Pemberley pareva molto più infido e misterioso –
persino le piccole cose di
tutti i giorni alle quali Emma era abituata.
Il giovane le lasciò la mano soltanto quando
raggiunsero il recinto di un cavallo già strigliato e
sellato, il cui manto
grigio e bianco spiccava come uno spicchio di luna
nell’oscurità della stalla.
Il meraviglioso animale era lo stesso che lei aveva preso per la sua
piccola
gita al vecchio camposanto, e quando allungò una mano per
posarglielo sul muso
umido e vellutato il cavallo si lasciò accarezzare
volentieri, dando segno di
riconoscerla.
Prima di montare in sella, il suo pensiero
raggiunse brevemente Adam. In fondo non avevano trascorso una serata
spiacevole
– se si escludeva come aveva replicato alle sue
più che lecite domande
bisognava ammettere che si era comportato in modo impeccabile, come le
aveva
promesso, non aveva alzato un solo dito su di lei se non per
accompagnarla di
stanza in stanza, e benché non avessero conversato
granché poteva dire con
certezza ch’egli non pareva voler avere cattive intenzioni.
Ma comunque, rifletté ancora, ciò non
toglieva che la stava tenendo prigioniera – e nella sua
stessa casa! E quella
maschera, poi, cosa sarebbe accaduto se avesse celato
l’identità di un qualche
malintenzionato ricercato nella contea? Poteva davvero fidarsi? Che
cosa
avrebbero pensato suo padre, Miss Radcliffe?
Oh buon dio, miss Radcliffe! Non posso andarmene e
lasciarla qui!
Stava per dar voce a questa considerazione
quando Noah l’afferrò a un braccio, scuotendola
leggermente. «Non c’è tempo,
signora», mormorò
febbrilmente. «Non preoccuparti: ci prenderemo cura noi di
lei. Ma tu devi andare via!»
Emma
lo fissò come se avesse dinnanzi un fantasma.
«Come fai a sapere… parli di miss
Radcliffe?...»
«Non
c’è tempo, non c’è
tempo», continuò a
ripetere, angosciato. «Tornerai per lei. Ma ora vattene, ti
prego, signora!»
Lo
sguardo terrorizzato del giovane insieme a quella sua improvvisa
loquacità rese
davvero tangibile il pericolo in cui si trovava, e comprese che
indugiare
ancora avrebbe reso vane le sue intenzioni.
Se non scappo ora,
non andrò mai più via da qui.
«Tornerò,
Noah, per te e per miss Radcliffe. Domani», lo
rassicurò risoluta, non
riuscendo a trattenersi dall’abbracciarlo. Gli
sfiorò entrambe le guance con
due rapidi baci e poi si voltò per montare a cavallo,
afferrando le redini. «Grazie
di tutto», aggiunse ancora.
Il
ragazzo annuì, gli occhi ancora sgranati per
quell’inattesa manifestazione d’affetto,
poi indietreggiò di qualche passo. «Via, signora, via!»
Diede una pacca decisa al posteriore dell’animale ed esso
partì senza neppure un nitrito, quasi comprendesse la
gravità della situazione.
Emma si voltò ancora una volta per ringraziare il giovane
con lo sguardo, ma
egli era già sparito all’interno delle stalle,
serrando il portone con un tonfo
secco.
Sperando
di non aver perso già troppo tempo, mormorò una
preghiera e spronò l’animale al
galoppo.
Una
fitta foschia circondava il castello, talmente densa da rendere
impossibile
vedere qualsiasi cosa che si trovasse a più di una spanna
dal proprio naso; era
sinistra e minacciosa, dissimulava i luoghi familiari e confondeva
chiunque
fosse stato tanto stolto da uscire di casa con un tempo del genere. Il
cavallo
incespicava nel terreno, nitrendo nervosamente, ma Emma
l’incitava senza pietà
a proseguire, spingendolo al limite delle sue forze.
Onestamente,
non sapeva dove andare né quale strada stesse seguendo. Era
stato abbastanza
semplice percorrere il vialetto giù per la collina, ma una
volta raggiunto il
limitare della boscaglia che circondava l’altura sulla quale
sorgeva il
castello ogni visibilità era stata come inghiottita dal buio
e dalla nebbia.
Benché fosse una notte di luna piena, infatti, essa pareva
essere stata
divorata dalle nubi scure e dalla bruma, e la visibilità
sarebbe stata la
stessa anche se la giovane avesse avuto gli occhi bendati. Emma non
osava
rallentare – non sapeva quanto vantaggio avesse a
disposizione, qualcosa le
diceva però che Adam non avrebbe impiegato troppo tempo ad
accorgersi della sua
scomparsa e a venirle dietro – per cui spronò
ancora una volta il cavallo,
facendolo tuffare nel bel mezzo della vegetazione.
Il
suo intento, sempre se avesse riconosciuto il sentiero, era di
raggiungere la
casa di Sir Carlisle; l’uomo le era parso gentile e a modo,
sempre pronto ad
aiutarla, e oramai lo conosceva da abbastanza tempo da sapere di poter
contare
su di lui alla stregua di un parente. Di certo, se gli avesse
raccontato
l’intero accaduto, egli si sarebbe mobilitato per risolvere
il mistero e
cacciare la misteriosa presenza da Pemberley Manor; e avrebbe potuto
domandargli il favore di ospitarla per il resto della notte in attesa
che il
mattino giungesse con delle risposte. Non era certo la cosa
più educata da
fare, giungere ad Ashfield nel cuore della notte senza essere
annunciata e pretendere
soccorso, ma cercare di raggiungere il villaggio in quelle condizioni
era
ancora più pericoloso, senza contare che avrebbe rischiato
che i paesani la
prendessero per pazza. Già immaginava che cosa avrebbero
detto di lei… La figlia del conte di Grantham che
fugge
dalla sua tenuta in abiti scomposti e infangati, e attraversa miglia e
miglia
di brughiera nel cuore della notte!... Se avesse gettato una
simile macchia
sulla propria reputazione né suo padre né Caledon
l’avrebbero mai perdonata, ed
era per questo motivo che aveva deciso di andare innanzitutto da Sir
Carlisle:
poteva ben contare sulla discrezione dell’uomo, non nutriva
alcun dubbio al
riguardo.
Ma il suo sollievo durò ben poco: non
aveva percorso neppure un miglio, quando udì un allarmante
rumore di zoccoli
provenire da qualche parte alle sue spalle. Buon
Dio, pensò, terrorizzata. L’aveva
già
scoperta? La stava inseguendo?
Premette
i talloni contro i fianchi dell’animale per farlo andare
più in fretta, ma
l’incalzante fragore dietro di lei si faceva via via
più nitido, sempre
più vicino, come una tempesta in arrivo che non si
può vedere ma di cui si può
udire in lontananza il rimbombo dei tuoni. L’unica soluzione
per confondere il
suo inseguitore e guadagnare tempo era abbandonare la strada battuta,
così,
seppur a malincuore, diresse il cavallo verso destra, in mezzo agli
alberi e ai
cespugli, in un groviglio di vegetazione selvaggia che avrebbe dovuto
nascondere lei e rallentare chiunque avesse alle calcagna.
Rimpianse
quasi subito la sua idea, tuttavia: la boscaglia era così
fitta e aggrovigliata
che i lunghi rami dei rovi si aggrapparono alla stoffa dei suoi abiti,
tendendosi verso di lei come artigli adunchi che parevano volerla
trattenere
dal proseguire; il cavallo nitrì, infastidito, ma Emma non
aveva il tempo di
essere pietosa nei suoi confronti. Lo spinse ad andare oltre,
strappando con le
mani i tralci dai propri vestiti e chinando il capo per evitare di
rimanere
incastrata con i capelli; gemette quando le spine le graffiarono le
mani prive
di guanti e i polpacci nudi che spuntavano dal vestito, facendoli
sanguinare, ma
non demorse: ci sarebbe stato il tempo di leccarsi le ferite
più tardi,
sperava, una volta al sicuro dalla malsana presenza di Adam.
«Vai,
bello», sussurrò, accarezzando il collo irrigidito
del cavallo, cercando di
tranquillizzarlo. «Andiamo via di qui.»
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* Il fatto che
Adam legga tra tutti Robert
Louis Stevenson non è solo perché è
appassionato di romanzi di viaggi e
avventure (potete biasimarlo? È praticamente nato e
cresciuto tra quattro mura,
sogna di vedere il mondo – i suoi libri sono un po’
lo specchio magico della
Bestia che gli mostrava il mondo esterno), ecco, dicevo, ma anche
perché
Stevenson ha scritto “Lo strano caso del
Dr. Jekyll e del Signor Hyde”, che è uno
dei romanzi che mi hanno ispirato
per questa storia, e dunque mi sembrava carino inserire un
piccolo… omaggio.
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Note dell'Autrice.
Ringrazio, come al solito, chiunque legga e aggiunga la storia alle Seguite e alle Preferite, nonché e soprattutto le splendide Sylphs, savy85, Nimel17, Se7f, JollyJ e dachedas per aver recensito lo scorso capitolo: sono davvero molto, molto contenta che Adam vi sia piaciuto - ho una sorta di ansia da prestazione per questo personaggio, l'ho detto e lo ripeto - e spero sinceramente che continui ad essere di vostro gusto anche nei prossimi capitoli. :) Sto cercando di rendere questa storia il più "corale" possibile, di curare sia i personaggi principali che quelli secondari, in modo da avere una chiara visione dell'insieme e di non focalizzarmi soltanto su Emma-Adam dato che questa non sarà unicamente una storia d'amore ma anche - o almeno così spero che esca, chi lo sa poi quale sarà il risultato xD - una storia di mistero, azione e paura. Insomma, uno stile po' alla Dracula - lungi da me osare paragonarmi a quel romanzo, però - dove più o menso sappiamo cosa combinano tutti i personaggi. :D
And now, ladies and gentlemen. Vi lascio con due meravigliosi regali che mi sono stati fatti in onore di questa storia e le cui autrici non smetterò mai di ringraziare - okay, lo ammetto, ho promesso i miei primogeniti, ma credetemi che ne è valsa la pena. Sono lieta di presentarvi:
- Il video-trailer "Requiem for a Dream" - by @Christine23
- La meravigliosa copertina della storia - by @kenjina
Spero che vi lascino a bocca aperta così come è successo a me *__* (Non so se merito tutto questo ammore, sono commossa ç_ç)
Ora vado prima di piangere altre lagrime amare. A presto, mie darling!
Sempre la vostra affezionatissima
Niglia.