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Autore: Melian    29/10/2014    2 recensioni
"Sono passati quattrocento anni da che sono morto: era una calda notte di primavera e le stelle splendevano come gioielli sulla chioma di una dea.", scrive Alphonse di Benavia in una lunga e appassionata lettera che giungerà tra le mani della sua amata Alexandra. Nella notte tra il 30 e il 31 ottobre del 1806, Alphonse rievoca i lunghi anni della sua esistenza e svela la sua vita mortale, i suoi lunghi viaggi e il suo più oscuro segreto: il patto che lo lega a Nuberus, un misterioso Demone che si nutre di anime umane.
[Prima classificata e vincitrice dei premi "Velo di tenebra" e "Virtù dall'aldilà" al contest: "Tales of after shadow" di Geah.Nee]
[Prima classificata al contest: "Concedimi di essere schietto" di PadellaBarella e giudicato da ladyriddle]
[Prima classificata al contest: "L'amore che move il sole e l'altre stelle" di ScarlettBrooks]
[Seconda classificata al contest "Romance in pain" di LoveSomebody]
[Vincitrice dei premi "Miglior mini-long" e "Best plot" al contest "Tragic and Epica Love" di Jo_gio17]
[Seconda classificata al: "Let's talk about a Beatle. Let's talk about...The Cute One!" di DakotaDeveraux]
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo di Tenebra'
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CAPITOLO 2 – IL MARCHIO

 

 

 

Violate mi istruì nel Sangue per molti mesi e io scoprì un mondo fatto di sensi.
Scelsi di restare nella residenza estiva dei Benavia, in modo da suscitare nella mia famiglia meno sospetti possibili sulla mia nuova natura.
Imparai a celare il mio abisso dietro una coltre di maniere forbite e irreprensibili: da quel giorno fui l'uomo che mio padre a lungo aspettava maturasse e presi su di me la responsabilità di molti dei suoi affari.
Nessuna malalingua poté adombrare la mia condotta e tutte le cattive voci che circolavano su di me sfumarono, sciolte come neve al sole: il lupo aveva imparato a travestirsi da agnello.
Lo feci per preservare il vero segreto che mi accompagnava imperituro, e non per timore delle dicerie, naturalmente: ero un Bevitore di Sangue molto giovane e terribilmente affamato, non avevo alcuna intenzione di farmi scoprire e distruggere.
Non potevo resistere alla Sete e cacciavo spietatamente in ogni borgo, in ogni crocicchio, in ogni strada malfamata dove nessuno avrebbe pianto le mie prede.
Il sangue per me era tutto: la via, la verità, la vita. Non ne avevo mai abbastanza e adoravo la sensazione di calore che mi formicolava nel viso e nelle mani: il sangue della mia vittima danzava distendendo tutte le fibre inaridite del mio corpo, donandomi una parvenza di effimera umanità.
Non tornavo troppo spesso al castello e, quando accadeva, arrivavo rigorosamente dopo il tramonto. Andavo a trovare mia madre che, ormai, era invecchiata e passava le sue giornate ricamando davanti al camino nelle sue stanze. Allora, schermandomi dalla luce che il fuoco emanava e che mi era insopportabile, in piedi davanti alla finestra che dava sui giardini, la ascoltavo raccontarmi delle sue giornate, della vita mondana, dei pettegolezzi.
Mi guardava con un amore intenso e struggente malinconia, spesso standosene in silenzio. In quegli attimi privi di parole, sapevo che lei intuiva qualcosa, intravedeva un particolare in me che non aveva nulla di umano – l'iride brillante come metallo, i capelli lunghi e folti che sembravano avere una vita propria quando il vento li arruffava, la pelle pallida dove il reticolo di vene bluastre spiccava come una ragnatela, una sorta di fascinazione che mi portavo dietro e la bellezza travolgente dei Vampiri, simile a quella di statue scolpite nel marmo senza età, forti del loro enigma –.
Allora sobbalzava, schiudeva le labbra come sul punto di dire qualcosa e poi scuoteva il capo, tornava a sorridermi, scacciando i tristi presagi che si affollavano nella sua anima.
Mia madre, Donna Christine di Benavia, morì nell'inverno della mia rinascita per colpa di una violenta polmonite. La seppellimmo nella cappella di famiglia e le lasciai sulla tomba il suo scialle preferito: bianco e ornato di pizzo, quello con cui la ricordavo abbigliata quand'ero bambino.
Mio padre la seguì pochi mesi dopo, con l'arrivo della primavera. Non superò mai il dolore di quella perdita e si lasciò morire, consumandosi nel silenzio della camera che aveva diviso con sua moglie. Lo osservavo rimuginare per ore e compresi quanto i miei genitori si fossero amati, anche se raramente in pubblico li avevo visto scambiarsi qualche gesto di affetto. Il loro amore era sempre stato qualcosa di privato, consumato in tenerezze e piccole attenzioni dietro le cortine del castello senza che nessuno potesse intuirlo. Vidi i miei genitori, d'un tratto, sotto una luce diversa.
Mio padre si struggeva per il perduto amore della sua vita e io, senza che nulla più potesse davvero toccarmi il cuore, mi limitai ad esserne spettatore e a tumularlo accanto a mia madre quando spirò.
Mi sorpresi a chiedermi se avessi mai potuto conoscere una donna per cui sarebbe valsa la pena di “mettere la testa a posto”. Naturalmente era un pensiero senza senso.
Da essere umano, malgrado la mia condotta libertina, non avevo trovata nessuna che potesse dividere il mio abisso. Da Bevitore di Sangue, poi, mi sembrava chiaro che fosse del tutto impossibile.
Così mi trovai solo, ricco e potente, un gentiluomo dal vasto patrimonio e dalle molte proprietà, ma dalle abitudini bislacche, poiché di giorno non uscivo mai di casa e, anzi, dormivo il sonno degli Immortali, mentre la notte era il mio regno.
Ogni sera il castello si riempiva di voci, risate, musica, scalpiccio di passi, di feste.
Divenni il signore della contrada e non mi dimenticai mai di amministrare i possedimenti di campagna, la società mercantile o le piantagioni, lasciando la gestione ai contadini che avevano servito mio padre tanto fedelmente in tutti quegli anni. Per gli affari che abbisognavano della luce del sole per essere condotti, mi affidai a uomini leali a cui diedi la mia procura e che si rivelarono abili come avevo intuito: il mio sesto senso di Vampiro raramente sbagliava nel giudicare e selezionare gli esseri umani.
Avevo molte amanti, ma stavo ben attento che ciò che restava di quelle povere sventurate – corpi pallidi, sfioriti, svuotati, violati – non restassero nel castello, così che quegli omicidi non potessero essere ricondotti a me. A volte le seppellivo, altre volte le lasciavo galleggiare a faccia in giù sul fiume che tagliava la campagna e poi correva a gettarsi nel mare.
Spesso e volentieri, però, indugiavo in una lascivia e in una frenesia tale che Violate faticava a ricondurmi alla ragione: le mie vittime le appendevo a testa in giù, sgozzate, e attendevo che il sangue gocciolasse come da una macabra fontana. Bevevo di loro con la lingua tesa e la bocca spalancata come fanno i bambini che cercano di catturare e assaggiare i fiocchi di neve.
Dovetti aggrapparmi alla ragione e alla saggezza che l'esperienza di secoli donava a Violate, mia madre.
Lo potevo leggere negli sguardi, in quei guizzi di pensieri che la mia mente di Vampiro riusciva a rubare con facilità sotto forma di visioni: la gente scorgeva in me un essere meraviglioso, di una bellezza fuori dal comune, eppure letale, pericoloso. Gli umani istintivamente si ritraevano quando mi toccavano o incrociavano il mio sguardo capace di avvincerli in catene, avvertivano la freddezza delle mie solide membra, la perfezione di un corpo che il Sangue Oscuro aveva modellato fino ad averlo reso liscio e compatto come marmo polito, e agile, scattante come quello di un enorme belva selvatica.
Dovetti perciò stare molto attento a particolari che potrebbero essere definiti insignificanti, ma che – nel grande gioco delle apparenze – divenivano capitali.

Per esempio, gli abiti che indossavo erano pesanti d'inverno e freschi d'estate, così da dare l'impressione fittizia che soffrissi il caldo e il freddo esattamente come tutti gli altri. Presi l'abitudine di indossare dei guanti di pelle, così che coloro che sfioravo non avvertissero il contatto gelido con la mia mano, e schermavo gli occhi con la falda del cappello quando mi aggiravo tra le strade per celare il guizzo metallico che si rifletteva alla luce di qualche fiaccola.
Per la caccia, poi, mi spinsi molto più lontano rispetto ai primi tempi, quando non potevo controllare la mia Sete. Cercai di preservare la gente che viveva all'ombra della tenuta dei Benavia e me stesso da qualche inopportuna accusa.
Quello che cercavo davvero, però, non riuscivo mai a trovarlo negli occhi vacui di fumatori d'oppio, o nel fiato intriso di alcool degli ubriaconi, nemmeno tra le sottane delle prostitute sfiorite. Il mio appetito non si saziava con le povere, misere creature che prendevo nei quartieri malfamati, attirandole nell'ombra come in una ragnatela e violando le loro gole con i miei denti. Il sangue che sprizzava copioso tra le fauci riusciva a quietarmi solo per il tempo in cui il loro cuore martellava forte e io potevo sentirlo come il passo pesante e ineluttabile di un gigante che avanzava nell'oscurità, naufragando in un mare di visioni che esso evocava.
Quando poi la morte rapiva quegli sventurati e staccavo le labbra dallo squarcio che io stesso avevo scavato, li lasciavo stramazzare al suolo come sacchi vuoti e flosci e non provavo più nulla per loro. Li avevo intensamente amati, di quell'amore viscerale e carnale che è la lussuria del sangue, fin quando danzavano con me nel limbo tra morte e vita. Però quando li contemplavo riversi al suolo, pallidi come fantasmi, perdevano ogni attrattiva.
I Vampiri, Alexandra, sono attirati dalla vita, dal movimento, dalla bellezza di gesti dei mortali che ai nostri occhi preternaturali possono apparire persino goffi e buffi, ma che sono anche intrisi di una sensualità travolgente che ci chiama come falene. Abbiamo fame del tepore di un corpo tremante che si avvinghia al nostro e della sottile eccitazione mista a paura, del sangue speziato come una bevanda divina non appena il piacere del nostro Bacio serpeggia sotto la loro pelle.
Ne siamo attirati perché sono tutto ciò che noi non siamo più.
E fu questo, di te, che più di ogni altra creatura esprimevi con tale naturalezza e delicatezza, che mi fece perdere la testa.

 


Poi, un giorno, Violate mi lasciò. Erano trascorsi dieci anni e lei desiderava partire, recarsi in Italia a visitare la magnifica Roma e la superba Venezia. Mi scongiurò di andare con lei, ma preferii non lasciare il castello dei Benavia.
A quel tempo credevo che sarebbe tornata presto. Capii solo troppo tardi che il tempo è un concetto relativo per quelli della mia razza e che ciò che per i mortali è un periodo lunghissimo per noi è un mero battito di ciglia. Non l'ho rivista per almeno un paio lustri.
È adesso che comincia la storia della mia rovina, Alexandra. Tutto quello che fino ad ora hai letto, non è che il preludio alla vera avventura che mi ha spinto a vagare in lungo e largo per l'Europa, a dispetto del mio desiderio di restare nelle terre che furono di mio padre e attendere il ritorno di Violate.
Prima di tutto, però, devi sapere che in quelle notti solitarie mi feci più audace. Vagai di città in città, affidandomi completamente ai miei poteri preternaturali, alla mia velocità e alla mia agilità per spostarmi senza che i mortali se ne accorgessero. Ero audace, sì, ed euforico: sfidavo la sorte allontanandomi dalla sicurezza del mio castello e tornando prima che l'alba mi cogliesse in fallo.
Sull'antica via lastricata invasa dalle erbacce che attraversava la regione, a quel tempo, sorgeva un vecchio monastero. Era una costruzione di origine medievale: aveva la stessa squadrata severità e la cupezza di tutti gli edifici risalenti a quell'epoca e, a dire il vero, ispirava un profondo senso di tristezza, con quelle linee dure e aguzze che sembravano tratti di un volto di pietra impietoso.
Sotto una fitta cortina di pioggia battente, contemplai quell'edificio che, per chissà quale forza sovrannaturale, sembrava chiamarmi.
Entrai nella chiesetta del monastero ornata di antichi mosaici raffiguranti figure di santi longilinee e piatte, prive di profondità alcuna, e di vecchie panche di legno scuro e lucido. Sul fondo della navata, nella gloria dell'abside rivestito di brillanti tessere dorate, spiccava una croce di legno dipinto e l'altare coperto dei paramenti sacri.
Tutto, attorno a me, comunicava austerità. Gli occhi del Cristo bizantino appeso al suo legno di sofferenza, dalle palpebre scure e pesanti, sembravano giudicarmi. Eppure, io non avevo timore della collera divina: nessuno sarebbe arrivato in quella chiesa, scendendo dalla croce, per punirmi e precipitarmi all'Inferno. Vivevo e prosperavo, mi nutrivo della vita altrui; la morte delle mie prede significava la mia resurrezione tramonto dopo tramonto, e nessuno – nemmeno la Santa Chiesa Cattolica – poteva impedirmelo.
Ciò che più mi colpii, però, fu la figura di una donna dai capelli corti e scuri, le mani giunte che serravano convulsamente un rosario dai grani cremisi e si agitava inquieta sull'inginocchiatoio. Era così assorta in preghiera, che all'inizio non si accorse di me. La osservai dalla navata, mentre ai miei piedi si formava una pozza d'acqua colata dai vestiti fradici di pioggia.
Tremava e pregava con un fervore unico e – spiando i suoi pensieri – scoprii che era una novizia che attendeva la cerimonia della vestizione: l'indomani sarebbe stata consacrata come “Sposa di Cristo” e avrebbe passato il resto della sua giovane vita rinchiusa in quelle quattro mura, seppellendo la propria bellezza dietro i pesanti abiti neri e il lungo velo inamidato.
Stava piangendo ed era terrorizzata. Sentivo l'odore della sua paura, ma non riuscivo ad intuirne la causa.
«Liberami dal male, ti prego. Liberami!» pregava con tutto lo slancio di cui era capace, singhiozzando.
Avanzai nella navata e lei, finalmente, si voltò e mi fissò come un capriolo smarrito nei prati alla mercé di un lupo, con i grandi occhi castani spalancati, dilatati come se volessero risucchiarmi. Colsi un frammento fugace dei suoi pensieri e intuii il mio aspetto: lacero e sporco di fango, le apparivo come un uomo scarmigliato, con i capelli lunghi e mori appiccicati alla faccia dai tratti marcatamente maschili e il lungo mantello afflosciato sulla schiena.
Era spiazzata, diffidente, ma si rialzò e scorsi un barlume di curiosità nei miei riguardi.
«Mi dispiace, non volevo spaventarvi. Con il temporale i cavalli della mia carrozza si sono imbizzarriti, rifiutandosi di continuare il viaggio. Appena ho visto le luci provenire dalla chiesa, sono entrato.» mi giustificai, mentendo spudoratamente. Le offrì il mio miglior sorriso affabulatore, come la serpe che tende la mela del peccato, e un inchino cavalleresco «Mi chiamo Alphonse.»
La novizia non rispose, combattuta tra l'infilarsi nella porta che l'avrebbe condotta nel chiostro del monastero lasciandomi lì da solo, e l'affidarsi ad uno sconosciuto vomitato dalla tempesta stessa.

«Potrei chiamare i servi, se volete aiuto. Io non posso...»
«No» la interruppi prima che si allontanasse e allungai la mano per trattenerla e ingentilì la voce: «Non disturbatevi. Lasciate solo che mi ripari per un po', finché passi il temporale; poi ripartirò. Come vi chiamate e perché piangete?»
La ragazza sembrò rilassarsi e annuì, restando ferma accanto alla panca.
«Beth. Elizabeth.» si presentò e scosse il capo quando aggiunse: «La Badessa aveva ragione: la strada verso l'amore di Dio è piena di pericoli e il Demonio è sempre pronto a tentarci. Ho solo... paura, paura di cadere nelle sue trame.»
«Il Demonio non esiste, bambina mia. Probabilmente, non esiste nemmeno Dio.» le risposi allora con una naturalezza sconvolgente, con il tono dolcemente beffardo che al mio maestro Berengario aveva sempre procurato un tremito e qualche singulto disperato.
Per Beth non fu diverso: la vidi portarsi una mano alla bocca, scandalizzata dalla mia bestemmia in quel luogo dove tutto – dalle candele che si scioglievano sui supporti di bronzo, ai mosaici, ai breviari posati sulle panche, all'odore di incenso che avrebbe potuto stordire i sensi di un mortale – parlava di sacro.

«Credimi, bambina. Tu vuoi rinchiuderti in questo monastero per tutta la vita, rinunciando alla mondanità e ai piaceri, preferisci avvizzirti dietro solide mura inaccessibili al mondo per un ideale di amore e salvezza che è frutto di mere illusioni. Perché se Dio esistesse e il Diavolo con lui, allora io non dovrei essere qui, non dovrei camminare su questa terra come gli antichi Dei.» la incalzai e la mia voce preternaturale si accese di una passione bruciante che si alimentava di una crudeltà che non mascheravo ma, anzi, conoscevo e amministravo benissimo. Volevo ferirla e ci stavo riuscendo. Volevo incantarla, legarla al mio sguardo, al potere del Sangue Oscuro, e lo feci: la attirai a me e la strinsi con una forza che non avrebbe mai potuto saggiare in qualsiasi altro uomo.
Beth soffocò un grido e tutto ciò che le sfuggì dalle labbra fu un sommesso mugugno di paura, stavolta più che giustificata. Mi fissava come si potrebbe fare con qualcosa di orribilmente attraente, che insieme ci repelle e ci affascina.
Mi lasciai toccare. Le permisi di premere le dita contro il mio viso e assaporai la sensazione di gradevole ed elettrico tepore che suscitava in me. Mi sfiorò le guance, tracciò la curva degli zigomi e della mascella e mi accarezzò persino le palpebre, inseguendo subito dopo il profilo del naso e delle labbra schiuse e frementi. Presa dal delirio di un cieco che ha bisogno di conoscere attraverso il tatto tutto ciò che ha davanti, mi premette i palmi contro il viso e continuò a fissarmi con sguardo lucido, folle.
Per lei non ero che una statua che si era appena animata, un prestante Dioniso sceso dal suo basamento di marmo che la stringeva in un abbraccio che avrebbe potuto spezzarle la schiena; qualcosa di inconcepibile, di inumano, di terribile. Era profondamente turbata, scopriva un mondo di sensualità e bellezza che non aveva mai conosciuto in quel semplice e possente abbraccio.

«Tu sei il Diavolo!» sibilò e cercò di ritrarsi, di divincolarsi con tutte le sue forze, in un disperato anelito di vita.
Non le risposi, ma la mia bocca assunse una piega più crudele. La lascia andare e la osservai barcollare e indietreggiare verso l'altare, salendo e incespicando i pochi gradini che la separavano dalla croce dipinta.
Mi passai la lingua sui denti aguzzi: avevo sete, la smania del sangue mi consumava.

«Salvami!» pregò Beth, cadendo in ginocchio ai piedi del Cristo che, indifferente, non le offrì né responso, né conforto. Si dondolò, premendo le mani sulle tempie, gli occhi sbarrati su un punto indistinto del pavimento.
Aveva perso la ragione e io avevo evidentemente contribuito al suo definitivo tracollo. Quello era solo il triste epilogo di un tormento che la ossessionava da ben prima che avessi messo piede in quella chiesa.
La verità, Alexandra, è che non provai alcuna compassione per quella ragazza, capisci? Non credo che i Vampiri siano davvero capaci di pietà o di empatia, al di fuori del Legame di Sangue. Forse, possono riuscirci solo quelli che hanno scelto un sentiero più che mai vicino all'umanità e si disciplinano per tentare di conservare l'eco di certi sentimenti. Ma io non li avevo provati nemmeno da vivo e, dunque, quella sorda disperazione a cui assistevo mi era del tutto indifferente.
Infine, le fui accanto in un movimento fulmineo. La afferrai per le spalle e la sollevai di peso, precipitandola nella mia oscurità: affondai le zanne nella sua gola mentre si dibatteva e cercava di graffiarmi e strapparmi i capelli; il suo lamento venne soffocato contro la mia spalla.
In quei primi istanti di ferocia, lasciai che fosse il suo cuore terrorizzato a spedire, con potenti battiti, il sangue tra le mie fauci. Poi premetti le labbra contro la ferita e iniziai a succhiare avidamente, ingozzandomi.
Si rilassò di colpo, cedette e la sospinsi contro l'altare fino a farla sdraiare. La presi lì, come se fosse un sacrificio a Dio, anche se l'unico dio là dentro, probabilmente, ero io.
Le donai il ruggente piacere del Bacio Oscuro, la pace di una sensualità che non avrebbe mai più conosciuto. Le strappai le vesti e accarezzai quel corpo palpitante e inviolato che si schiudeva a me come un fiore. Ero incurante della blasfemia che compievo in quel luogo consacrato, mentre lei gemeva e stringeva le cosce contro i miei fianchi e io mugolavo come una creatura infernale ad ogni sorso.
Vidi, allora, il turbine di emozioni e visioni che il sangue portava con sé, liquido specchio: il tormento di Beth chiusa in una cella angusta del monastero e un'ombra che si staccava dal muro e torreggiava su di lei, avvolgendola. L'ombra danzava, non aveva volto, né nome e nemmeno un corpo, ma le stava accanto e le sussurrava all'orecchio sordidi propositi, promesse, minacce, accordi. E sentivo Beth cantilenare sommessamente preci mentre si rattrappiva in un angolo della scomoda branda e piangeva con il volto nascosto tra le mani. L'ombra rideva di una risata agghiacciante e crudele; spariva solo per tornare a tormentarla ogni notte.
Ah, povera bambina! Qualcuno giocava davvero con lei, qualcosa le accarezzava l'anima per possederla e distoglierla dalla vita di contemplazione che si era scelta contro il parere di suo padre!
La visione cessò; lo scorrere del sangue divenne più lento. Tornai alla realtà, al corpo che serravo con troppa foga, nemmeno fosse stata una spugna da spremere. Staccai la bocca dalla ferita e non premurai di stagnarla.

«Vai in pace, bambina.» le accordai come addio e le bacia le labbra prima che esalasse l'ultimo respiro.
La lasciai sull'altare, il capo reclinato come uno stelo reciso. Mi leccai le labbra ancora sporche di rosso.


«Non ne avevi il diritto, Vampiro.»
Mi voltai con uno scatto e vidi, nel punto preciso della navata in cui mi ero fermato poco prima, una figura alta e avvolta in un mantello scuro e voluminoso. Non scorsi il volto sotto al cappuccio, ma colsi il brillio di occhi di un vivido blu, somiglianti a fiamme fredde.

Compassato, l'uomo – almeno tale mi parve in quei primi istanti – avanzò e scrutò la morta sull'altare.
«Mi apparteneva. La sua anima doveva essere mia: da lungo tempo avevo iniziato la mia opera di corruzione su di lei. Ma tu hai rovinato tutto per il tuo appetito.» mi disse con voce bassa, fonda, metallica: aveva una sonorità mai udita, così diversa da quella umana e persino da quella dei Vampiri. Da lui, in effetti, non avvertivo provenire nemmeno l'aroma del sangue.
«Chi sei?», gli chiesi guardingo.
«Nuberus. E tu mi devi un'anima.»
«Anima?», chiesi con un tono che suonò irridente. Sollevai le mani e gli mostrai i palmi, come in una resa: «Mi dispiace, non ne ho di scorta nelle mie tasche.»
Nuberus, allora, mi raggiunse con la stessa velocità sorprendente di cui ero capace io. Vidi il suo mantello fluttuare come un nembo tempestoso, uno sbuffo di tetro fumo che si snodava lungo il pavimento in volute capricciose.
«Stolto» sibilò e avvertii chiaramente il riverbero del suo potere che faceva tremolare ogni singolo oggetto attorno a noi e mi ghermiva con artigli invisibili «Perché prenda la tua, dovresti solo morire, morire davvero. E, dunque, ora ti annienterò.»
Era ad un soffio da me e sotto al cappuccio c'era il vuoto più assoluto, il vuoto insopportabile di una tenebra senza spiragli, pesante come un vello di lana. Eppure, i suoi gelidi occhi azzurrini gli davano un'espressione che non saprei descrivere: sembrava ghignasse di una perfidia rara. I suoi occhi... non dimenticai mai quanto somigliassero a mefitici fuochi fatui. Mi intrappolò nelle spire della sua aura e gli bastò un mero cenno per richiamare a sé una lampada ad olio.
Sentii il calore della fiammella sul viso, l'incresparsi della pelle e il dolore dell'ustione che iniziava a sfigurarmi la faccia e a far sfrigolare la pelle preternaturale così sensibile al fuoco. Emisi un orribile ringhio di belva terrorizzata., incapace di difendermi. Nuberus torreggiava su di me.
«Non la mia!», urlai selvaggiamente e cercai di allontanare la lucerna con scatti convulsi delle braccia, tastandomi il viso come impazzito.
«Non la tua? Allora ne troverai una per me. Della tua prossima vittima, tu avrai il sangue, ma lascerai che sia io a coglierne l'anima prima che muoia» ribatté allora Nuberus e mi sembrò che quella proposta fosse stata nei suoi piani fin dall'inizio, poiché colsi il brillio di un sorriso sordido sotto al cappuccio, molto più iniquo e insano del mio «Per ogni tua preda, un'anima per me: finché perdurerai su questa terra, anche io prospererò. Queste le condizioni per evitare di ardere su una pira funebre, questo è il patto. Scegli!»
E scelsi, scelsi di accettare, scelsi per pura codardia, per il terrore nero che il fuoco riusciva ad instillare in me, travalicando ogni ragione. Perché il fuoco e il sole possono distruggerci e la Bestia che si cela in ognuno di noi cerca di tenersene ben lontana. Quando pronunciai quel sì, non avevo davvero chiaro ciò che sarebbe accaduto in futuro.
Nuberus scacciò la lampada e la vidi cadere sul pavimento di pietra con un gran frastuono, spandendo l'olio che si incendiò alla tenue fiammella sopravvissuta.
Il Demone sollevò la mano e sentii il suo tocco contro il petto: premeva con forza contro lo sterno e io avvertii un improvviso e sordo dolore, come se il fuoco mi fosse strisciato sottopelle.
Frugando i mie abiti, scoprii il marchio che Nuberus mi aveva appena impresso: in un cerchio era racchiuso un motivo intricato di linee morbide che si intrecciavano, formando un simbolo che non avevo mai visto, un sigillo che adesso ci legava e rendeva le nostre sorti interdipendenti.
Da quella notte, Alexandra, iniziò il mio patto con il Demonio.

   
 
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