28 pagine. Acci, per stavolta non ho battuto il record. XD
...
9. See
Who I Am.
Bill Kaulitz è universalmente noto per la sua
acconciatura anti-gravità, che sembra voler smentire la celebre tesi di newton
in ogni suo punto. Inoltre, Bill Kaulitz è universalmente famoso per la sua
puntigliosità. È un inquietante binomio tra una bestia da palcoscenico e un
professionista della retorica. Anzi, a voler essere sinceri, lui è esattamente
questo: ha fatto del montare fino all’isteria una folla urlante una
professione, con i suoi trucchetti e assiomi in materia.
“Mescolare a
fuoco lento, lentissimo. Affamare il soggetto mostrandosi in pubblico allegro,
ma poco estroverso. Somministrare una buona dose di sorrisini, autografi,
essere simpatico ed ovvio nelle interviste e stupire, stupire sempre con capi
d’abbigliamento che, oltre a costare il doppio di un mutuo medio europeo, sono
un palese oltraggio al buon gusto. Per poi fare sul palco tutto quello che
bramano da voi: sollevare magliette che lasciano scoperti tatuaggi in zone
strategiche; dare voce alla folla facendola cantare; saltare e agitare ogni
singola parte del corpo come se si fosse stati morsi da una tarantola; gridare,
incitare, a turno scambiare occhiate maliziose con il tuo bassista ed il tuo
chitarrista.
Non far girare
di coglioni il batterista, perchè se lui perde la concentrazione, tutti perdono
il ritmo. E conseguentemente la testa, perchè i produttori ti falciano.”
Ma non dilunghiamoci ancora: Bill Kaulitz è tutto questo
e anche di più.
E, come ogni bravo professionista, odia l’incompetenza.
Soprattutto se veste i panni della sua truccatrice più fidata, Natalie.
-ovvio che sia incazzato! Perchè, e chiedo il perchè,
sembravo truccato come se mi avessero preso a pugni? Non avevo gli occhi dalla
forma lievemente a mandorla elegantemente sottolineati con matita e rimmel,
avevo due palline da tennis cerchiate con ombretto e khol!
Calcandosi il cappello di foggia militare sui capelli
neri legati in una coda, Bill percorse a grandi falcate il corridoio del
lussuosissimo Hilton di Los Angeles. Il tutto continuando a intervallare borbottii
minacciosi ad acuti annichilenti, assordando e distruggendo il poco che restava
della capacità auditiva delle quattro sagome che lo seguivano.
O meglio, arrancavano dietro di lui.
-senti Bill, non è che se continui a smadonnare
all’indirizzo di Natalie, che tra l’altro non è presente, cancellerai quelle
foto! Il photoshoot è fatto, mettiti il cuore in pace!
Con un tono lievemente esasperato, Tom Kaulitz cercava
disperatamente non di consolare il fratello, che non sembrava aver bisogno di
piangere sulla spalla di nessuno, piuttosto cercava di preservare l’udito dei
poveri cristi che lo seguivano.
Ovvero: un Georg che cercava di sbarazzarsi di una crosta
di lacca che sembrava impedire ai suoi capelli di legarsi in una coda, un
Gustav che aveva una faccia così seria che non sembrava sapere neppure dove il
sorriso stesse di casa ed una Christa profondamente indifferente. Indifferente
perchè era anche lei tutta intenta nel compito di augurare i più atroci
tormenti a Jost, uomo che le aveva sganciato una mezza dozzina di discorsi da
tradurre in non si sa quante lingue.
Tom schioccò la lingua allo spettacolo di tutte quelle
facce più o meno scazzate, dalla traduttrice al bassista, passando per il
batterista. E, in gradevole sottofondo (ma anche no) gli improperi del gemello.
Kaulitz senior non capiva cosa sembrava essere successo,
ma una cosa era certa: sembrava l’unico a non essersi svegliato con il piede
sinistro, quella mattina.
Preoccupante, seriamente preoccupante.
-senti, parliamone. Non è un argomento poi tanto
importante, no?
Negando con una mano ed aprendo la porta della sua suite
con l’altra, Bill non sembrava essere dello stesso parere di Tom.
Spalancò la porta, e, mentre il gemello si ritrovava ad
attraversare l’uscio, gliela sbatté in faccia, proprio sul suo povero naso.
-Bill! Ma allora sei coglione!
Gridò massaggiandosi la parte offesa. Bill spalancò la
porta, squadrando il fratello con un’espressione che preannunciava tempesta.
Con un sospiro rassegnato, Georg si mise in mezzo ai due
fratelli prima ancora che potessero iniziare a darsele di santa ragione.
-smettetela.
Stoico. Il ragazzo era puro stoicismo, in quel momento.
-ma se non abbiamo neppure iniziato?!
Fu la risposta corale dei
gemelli, già in posizione d’attacco.
Con un tono che non ammetteva repliche, e che avrebbe
rimesso al suo posto un Jost in piena crisi isterica, Georg freddò
immediatamente i bollenti spiriti.
-e non inizierete, infatti.
A sorpresa, lo sbuffo scocciato venne da qualcuno alle
spalle di Georg, Gustav.
-sentite, comari, litigate quanto volete. Bill, sto
andando a farmi la doccia nel tuo bagno. La mia suite ha problemi.
La voce grondava di sarcasmo, e, se non fosse stato per
il fatto che era Gustav, sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale alla parola
“comari”. Invece, con una semplice occhiatina dubbiosa, Bill fece spazio e
Gustav passò. Non senza essere seguito dagli sguardi preoccupati di Tom, Georg
e Christa, che, cercandosi, confermarono i loro sospetti: era una bomba pronta
ad esplodere. Il problema era sapere quando.
Con un tentativo particolarmente impacciato di rallegrare
l’atmosfera, Tom bofonchiò a mezza voce:
-propongo TV e popcorn. Chi si appunta?
Alla risposta affermativa di tutti, fu il primo a varcare
la soglia, evitare con lo sguardo la porta del bagno che era esattamente nella
parete fronte all’ingresso e a percorrere il corridoio che sboccava in un
salotto arioso, il cui divano dava le spalle all’imboccatura del corridoio.
Come se il sospiro stanco di Christa appena appollaiatasi
su uno dei braccioli in pelle nera fosse stato un segnale, Bill si fece
sfuggire una risatina nervosa mentre si buttava a peso morto esattamene nel
centro del divano, Tom sbuffò quando afferrò il telecomando e Georg, sant’uomo,
si sedette invece solo dopo aver recuperato una busta da svariati kili i
pop-corn. Si appoggiò con la testa al fianco sinistro della traduttrice, per
poi fare praticamente le fusa quando la mano di lei iniziò a massaggiargli
dolcemente il cuoio capelluto.
...
Basta. Non siamo distrutti, siamo stremati. Siamo negli
USA, Los Angeles finalmente. Una delle ultime tappe prima della pace, del
ritorno in Germania. Però, nonostante questo, non siamo tranquilli. C’è
qualcosa che, sotto sotto, rode tutti, e io so che cos’è.
Gustav. Gustav e Dorcas.
Non so se alla gente normale, quella che non guadagna
milioni per un sorriso e non si fa venire il callo alle dita solo firmando gli
autografi, accada mai di contemplare la caduta di una persona. Una persona che
prima non aveva mai dato segni di cedimento, che si credeva di conoscere. E che
è precipitata in caduta libera, che si è persa.
Ebbene, a me è successo. A noi è successo. Perchè Gustav
non ha solamente sofferto, pianto due lacrimucce, non si è ingozzato di dolci e
non ha guardato film sdolcinati. Come farei io, per inciso.
Ha...
Ha sofferto. In silenzio. Ma anche no.
Sono venuto a sapere più cose di lui in questi ultimi
mesi che negli ultimi quattro anni.
Cose non dette, semplicemente osservate dal sottoscritto.
Con un sospiro stanco, mi accoccolo meglio tra Tom e
Georg, al centro del divano. Siamo concentrati in due posti quando questo
divano ne ha dodici. Ma nessuno si lamenta. Perchè, ammettiamolo, abbiamo
paura, paura di quello che è successo a lui capiti a noi.
È caduto in basso, e lo sa. Ma noi non glielo diremo.
Saremo solo sempre affianco a lui. Nel frattempo, però, preferiamo stare tutti
insieme.
Gustav non si è
mai distrutto così per qualcosa. E quando dico mai, è perchè so che non c’è mai
stato niente che ne valesse la pena.
Non ce ne siamo accorti subito, devo ammettere. Suona
egoista, ma è così. Nei primi due mesi era solo leggermente più taciturno del
solito, più serio e perennemente attaccato alla batteria, o all’mp3 in mancanza
della prima. È stato dal terzo mese in poi che le cose sono precipitate.
Mi sono accorto che Gustav stava male perchè sorrideva.
E lo faceva in una maniera cattiva. Non so se mi spiego:
sembrava guardare tutto dall’alto di una nuova certezza, di una nuova
posizione.
Tom se n’è accorto per primo, di che cos’era.
Disillusione.
Non uno stadio
molto avanzato, ma già abbastanza serio. Tom è sempre stato più ricettivo per
queste cose, non so perchè: io sono dolce e affettuoso, ma lui è quello che ha
l’intuito per i problemi di fondo, l’importante è che non siano i suoi.
-non so che
cos’è, ma c’è qualcosa che non va in lui.
Ammetto che è stata una di quelle occasioni in cui mi ha
messo paura, quella sera piovosa a Manchester.
Stavamo
parlando di non so che cosa fino ad un momento prima, quando mi accorsi che non
sembrava più ascoltarmi. Aveva girato la testa verso Gustav che, in piena
intervista telefonica, sorrideva al telefono.
-cosa?
Mi aspettavo
una risposta banale e che lui volgesse il viso verso di me per continuare
quindi a parlare. Ma mi stupì continuando a guardare fissamente Gustav che
rideva con l’intervistatrice.
-Bill, da
quant’è che non facciamo più caso a Gustav?
Ora che ci penso meglio, quello non era un sorriso. Era
un ghigno.
Ed era anche piuttosto cattivo.
-Bill, pop-corn?
Osservo stolidamente la confezione che Tom mi sta
scuotendo davanti per alcuni secondi, prima di rispondere con un cenno di
diniego. Stupito dal mio sguardo assente, mi rivolge un cenno interrogativo che
liquido con un gesto noncurante della mano. Mi stringo ancora di più tra mio
fratello e Georg, ricevendo una leggera carezza tra i capelli da parte di
Christa, che probabilmente nota la mia inquietudine.
Ma quella di Gustav non è già più inquietudine, è smania.
Di autodistruggersi.
E qui, se Gustav non è riuscito ad annullarsi, lo
dobbiamo a Tom e Georg. Non so come abbiano fatto, non so perchè l’abbiano
fatto. Ma, dandogli l’illusione di essere il primo felice di portarselo a feste
da delirio ed il secondo troppo impegnato con la ragazza, l’hanno tenuto sotto
controllo.
Posso semplicemente ammirare, perchè io non avrei saputo
mentire in questa maniera: era dedizione, quella con cui Tom ha fatto finta di
cedere a tutte le richieste di Gustav, richieste invece già previste,
incanalando la sua attenzione solo in cose che non superassero mai il limite
del consentito.
Guardo il profilo del mio gemello attentamente, mentre un
suo sbadiglio sottolinea come sia interessante il programma che sta guardando.
-Gustav è una
mina pronta ad esplodere. Non so se l’avete mai provato, ma non c’è via di fuga
in questi casi. Insomma, le ha tentate tutte, non sono servite a niente, quindi
se non lo tengo sotto controllo, noi possiamo dire addio al nostro caro,
vecchio Gustav.
Gli ha fatto praticamente da baby-sitter. E, ripeto, io
non ce l’avrei fatta.
Mi giro adesso verso Georg, che è prossimo ormai al
sonno, visto che i suoi occhi sono socchiusi e la mano abbandonata in grembo a
Christa. Entrambi hanno il viso rivolto verso la tivù, senza in realtà vederla:
Christa si limita a far vagare la mano tra i lunghi capelli del nostro
bassista, mentre lui fa praticamente le fusa, tanto è rilassato.
Ha fatto finta di allontanarsi da Tom.
Cercate di capire: Tom e Gustav sono agli antipodi del
carattere. Teoricamente, non c’entrano un beneamato piffero l’uno con l’altro.
Il saggio della montagna e il biscazziere, il santo picchiatore e colui che ci
fa sesso, con la sua chitarra. Normalmente, è Georg che viene considerato come
termine medio: accomodante in entrambe le direzioni, playboy ma discreto,
sensuale ma non plateale. Quindi era ovvio che Georg avrebbe dovuto impersonare
il santo della situazione per sollevare indirettamente Gustav del ruolo di
bravo ragazzo. Gustav, secondo il piano, sarebbe dovuto diventare la nuova via
di mezzo, e bisognava fare in modo che non si accorgesse di niente.
Ma Georg ce l’ha fatta: bisognava diminuire il bere, far
finta di non condividere più le vecchie opinioni “alla Tom” per fare in modo
che Gustav si sentisse autorizzato a condividerle. Pur intendendosi
perfettamente con Tom per la buona riuscita del piano, spingeva il batterista a
prendere la “cattiva strada”. E devo dire che Christa ha contribuito
decisamente a donare un’aura di veridicità al tutto.
-ah, io non
posso venire.
Georg sorrideva
tranquillo dalla poltrona in cui era stravaccato, mentre continuava a
strimpellare il suo basso.
Gustav lo
guardò basito per un istante, chiedendosi se ci sentisse realmente bene.
-Georg, è la
festa degli Echo! E tu hai sempre amato la festa degli echo!
Georg sollevò
lo sguardo fino ad incrociarlo con il suo, senza perdere il sorriso.
-esatto: amato.
Quindi questa volta non verrò. L’indomani è giorno libero sia mio che di
Christa, e voglio evitare di passarmelo con la doposbornia, grazie.
Sbigottito dal
discorso che suonava parecchio come il commiato di un playboy al mondo, Gustav
si passò una mano tra i corti capelli biondi, cercando con lo sguardo Tom.
-e tu? Neanche
tu andrai? Mi annuncerai che passerai una piacevole serata in compagnia di un
paio di ferri ed un gomitolo di lana?
Tom lo fulminò
con un’occhiataccia.
-spero per te
che non sia serio, Gustav. Sono ancora affamato come prima, nonostante questo
qua- disse, indicando con un cenno della testa Georg che si mise a ridacchiare
per la battuta. –si sia ormai accasato.
E nessuno di
noi seppe mai definire in seguito se la
risata che fece eco alla battuta di Tom fosse inquietante o semplicemente
angosciante.
Sospiro.
-ehi, ragazzi, guardate qua.
Christa, i capelli neri e lunghi acconciati in uno
chignon alto, ancora appollaiata su un bracciolo con la testa di Georg in
grembo, indica il programma televisivo odierno stampato sulla guida Sky
dell’hotel.
Io e Tom ci giriamo, mentre Georg si limita ad aprire
leggermente gli occhi e a drizzare le orecchie.
Lei continua a leggere.
-C’è uno speciale sul concerto dei metallica di domani su
MTV, inizia praticamente adesso. Lo guardiamo?
Chiede poi, guardandoci con aria interrogativa. Annuisco,
mentre mio fratello si limita a digitare la sequenza di numeri giusta. Poggia
meglio la schiena contro il mio fianco sinistro, allungando le gambe sulla
parte di divano vuoto. Io mi limito ad accavallare le mie su quelle di Georg, a
sua volta decisamente abbarbicato a Christa, mentre quest’ultima svetta su
tutti noi. Che quadretto caloroso, sul serio.
Mi fanno bene le cose di questo genere.
...
Ho sempre pensato che questa ragazza fosse una stufa. E
adesso ne ho la conferma.
Essendo indissolubilmente appiccicato a lei, sento come
attraverso la stoffa della maglietta la sua pelle sia calda. Dolcemente calda.
Mentre sullo schermo al plasma esplode una delle tante
pubblicità “originali” di MTV, io mi distraggo osservandola dal basso,
continuando a tenere appoggiata la mia testa sul suo fianco.
Sembra una sfinge: l’espressione seria, immota, le labbra
rosse sono lievemente socchiuse, mentre i suoi occhi grigi osservano
attentamente lo schermo.
Cannella. Oggi profuma leggermente di cannella. Respiro
profondamente fino a riempirmi i polmoni di quest’odore dolcemente penetrante,
nella speranza che me ne resti traccia sulla maglietta, anche quando scioglierò
quest’abbraccio.
Non so perchè, ma mi rassicura. Quest’odore, voglio dire.
In un’atmosfera inquietantemente placida come questa con i due Kaulitz,
miracolosamente silenziosi, buttati su un divano, con la perenne incazzatura di
Gustav che aleggia nell’aria e un disagio profondo, troppo tranquilla per non
essere altro che la quiete prima della tempesta, beh, io mi sento protetto.
Magari sono solo egoisticamente tranquillo, perchè io non sto sputando l’anima
dietro a nessuno. L’ho già fatto in passato, ed è inquietante il fatto che
ormai io e Christa stiamo assieme, forse perchè mi ricordo ancora com’era senza
lei.
Tra i rumori di sottofondo delle tivù, il frusciare degli
abiti di chi cambia posizione, il sospirare stanco di qualcuno, io credo di
poter distinguere il suo respiro.
Accarezzo il bordo della camicia, sollevandolo quel tanto
da lasciare un lembo di pelle allo scoperto.
Con un gesto furtivo, lo bacio delicatamente, sentendo il
suo calore dolce sulle labbra. La guardo, cosa che invece non fa lei. Ma noto
come si morda le labbra per non sorridere.
-oddio.
Un dolore sordo mi artiglia il braccio sinistro, mentre
la voce allarmata di Bill fa girare di scatto la testa a tutti quanti, compreso
Tom che sonnecchiava distratto sulla spalla del gemello.
Bill ci osserva a turno per pochi secondi, bocca
spalancata ed espressione scioccata, indicando ripetutamente lo schermo al
plasma che troneggia di fronte a noi.
-oh... oddiio. Oddio, oddio, oddio.
Si afferra le mani, stritolandosele. Deglutisce a vuoto,
continuando ad indicare con cenni del capo lo schermo. Io cerco di
tranquillizzarlo poggiandogli la mano su una spalla, ma non sembra farmi caso.
-Migliaglia di
persone in fila, prenotazioni fin dall’anno scorso. E c’è addirittura chi sta
già aspettando fuori dallo stadio in attesa dell’inizio del concerto, che solo
avrà inizio alle sette di domani sera...
Mi concentro sullo schermo, pur senza smettere di tenere
la mano sulla spalla di Bill, più per farlo rimanere seduto che per
tranquillizzarlo.
-L’ho vista.
Sentii distintamente Tom schiarirsi la gola, pur senza
guardarlo. La trasmissione era in differita su TRL live, e per adesso era
ancora agli inizi. Una voce fuori capo si limitava ad inneggiare a seguire la
trasmissione, citando entusiasticamente dati su dati. Allo stesso tempo,
immagini di repertorio scorrevano senza posa.
Una
biglietteria che espone il cartello “sold out”.
La pianta
dell’enorme “the Hall”, l’enorme concerto di LA in cui si sarebbe tenuto il
concerto.
File di fan.
Gente che
salutava la videocamera.
I Metallica che
provavano un soundcheck.
Il montaggio di
casse dell’audio semplicemente mastodontiche.
-chi, Bill? Chi hai visto?
Se non fossi stato troppo distratto dalle immagini
veramente spettacolari, dalla rapida successione di urla, voci, motti e risa,
forse avrei fatto caso al tono inquieto di Tom. Come se non volesse credere ad
una cosa che reputava impossibile.
Facce di gruppi
più o meno conosciute.
(I Within Temptation che scherzavano con i Körn)
Tecnici che si
gridavano dai lati opposti di un palco enorme.
(Come piccole formiche che salivano e scendevano in cerca di non si sa
cosa)
Ultima veduta
dagli spalti dell’enorme stadio.
E poi, come un’apparizione, direttamente dal regno dei
ricordi, dinamica come una scintilla di rabbia, decisa come un uldozer e
pallida come un lenzuolo, troppo piccola per quel megafono che tiene tra le
mani, troppo frenetica per non rischiare un collasso, lei.
-ok, gente,
voglio quella cassa a destra e, Derek, le chitarre non sono ancora state
sistemate e io non so cosa voi della squadra stiate aspettando. Muoversi no,
eh?
Come un pugno in pieno stomaco, Dorcas.
Lo schermo l’ha inquadrata per brevi istanti, ma io
continuo a vederla di fronte a me, come se la sua immagine mi si fosse impressa
a fuoco nella retina e non se ne volesse andare.
In piedi su una cassa, come una regina su un trono, i
capelli bianchi troppo corti per non rendere i suoi tratti, normalmente
delicati, affilati come coltelli. Gli occhi azzurri sono coperti da un paio di
Ray-Ban classici, quasi a volere eliminare ogni segno di umanità. L’altezza non
è cambiata, però perchè mi ricorda terribilmente
La mano di Christa afferra forte la mia stringendola.
Adesso sullo schermo scorrono le immagini tipiche di uno speciale, a cui mi
sento improvvisamente indifferente.
Mi giro quindi verso di lei, cercando il suo sguardo.
Ed ha un’espressione che mi fa stringere il cuore.
Perchè è triste e malinconica, perchè conferma i miei
sospetti: Dorcas non era semplicemente immersa nel lavoro, in quel breve
momento.
Dorcas ci si era annullata dentro.
-sai che sei
una ragazza strana?
Sembrò non
farmi caso. Si limitò a continuare ad armeggiare con le manopole della
consolle, sempre con le cuffie al collo, gli occhi di un blu cupo socchiusi per
la concentrazione, la pelle pallida come un lenzuolo e la bocca stretta in
un’espressione severa.
La nostra nuova
tecnica del suono non sembrava aver simpatia per nessuno dei suoi datori di
lavoro, ma la sua indifferenza nei confronti dei Tokio Hotel, di cui registrava
i pezzi e con cui condivideva almeno nove ore al giorno, era imbattibile.
Fin dall’inizio
aveva snobbato Tom, demolito Bill in una memorabile gara d’insulti spiattellati
con voce atona ed indifferente, aveva degnato Gustav di un saluto quanto mai
secco e, in quanto a me, mi rivolgeva la parola solo per comunicarmi informazioni
basiche ed prive di qualsiasi traccia di emozioni.
“Georg, tocca a
te registrare” o “Georg, bisogna rifare” erano tra le frasi più lunghe che mi
avesse mai dedicato.
Non si poteva
certo dire che la ragazza fosse il ritratto del calore umano.
Ecco perchè mi ero impuntata nel farle
comparire su quel visino freddo e immoto una qualsivoglia traccia di emozione.
Volevo stuzzicarla.
Magari poi
scoprivo che non aveva mai sorriso in vita sua.
-sai che sei
una ragazza strana?
Mi aspettavo di
ricevere lo stesso silenzio di prima come unica risposta, ma, stupefacente, le
sue labbra decorate da piercing scintillanti ed aggressivi come la loro padrona
si aprirono. Giusto per fulminarmi un’altra volta.
-lo hai già
detto.
Ma io non mi
arrendo mica.
-e se lo ripetessi?
Sempre
continuando ad armeggiare con mille ed un tasto, ma con un ritmo meno
sostenuto, Sua Maestà Miss Professionalità si degnò di rispondermi.
-io ti
ripeterei che hai già ripetuto una domanda.
Non le diedi il
tempo neppure di chiudere le labbra, che ribattei per mantenere il “ritmo
serrato della conversazione”.
-e che cos’è,
una sciarada?
E poi, come un
miracolo, mi resi conto di aver innescato qualcosa. Innanzitutto, smise di
battere sui tasti. Poggiò con calma la mano sulla superficie di metallo della
consolle, stendendo le dita cariche di anelli.
Sollevò lo
sguardo dallo schermo, girando lentamente la testa verso di me. Cercò il mio
sguardo e vi centrò il suo.
Statica. Tutta
la sua posizione era statica: inginocchiata sulla poltrona in pelle dello
studio, i lunghi ricci bianchi immobili sulle spalle. Le labbra non fremevano,
e a malapena mi accorsi che respirava. Perchè, se la sua espressione era
immota, non così i suoi occhi.
Sembravano
leggermente velati da qualcosa che li rendeva più opachi di quello che in
realtà erano, che ne nascondeva il furore. Un furore che non sembrava rabbia,
ma qualcosa di più profondo. Mi sarei azzardato a definirla come disperazione,
chissà.
-Georg Listing,
intuisco di non essere simpatica a molti, in questa casa.
Con un gesto
della mano indicò l’intero ambiente, per poi distendere le labbra in un
qualcosa che poteva essere un vago ghigno ironico.
-però mi
piacerebbe lavorare in pace, sai, guadagnare uno stipendio in maniera onesta e
senza persone che cerchino di tracciare un profilo psicologico della mia
persona nel frattempo.
Dio, stavamo
battendo tutti i record di durata di una conversazione. E di acidità. Il tono
con cui parlava non era cattivo, era determinato. Capii perchè quella strana
ragazza non sembrava voler filare nessuno: è perchè non ci vedeva neppure.
C’era più affetto nello sguardo che rivolgeva ai nostri strumenti piuttosto che
in quello che rivolgeva ai proprietari dei tali.
La guardai, e
mi sentii male. Perchè, a parte quella fiamma sacra di dedizione al lavoro, non
sembrava esserci nient’altro in quello sguardo febbrile. Era innaturale la
costanza con cui s’impegnasse, era innaturale questo suo isolarsi da tutto e
tutti. Era dannatamente sola, e l’unica cosa che sentii fu commiserazione.
-Listing, se
stai provando a commiserarmi non sai a cosa vai incontro.
-posso aiutare?
L’avevo presa
in contropiede. Si era fermata, mi aveva guardato, mi aveva finalmente
squadrato. Si era accorta che io esistevo.
-tu, con me,
non c’entri nulla.
Annuii,
suscitando un’inarcata di sopracciglio da parte sua.
-ma io
intendevo con la consolle. Come fai ad utilizzare questo bisonte?
Mi guardava,
sempre con il sopracciglio inarcato. Poi strizzò gli occhi, si mise una mano di
fronte alla bocca ed iniziò a scuotere le spalle.
E a ridere,
ridere con una risata sottile, come se avesse paura di farsi male per il troppo
riso.
-mi stai
dicendo- con gli occhi che finalmente sprizzavano scintille di vita- che vuoi
imparare ad utilizzare questa?
Indico la
consolle con un gesto del capo, facendo ondeggiare la chioma immensa e
disordinata di capelli bianchi.
Scossi la
testa, sorridendole.
-beh, visto che
a te manca il libretto d’istruzioni, magari ci arrivo attraverso l’oggetto del
tuo amore.
A quanto pareva, Dorcas si era di nuovo isolata,
annullata. Diretta, decisa, determinata. Costi quel che costi, quella ragazza
era di nuovo nel backstage di un concerto. Ma, dentro di se, era ritornata a
parecchi anni fa.
-L’avete vista?
Tom, Tom. Come si fa a non vederla? È piccola, ma sa dove
piantarsi per farsi vedere più che bene.
-mi ha fatto paura.
La voce di Bill è più calma, ma c’è una punta di
rimpianto, adesso.
-mi ha fatto seriamente paura. Non era così diversa,
prima.
-si è tagliata i capelli.
Faccio notare io.
Ci guardiamo, io, Tom, Bill e Christa. Ci guardiamo e io
mi sento leggermente male.
È passata così tanta acqua sotto i ponti da allora? Sono
solo sei mesi, ma perchè per Gustav e Dorcas sembrano passati sei anni?
-Dorcas!
Ci giriamo di scatto, di nuovo verso lo schermo delle
meraviglie, di nuovo verso l’unica fonte d’informazione sulla nostra amica.
-ehilà, Sharon.
Risponde lei,
un sorrisino distratto e una pila di fogli in mano. Hanno inquadrato la scena
per mostrare come vanno le cose dietro un palco, come, intorno a un lunghissimo
tavolo di noce, si sia riunito il fior fiore della musica Rock, Metal e Gotica
degli ultimi anni.
Avanza decisa,
i jeans aderenti e le All-Star consumate, una felpa il doppio di lei con la
sigla STAFF sul retro e FOH sul petto, un abbigliamento serio e professionale
che non ricordo averle mai visto addosso.
E così Dorcas ha fatto anche carriera.
Sicura di se
stessa, determinata e lucida, Dorcas sorride alla platea.
Uno dei sorrisi più freddi che
le abbia mai visto.
-allora, questa
è la lista del soundcheck e, come vedete, per ultimo verranno i gruppi che
hanno bisogno dell’accompagnamento dell’orchestra di LA.
-ma come, mi
costringi a finire così tardi?
Ad aver parlato
è un ragazzo giovane, sui venticinque. Capelli neri e ricci, occhi castani e
corporatura esile.
Dorcas sbuffa
al tono confidenziale del ragazzo, indicandolo poi al resto dei musicisti.
-come vedete,
il direttore d’orchestra che accompagnerà sia Tarja Turunen e sia i Whitin
Temptation, è il tipo che vedete al mio fianco.
E qui, io come gli altri, decidiamo che il tipo ci da
definitivamente sui nervi. Perchè il sorrisino con cui risponde alla battuta di
Dorcas, non ha nome.
-eh, magari.
Dorcas lo
fulmina con un’occhiataccia, ma non ribatte.
Non ribatte.
-non ribatte.
Conferma atono Bill.
Sento la mano di Christa afferrarmi convulsamente una
spalla, guardando lo schermo con aria terrorizzata.
-prega Dio che Gustav non veda tutto questo.
Silenzio. Poi, tutta una spiacevole serie di eventi.
Un colpo che risuona nell’imbottitura del divano ci fa
sobbalzare tutti quanti, un colpo che sembrava avere tutte le caratteristiche
di un pugno scagliato contro la schiena del sofà. Poi passi frettolosi, una
porta spalancata.
-Gustav!
Grida Tom, guardando verso l’ingresso.
La porta sbatte, così forte da far vibrare la parete. E,
come un fiocco di neve fuori stagione, osserviamo un pezzettino d’intonaco
cadere al suolo. Il silenzio quando cade a terra è tale possiamo udirne
distintamente il rumore.
La televisione continua a vomitare parole senza sosta
quando, come riscuotendoci da un sogno, scavalchiamo il divano ed iniziamo a
correre per fermare Gustav e la sua rabbia che è finalmente scoppiata come un
palloncino bucato, che può causare danni a se stesso e che può fargli fare di
tutto.
Lo ammetterò. Ho paura.
Perchè Gustav, da quando è lontano da Dorcas, ha perso
ogni senso di logica e ragione.
E io non voglio
credere di aver perso un amico.
...
-che cosa ho io che non va?
Il fiato che esce bruciante dalla mia bocca, il sangue
che sento scorrere caldo nelle mie vene.
Tremo.
Ma di rabbia.
-perchè? Perchè io non andavo bene? Cosa le impediva di
rimanere?
La bacchetta che stringo possessivamente tra le dita non
è altro che un pezzo di legno, un pezzo di legno che mi si sta imprimendo a
fuoco nel palmo della mano.
-perchè non è più qua?
Il tono sale, sale per scoppiare in un urlo.
-PERCHÈ?!
Ed è venuto il momento di gridare, e di lanciare quelle
maledette bacchette. Lanciare qualsiasi cosa lontano da me, anche me stesso, se
necessario.
Le lacrime mi gonfiano le palpebre, mentre un qualcosa di
ustionante mi possiede dentro. Sento qualcosa rompersi, sento un rumore di
specchi infranti. E mi fa piacere. Anche se questo risuonare cristallino di
qualcosa rotto non sarà mai pari a quello che mi risuona dentro, almeno ne
traggo soddisfazione. Mi brucia. Mi brucia di rabbia, vergogna, indignazione.
Perchè lei non è qui.
E me ne fotto di tutto, perchè mi sento rifiutato. Voglio
morire e gridare e, se non altro, uno dei due lo sto facendo.
Sarò rauco per stasera, ma il fatto che ci sia
qualcos’altro a bruciarmi, oltre al petto, è già di sollievo.
Non vedo, ormai. Le lacrime si limitano a scorrere
distratte, dimenticate, mentre le mani vanno in automatico.
Un’altro specchio, per poi una sedia. Che forse in
origine poteva anche essere una bella sedia di chissà quale stile. Ma che
adesso, l’unica cosa che le è successo di notevole, è che sia finita di volata
oltre la vetrata del terrazzo per atterrare con uno schianto poco rassicurante
sulle stesse mattonelle.
Mi passo la mano sul viso, mischiando sudore e lacrime in
un tutt’uno appiccicaticcio e salato. Un salato così ferocemente amaro, che
inizio singhiozzare. Perchè mi sento il cuore stretto in una morsa fredda, lo
sento fatto a pezzi da tutti quelli che mi circondano, lo sento diviso e
triste.
E brucia. Tutto brucia, anche la mia pelle febbricitante.
In uno scatto di lucidità, avverto distintamente il
risuonare di numerosi passi nel corridoio. Mi avvento contro la maniglia di
ottone della suite, quindi, tenendola stretta e chiudendola a chiave in uno
scatto secco.
Giusto in tempo, perchè la porta inizia a essere percossa
da una violenta scarica di colpi.
-Gustav! Gustav! Crista santo, ma che succede?!
Non rispondo, allontanandomi dalla porta in stato di
catalessi.
Se volessi potrei riconoscere la voce di Saki, ma non ho
nessuna voglia di riconoscere nessuno.
-...in pace.
-cosa?
Non ho riconosciuto neppure io la mia voce. Perchè è
atona. Piatta. Rauca. E fredda. Dannatamente gelata.
Mi sono perso in te e adesso non riesco più ad uscirne
fuori, sei contenta?
Due mesi. Ricordalo bene, perchè sono due mesi. E mi stai
bruciando l’anima. Non ne resta più niente per nessuno, come una droga potente.
Perchè ti voglio, ti voglio e da solo non ci so stare.
Torna.
-Gustav! Apri quella dannatissima porta!!
-Tom, basta!
-ma non lo vedi cosa sta facendo, la dentro? Distrugge
tutto! Bill, Georg, non possiamo lasciarlo là! È solo!
-oh, zitto tu!
Voci soffocate aldilà della porta, voci che stanno bene
lì dove stanno. Fuori. Da me e da tutto.
-Gustav, so che sei là. Se puoi, rispondimi.
Vorrei gridare, ed allontanarmi ancora di più da quella
porta. Vorrei arrivare fino al terrazzo ed al bagno, e continuare da dov’ero
rimasto. Perchè ci sono ancora lenzuola da lacerare e quadri da rompere. E
tante, tante belle vetrate.
Ma non lo faccio.
Non adesso. Mi avvicino a passi cauti alla porta, quasi temendo che si apra. Ma
non lo farà. Perchè nessuno la tempesta più di colpi, e il chiavistello è
tirato.
Poggio la fronte, provocando un lieve colpo sordo contro
il legno della porta.
E credo che l’abbiano sentito, perchè si sente un “sssh!”
silenzioso, e la voce di Bill è quasi un sussurro, adesso.
-Gustav, vieni fuori.
-No.
Silenzio. Perchè è un no secco, e tutti conoscono i miei
no.
Non aprirò questa fottutissima porta.
O forse Bill sussurra perchè la mia voce è assurdamente
inumana?
Ha paura di me?
-Gustav, vogliamo aiutarti. Ti prego, apri.
-No.
Questo era Tom.
-Gustav...
-NO, NO, E NO! CHE CAZZO NON CAPITE DI UN FOTTUTTISIMO
NO?
Silenzio.
Tiro un pugno alla porta, che risuona potente e forte,
lasciando impresso il segno delle mie nocche nella vernice bianca.
-non potete fare un cazzo, lo capite? Perchè voi non siete
lei, e io non sostituisco mai. Quindi fuori.
Non parlano.
Sono ormai senza voce, e mi allontano dalla porta,
inorridito da tutto.
Dal fatto che mi sto riducendo così per un ricordo
ossessivo, dal fatto che so che sarà così finche non mi dimenticherò di lei,
dal fatto che la consapevolezza totale della sua mancanza si sta spalancando
sotto ai miei piedi come un baratro.
E ho paura.
E piango, e gemo. Perchè nessuno potrà fare niente per
questo, perchè nessuno di quelli a cui io voglio bene potrà mai fare quello che
lei faceva per me. Perchè lei era unica e tossica e come la cocaina
s’impossessa e rende ingordi. Si, ingordi di lei e del suo odore, della sua
presenza e delle sue battute acide. E so di avere un qualcosa che batte di
ricordi e dolore, di frustrazione e rabbia, al posto del cuore. Ed e solo a
distanza di due mesi.
E l’unica cosa che posso fare, e distruggere tutto ciò
che mi sembra vuoto, alla disperata ricerca di una vaga sensazione lasciata da
lei da qualche parte. Perchè se stai così, l’amicizia non serve e la famiglia è
solo un peso.
Mi avvento quindi conto tutti gli oggetti che sembrano
comporre questa stanza, che sembrano renderla claustrofobica e scialba,
lussuosa e assurda, vuota e oppressa da troppi ninnoli.
Strappo ogni singolo lenzuolo del letto matrimoniale con
minuzia, mentre le lampade si accatastano senza posa sul pavimento del
terrazzo. Forse qualche frammento di vetro o metallo mi ferisce lo zigomo e il
naso, perchè a un certo punto sento la sensazione calda e appiccicosa del
sangue sulle labbra. Mi osservo alienato in un frammento del grande specchio
centrale, ora crepato dal lancio di un telefono.
Mi osservo allucinato e noto che il nuovo taglio allo
zigomo è appena sotto alla cicatrice che Dorcas mi fece a suo tempo durante
l’ultima litigata.
La litigata che probabilmente l’allontanò definitivamente
da me.
Mi trascino con passi stanchi nel salottino della stanza,
sussurrando tra me e me parole senza senso. Evito gli specchi infranti, i
comodini rovesciati.
E sorrido. Un sorriso doloroso e pazzo, affaticato ed
allucinato. Ma pur sempre un sorriso.
Per la prima volta dopo tanto tempo, mi sento bene.
Perchè il casino che c’è qui riflette esattamente quello che io sento
ribollirmi fin nella più piccola vena dal mio corpo.
Arrivo finalmente al letto, adesso un ammasso informe di
tessuto ed imbottitura. Lo osservo e, non ostante tutto, mi sembra sempre
troppo ordinato.
Mi accascio quindi per terra, stremato.
Mi giro su un fianco, raggomitolandomi su me stesso.
Sospiro, mentre l’ultimo singhiozzo sfugge dalle mie
labbra e si confonde, come un suono qualsiasi, con il traffico che entra
sottile dalle finestre rotte.
Là, tra cocci e lampade, tavolini rovesciati e bibite
sparse per terra, tra il mio dolore e il mondo indifferente che mi circonda,
adesso finalmente scosso dal mio passaggio, mi sento bene.
-perchè non sei qui con me?
Non so se l’ho sussurrato, gridato, detto, gemuto o
singhiozzato. Ma l’ho esternato. E, nel mio dolore, mi sento bene. Perchè per
te provo rabbia, rabbia e frustrazione.
Perchè sono consapevole di non averti saputo dare
interamente quello che stavi cercando, nonostante io potessi dartelo. E me ne
pento. E mi frustro.
E vorrei poter
rimediare. Datemi un’altra opportunità. Solo una. Solo mia.
Giusto quando penso di essere arrivato ormai al confine
tra notte e veglia, sento il lento scattare della serratura. La porta si apre
leggermente, lasciando entrare una lama di luce che sembra tagliare il nero
caos della stanza.
Chiudo gli occhi, rendendomi conto di come allo scattare
della porta la luce del corridoio è stata spenta. Non sorrido, limitandomi a
rimanere immobile così come sono, raggomitolato su un fianco.
Anche se non posso fare a meno di non sentirmi più solo.
Perchè nonostante avessero il pass magnetico fin dall’inizio di questa
allucinante serata, i ragazzi non hanno aperto la porta. Sono rimasti fuori, in
corridoio, per quelle che presuppongo fossero delle ore. Hanno saputo
rispettare la voglia che avevo di stare solo. E questa gliela devo.
-tu pensi che stia dormendo?
-ovvio, Bill. Sennò non ci avrebbe fatti entrare.
Senti i passi felpati delle Nike Air di Tom risuonare
sulla moquette della suite. Girano intorno alla mia sagoma, disegnando dei
cerchi via via più vaghi.
-oh mio Dio.
-Tom, smettila. Le nostre camere erano in condizioni
peggiori, dopo che ci diedero la notizia del divorzio.
I passi di Bill, evidenziati dal lieve ticchettio dei
suoi tacchi, si avvicinano a me. Un silenzio, una loro pausa, mi fanno capire
che si è inginocchiato a guardarmi. Il suo dito leggero e asciutto passa sopra
la ferita dello zigomo, facendomela dolere.
Ma è la mano calda e grande di Georg, quella che si posa
sul mio collo.
-respira ancora, se proprio lo volete sapere.
-ma certo che deve respirare. È un toro, non lo stronca
mica la distruzione di una suite.
Li sento battibeccare sopra di me, sussurrando per non
svegliarmi e circondandomi con la loro presenza. E anche se non sono lei, mi
rendo conto, sono sempre i miei amici.
Quelli con cui ho viaggiato il mondo e visto di tutto,
altri tre sognatori come me con cui, alla fin fine, quel mitico sogno di cui
tanto favoleggiavamo ai dodici anni si è fatto realtà.
-oh, sentite. Continuiamo in adorazione di questo qua o
viene a dormire con noi?
-camera tua, Bill. Tu hai il letto a tre piazze,
stavolta.
-certo, Georg. E tu vorresti portarcelo in braccio,
magari?
-oh, maledizione. Georg, Bill, silenzio.
Una mano fredda e nervosa si poggia sulla mia spalla,
scuotendola leggermente.
Ma io non ho poi tanta voglia di muovermi. Affatto.
Quindi mi raggomitolo ancora di più, prendendomi la testa
con le mani.
-Georg, tu a destra. Io, sinistra. Bill, i piedi.
E senza neanche riprovare a svegliarmi, quei tre pazzi
furiosi mi prendono per le braccia ed i
piedi, e, prima anche solo che io posso fare finta di svegliarmi, stanno
attraversando la porta.
-cosa stareste facendo?
Tom mi scocca un’occhiata complice, mentre Georg sorride.
Bill è di spalle di fronte a me, quindi non gli posso vedere il viso.
-niente. Un pigiama party.
Arriviamo alla suite Bill e, senza tanti complimenti mi
rimettono in piedi. Appena i miei piedi toccano terra, sento le mie gambe
cedere. Ma Georg e Tom continuano a sostenermi, anche se credo gli costi. Li
guardo con espressione alienata.
-che cazzo stareste facendo?
Tom mi mostra la lingua, con un finto broncio.
-ma se vuoi ti mollo pure, eh!
-non ci provare! Non me lo vorrai mollare tutto, questo
macigno qua!
Tom sogghigna in direzione di Georg, che lo guarda
terrorizzato all’idea di dover reggermi tutto da solo. Stiracchio le labbra,
stupito dalla loro idiozia. Perchè sono idioti, oh, sì.
-basta!
Bill mi si pianta davanti con tanto di ditino sollevato,
indicandomi.
-tu, a letto. Tu -indica Georg- pure, e tu -disse
indicando Tom- vai in cerca di cerotti.
Eccomi quindi qui, buttato in un letto enorme a luce
spenta e con questi tre che mi dormono addosso, Georg sulla mia pancia, Tom
raggomitolato sul mio fianco e Bill appoggiato alla mia spalla.
Mi accerchiano.
E tutto questo senza che io abbia detto una parola.
Con un gesto stanco mi passo la mano fasciata
(evidentemente mi sono fatto male con i vetri senza essermene reso conto) sullo
zigomo, sentendo sotto le dita la plastica del cerotto. Sospiro. E starei anche
per addormentarmi, se non fosse che un Bill pressoché nel mondo dei sogni e con
un pigiama arancione e viola di Tigro decide di spiattellarmi l’ultima battuta
del giorno.
-ah, Gustav, ti ammiro. Se dovessi distruggere come te
tutte le camere di alberghi che non mi piacciono, non ne rimarrebbe una in
piedi!
We will fight our battles,
We will wage our wars, settle the scores whit honor
and blood,
We will wear our scars like medals of hope.
.-.-.-.-.-.-.-.
Caldo.
Fa un fottutissimo caldo.
Mi rigiro su di un fianco, inquieta.
Strizzo gli occhi, pur senza aprirli.
Non ho voglia di risvegliarmi del tutto, non adesso.
Abbraccio con più forza il cuscino, mentre con una gamba
scalcio la coperta scoprendomi un po’ di più.
Ma continuo a sentirmi il colletto della maglietta bollente
per il sudore.
Con un grugnito soffocato dal cuscino, mi libero
definitivamente del piumone, rimanendo totalmente scoperta. Ma il fatto di
essermi mossa aumenta esponenzialmente la sensazione di soffocamento.
Con un lampo di lucidità, capisco che è finita. Sono
sveglia.
Maledizione.
Da qualche parte ho letto che il corpo umano si raffredda
quando si dorme e si riscalda con una vampata di calore al risveglio.
Incredibile, ma questa regola non è mai venuta meno.
Con un sbuffo di pura disperazione mi giro verso il lato
del comodino, mettendo a fuoco a fatica i numeri luminosi della sveglia.
Le sei meno cinque.
Beh, se non altro oggi non mi sono svegliata alle cinque.
Richiudo gli occhi, restia ad alzarmi.
Li riapro di nuovo, lentamente, e la sensazione di essere
diventata il würstel nel panino che è il mio letto non accenna a diminuire.
Sopra di me, solo il bianco del soffitto. Dentro di me,
una sensazione aspra di stanchezza e confusione, una noia solidificata al
centro del petto, lasciata macerare con tanta, sana tensione.
Alzi la mano chi, essendo il Front Of House di un
concerto che si preannuncia come il più mastodontico ed aspettato degli ultimi
anni, non ha mai sofferto d’insonnia.
Mentre il mio pensiero vola alle giornate passate
montando il palco, sistemando l’impianto audio, alle mille casse ed altrettante
prove, sospiro stancamente.
Dimenticandomi che sospirare, di questi tempi, per me
significa sentirmi il petto oppresso da un macigno mastodontico, come se mi
fossi permessa il lusso di cedere, seppure un istante.
Mi copro gli occhi con il braccio, tastando cautamente la
mia pancia. La mia pelle brucia come se avessi la febbre, ma, in uno stridente
contrasto, mi sento tremare dal freddo. Il freddo che mi porto dentro.
E mi odio, perchè continuo a sfiancarmi così su questo,
su un qualcosa che, passati ormai sei mesi, dovrei aver dimenticato e
rimosso. Sono stanca di pensarci, sono stufa di sentire questa sensazione di
smania ed impotenza possedermi quando mi ritrovo per caso a sfogliare i ricordi.
Perchè quello che brucia, ancora di più delle lacrime e della rabbia, è la
sensazione che non mi sto godendo tutto ciò che di bello mi sta succedendo.
Dorcas, non dovresti arrovellarti sul fatto che avresti
potuto essere più accondiscendente e meno testarda con lui, dovresti essere
semplicemente entusiasta di questo balzo in avanti della tua carriera.
Pensi continuamente a quel sporadico bacetto, perchè tu vuoi credere che sia solo e
soltanto un bacetto, e non ti concentri invece su come potresti far fruttare
questa tua collaborazione con i Metallica per ottenere lavori altrettanto
prestigiosi in altri tour.
Bacetto.
Mi mordo le labbra in un riflesso automatico,
pentendomene quasi subito. I ricordi prendono di nuovo vita e no, non ho voglia
di sentire ancora quel dolore sordo in fondo alla gola, non ho voglia di essere
qua, con tutte le difese abbassate perchè sono stanca, nervosa, insonne e
disperata.
E parliamone,
di questo bacetto. Visto che
ormai hai messo sotto chiave tutto, dal tuo cuore alla sua sensibilità, vediamo
di colpire profondo.
Quel bacetto,
come ti piacerebbe chiamarlo e che invece è quel qualcosa che ti ha mantenuto
sveglia parecchie notti, beh, ti ha fregato. Smettila di negare con tanto fervore
il fatto che ti ha cambiata, che ha fatto fallire i tuoi piani.
Che
consistevano in un saluto, qualche grido e un po’ di lacrime. Ma che Gustav,
lui e quella sua confessione senza previo avviso, lui e quelle sue
maledettissime lacrime, ha mandato a monte con quel tocco finale che è stato baciarti.
E se tu credevi
di fargli un favore, beh, mi sa che ti ha fatto capire che gli stavi facendo
l’esatto contrario.
Mi giro su di un fianco, osservando la parete bianca di
fronte a me.
Bianco, vedo tutto bianco. Ma non è sinonimo di sollievo,
in questo caso.
Riesci ancora a
dormire dopo tutto questo?
Basta. Basta, basta, basta.
Stringo con forza le mani a pugno, tirandomi a sedere e
soffocando anche per oggi l’urlo fastidioso della mia coscienza.
Lui mi ha dimenticato. Io per lui non esisto più. Perchè
ho letto di lui nei rotocalchi, nelle riviste, e so, l’ho letto, che non sembra
sentire affatto la mia mancanza.
Va a feste con Tom, ci si ubriaca pure. E ci sono su di
lui mille ed una voce a cui non vorrei credere, come invece faccio, perchè in
fondo è esattamente ciò che mi aspettavo.
È troppo ricco e famoso per avere sentimenti a lungo
termine.
Taccio per un momento, ascoltando con una punta di panico
il silenzio che regna sovrano, sia nella stanza sia dentro me. Il mio sospiro
tremante risuona come un boato in questo vuoto, ma la coscienza non sembra
voler più infierire.
Mi alzo, più stanca di quando sono andata a dormire.
Nella stanza del mio bilocale non c’è spazio per nulla, a
momenti neppure per me. Quindi cercate d’immaginarvi il gran casino che feci
per arrivare al bugigattolo che era il mio armadio. Armadio, che parolone.
Sbuffando, aprii le ante e lasciai crollare a terra una
valanga di abiti, senza curarmi neppure di riordinarla. Afferrai una maglietta
nera, jeans aderenti e all-stars dal mucchio informe, osservandoli un momento
con aria critica.
Perchè non mi erano mai parsi così mediocri.
Li lanciai con un gesto stizzito verso la porta del
bagno, senza neppure osservarli cadere. Mi inchinai ancora una volta,
incuriosita dal lembo di qualcosa tremendamente allegro, che sembrava affogato
in un cumulo di magliette dai colori scuri.
Lo tirai su con la punta delle dita, quasi potessi essere
contagiata dall’allegria dei motivi di una delle mie gonne multicolore. Gonne
che non mi sentivo più di indossare. In particolare questa era un trionfo di
blu e bianco, rosso e verde. Sembravano brillare di luce propria i motivi, i
colori ed i mille ed uno strati di pizzo e falpalà.
Brava,
demonizzalo pure, rendilo sgradito e pieno di difetti, elimina ogni parte di
umanità dai tuoi ricordi di lui. Annullalo, rinnega il suo nome e il suo odore,
e tenta di togliere peso a quelle carezze, a quelle parole.
Rinnegalo come
hai fatto sempre con qualsiasi dei tuoi errori.
E credici alle
tue stesse menzogne, credici con fervore e costanza.
Isolati,
vivisezionati, soffocati sotto mantelli di recriminazione e fiumi di rabbia.
Tu pensi che
sia il rimpianto, ciò che ti tiene sveglia. Ma chiediti, e fallo per una buona
volta, chi sei tu per distinguere tra rassegnazione bruciante ed amore mal
celato?
Ed è esplosa di nuovo nella mia testa, ancora una volta a
tradimento, la voce indemoniata della mia coscienza.
E so che non posso scappare, non da me stessa, ma
scaravento comunque la gonna sopra il cumulo di abiti come se lei avesse la
colpa di tutto. La nascondo sul fondo dell’armadio con rabbia, fino a non
vedere neppure un lembo spuntare da sotto gli abiti scuri.
Mi rifugio quindi in bagno sentendo lacrime di sconfitta
iniziare a cadere, cercando non pensare a tutte le possibili interpretazioni
che questo mio gesto potrebbe avere.
E che in
effetti ha.
...
-Dorcas, venti minuti.
Annuisco decisa, mentre Thomas mi fa un Ok con la mano
dall’altra parte del palco.
Prendo il walkie-talkie che ogni singolo membro dello
staff ha in dotazione, richiamando all’attenzione tutti quanti i tecnici del
suono.
Sono in piedi su una delle enormi casse audio che sono
parte integrante dell’apocalittico palco, da cui posso osservare qualsiasi
parte dello stadio. L’Hollywood Bowl è un bestione da diciottomila posti a
sedere, un’arena tra le più importanti della città, e l’unica con le strutture
audio adatte per supportare un concerto che non sarebbe stato come tutti gli
altri.
Vista la partecipazione degli Apocalyptica, Whitin Temptation,
dei Metallica stessi e (non si sa come si era riuscita a convincerla) di Tarja
Turunen, si era fatta impellente la necessità di una struttura abbastanza
grande da poter ospitare tutta
Io, insieme al responsabile del palco ed ai capo tecnici
delle luci e dell’impalcatura, c’eravamo dovuti rompere più volte la testa per
organizzare un palco che non fosse stato troppo ingombrante, carico o mal
distribuito.
Osservai quindi con uno sguardo affettuoso quell’enorme
palco composto da tre gradoni: il primo, quello più in alto, era destinato al
coro. Nel mezzano, invece, avrebbe preso posto l’orchestra. Mentre il terzo,
quello più in basso, era il palco vero e proprio sul quale si sarebbero esibiti
a breve i primi artisti.
Deglutii a vuoto, mentre mi lasciavo pervadere
dall’adrenalina. Perchè lì, cupa, fremente e carica, ai piedi di un palco che
poteva quasi gemere sotto il carico di tutti quegli sguardi ansiosi, c’era la
folla.
Una massa che, impazzita e frenetica, aveva varcato i
cancelli alle cinque, due ore prima del concerto, e che urlante si era
precipitata, chi sulle gradinate, chi nel fosso. Io, abituata da tre anni ormai
a un pubblico maggiormente femminile (che l’unica cosa che sembrava volere era
la carne di certi quattro, piuttosto che le loro performances musicali) ero
rimasta leggermente sbigottita da quella folla borchiata e dai vestiti cupi, da
certi mastodonti tutti americani che spuntavano dalla folla e dalle loro urla
cupe e cariche di sentimento.
E tutte queste persone, accorpate in un tutt’uno caldo e
fremente, sembravano solo aspettare un via del Grande Capo, ovvero Mr. Rasta
Biondi, che avevo scoperto chiamarsi Volkan, islandese di nascita e americano
d’adozione.
Chiusi gli occhi, avvertendo come un enorme vuoto si
facesse spazio dentro di me, in un posto dove, fino a pochi istanti fa, c’era
solo paura.
Bum. Bum.
Bum-bum.
Ci sono momenti il cuore non batte più, semplicemente
esplode ad ogni respiro. Momenti in cui quello che hai per le vene non è più
sangue, ma solo eccitazione.
Non solo gli artisti, non solo la folla. Tutti quelli che
sentono musica sono trascinati in questo vortice inebriante.
Bum. Bum. Bum-bum.
E forse per la prima volta dopo tanto tempo sento le mie
labbra distendersi in un sorriso. Enorme, largo sorriso.
L’aria crepita di tensione, ormai.
Poi, come in un sogno, la voce di Volkan nell’auricolare.
-blackout.
I fari si spengono uno dopo l’altro, mentre la folla
reagisce con urla che salgono sempre più in alto verso il cielo di un blu cupo.
Apro gli occhi, trovandomi di fronte un’enorme lago di
oscurità.
Tutto è buio, tutto e nero.
Poi, come in un sogno, i primi accordi dell’orchestra, i
gorgheggi di preparazione del coro.
Osservo meglio il palco, sapendo già dove guardare.
Le piccole sagome che camminano sul tavolato di legno
chiaro del palco prendono posizione, chi alle chitarre, chi alla batteria.
Ma niente sembra muoversi, nonostante gli urli entusiastici
e bramosi della folla che vuole che
questo concerto inizi.
E poi, nel silenzio più totale, osservo come un faro si
accenda ad illuminare con una luce bianca e fredda la sagoma di una donna.
Una donna che canta con una voce che ti scuote dentro,
fin nel profondo. E che io ho avuto l’onore di conoscere.
È capo chino, ma i
capelli sono acconciati in un trionfo tutto gotico.
L’abito è invece di raso cangiante tra rosso e viola, e
la luce bianca gli dona una brillantezza cupa, fredda.
È piccola, minuscola in confronto al palco e
apparentemente troppo fragile per reggere le urla che si sollevano come
un’ovazione perpetua in suo onore.
Con un ultimo movimento della gonna arriva a pochi passi
dal bordo del palco, e mi viene quasi il timore, irrazionale, che da un momento
all’altro possa mettersi piangere per la
troppa tensione.
Ma è proprio in questo momento che una sua mano si
solleva in un gesto imperioso, acquietando la folla. Si alza per riabbassarsi
subito dopo, mentre l’orchestra inizia a suonare come se fosse stata appena
sciolta da un incantesimo d’immobilità. Le voci che si sollevano dal coro
rendono l’aria satura di aspettativa, e sembrano pronte a spaccare l’aria
stessa, tanto sono potenti.
Ma, tanto forte come hanno iniziato, tacciono per una
pausa.
Ed è allora che, come una nenia magica, la voce di Sharon
risuona per tutto L’Hollywood Bowl, attirando suadente le emozioni di tutti i
presenti, cancellandole, suscitandone di nuove.
Is it true
what they say?
Are we too blind to find a way?
Fear of the unknown clouds our hearts today
Come into my world
See through my eyes
Try to understand
Don´t want to lose what we have
Non sento neppure la mia voce parlare con gli altri
tecnici, non percepisco nient’altro all’infuori della musica che viene esplosa
dalle casse con la forza di mille di decibel. Nonostante la protezione per le
orecchie, nonostante sia nel backstage, tutto ciò che si sente è vibrazioni
sorde che dalla pianta dei piedi serpeggiano sulle gambe fino a fondersi nello
stomaco. La gola, perchè serve? Perchè cantare?
Ciò che si è diventati è una cassa di risonanza umana.
Era da troppo che non provavo una sensazione del genere, era da troppo che non
mi sentivo così viva.
Esplodimi
dentro, mi verrebbe da dire.
Vorrei essere tutto e niente, in questo momento. Non
vorrei pensare in un nulla, solo, semplicemente, solamente, sentire.
.-.-.-.
Tutto ciò che sento è ritmo, è musica. Non so come, ma
sembra che il mio stomaco sia diventato la cassa dove risuonando batteria e basso,
mentre le note della chitarra mi fascia le orecchie.
Ho perso la nozione del tempo da quando sono qui dentro,
da quando sono pressato dalla folla e sento la musica impregnarmi la pelle come
sudore.
Mi sono annullato dentro questo bagno di folla, decidendo
staccare la spina per un po’ e vivermi questa valanga di sensazioni in santa
pace.
E sono felice.
Qui, tra le ultime file, le più lontane dal palco, mi
sento bene. Ogni tanto mi giro a controllare la situazione dietro di me,
ridendo spudoratamente dell’immagine di Bill seduto sulle spalle di Tobi,
eccitato e decisamente sconvolto. Tom, per l’occasione completamente in nero,
si è appollaiato sulle transenne di fronte all’uscita. Ma la sua passione per
il metal non è così viscerale dall’impedirgli di provarci alla grande con due
dark che se lo filano interessate. Come a dire, Mr. Kaulitz non si arrende mai.
Georg e Christa
sembrano spariti, ma li ho visti andare più avanti un po’ di tempo fa. Tra i
due, quella che va pazza per la voce di Tarja Turunen è Christa.
Mi giro un’ultima volta verso il palco, lontanissimo da
dove siamo noi, una specie di nebulosa di luci psichedeliche e potenti, una
scalata verso il cielo da cui la musica viene pompata nella folla, come in
un’unica arteria composta da milioni di vene. Adrenalina alle stelle e orecchie
in frantumi, mentre quest’overdose di doppie casse e decibel mi sta lentamente
facendo tornare vivo.
Ma, incredibile a dirsi, anche quei mostri del rock che
stanno calcando il palco da svariate ore sono umani. Quindi, io come tutta la
folla, accogliamo con un boato di fischi l’inizio della pausa.
La musica tace, ed io mi sento improvvisamente svuotato,
stanco.
Non in pace, solo spossato.
Poggiando la mano sul petto, sento il cuore battere i
mille al minuto, mentre un respiro profondo mi fa capire che ho bisogno di
aria.
Aria.
Do quindi le spalle al palco deserto e alla folla ancora
urlante per cercare con gli occhi l’uscita.
Faccio quindi un gesto a Tobi, cercando di fargli capire
senza l’ausilio della voce, che è morta dopo i primi venti minuti, visto quanto
ho urlato, che sto uscendo.
Annuisce con un gesto stanco della testa, mentre Bill non
smette di parlare un minuto, nonostante il gran casino.
Sorrido, stanco ma ancora eccitato, e riesco a districarmi
dalla folla quel tanto da poter finalmente muovere le braccia senza rischiare
di ritrovarmele rotte per la pressa.
Mentre percorro a passi rapidi il corridoio che porta
verso l’esterno, cerco nella tasca dei pantaloni il pacchetto di sigarette.
Saluto distrattamente la security fuori dall’ingresso, mostrando il mio
biglietto.
Ed è solo silenzio.
Di fronte allo stadio sono state sgomberate le transenne
che hanno tenuto a bada la fila, e per terra non restano che i residui degli
accampamenti. La live brezza che viene dal nord muove distrattamente un
pacchetto di patatine passeggero, che mi onora con una giravolta prima di
sparire nelle zone d’ombra che i fari dello stadio creano, non riuscendo ad
illuminare totalmente l’intorno. Come un gioco particolarmente divertente, mi
piazzo all’esatto centro di un cono di luce, osservando quindi il cielo di un
lattiginoso nero per colpa dell’inquinamento luminoso della città.
Ho le orecchie ancora abituate al frastuono del concerto,
quindi è come se mi avessero riempito la testa di ovatta e avessero mischiato
il tutto con colla. Ancora con il naso per aria a tentare di trovare qualche
stella sperduta, afferro il pacchetto e l’accendino. L’osservo per alcuni
secondi, prima di decidere di fare un gioco particolarmente stupido che
facciamo sempre con Georg: tirare l’accendino dietro di se, e indovinare
solamente dal rumore dove può essere caduto e a che distanza.
Sorrido quindi, e chiudo gli occhi. Poi, tiro. Cerco di
sentire i rimbalzi sul cemento, nonostante mi arrivino attutiti per colpa delle
orecchie ancora tappate.
Uno, due, tre.
Lontano,
esattamente dietro di me, magari leggermente spostato a sinistra.
Strizzo gli occhi, per poi voltarmi ed aprirli.
E il blu (cobalto,
cupo, scintillante, spesso) mi avvolge.
L’aria (carica,
nervosa, satura, pesante) scompare, il mio cervello deraglia con un rumore
di lamiere piegate che solo io posso sentire.
Le mie illusioni si infrangono sul pavimento di cemento,
le mie difese, così scialbe e deboli, sono spazzate via dal primo alito di
tempesta, che sento arrivare, pronto a farmi cadere, ancora e ancora.
E, come un pugno dritto nello stomaco, Dorcas è di fronte
a me.
.-.-.-.
Spossata. Questo concerto mi ha distrutta. Ergo, adesso
che c’è la pausa di mezz’ora, chiedo il cambio e vado a respirare un po’ di
aria buona. Credo che tutta questa anidride carbonica mi stia dando alla testa.
E poi, non so perchè, una live sensazione di claustrofobia mi sta opprimendo il
petto. Voglio uscire, adesso.
Sospiro, massaggiandomi gli occhi con una mano.
-Volkan, ti prego, lasciami andare via.
Una mano sottile e nervosa cala sulla spalla, quasi a
rassicurarmi.
-Dorcas, sei sicura di stare bene?
Riapro gli occhi, cercando di rassicurare il Grande Capo
con un sorrisino stracchiato, che sembra invece sortire l’effetto contrario.
Agito la mano in un gesto noncurante, cercando di
sembrare sicura di me stessa nonostante l’inarcata del biondissimo sopracciglio
e dello sguardo inquisitivo che sarebbero capaci di mettere in soggezione
chiunque.
-Dorcas, allora che ti è sembrato?
Mi giro stancamente verso un ragazzo piuttosto giovane,
ingessato in un abito di gala che lo fa sembrare più grande, effetto però
smentito dalla scintilla di malizia nei suoi occhi castani. I capelli neri sono
ricci per il suore dei riflettori e non mi piace affatto il sorrisino con cui
mi guarda.
-molto bravo, Simon. Bravo, bravo, bravo. Sei o non sei
il più giovane direttore d’orchestra della
A valanga di complimenti è annullata dal mio tono ironico,
ma lui non sembra essere minimamente toccato. Solo alla fine si accorge
dell’espressione preoccupata di Volkan e della mia aria stanca.
-ma stai bene?
Inarco un sopracciglio, mentre mi tolgo l’auricolare
dall’orecchio.
-sprizzo salute da tutti i pori, non vedi? Volkan, torno
appena mi sento meglio.
Mi allontano quindi dai due, non senza prima essere
importunata un’ultima volta da Simon.
-sicura di non volere compagnia, lì fuori?
Mi giro, senza smettere di camminare.
-ma chi vuoi che ci sia, Simon?
Gustav, ecco
chi c’era.
È la prima cosa che vedo appena metto il piede fuori
dall’uscita. Lì, piantato esattamente nel mezzo del cono di luce proiettato da
un lampione, a gambe leggermente divaricate, mani in tasta e naso per aria.
Mi appoggio improvvisamente senza forza allo stipite del
cancello, cercando di respirare il più piano possibile.
Senza fare rumore, girati e vai via, non guardarti
indietro e reputati soddisfatta di averlo potuto vedere un’ultima volta. In
silenzio, nell’ombra, scompari.
Come se lui fosse una calamita e io l’ago attirato
inesorabilmente verso di lui, non posso che seguire con gli occhi ogni suo
minimo movimento.
Cerca qualcosa nelle tasche, qualcosa che scopro essere
accendino e pacchetto di sigarette. China la testa per probabilmente
osservarli, facendo scintillare i capelli biondi, umidi di sudore per il
concerto, alla luce giallastra dei fari che sovrastano l’entrata.
E poi, in un gesto che ho visto fare parecchie volte sia
a lui sia Georg, lo fa saltare due volte nel palmo della mano e lo tira dietro
di se.
E, come un crudele scherzo del destino, rimbalza una,
due, tre volte fino a cadere ad un metro dai miei piedi.
E allora, so cosa fare. Respiro profondamente mentre le
mie gambe vanno in automatico, avanzano, si chinano a raccogliere un accendino
rosso, per poi stringerlo possessivamente nel palmo e continuare ad avanzare
nella luce, verso il centro, verso lui.
Al rallentatore, lo vedo girarsi, fermarsi, respirare.
Respirare, strizzare gli occhi, aprirli.
Aprirli, guardare, realizzare.
-Georg è ancora più bravo di te con queste cose?
Pigolo io, con un tono che voleva essere ironico, ma che
a me sembra odiosamente melodrammatico.
Lo osservo boccheggiare, realizzare.
E poi, con una gesto cauto, stendere il braccio, la mano,
fino a toccare la mia, tesa a porgergli l’accendino.
Prese la mia mano, stringendola forte.
Come una scossa elettrica, la tensione che mi trasmetteva
quella stretta mi fece contrarre i muscoli della mascella, stringere i denti e
mi squassò il cuore con una forza che neppure dopo sei mesi di lontananza si
era assopita. Era sempre lui, Dorcas, ma i suoi occhi sembravano essere stati
sostituiti con due pozzi scuri. Stessi occhi, sguardo molto diverso.
Disilluso. Scrutatore.
Ma io cosa potevo avere di diverso da lui? Cosa ci vedi
nel mio sguardo, nello sguardo inaridito dal rimpianto di Dorcas?
Ormai sei mesi più diverso. Sei mesi più tormentato.
Eppure, eppure. Ti sei trovato? Hai toccato il fondo, per poi risalire
definitivamente? Non c’è gloria ad essere buoni e bravi senza prima non aver
sputato sangue.
Cicatrici sul viso, capelli lunghi e scarmigliati, forse fisico ancora più
grosso e asciutto. E quegli occhi, sei mesi più vecchi.
Eppure, tra sogno ed incubo, ci sono ancora i tuoi occhi.
.-.-.-.-.-.-.
Nella mia testa
C’è sempre
stata una stanza vuota per te
Quante volte ci
ho portato dei fiori
Quante volte
l’ho difesa dai mostri
Adesso che ci
abito io
I mostri sono
entrati con me
© Michele Mari
– Cento poesie d’amore a Lady Hawke
.-.-.-.-.-.-
La citazione della canzone cantata da Sharon sono © dei
Within Temptation, See Who I Am.
Sentite, parliamone. Tutto questo non è normale. Io che
aggiorno due volte in due settimane? E che cos’e, un miracolo?
Non lo so, comunque, ho aggiornato. Ho fatto in fretta,
e, maledizione, tutto per colpa delle maledizioni congiunte di Gustav e Lady
notorius.
Il primo perchè mi ha fatto svegliare alle nove e mezza e
non sono più riuscita a dormire, la seconda perchè voleva il capitolo e mi ha
minacciato per questo. T.T
Che poi, mi sono fregata lo stesso: mi piccherà comunque.
E il perchè, lo sappiamo solo noi due. XDXDXD
E sappiatelo, popolo: la scena di rabbia l’ha
pretesa lei, quindi a lei gli onori e le eventuali smadonnate.
Detto questo, lodi a plausi alle mie tre, ben tre,
beta-reader: Lales, la Boss, Lady notorius, la Crudele (XD) e (new!)
Lady Vibeke, che a momenti mi
prendeva a testate telefoniche perchè non mi aveva potuto betare prima.
Sappiatelo, io vi amo. *____________________*
Per il resto, una dedica va anche a _Princess_: sappilo, se
ho scritto più in fretta e postato prima è stato anche per rallegrare le tue di
giornate. XD
Ma io non amo solo loro: voi che mi avete tra preferiti,
grazie.
Voi che solo mi leggete, grazie.
E sappiatelo, avete tempo due capitoli (Chap finale + eventuale epilogo) per farvi vivi. XD
Danke
Grazie
Gracias
Merci
NeraLuna: sappi che io ti AMO. Incondizionatamente, senza riserve. È un
commento bellissimo quello che mi hai scritto, mi hai scaldato il cuore. <3 Non
so veramente come poter esprimere la mia felicità, perchè non solo ti piace, ma
apprezzi, addirittura di più, il fatto che sia atipica per trattare di Schäfer,
piuttosto che di uno dei K’s. A me mancano parole, ma mi fareve un’enorme
piacere parlare di più con te ** ergo, se vuoi, il mio msn è: ellie-bd@hotmail.it
Grazie di tutto di nuovo. *___*
_Princess_: sappi che senza la tua ff non mi sarei mai riavvicinata ai TH. Non mi
sarei mai appasionata a loro, non avrei mai iniziatato ad amare i G’s überalles
e non avrei iniziato a scrivere. Ergo, tutto ciò che posso fare per te lo
faccio di tutto cuore, anche postare mooolto prima. <3
Lady Vibeke: con te ne parliamo dopo, solo questo. Perchè io e te ci dobbiamo sposare,
se non te ne sei dimenticata. XD o somma sacerdotessa el gustavesimo, non puoi
infarcirmi di complimenti così, non voglio illudermi, insomma! Però, resta un danke
grande quanto una casa. XD
simmyListing: grazie, grazie, grazie,
mi fedele. Per essere rimasta, per continuare a dedicarrmi sempre parte del tuo
tempo. <3 e scusa se non so dire altro, ma è veramente l’unica cosa che mi
sovviene in questo momento. XD