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Autore: _Ellie_    20/10/2008    8 recensioni
{Una FF su Gustav}
Si, perchè io sono l’eterna idiota, il tipico personaggio delle favole che s’inciufola del principe azzurro, sapendo benissimo che non è stato, non è e non sarà possibile. Il masochismo esiste, gente. Il solo fatto di bramare “l’ama e sii amato” è da considerare il primo passo verso la pazzia, la frustrazione, le risate per cavolate, le uscite con altri uomini fallite per il solo fatto che loro non sono lui.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bill Kaulitz è universalmente noto per la sua acconciatura anti-gravità, che sembra voler smentire la celebre tesi di newton in ogni suo punto

28 pagine. Acci, per stavolta non ho battuto il record. XD

 

...

 

 

9. See Who I Am.

 

 

Bill Kaulitz è universalmente noto per la sua acconciatura anti-gravità, che sembra voler smentire la celebre tesi di newton in ogni suo punto. Inoltre, Bill Kaulitz è universalmente famoso per la sua puntigliosità. È un inquietante binomio tra una bestia da palcoscenico e un professionista della retorica. Anzi, a voler essere sinceri, lui è esattamente questo: ha fatto del montare fino all’isteria una folla urlante una professione, con i suoi trucchetti e assiomi in materia.

 

“Mescolare a fuoco lento, lentissimo. Affamare il soggetto mostrandosi in pubblico allegro, ma poco estroverso. Somministrare una buona dose di sorrisini, autografi, essere simpatico ed ovvio nelle interviste e stupire, stupire sempre con capi d’abbigliamento che, oltre a costare il doppio di un mutuo medio europeo, sono un palese oltraggio al buon gusto. Per poi fare sul palco tutto quello che bramano da voi: sollevare magliette che lasciano scoperti tatuaggi in zone strategiche; dare voce alla folla facendola cantare; saltare e agitare ogni singola parte del corpo come se si fosse stati morsi da una tarantola; gridare, incitare, a turno scambiare occhiate maliziose con il tuo bassista ed il tuo chitarrista.

Non far girare di coglioni il batterista, perchè se lui perde la concentrazione, tutti perdono il ritmo. E conseguentemente la testa, perchè i produttori ti falciano.”

 

Ma non dilunghiamoci ancora: Bill Kaulitz è tutto questo e anche di più.

E, come ogni bravo professionista, odia l’incompetenza. Soprattutto se veste i panni della sua truccatrice più fidata, Natalie.

 

-ovvio che sia incazzato! Perchè, e chiedo il perchè, sembravo truccato come se mi avessero preso a pugni? Non avevo gli occhi dalla forma lievemente a mandorla elegantemente sottolineati con matita e rimmel, avevo due palline da tennis cerchiate con ombretto e khol!

 

Calcandosi il cappello di foggia militare sui capelli neri legati in una coda, Bill percorse a grandi falcate il corridoio del lussuosissimo Hilton di Los Angeles. Il tutto continuando a intervallare borbottii minacciosi ad acuti annichilenti, assordando e distruggendo il poco che restava della capacità auditiva delle quattro sagome che lo seguivano.

O meglio, arrancavano dietro di lui.

 

-senti Bill, non è che se continui a smadonnare all’indirizzo di Natalie, che tra l’altro non è presente, cancellerai quelle foto! Il photoshoot è fatto, mettiti il cuore in pace!

 

Con un tono lievemente esasperato, Tom Kaulitz cercava disperatamente non di consolare il fratello, che non sembrava aver bisogno di piangere sulla spalla di nessuno, piuttosto cercava di preservare l’udito dei poveri cristi che lo seguivano.

Ovvero: un Georg che cercava di sbarazzarsi di una crosta di lacca che sembrava impedire ai suoi capelli di legarsi in una coda, un Gustav che aveva una faccia così seria che non sembrava sapere neppure dove il sorriso stesse di casa ed una Christa profondamente indifferente. Indifferente perchè era anche lei tutta intenta nel compito di augurare i più atroci tormenti a Jost, uomo che le aveva sganciato una mezza dozzina di discorsi da tradurre in non si sa quante lingue.

 

Tom schioccò la lingua allo spettacolo di tutte quelle facce più o meno scazzate, dalla traduttrice al bassista, passando per il batterista. E, in gradevole sottofondo (ma anche no) gli improperi del gemello.

Kaulitz senior non capiva cosa sembrava essere successo, ma una cosa era certa: sembrava l’unico a non essersi svegliato con il piede sinistro, quella mattina.

Preoccupante, seriamente preoccupante.

 

-senti, parliamone. Non è un argomento poi tanto importante, no?

 

Negando con una mano ed aprendo la porta della sua suite con l’altra, Bill non sembrava essere dello stesso parere di Tom.

Spalancò la porta, e, mentre il gemello si ritrovava ad attraversare l’uscio, gliela sbatté in faccia, proprio sul suo povero naso.

 

-Bill! Ma allora sei coglione!

 

Gridò massaggiandosi la parte offesa. Bill spalancò la porta, squadrando il fratello con un’espressione che preannunciava tempesta.

Con un sospiro rassegnato, Georg si mise in mezzo ai due fratelli prima ancora che potessero iniziare a darsele di santa ragione.

 

-smettetela.

 

Stoico. Il ragazzo era puro stoicismo, in quel momento.

 

-ma se non abbiamo neppure iniziato?!

 

Fu la risposta corale dei gemelli, già in posizione d’attacco.

Con un tono che non ammetteva repliche, e che avrebbe rimesso al suo posto un Jost in piena crisi isterica, Georg freddò immediatamente i bollenti spiriti.

 

-e non inizierete, infatti.

 

A sorpresa, lo sbuffo scocciato venne da qualcuno alle spalle di Georg, Gustav.

 

-sentite, comari, litigate quanto volete. Bill, sto andando a farmi la doccia nel tuo bagno. La mia suite ha problemi.

 

La voce grondava di sarcasmo, e, se non fosse stato per il fatto che era Gustav, sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale alla parola “comari”. Invece, con una semplice occhiatina dubbiosa, Bill fece spazio e Gustav passò. Non senza essere seguito dagli sguardi preoccupati di Tom, Georg e Christa, che, cercandosi, confermarono i loro sospetti: era una bomba pronta ad esplodere. Il problema era sapere quando.

 

Con un tentativo particolarmente impacciato di rallegrare l’atmosfera, Tom bofonchiò a mezza voce:

 

-propongo TV e popcorn. Chi si appunta?

 

Alla risposta affermativa di tutti, fu il primo a varcare la soglia, evitare con lo sguardo la porta del bagno che era esattamente nella parete fronte all’ingresso e a percorrere il corridoio che sboccava in un salotto arioso, il cui divano dava le spalle all’imboccatura del corridoio.

 

Come se il sospiro stanco di Christa appena appollaiatasi su uno dei braccioli in pelle nera fosse stato un segnale, Bill si fece sfuggire una risatina nervosa mentre si buttava a peso morto esattamene nel centro del divano, Tom sbuffò quando afferrò il telecomando e Georg, sant’uomo, si sedette invece solo dopo aver recuperato una busta da svariati kili i pop-corn. Si appoggiò con la testa al fianco sinistro della traduttrice, per poi fare praticamente le fusa quando la mano di lei iniziò a massaggiargli dolcemente il cuoio capelluto.

...

 

Basta. Non siamo distrutti, siamo stremati. Siamo negli USA, Los Angeles finalmente. Una delle ultime tappe prima della pace, del ritorno in Germania. Però, nonostante questo, non siamo tranquilli. C’è qualcosa che, sotto sotto, rode tutti, e io so che cos’è.

 

Gustav. Gustav e Dorcas.

 

Non so se alla gente normale, quella che non guadagna milioni per un sorriso e non si fa venire il callo alle dita solo firmando gli autografi, accada mai di contemplare la caduta di una persona. Una persona che prima non aveva mai dato segni di cedimento, che si credeva di conoscere. E che è precipitata in caduta libera, che si è persa.

 

Ebbene, a me è successo. A noi è successo. Perchè Gustav non ha solamente sofferto, pianto due lacrimucce, non si è ingozzato di dolci e non ha guardato film sdolcinati. Come farei io, per inciso.

Ha...

Ha sofferto. In silenzio. Ma anche no.

Sono venuto a sapere più cose di lui in questi ultimi mesi che negli ultimi quattro anni.

Cose non dette, semplicemente osservate dal sottoscritto.

 

Con un sospiro stanco, mi accoccolo meglio tra Tom e Georg, al centro del divano. Siamo concentrati in due posti quando questo divano ne ha dodici. Ma nessuno si lamenta. Perchè, ammettiamolo, abbiamo paura, paura di quello che è successo a lui capiti a noi.

 

È caduto in basso, e lo sa. Ma noi non glielo diremo. Saremo solo sempre affianco a lui. Nel frattempo, però, preferiamo stare tutti insieme.

 

 Gustav non si è mai distrutto così per qualcosa. E quando dico mai, è perchè so che non c’è mai stato niente che ne valesse la pena.

Non ce ne siamo accorti subito, devo ammettere. Suona egoista, ma è così. Nei primi due mesi era solo leggermente più taciturno del solito, più serio e perennemente attaccato alla batteria, o all’mp3 in mancanza della prima. È stato dal terzo mese in poi che le cose sono precipitate.

 

Mi sono accorto che Gustav stava male perchè sorrideva.

E lo faceva in una maniera cattiva. Non so se mi spiego: sembrava guardare tutto dall’alto di una nuova certezza, di una nuova posizione.

Tom se n’è accorto per primo, di che cos’era.

Disillusione.

 Non uno stadio molto avanzato, ma già abbastanza serio. Tom è sempre stato più ricettivo per queste cose, non so perchè: io sono dolce e affettuoso, ma lui è quello che ha l’intuito per i problemi di fondo, l’importante è che non siano i suoi.

 

-non so che cos’è, ma c’è qualcosa che non va in lui.

 

Ammetto che è stata una di quelle occasioni in cui mi ha messo paura, quella sera piovosa a Manchester.

 

Stavamo parlando di non so che cosa fino ad un momento prima, quando mi accorsi che non sembrava più ascoltarmi. Aveva girato la testa verso Gustav che, in piena intervista telefonica, sorrideva al telefono.

 

-cosa?

 

Mi aspettavo una risposta banale e che lui volgesse il viso verso di me per continuare quindi a parlare. Ma mi stupì continuando a guardare fissamente Gustav che rideva con l’intervistatrice.

 

-Bill, da quant’è che non facciamo più caso a Gustav?

 

Ora che ci penso meglio, quello non era un sorriso. Era un ghigno.

Ed era anche piuttosto cattivo.

 

-Bill, pop-corn?

 

Osservo stolidamente la confezione che Tom mi sta scuotendo davanti per alcuni secondi, prima di rispondere con un cenno di diniego. Stupito dal mio sguardo assente, mi rivolge un cenno interrogativo che liquido con un gesto noncurante della mano. Mi stringo ancora di più tra mio fratello e Georg, ricevendo una leggera carezza tra i capelli da parte di Christa, che probabilmente nota la mia inquietudine.

 

Ma quella di Gustav non è già più inquietudine, è smania. Di autodistruggersi.

E qui, se Gustav non è riuscito ad annullarsi, lo dobbiamo a Tom e Georg. Non so come abbiano fatto, non so perchè l’abbiano fatto. Ma, dandogli l’illusione di essere il primo felice di portarselo a feste da delirio ed il secondo troppo impegnato con la ragazza, l’hanno tenuto sotto controllo.

Posso semplicemente ammirare, perchè io non avrei saputo mentire in questa maniera: era dedizione, quella con cui Tom ha fatto finta di cedere a tutte le richieste di Gustav, richieste invece già previste, incanalando la sua attenzione solo in cose che non superassero mai il limite del consentito.

Guardo il profilo del mio gemello attentamente, mentre un suo sbadiglio sottolinea come sia interessante il programma che sta guardando.

 

-Gustav è una mina pronta ad esplodere. Non so se l’avete mai provato, ma non c’è via di fuga in questi casi. Insomma, le ha tentate tutte, non sono servite a niente, quindi se non lo tengo sotto controllo, noi possiamo dire addio al nostro caro, vecchio Gustav.

 

Gli ha fatto praticamente da baby-sitter. E, ripeto, io non ce l’avrei fatta.

Mi giro adesso verso Georg, che è prossimo ormai al sonno, visto che i suoi occhi sono socchiusi e la mano abbandonata in grembo a Christa. Entrambi hanno il viso rivolto verso la tivù, senza in realtà vederla: Christa si limita a far vagare la mano tra i lunghi capelli del nostro bassista, mentre lui fa praticamente le fusa, tanto è rilassato.

 

Ha fatto finta di allontanarsi da Tom.

 

Cercate di capire: Tom e Gustav sono agli antipodi del carattere. Teoricamente, non c’entrano un beneamato piffero l’uno con l’altro. Il saggio della montagna e il biscazziere, il santo picchiatore e colui che ci fa sesso, con la sua chitarra. Normalmente, è Georg che viene considerato come termine medio: accomodante in entrambe le direzioni, playboy ma discreto, sensuale ma non plateale. Quindi era ovvio che Georg avrebbe dovuto impersonare il santo della situazione per sollevare indirettamente Gustav del ruolo di bravo ragazzo. Gustav, secondo il piano, sarebbe dovuto diventare la nuova via di mezzo, e bisognava fare in modo che non si accorgesse di niente.

Ma Georg ce l’ha fatta: bisognava diminuire il bere, far finta di non condividere più le vecchie opinioni “alla Tom” per fare in modo che Gustav si sentisse autorizzato a condividerle. Pur intendendosi perfettamente con Tom per la buona riuscita del piano, spingeva il batterista a prendere la “cattiva strada”. E devo dire che Christa ha contribuito decisamente a donare un’aura di veridicità al tutto.

 

-ah, io non posso venire.

 

Georg sorrideva tranquillo dalla poltrona in cui era stravaccato, mentre continuava a strimpellare il suo basso.

Gustav lo guardò basito per un istante, chiedendosi se ci sentisse realmente bene.

 

-Georg, è la festa degli Echo! E tu hai sempre amato la festa degli echo!

 

Georg sollevò lo sguardo fino ad incrociarlo con il suo, senza perdere il sorriso.

 

-esatto: amato. Quindi questa volta non verrò. L’indomani è giorno libero sia mio che di Christa, e voglio evitare di passarmelo con la doposbornia, grazie.

 

Sbigottito dal discorso che suonava parecchio come il commiato di un playboy al mondo, Gustav si passò una mano tra i corti capelli biondi, cercando con lo sguardo Tom.

 

-e tu? Neanche tu andrai? Mi annuncerai che passerai una piacevole serata in compagnia di un paio di ferri ed un gomitolo di lana?

 

Tom lo fulminò con un’occhiataccia.

 

-spero per te che non sia serio, Gustav. Sono ancora affamato come prima, nonostante questo qua- disse, indicando con un cenno della testa Georg che si mise a ridacchiare per la battuta. –si sia ormai accasato.

 

E nessuno di noi seppe  mai definire in seguito se la risata che fece eco alla battuta di Tom fosse inquietante o semplicemente angosciante.

 

 Sospiro.

 

-ehi, ragazzi, guardate qua.

 

Christa, i capelli neri e lunghi acconciati in uno chignon alto, ancora appollaiata su un bracciolo con la testa di Georg in grembo, indica il programma televisivo odierno stampato sulla guida Sky dell’hotel.

 

Io e Tom ci giriamo, mentre Georg si limita ad aprire leggermente gli occhi e a drizzare le orecchie.

Lei continua a leggere.

 

-C’è uno speciale sul concerto dei metallica di domani su MTV, inizia praticamente adesso. Lo guardiamo?

 

Chiede poi, guardandoci con aria interrogativa. Annuisco, mentre mio fratello si limita a digitare la sequenza di numeri giusta. Poggia meglio la schiena contro il mio fianco sinistro, allungando le gambe sulla parte di divano vuoto. Io mi limito ad accavallare le mie su quelle di Georg, a sua volta decisamente abbarbicato a Christa, mentre quest’ultima svetta su tutti noi. Che quadretto caloroso, sul serio.

Mi fanno bene le cose di questo genere.

 

...

 

Ho sempre pensato che questa ragazza fosse una stufa. E adesso ne ho la conferma.

Essendo indissolubilmente appiccicato a lei, sento come attraverso la stoffa della maglietta la sua pelle sia calda. Dolcemente calda.

Mentre sullo schermo al plasma esplode una delle tante pubblicità “originali” di MTV, io mi distraggo osservandola dal basso, continuando a tenere appoggiata la mia testa sul suo fianco.

 

Sembra una sfinge: l’espressione seria, immota, le labbra rosse sono lievemente socchiuse, mentre i suoi occhi grigi osservano attentamente lo schermo.

 

Cannella. Oggi profuma leggermente di cannella. Respiro profondamente fino a riempirmi i polmoni di quest’odore dolcemente penetrante, nella speranza che me ne resti traccia sulla maglietta, anche quando scioglierò quest’abbraccio.

Non so perchè, ma mi rassicura. Quest’odore, voglio dire. In un’atmosfera inquietantemente placida come questa con i due Kaulitz, miracolosamente silenziosi, buttati su un divano, con la perenne incazzatura di Gustav che aleggia nell’aria e un disagio profondo, troppo tranquilla per non essere altro che la quiete prima della tempesta, beh, io mi sento protetto. Magari sono solo egoisticamente tranquillo, perchè io non sto sputando l’anima dietro a nessuno. L’ho già fatto in passato, ed è inquietante il fatto che ormai io e Christa stiamo assieme, forse perchè mi ricordo ancora com’era senza lei.

 

Tra i rumori di sottofondo delle tivù, il frusciare degli abiti di chi cambia posizione, il sospirare stanco di qualcuno, io credo di poter distinguere il suo respiro.

Accarezzo il bordo della camicia, sollevandolo quel tanto da lasciare un lembo di pelle allo scoperto.

Con un gesto furtivo, lo bacio delicatamente, sentendo il suo calore dolce sulle labbra. La guardo, cosa che invece non fa lei. Ma noto come si morda le labbra per non sorridere.

 

-oddio.

 

Un dolore sordo mi artiglia il braccio sinistro, mentre la voce allarmata di Bill fa girare di scatto la testa a tutti quanti, compreso Tom che sonnecchiava distratto sulla spalla del gemello.

Bill ci osserva a turno per pochi secondi, bocca spalancata ed espressione scioccata, indicando ripetutamente lo schermo al plasma che troneggia di fronte a noi.

 

-oh... oddiio. Oddio, oddio, oddio.

 

Si afferra le mani, stritolandosele. Deglutisce a vuoto, continuando ad indicare con cenni del capo lo schermo. Io cerco di tranquillizzarlo poggiandogli la mano su una spalla, ma non sembra farmi caso.

 

-Migliaglia di persone in fila, prenotazioni fin dall’anno scorso. E c’è addirittura chi sta già aspettando fuori dallo stadio in attesa dell’inizio del concerto, che solo avrà inizio alle sette di domani sera...

 

Mi concentro sullo schermo, pur senza smettere di tenere la mano sulla spalla di Bill, più per farlo rimanere seduto che per tranquillizzarlo.

 

-L’ho vista.

 

Sentii distintamente Tom schiarirsi la gola, pur senza guardarlo. La trasmissione era in differita su TRL live, e per adesso era ancora agli inizi. Una voce fuori capo si limitava ad inneggiare a seguire la trasmissione, citando entusiasticamente dati su dati. Allo stesso tempo, immagini di repertorio scorrevano senza posa.

 

Una biglietteria che espone il cartello “sold out”.

La pianta dell’enorme “the Hall”, l’enorme concerto di LA in cui si sarebbe tenuto il concerto.

File di fan.

Gente che salutava la videocamera.

I Metallica che provavano un soundcheck.

Il montaggio di casse dell’audio semplicemente mastodontiche.

 

-chi, Bill? Chi hai visto?

 

Se non fossi stato troppo distratto dalle immagini veramente spettacolari, dalla rapida successione di urla, voci, motti e risa, forse avrei fatto caso al tono inquieto di Tom. Come se non volesse credere ad una cosa che reputava impossibile.

 

Facce di gruppi più o meno conosciute.

 

(I Within Temptation che scherzavano con i Körn)

 

Tecnici che si gridavano dai lati opposti di un palco enorme.

 

(Come piccole formiche che salivano e scendevano in cerca di non si sa cosa)

 

Ultima veduta dagli spalti dell’enorme stadio.

 

E poi, come un’apparizione, direttamente dal regno dei ricordi, dinamica come una scintilla di rabbia, decisa come un uldozer e pallida come un lenzuolo, troppo piccola per quel megafono che tiene tra le mani, troppo frenetica per non rischiare un collasso, lei.

 

-ok, gente, voglio quella cassa a destra e, Derek, le chitarre non sono ancora state sistemate e io non so cosa voi della squadra stiate aspettando. Muoversi no, eh?

 

Come un pugno in pieno stomaco, Dorcas.

 

Lo schermo l’ha inquadrata per brevi istanti, ma io continuo a vederla di fronte a me, come se la sua immagine mi si fosse impressa a fuoco nella retina e non se ne volesse andare.

 

In piedi su una cassa, come una regina su un trono, i capelli bianchi troppo corti per non rendere i suoi tratti, normalmente delicati, affilati come coltelli. Gli occhi azzurri sono coperti da un paio di Ray-Ban classici, quasi a volere eliminare ogni segno di umanità. L’altezza non è cambiata, però perchè mi ricorda terribilmente la Dorcas dei primi tempi, quella venuta da poco a lavorare per i Tokio Hotel?

 

La mano di Christa afferra forte la mia stringendola. Adesso sullo schermo scorrono le immagini tipiche di uno speciale, a cui mi sento improvvisamente indifferente.

Mi giro quindi verso di lei, cercando il suo sguardo.

 

Ed ha un’espressione che mi fa stringere il cuore.

 

Perchè è triste e malinconica, perchè conferma i miei sospetti: Dorcas non era semplicemente immersa nel lavoro, in quel breve momento.

 

Dorcas ci si era annullata dentro.

 

-sai che sei una ragazza strana?

 

Sembrò non farmi caso. Si limitò a continuare ad armeggiare con le manopole della consolle, sempre con le cuffie al collo, gli occhi di un blu cupo socchiusi per la concentrazione, la pelle pallida come un lenzuolo e la bocca stretta in un’espressione severa.

 

La nostra nuova tecnica del suono non sembrava aver simpatia per nessuno dei suoi datori di lavoro, ma la sua indifferenza nei confronti dei Tokio Hotel, di cui registrava i pezzi e con cui condivideva almeno nove ore al giorno, era imbattibile.

 

Fin dall’inizio aveva snobbato Tom, demolito Bill in una memorabile gara d’insulti spiattellati con voce atona ed indifferente, aveva degnato Gustav di un saluto quanto mai secco e, in quanto a me, mi rivolgeva la parola solo per comunicarmi informazioni basiche ed prive di qualsiasi traccia di emozioni.

 

“Georg, tocca a te registrare” o “Georg, bisogna rifare” erano tra le frasi più lunghe che mi avesse mai dedicato.

Non si poteva certo dire che la ragazza fosse il ritratto del calore umano.

  Ecco perchè mi ero impuntata nel farle comparire su quel visino freddo e immoto una qualsivoglia traccia di emozione. Volevo stuzzicarla.

Magari poi scoprivo che non aveva mai sorriso in vita sua.

 

-sai che sei una ragazza strana?

 

Mi aspettavo di ricevere lo stesso silenzio di prima come unica risposta, ma, stupefacente, le sue labbra decorate da piercing scintillanti ed aggressivi come la loro padrona si aprirono. Giusto per fulminarmi un’altra volta.

 

-lo hai già detto.

 

Ma io non mi arrendo mica.

 

-e se lo ripetessi?

 

Sempre continuando ad armeggiare con mille ed un tasto, ma con un ritmo meno sostenuto, Sua Maestà Miss Professionalità si degnò di rispondermi.

 

-io ti ripeterei che hai già ripetuto una domanda.

 

Non le diedi il tempo neppure di chiudere le labbra, che ribattei per mantenere il “ritmo serrato della conversazione”.

 

-e che cos’è, una sciarada?

 

E poi, come un miracolo, mi resi conto di aver innescato qualcosa. Innanzitutto, smise di battere sui tasti. Poggiò con calma la mano sulla superficie di metallo della consolle, stendendo le dita cariche di anelli.

Sollevò lo sguardo dallo schermo, girando lentamente la testa verso di me. Cercò il mio sguardo e vi centrò il suo.

 

Statica. Tutta la sua posizione era statica: inginocchiata sulla poltrona in pelle dello studio, i lunghi ricci bianchi immobili sulle spalle. Le labbra non fremevano, e a malapena mi accorsi che respirava. Perchè, se la sua espressione era immota, non così i suoi occhi.

Sembravano leggermente velati da qualcosa che li rendeva più opachi di quello che in realtà erano, che ne nascondeva il furore. Un furore che non sembrava rabbia, ma qualcosa di più profondo. Mi sarei azzardato a definirla come disperazione, chissà.

 

-Georg Listing, intuisco di non essere simpatica a molti, in questa casa.

 

Con un gesto della mano indicò l’intero ambiente, per poi distendere le labbra in un qualcosa che poteva essere un vago ghigno ironico.

 

-però mi piacerebbe lavorare in pace, sai, guadagnare uno stipendio in maniera onesta e senza persone che cerchino di tracciare un profilo psicologico della mia persona nel frattempo.

 

Dio, stavamo battendo tutti i record di durata di una conversazione. E di acidità. Il tono con cui parlava non era cattivo, era determinato. Capii perchè quella strana ragazza non sembrava voler filare nessuno: è perchè non ci vedeva neppure. C’era più affetto nello sguardo che rivolgeva ai nostri strumenti piuttosto che in quello che rivolgeva ai proprietari dei tali.

 

La guardai, e mi sentii male. Perchè, a parte quella fiamma sacra di dedizione al lavoro, non sembrava esserci nient’altro in quello sguardo febbrile. Era innaturale la costanza con cui s’impegnasse, era innaturale questo suo isolarsi da tutto e tutti. Era dannatamente sola, e l’unica cosa che sentii fu commiserazione.

 

-Listing, se stai provando a commiserarmi non sai a cosa vai incontro.

-posso aiutare?

 

L’avevo presa in contropiede. Si era fermata, mi aveva guardato, mi aveva finalmente squadrato. Si era accorta che io esistevo.

 

-tu, con me, non c’entri nulla.

 

Annuii, suscitando un’inarcata di sopracciglio da parte sua.

 

-ma io intendevo con la consolle. Come fai ad utilizzare questo bisonte?

 

Mi guardava, sempre con il sopracciglio inarcato. Poi strizzò gli occhi, si mise una mano di fronte alla bocca ed iniziò a scuotere le spalle.

 

E a ridere, ridere con una risata sottile, come se avesse paura di farsi male per il troppo riso.

 

-mi stai dicendo- con gli occhi che finalmente sprizzavano scintille di vita- che vuoi imparare ad utilizzare questa?

 

Indico la consolle con un gesto del capo, facendo ondeggiare la chioma immensa e disordinata di capelli bianchi.

Scossi la testa, sorridendole.

 

-beh, visto che a te manca il libretto d’istruzioni, magari ci arrivo attraverso l’oggetto del tuo amore.

 

A quanto pareva, Dorcas si era di nuovo isolata, annullata. Diretta, decisa, determinata. Costi quel che costi, quella ragazza era di nuovo nel backstage di un concerto. Ma, dentro di se, era ritornata a parecchi anni fa.

 

-L’avete vista?

 

Tom, Tom. Come si fa a non vederla? È piccola, ma sa dove piantarsi per farsi vedere più che bene.

 

-mi ha fatto paura.

 

La voce di Bill è più calma, ma c’è una punta di rimpianto, adesso.

 

-mi ha fatto seriamente paura. Non era così diversa, prima.

-si è tagliata i capelli.

 

Faccio notare io.

Ci guardiamo, io, Tom, Bill e Christa. Ci guardiamo e io mi sento leggermente male.

È passata così tanta acqua sotto i ponti da allora? Sono solo sei mesi, ma perchè per Gustav e Dorcas sembrano passati sei anni?

 

-Dorcas!

 

Ci giriamo di scatto, di nuovo verso lo schermo delle meraviglie, di nuovo verso l’unica fonte d’informazione sulla nostra amica.

 

-ehilà, Sharon.

 

Risponde lei, un sorrisino distratto e una pila di fogli in mano. Hanno inquadrato la scena per mostrare come vanno le cose dietro un palco, come, intorno a un lunghissimo tavolo di noce, si sia riunito il fior fiore della musica Rock, Metal e Gotica degli ultimi anni.

 

Avanza decisa, i jeans aderenti e le All-Star consumate, una felpa il doppio di lei con la sigla STAFF sul retro e FOH sul petto, un abbigliamento serio e professionale che non ricordo averle mai visto addosso.

E così Dorcas ha fatto anche carriera.

 

Sicura di se stessa, determinata e lucida, Dorcas sorride alla platea.

 Uno dei sorrisi più freddi che le abbia mai visto.

 

-allora, questa è la lista del soundcheck e, come vedete, per ultimo verranno i gruppi che hanno bisogno dell’accompagnamento dell’orchestra di LA.

-ma come, mi costringi a finire così tardi?

 

Ad aver parlato è un ragazzo giovane, sui venticinque. Capelli neri e ricci, occhi castani e corporatura esile.

 

Dorcas sbuffa al tono confidenziale del ragazzo, indicandolo poi al resto dei musicisti.

 

-come vedete, il direttore d’orchestra che accompagnerà sia Tarja Turunen e sia i Whitin Temptation, è il tipo che vedete al mio fianco.

 

E qui, io come gli altri, decidiamo che il tipo ci da definitivamente sui nervi. Perchè il sorrisino con cui risponde alla battuta di Dorcas, non ha nome.

 

-eh, magari.

 

Dorcas lo fulmina con un’occhiataccia, ma non ribatte.

 

Non ribatte.

 

-non ribatte.

 

Conferma atono Bill.

Sento la mano di Christa afferrarmi convulsamente una spalla, guardando lo schermo con aria terrorizzata.

 

-prega Dio che Gustav non veda tutto questo.

 

Silenzio. Poi, tutta una spiacevole serie di eventi.

Un colpo che risuona nell’imbottitura del divano ci fa sobbalzare tutti quanti, un colpo che sembrava avere tutte le caratteristiche di un pugno scagliato contro la schiena del sofà. Poi passi frettolosi, una porta spalancata.

 

-Gustav!

 

Grida Tom, guardando verso l’ingresso.

 

La porta sbatte, così forte da far vibrare la parete. E, come un fiocco di neve fuori stagione, osserviamo un pezzettino d’intonaco cadere al suolo. Il silenzio quando cade a terra è tale possiamo udirne distintamente il rumore.

 

La televisione continua a vomitare parole senza sosta quando, come riscuotendoci da un sogno, scavalchiamo il divano ed iniziamo a correre per fermare Gustav e la sua rabbia che è finalmente scoppiata come un palloncino bucato, che può causare danni a se stesso e che può fargli fare di tutto.

 

Lo ammetterò. Ho paura.

Perchè Gustav, da quando è lontano da Dorcas, ha perso ogni senso di logica e ragione.

E io non voglio credere di aver perso un amico.

 

...

 

-che cosa ho io che non va?

 

Il fiato che esce bruciante dalla mia bocca, il sangue che sento scorrere caldo nelle mie vene.

Tremo.

 

Ma di rabbia.

 

-perchè? Perchè io non andavo bene? Cosa le impediva di rimanere?

 

La bacchetta che stringo possessivamente tra le dita non è altro che un pezzo di legno, un pezzo di legno che mi si sta imprimendo a fuoco nel palmo della mano.

 

-perchè non è più qua?

 

Il tono sale, sale per scoppiare in un urlo.

 

-PERCHÈ?!

 

Ed è venuto il momento di gridare, e di lanciare quelle maledette bacchette. Lanciare qualsiasi cosa lontano da me, anche me stesso, se necessario.

 

Le lacrime mi gonfiano le palpebre, mentre un qualcosa di ustionante mi possiede dentro. Sento qualcosa rompersi, sento un rumore di specchi infranti. E mi fa piacere. Anche se questo risuonare cristallino di qualcosa rotto non sarà mai pari a quello che mi risuona dentro, almeno ne traggo soddisfazione. Mi brucia. Mi brucia di rabbia, vergogna, indignazione.

 

Perchè lei non è qui.

 

E me ne fotto di tutto, perchè mi sento rifiutato. Voglio morire e gridare e, se non altro, uno dei due lo sto facendo.

 

Sarò rauco per stasera, ma il fatto che ci sia qualcos’altro a bruciarmi, oltre al petto, è già di sollievo.

 

Non vedo, ormai. Le lacrime si limitano a scorrere distratte, dimenticate, mentre le mani vanno in automatico.

 

Un’altro specchio, per poi una sedia. Che forse in origine poteva anche essere una bella sedia di chissà quale stile. Ma che adesso, l’unica cosa che le è successo di notevole, è che sia finita di volata oltre la vetrata del terrazzo per atterrare con uno schianto poco rassicurante sulle stesse mattonelle.

 

Mi passo la mano sul viso, mischiando sudore e lacrime in un tutt’uno appiccicaticcio e salato. Un salato così ferocemente amaro, che inizio singhiozzare. Perchè mi sento il cuore stretto in una morsa fredda, lo sento fatto a pezzi da tutti quelli che mi circondano, lo sento diviso e triste.

 

E brucia. Tutto brucia, anche la mia pelle febbricitante.

 

In uno scatto di lucidità, avverto distintamente il risuonare di numerosi passi nel corridoio. Mi avvento contro la maniglia di ottone della suite, quindi, tenendola stretta e chiudendola a chiave in uno scatto secco.

 

Giusto in tempo, perchè la porta inizia a essere percossa da una violenta scarica di colpi.

 

-Gustav! Gustav! Crista santo, ma che succede?!

 

Non rispondo, allontanandomi dalla porta in stato di catalessi.

Se volessi potrei riconoscere la voce di Saki, ma non ho nessuna voglia di riconoscere nessuno.

 

-...in pace.

-cosa?

 

Non ho riconosciuto neppure io la mia voce. Perchè è atona. Piatta. Rauca. E fredda. Dannatamente gelata.

 

Mi sono perso in te e adesso non riesco più ad uscirne fuori, sei contenta?

Due mesi. Ricordalo bene, perchè sono due mesi. E mi stai bruciando l’anima. Non ne resta più niente per nessuno, come una droga potente. Perchè ti voglio, ti voglio e da solo non ci so stare.

 

Torna.

 

-Gustav! Apri quella dannatissima porta!!

-Tom, basta!

-ma non lo vedi cosa sta facendo, la dentro? Distrugge tutto! Bill, Georg, non possiamo lasciarlo là! È solo!

-oh, zitto tu!

 

Voci soffocate aldilà della porta, voci che stanno bene lì dove stanno. Fuori. Da me e da tutto.

 

-Gustav, so che sei là. Se puoi, rispondimi.

 

Vorrei gridare, ed allontanarmi ancora di più da quella porta. Vorrei arrivare fino al terrazzo ed al bagno, e continuare da dov’ero rimasto. Perchè ci sono ancora lenzuola da lacerare e quadri da rompere. E tante, tante belle vetrate.

 

 Ma non lo faccio. Non adesso. Mi avvicino a passi cauti alla porta, quasi temendo che si apra. Ma non lo farà. Perchè nessuno la tempesta più di colpi, e il chiavistello è tirato.

 

Poggio la fronte, provocando un lieve colpo sordo contro il legno della porta.

 

E credo che l’abbiano sentito, perchè si sente un “sssh!” silenzioso, e la voce di Bill è quasi un sussurro, adesso.

 

-Gustav, vieni fuori.

-No.

 

Silenzio. Perchè è un no secco, e tutti conoscono i miei no.

Non aprirò questa fottutissima porta.

O forse Bill sussurra perchè la mia voce è assurdamente inumana?

Ha paura di me?

 

-Gustav, vogliamo aiutarti. Ti prego, apri.

-No.

 

Questo era Tom.

 

-Gustav...

-NO, NO, E NO! CHE CAZZO NON CAPITE DI UN FOTTUTTISIMO NO?

 

Silenzio.

Tiro un pugno alla porta, che risuona potente e forte, lasciando impresso il segno delle mie nocche nella vernice bianca.

 

-non potete fare un cazzo, lo capite? Perchè voi non siete lei, e io non sostituisco mai. Quindi fuori.

 

Non parlano.

 

Sono ormai senza voce, e mi allontano dalla porta, inorridito da tutto.

 

Dal fatto che mi sto riducendo così per un ricordo ossessivo, dal fatto che so che sarà così finche non mi dimenticherò di lei, dal fatto che la consapevolezza totale della sua mancanza si sta spalancando sotto ai miei piedi come un baratro.

 

E ho paura.

 

E piango, e gemo. Perchè nessuno potrà fare niente per questo, perchè nessuno di quelli a cui io voglio bene potrà mai fare quello che lei faceva per me. Perchè lei era unica e tossica e come la cocaina s’impossessa e rende ingordi. Si, ingordi di lei e del suo odore, della sua presenza e delle sue battute acide. E so di avere un qualcosa che batte di ricordi e dolore, di frustrazione e rabbia, al posto del cuore. Ed e solo a distanza di due mesi.

 

E l’unica cosa che posso fare, e distruggere tutto ciò che mi sembra vuoto, alla disperata ricerca di una vaga sensazione lasciata da lei da qualche parte. Perchè se stai così, l’amicizia non serve e la famiglia è solo un peso.

 

Mi avvento quindi conto tutti gli oggetti che sembrano comporre questa stanza, che sembrano renderla claustrofobica e scialba, lussuosa e assurda, vuota e oppressa da troppi ninnoli.

 

Strappo ogni singolo lenzuolo del letto matrimoniale con minuzia, mentre le lampade si accatastano senza posa sul pavimento del terrazzo. Forse qualche frammento di vetro o metallo mi ferisce lo zigomo e il naso, perchè a un certo punto sento la sensazione calda e appiccicosa del sangue sulle labbra. Mi osservo alienato in un frammento del grande specchio centrale, ora crepato dal lancio di un telefono.

Mi osservo allucinato e noto che il nuovo taglio allo zigomo è appena sotto alla cicatrice che Dorcas mi fece a suo tempo durante l’ultima litigata.

 

La litigata che probabilmente l’allontanò definitivamente da me.

 

Mi trascino con passi stanchi nel salottino della stanza, sussurrando tra me e me parole senza senso. Evito gli specchi infranti, i comodini rovesciati.

 

E sorrido. Un sorriso doloroso e pazzo, affaticato ed allucinato. Ma pur sempre un sorriso.

 

Per la prima volta dopo tanto tempo, mi sento bene. Perchè il casino che c’è qui riflette esattamente quello che io sento ribollirmi fin nella più piccola vena dal mio corpo.

 

Arrivo finalmente al letto, adesso un ammasso informe di tessuto ed imbottitura. Lo osservo e, non ostante tutto, mi sembra sempre troppo ordinato.

Mi accascio quindi per terra, stremato.

 

Mi giro su un fianco, raggomitolandomi su me stesso.

Sospiro, mentre l’ultimo singhiozzo sfugge dalle mie labbra e si confonde, come un suono qualsiasi, con il traffico che entra sottile dalle finestre rotte.

 

Là, tra cocci e lampade, tavolini rovesciati e bibite sparse per terra, tra il mio dolore e il mondo indifferente che mi circonda, adesso finalmente scosso dal mio passaggio, mi sento bene.

 

-perchè non sei qui con me?

 

Non so se l’ho sussurrato, gridato, detto, gemuto o singhiozzato. Ma l’ho esternato. E, nel mio dolore, mi sento bene. Perchè per te provo rabbia, rabbia e frustrazione.

 

Perchè sono consapevole di non averti saputo dare interamente quello che stavi cercando, nonostante io potessi dartelo. E me ne pento. E mi frustro.

 

E vorrei poter rimediare. Datemi un’altra opportunità. Solo una. Solo mia.

 

Giusto quando penso di essere arrivato ormai al confine tra notte e veglia, sento il lento scattare della serratura. La porta si apre leggermente, lasciando entrare una lama di luce che sembra tagliare il nero caos della stanza.

 

Chiudo gli occhi, rendendomi conto di come allo scattare della porta la luce del corridoio è stata spenta. Non sorrido, limitandomi a rimanere immobile così come sono, raggomitolato su un fianco.

 

Anche se non posso fare a meno di non sentirmi più solo. Perchè nonostante avessero il pass magnetico fin dall’inizio di questa allucinante serata, i ragazzi non hanno aperto la porta. Sono rimasti fuori, in corridoio, per quelle che presuppongo fossero delle ore. Hanno saputo rispettare la voglia che avevo di stare solo. E questa gliela devo.

 

-tu pensi che stia dormendo?

-ovvio, Bill. Sennò non ci avrebbe fatti entrare.

 

Senti i passi felpati delle Nike Air di Tom risuonare sulla moquette della suite. Girano intorno alla mia sagoma, disegnando dei cerchi via via più vaghi.

 

-oh mio Dio.

-Tom, smettila. Le nostre camere erano in condizioni peggiori, dopo che ci diedero la notizia del divorzio.

 

I passi di Bill, evidenziati dal lieve ticchettio dei suoi tacchi, si avvicinano a me. Un silenzio, una loro pausa, mi fanno capire che si è inginocchiato a guardarmi. Il suo dito leggero e asciutto passa sopra la ferita dello zigomo, facendomela dolere.

Ma è la mano calda e grande di Georg, quella che si posa sul mio collo.

 

-respira ancora, se proprio lo volete sapere.

-ma certo che deve respirare. È un toro, non lo stronca mica la distruzione di una suite.

 

Li sento battibeccare sopra di me, sussurrando per non svegliarmi e circondandomi con la loro presenza. E anche se non sono lei, mi rendo conto, sono sempre i miei amici.

 

Quelli con cui ho viaggiato il mondo e visto di tutto, altri tre sognatori come me con cui, alla fin fine, quel mitico sogno di cui tanto favoleggiavamo ai dodici anni si è fatto realtà.

 

-oh, sentite. Continuiamo in adorazione di questo qua o viene a dormire con noi?

-camera tua, Bill. Tu hai il letto a tre piazze, stavolta.

-certo, Georg. E tu vorresti portarcelo in braccio, magari?

-oh, maledizione. Georg, Bill, silenzio.

 

Una mano fredda e nervosa si poggia sulla mia spalla, scuotendola leggermente.

Ma io non ho poi tanta voglia di muovermi. Affatto.

Quindi mi raggomitolo ancora di più, prendendomi la testa con le mani.

 

-Georg, tu a destra. Io, sinistra. Bill, i piedi.

 

E senza neanche riprovare a svegliarmi, quei tre pazzi furiosi mi prendono per le braccia  ed i piedi, e, prima anche solo che io posso fare finta di svegliarmi, stanno attraversando la porta.

 

-cosa stareste facendo?

 

Tom mi scocca un’occhiata complice, mentre Georg sorride. Bill è di spalle di fronte a me, quindi non gli posso vedere il viso.

 

-niente. Un pigiama party.

 

Arriviamo alla suite Bill e, senza tanti complimenti mi rimettono in piedi. Appena i miei piedi toccano terra, sento le mie gambe cedere. Ma Georg e Tom continuano a sostenermi, anche se credo gli costi. Li guardo con espressione alienata.

 

-che cazzo stareste facendo?

 

Tom mi mostra la lingua, con un finto broncio.

 

-ma se vuoi ti mollo pure, eh!

-non ci provare! Non me lo vorrai mollare tutto, questo macigno qua!

 

Tom sogghigna in direzione di Georg, che lo guarda terrorizzato all’idea di dover reggermi tutto da solo. Stiracchio le labbra, stupito dalla loro idiozia. Perchè sono idioti, oh, sì.

 

-basta!

 

Bill mi si pianta davanti con tanto di ditino sollevato, indicandomi.

 

-tu, a letto. Tu -indica Georg- pure, e tu -disse indicando Tom- vai in cerca di cerotti.

 

Eccomi quindi qui, buttato in un letto enorme a luce spenta e con questi tre che mi dormono addosso, Georg sulla mia pancia, Tom raggomitolato sul mio fianco e Bill appoggiato alla mia spalla.

Mi accerchiano.

E tutto questo senza che io abbia detto una parola.

 

Con un gesto stanco mi passo la mano fasciata (evidentemente mi sono fatto male con i vetri senza essermene reso conto) sullo zigomo, sentendo sotto le dita la plastica del cerotto. Sospiro. E starei anche per addormentarmi, se non fosse che un Bill pressoché nel mondo dei sogni e con un pigiama arancione e viola di Tigro decide di spiattellarmi l’ultima battuta del giorno. 

 

-ah, Gustav, ti ammiro. Se dovessi distruggere come te tutte le camere di alberghi che non mi piacciono, non ne rimarrebbe una in piedi!

 

 

We will fight our battles,

We will wage our wars, settle the scores whit honor and blood,

We will wear our scars like medals of hope.

 

.-.-.-.-.-.-.-.

 

Caldo.

Fa un fottutissimo caldo.

 

Mi rigiro su di un fianco, inquieta.

Strizzo gli occhi, pur senza aprirli.

 

Non ho voglia di risvegliarmi del tutto, non adesso.

Abbraccio con più forza il cuscino, mentre con una gamba scalcio la coperta scoprendomi un po’ di più.

Ma continuo a sentirmi il colletto della maglietta bollente per il sudore.

Con un grugnito soffocato dal cuscino, mi libero definitivamente del piumone, rimanendo totalmente scoperta. Ma il fatto di essermi mossa aumenta esponenzialmente la sensazione di soffocamento.

 

Con un lampo di lucidità, capisco che è finita. Sono sveglia.

Maledizione.

 

Da qualche parte ho letto che il corpo umano si raffredda quando si dorme e si riscalda con una vampata di calore al risveglio. Incredibile, ma questa regola non è mai venuta meno.

 

Con un sbuffo di pura disperazione mi giro verso il lato del comodino, mettendo a fuoco a fatica i numeri luminosi della sveglia.

Le sei meno cinque.

 

Beh, se non altro oggi non mi sono svegliata alle cinque. Richiudo gli occhi, restia ad alzarmi.

Li riapro di nuovo, lentamente, e la sensazione di essere diventata il würstel nel panino che è il mio letto non accenna a diminuire.

 

Sopra di me, solo il bianco del soffitto. Dentro di me, una sensazione aspra di stanchezza e confusione, una noia solidificata al centro del petto, lasciata macerare con tanta, sana tensione.

 

Alzi la mano chi, essendo il Front Of House di un concerto che si preannuncia come il più mastodontico ed aspettato degli ultimi anni, non ha mai sofferto d’insonnia.

Mentre il mio pensiero vola alle giornate passate montando il palco, sistemando l’impianto audio, alle mille casse ed altrettante prove, sospiro stancamente.

Dimenticandomi che sospirare, di questi tempi, per me significa sentirmi il petto oppresso da un macigno mastodontico, come se mi fossi permessa il lusso di cedere, seppure un istante.

 

Mi copro gli occhi con il braccio, tastando cautamente la mia pancia. La mia pelle brucia come se avessi la febbre, ma, in uno stridente contrasto, mi sento tremare dal freddo. Il freddo che mi porto dentro.

 

E mi odio, perchè continuo a sfiancarmi così su questo,  su un qualcosa che, passati ormai sei mesi, dovrei aver dimenticato e rimosso. Sono stanca di pensarci, sono stufa di sentire questa sensazione di smania ed impotenza possedermi quando mi ritrovo per caso a sfogliare i ricordi. Perchè quello che brucia, ancora di più delle lacrime e della rabbia, è la sensazione che non mi sto godendo tutto ciò che di bello mi sta succedendo.

 

Dorcas, non dovresti arrovellarti sul fatto che avresti potuto essere più accondiscendente e meno testarda con lui, dovresti essere semplicemente entusiasta di questo balzo in avanti della tua carriera.

Pensi continuamente a quel sporadico bacetto, perchè tu vuoi credere che sia solo e soltanto un bacetto, e non ti concentri invece su come potresti far fruttare questa tua collaborazione con i Metallica per ottenere lavori altrettanto prestigiosi in altri tour.

 

Bacetto.

 

Mi mordo le labbra in un riflesso automatico, pentendomene quasi subito. I ricordi prendono di nuovo vita e no, non ho voglia di sentire ancora quel dolore sordo in fondo alla gola, non ho voglia di essere qua, con tutte le difese abbassate perchè sono stanca, nervosa, insonne e disperata.

 

E parliamone, di questo bacetto. Visto che ormai hai messo sotto chiave tutto, dal tuo cuore alla sua sensibilità, vediamo di colpire profondo.

Quel bacetto, come ti piacerebbe chiamarlo e che invece è quel qualcosa che ti ha mantenuto sveglia parecchie notti, beh, ti ha fregato. Smettila di negare con tanto fervore il fatto che ti ha cambiata, che ha fatto fallire i tuoi piani.

Che consistevano in un saluto, qualche grido e un po’ di lacrime. Ma che Gustav, lui e quella sua confessione senza previo avviso, lui e quelle sue maledettissime lacrime, ha mandato a monte con quel tocco finale che è stato baciarti.

 

E se tu credevi di fargli un favore, beh, mi sa che ti ha fatto capire che gli stavi facendo l’esatto contrario.

 

Mi giro su di un fianco, osservando la parete bianca di fronte a me.

Bianco, vedo tutto bianco. Ma non è sinonimo di sollievo, in questo caso.

 

Riesci ancora a dormire dopo tutto questo?

 

Basta. Basta, basta, basta.

 

Stringo con forza le mani a pugno, tirandomi a sedere e soffocando anche per oggi l’urlo fastidioso della mia coscienza.

 

Lui mi ha dimenticato. Io per lui non esisto più. Perchè ho letto di lui nei rotocalchi, nelle riviste, e so, l’ho letto, che non sembra sentire affatto la mia mancanza.

Va a feste con Tom, ci si ubriaca pure. E ci sono su di lui mille ed una voce a cui non vorrei credere, come invece faccio, perchè in fondo è esattamente ciò che mi aspettavo.

 

È troppo ricco e famoso per avere sentimenti a lungo termine.

 

Taccio per un momento, ascoltando con una punta di panico il silenzio che regna sovrano, sia nella stanza sia dentro me. Il mio sospiro tremante risuona come un boato in questo vuoto, ma la coscienza non sembra voler più infierire.

Mi alzo, più stanca di quando sono andata a dormire.

 

Nella stanza del mio bilocale non c’è spazio per nulla, a momenti neppure per me. Quindi cercate d’immaginarvi il gran casino che feci per arrivare al bugigattolo che era il mio armadio. Armadio, che parolone.

Sbuffando, aprii le ante e lasciai crollare a terra una valanga di abiti, senza curarmi neppure di riordinarla. Afferrai una maglietta nera, jeans aderenti e all-stars dal mucchio informe, osservandoli un momento con aria critica.

 

Perchè non mi erano mai parsi così mediocri.

 

Li lanciai con un gesto stizzito verso la porta del bagno, senza neppure osservarli cadere. Mi inchinai ancora una volta, incuriosita dal lembo di qualcosa tremendamente allegro, che sembrava affogato in un cumulo di magliette dai colori scuri.

 

Lo tirai su con la punta delle dita, quasi potessi essere contagiata dall’allegria dei motivi di una delle mie gonne multicolore. Gonne che non mi sentivo più di indossare. In particolare questa era un trionfo di blu e bianco, rosso e verde. Sembravano brillare di luce propria i motivi, i colori ed i mille ed uno strati di pizzo e falpalà.

 

Brava, demonizzalo pure, rendilo sgradito e pieno di difetti, elimina ogni parte di umanità dai tuoi ricordi di lui. Annullalo, rinnega il suo nome e il suo odore, e tenta di togliere peso a quelle carezze, a quelle parole.

Rinnegalo come hai fatto sempre con qualsiasi dei tuoi errori.

E credici alle tue stesse menzogne, credici con fervore e costanza.

Isolati, vivisezionati, soffocati sotto mantelli di recriminazione e fiumi di rabbia.

 

Tu pensi che sia il rimpianto, ciò che ti tiene sveglia. Ma chiediti, e fallo per una buona volta, chi sei tu per distinguere tra rassegnazione bruciante ed amore mal celato?

 

Ed è esplosa di nuovo nella mia testa, ancora una volta a tradimento, la voce indemoniata della mia coscienza.

 

E so che non posso scappare, non da me stessa, ma scaravento comunque la gonna sopra il cumulo di abiti come se lei avesse la colpa di tutto. La nascondo sul fondo dell’armadio con rabbia, fino a non vedere neppure un lembo spuntare da sotto gli abiti scuri.

 

Mi rifugio quindi in bagno sentendo lacrime di sconfitta iniziare a cadere, cercando non pensare a tutte le possibili interpretazioni che questo mio gesto potrebbe avere.

 

E che in effetti ha.

 

...

 

-Dorcas, venti minuti.

 

Annuisco decisa, mentre Thomas mi fa un Ok con la mano dall’altra parte del palco.

 

Prendo il walkie-talkie che ogni singolo membro dello staff ha in dotazione, richiamando all’attenzione tutti quanti i tecnici del suono.

 

Sono in piedi su una delle enormi casse audio che sono parte integrante dell’apocalittico palco, da cui posso osservare qualsiasi parte dello stadio. L’Hollywood Bowl è un bestione da diciottomila posti a sedere, un’arena tra le più importanti della città, e l’unica con le strutture audio adatte per supportare un concerto che non sarebbe stato come tutti gli altri.

 

Vista la partecipazione degli Apocalyptica, Whitin Temptation, dei Metallica stessi e (non si sa come si era riuscita a convincerla) di Tarja Turunen, si era fatta impellente la necessità di una struttura abbastanza grande da poter ospitare tutta la Los Angeles Philharmonic, orchestra tra le più famose, senza la quale nessuno dei precedentemente citati avrebbe suonato.

 

Io, insieme al responsabile del palco ed ai capo tecnici delle luci e dell’impalcatura, c’eravamo dovuti rompere più volte la testa per organizzare un palco che non fosse stato troppo ingombrante, carico o mal distribuito.

 

Osservai quindi con uno sguardo affettuoso quell’enorme palco composto da tre gradoni: il primo, quello più in alto, era destinato al coro. Nel mezzano, invece, avrebbe preso posto l’orchestra. Mentre il terzo, quello più in basso, era il palco vero e proprio sul quale si sarebbero esibiti a breve i primi artisti.

 

Deglutii a vuoto, mentre mi lasciavo pervadere dall’adrenalina. Perchè lì, cupa, fremente e carica, ai piedi di un palco che poteva quasi gemere sotto il carico di tutti quegli sguardi ansiosi, c’era la folla.

 

Una massa che, impazzita e frenetica, aveva varcato i cancelli alle cinque, due ore prima del concerto, e che urlante si era precipitata, chi sulle gradinate, chi nel fosso. Io, abituata da tre anni ormai a un pubblico maggiormente femminile (che l’unica cosa che sembrava volere era la carne di certi quattro, piuttosto che le loro performances musicali) ero rimasta leggermente sbigottita da quella folla borchiata e dai vestiti cupi, da certi mastodonti tutti americani che spuntavano dalla folla e dalle loro urla cupe e cariche di sentimento.

 

E tutte queste persone, accorpate in un tutt’uno caldo e fremente, sembravano solo aspettare un via del Grande Capo, ovvero Mr. Rasta Biondi, che avevo scoperto chiamarsi Volkan, islandese di nascita e americano d’adozione.

 

Chiusi gli occhi, avvertendo come un enorme vuoto si facesse spazio dentro di me, in un posto dove, fino a pochi istanti fa, c’era solo paura.

 

Bum. Bum. Bum-bum.

 

Ci sono momenti il cuore non batte più, semplicemente esplode ad ogni respiro. Momenti in cui quello che hai per le vene non è più sangue, ma solo eccitazione.

 

Non solo gli artisti, non solo la folla. Tutti quelli che sentono musica sono trascinati in questo vortice inebriante.

 

Bum. Bum. Bum-bum.

 

E forse per la prima volta dopo tanto tempo sento le mie labbra distendersi in un sorriso. Enorme, largo sorriso.

 

L’aria crepita di tensione, ormai.

 

Poi, come in un sogno, la voce di Volkan nell’auricolare.

 

-blackout.

 

I fari si spengono uno dopo l’altro, mentre la folla reagisce con urla che salgono sempre più in alto verso il cielo di un blu cupo.

 

Apro gli occhi, trovandomi di fronte un’enorme lago di oscurità.

Tutto è buio, tutto e nero.

 

Poi, come in un sogno, i primi accordi dell’orchestra, i gorgheggi di preparazione del coro.

Osservo meglio il palco, sapendo già dove guardare.

 

Le piccole sagome che camminano sul tavolato di legno chiaro del palco prendono posizione, chi alle chitarre, chi alla batteria.

 

Ma niente sembra muoversi, nonostante gli urli entusiastici e bramosi della folla che vuole che questo concerto inizi.

E poi, nel silenzio più totale, osservo come un faro si accenda ad illuminare con una luce bianca e fredda la sagoma di una donna.

 

Una donna che canta con una voce che ti scuote dentro, fin nel profondo. E che io ho avuto l’onore di conoscere.

 

È  capo chino, ma i capelli sono acconciati in un trionfo tutto gotico.

L’abito è invece di raso cangiante tra rosso e viola, e la luce bianca gli dona una brillantezza cupa, fredda.

 

È piccola, minuscola in confronto al palco e apparentemente troppo fragile per reggere le urla che si sollevano come un’ovazione perpetua in suo onore.

 

Con un ultimo movimento della gonna arriva a pochi passi dal bordo del palco, e mi viene quasi il timore, irrazionale, che da un momento all’altro possa mettersi  piangere per la troppa tensione.

 

Ma è proprio in questo momento che una sua mano si solleva in un gesto imperioso, acquietando la folla. Si alza per riabbassarsi subito dopo, mentre l’orchestra inizia a suonare come se fosse stata appena sciolta da un incantesimo d’immobilità. Le voci che si sollevano dal coro rendono l’aria satura di aspettativa, e sembrano pronte a spaccare l’aria stessa, tanto sono potenti.

Ma, tanto forte come hanno iniziato, tacciono per una pausa.

 

Ed è allora che, come una nenia magica, la voce di Sharon risuona per tutto L’Hollywood Bowl, attirando suadente le emozioni di tutti i presenti, cancellandole, suscitandone di nuove.

 

Is it true what they say?
Are we too blind to find a way?
Fear of the unknown clouds our hearts today
Come into my world
See through my eyes
Try to understand
Don´t want to lose what we have

 

Non sento neppure la mia voce parlare con gli altri tecnici, non percepisco nient’altro all’infuori della musica che viene esplosa dalle casse con la forza di mille di decibel. Nonostante la protezione per le orecchie, nonostante sia nel backstage, tutto ciò che si sente è vibrazioni sorde che dalla pianta dei piedi serpeggiano sulle gambe fino a fondersi nello stomaco. La gola, perchè serve? Perchè cantare?

Ciò che si è diventati è una cassa di risonanza umana. Era da troppo che non provavo una sensazione del genere, era da troppo che non mi sentivo così viva.

 

Esplodimi dentro, mi verrebbe da dire.

 

Vorrei essere tutto e niente, in questo momento. Non vorrei pensare in un nulla, solo, semplicemente, solamente, sentire.

 

.-.-.-.

 

Tutto ciò che sento è ritmo, è musica. Non so come, ma sembra che il mio stomaco sia diventato la cassa dove risuonando batteria e basso, mentre le note della chitarra mi fascia le orecchie.

Ho perso la nozione del tempo da quando sono qui dentro, da quando sono pressato dalla folla e sento la musica impregnarmi la pelle come sudore.

Mi sono annullato dentro questo bagno di folla, decidendo staccare la spina per un po’ e vivermi questa valanga di sensazioni in santa pace.

 

E sono felice.

 

Qui, tra le ultime file, le più lontane dal palco, mi sento bene. Ogni tanto mi giro a controllare la situazione dietro di me, ridendo spudoratamente dell’immagine di Bill seduto sulle spalle di Tobi, eccitato e decisamente sconvolto. Tom, per l’occasione completamente in nero, si è appollaiato sulle transenne di fronte all’uscita. Ma la sua passione per il metal non è così viscerale dall’impedirgli di provarci alla grande con due dark che se lo filano interessate. Come a dire, Mr. Kaulitz non si arrende mai.

 

 Georg e Christa sembrano spariti, ma li ho visti andare più avanti un po’ di tempo fa. Tra i due, quella che va pazza per la voce di Tarja Turunen è Christa.

 

Mi giro un’ultima volta verso il palco, lontanissimo da dove siamo noi, una specie di nebulosa di luci psichedeliche e potenti, una scalata verso il cielo da cui la musica viene pompata nella folla, come in un’unica arteria composta da milioni di vene. Adrenalina alle stelle e orecchie in frantumi, mentre quest’overdose di doppie casse e decibel mi sta lentamente facendo tornare vivo.

 

Ma, incredibile a dirsi, anche quei mostri del rock che stanno calcando il palco da svariate ore sono umani. Quindi, io come tutta la folla, accogliamo con un boato di fischi l’inizio della pausa.

 

La musica tace, ed io mi sento improvvisamente svuotato, stanco.

Non in pace, solo spossato.

 

Poggiando la mano sul petto, sento il cuore battere i mille al minuto, mentre un respiro profondo mi fa capire che ho bisogno di aria.

Aria.

 

Do quindi le spalle al palco deserto e alla folla ancora urlante per cercare con gli occhi l’uscita.

Faccio quindi un gesto a Tobi, cercando di fargli capire senza l’ausilio della voce, che è morta dopo i primi venti minuti, visto quanto ho urlato, che sto uscendo.

Annuisce con un gesto stanco della testa, mentre Bill non smette di parlare un minuto, nonostante il gran casino.

Sorrido, stanco ma ancora eccitato, e riesco a districarmi dalla folla quel tanto da poter finalmente muovere le braccia senza rischiare di ritrovarmele rotte per la pressa.

 

Mentre percorro a passi rapidi il corridoio che porta verso l’esterno, cerco nella tasca dei pantaloni il pacchetto di sigarette. Saluto distrattamente la security fuori dall’ingresso, mostrando il mio biglietto.

 

Ed è solo silenzio.

Di fronte allo stadio sono state sgomberate le transenne che hanno tenuto a bada la fila, e per terra non restano che i residui degli accampamenti. La live brezza che viene dal nord muove distrattamente un pacchetto di patatine passeggero, che mi onora con una giravolta prima di sparire nelle zone d’ombra che i fari dello stadio creano, non riuscendo ad illuminare totalmente l’intorno. Come un gioco particolarmente divertente, mi piazzo all’esatto centro di un cono di luce, osservando quindi il cielo di un lattiginoso nero per colpa dell’inquinamento luminoso della città.

 

Ho le orecchie ancora abituate al frastuono del concerto, quindi è come se mi avessero riempito la testa di ovatta e avessero mischiato il tutto con colla. Ancora con il naso per aria a tentare di trovare qualche stella sperduta, afferro il pacchetto e l’accendino. L’osservo per alcuni secondi, prima di decidere di fare un gioco particolarmente stupido che facciamo sempre con Georg: tirare l’accendino dietro di se, e indovinare solamente dal rumore dove può essere caduto e a che distanza.

 

Sorrido quindi, e chiudo gli occhi. Poi, tiro. Cerco di sentire i rimbalzi sul cemento, nonostante mi arrivino attutiti per colpa delle orecchie ancora tappate.

 

Uno, due, tre.

 

Lontano, esattamente dietro di me, magari leggermente spostato a sinistra.

 

Strizzo gli occhi, per poi voltarmi ed aprirli.

 

E il blu (cobalto, cupo, scintillante, spesso) mi avvolge.

L’aria (carica, nervosa, satura, pesante) scompare, il mio cervello deraglia con un rumore di lamiere piegate che solo io posso sentire.

 

Le mie illusioni si infrangono sul pavimento di cemento, le mie difese, così scialbe e deboli, sono spazzate via dal primo alito di tempesta, che sento arrivare, pronto a farmi cadere, ancora e ancora. 

 

E, come un pugno dritto nello stomaco, Dorcas è di fronte a me.

 

.-.-.-.

 

Spossata. Questo concerto mi ha distrutta. Ergo, adesso che c’è la pausa di mezz’ora, chiedo il cambio e vado a respirare un po’ di aria buona. Credo che tutta questa anidride carbonica mi stia dando alla testa. E poi, non so perchè, una live sensazione di claustrofobia mi sta opprimendo il petto. Voglio uscire, adesso.

 

Sospiro, massaggiandomi gli occhi con una mano.

 

-Volkan, ti prego, lasciami andare via.

 

Una mano sottile e nervosa cala sulla spalla, quasi a rassicurarmi.

 

-Dorcas, sei sicura di stare bene?

 

Riapro gli occhi, cercando di rassicurare il Grande Capo con un sorrisino stracchiato, che sembra invece sortire l’effetto contrario.

Agito la mano in un gesto noncurante, cercando di sembrare sicura di me stessa nonostante l’inarcata del biondissimo sopracciglio e dello sguardo inquisitivo che sarebbero capaci di mettere in soggezione chiunque.

 

-Dorcas, allora che ti è sembrato?

 

Mi giro stancamente verso un ragazzo piuttosto giovane, ingessato in un abito di gala che lo fa sembrare più grande, effetto però smentito dalla scintilla di malizia nei suoi occhi castani. I capelli neri sono ricci per il suore dei riflettori e non mi piace affatto il sorrisino con cui mi guarda.

 

-molto bravo, Simon. Bravo, bravo, bravo. Sei o non sei il più giovane direttore d’orchestra della LA Philharmonic?

 

A valanga di complimenti è annullata dal mio tono ironico, ma lui non sembra essere minimamente toccato. Solo alla fine si accorge dell’espressione preoccupata di Volkan e della mia aria stanca.

 

-ma stai bene?

 

Inarco un sopracciglio, mentre mi tolgo l’auricolare dall’orecchio.

 

 

-sprizzo salute da tutti i pori, non vedi? Volkan, torno appena mi sento meglio.

 

Mi allontano quindi dai due, non senza prima essere importunata un’ultima volta da Simon.

 

-sicura di non volere compagnia, lì fuori?

 

Mi giro, senza smettere di camminare.

 

-ma chi vuoi che ci sia, Simon?

 

Gustav, ecco chi c’era.

 

È la prima cosa che vedo appena metto il piede fuori dall’uscita. Lì, piantato esattamente nel mezzo del cono di luce proiettato da un lampione, a gambe leggermente divaricate, mani in tasta e naso per aria.

Mi appoggio improvvisamente senza forza allo stipite del cancello, cercando di respirare il più piano possibile.

 

 

Senza fare rumore, girati e vai via, non guardarti indietro e reputati soddisfatta di averlo potuto vedere un’ultima volta. In silenzio, nell’ombra, scompari.

 

Come se lui fosse una calamita e io l’ago attirato inesorabilmente verso di lui, non posso che seguire con gli occhi ogni suo minimo movimento.

Cerca qualcosa nelle tasche, qualcosa che scopro essere accendino e pacchetto di sigarette. China la testa per probabilmente osservarli, facendo scintillare i capelli biondi, umidi di sudore per il concerto, alla luce giallastra dei fari che sovrastano l’entrata.

 

E poi, in un gesto che ho visto fare parecchie volte sia a lui sia Georg, lo fa saltare due volte nel palmo della mano e lo tira dietro di se.

 

E, come un crudele scherzo del destino, rimbalza una, due, tre volte fino a cadere ad un metro dai miei piedi.

 

E allora, so cosa fare. Respiro profondamente mentre le mie gambe vanno in automatico, avanzano, si chinano a raccogliere un accendino rosso, per poi stringerlo possessivamente nel palmo e continuare ad avanzare nella luce, verso il centro, verso lui.

 

Al rallentatore, lo vedo girarsi, fermarsi, respirare.

Respirare, strizzare gli occhi, aprirli.

Aprirli, guardare, realizzare.

 

-Georg è ancora più bravo di te con queste cose?

 

Pigolo io, con un tono che voleva essere ironico, ma che a me sembra odiosamente melodrammatico.

 

Lo osservo boccheggiare, realizzare.

 

E poi, con una gesto cauto, stendere il braccio, la mano, fino a toccare la mia, tesa a porgergli l’accendino.

 

Prese la mia mano, stringendola forte.

Come una scossa elettrica, la tensione che mi trasmetteva quella stretta mi fece contrarre i muscoli della mascella, stringere i denti e mi squassò il cuore con una forza che neppure dopo sei mesi di lontananza si era assopita. Era sempre lui, Dorcas, ma i suoi occhi sembravano essere stati sostituiti con due pozzi scuri. Stessi occhi, sguardo molto diverso.

 

Disilluso. Scrutatore.

Ma io cosa potevo avere di diverso da lui? Cosa ci vedi nel mio sguardo, nello sguardo inaridito dal rimpianto di Dorcas?

Ormai sei mesi più diverso. Sei mesi più tormentato. Eppure, eppure. Ti sei trovato? Hai toccato il fondo, per poi risalire definitivamente? Non c’è gloria ad essere buoni e bravi senza prima non aver sputato sangue.
Cicatrici sul viso, capelli lunghi e scarmigliati, forse fisico ancora più grosso e asciutto. E quegli occhi, sei mesi più vecchi.

Eppure, tra sogno ed incubo, ci sono ancora i tuoi occhi.

 

 

 

.-.-.-.-.-.-.

 

 

 

Nella mia testa

C’è sempre stata una stanza vuota per te

Quante volte ci ho portato dei fiori

Quante volte l’ho difesa dai mostri

 

Adesso che ci abito io

I mostri sono entrati con me

 

© Michele Mari – Cento poesie d’amore a Lady Hawke

 

 

 

.-.-.-.-.-.-

 

La citazione della canzone cantata da Sharon sono © dei Within Temptation, See Who I Am.

 

 

Sentite, parliamone. Tutto questo non è normale. Io che aggiorno due volte in due settimane? E che cos’e, un miracolo?

Non lo so, comunque, ho aggiornato. Ho fatto in fretta, e, maledizione, tutto per colpa delle maledizioni congiunte di Gustav e Lady notorius.

Il primo perchè mi ha fatto svegliare alle nove e mezza e non sono più riuscita a dormire, la seconda perchè voleva il capitolo e mi ha minacciato per questo. T.T

Che poi, mi sono fregata lo stesso: mi piccherà comunque. E il perchè, lo sappiamo solo noi due. XDXDXD

E sappiatelo, popolo: la scena di rabbia l’ha pretesa lei, quindi a lei gli onori e le eventuali smadonnate.

 

Detto questo, lodi a plausi alle mie tre, ben tre, beta-reader: Lales, la Boss, Lady notorius, la Crudele (XD) e (new!) Lady Vibeke, che a momenti mi prendeva a testate telefoniche perchè non mi aveva potuto betare prima.

 

Sappiatelo, io vi amo. *____________________*

 

Per il resto, una dedica va anche a _Princess_: sappilo, se ho scritto più in fretta e postato prima è stato anche per rallegrare le tue di giornate. XD

 

Ma io non amo solo loro: voi che mi avete tra preferiti, grazie.

Voi che solo mi leggete, grazie.

 

E sappiatelo, avete tempo due capitoli (Chap finale + eventuale epilogo) per farvi vivi. XD

 

Danke

Grazie

Gracias

Merci

 

NeraLuna: sappi che io ti AMO. Incondizionatamente, senza riserve. È un commento bellissimo quello che mi hai scritto, mi hai scaldato il cuore. <3 Non so veramente come poter esprimere la mia felicità, perchè non solo ti piace, ma apprezzi, addirittura di più, il fatto che sia atipica per trattare di Schäfer, piuttosto che di uno dei K’s. A me mancano parole, ma mi fareve un’enorme piacere parlare di più con te ** ergo, se vuoi, il mio msn è: ellie-bd@hotmail.it

Grazie di tutto di nuovo. *___*

 

_Princess_: sappi che senza la tua ff non mi sarei mai riavvicinata ai TH. Non mi sarei mai appasionata a loro, non avrei mai iniziatato ad amare i G’s überalles e non avrei iniziato a scrivere. Ergo, tutto ciò che posso fare per te lo faccio di tutto cuore, anche postare mooolto prima. <3

 

Lady Vibeke: con te ne parliamo dopo, solo questo. Perchè io e te ci dobbiamo sposare, se non te ne sei dimenticata. XD o somma sacerdotessa el gustavesimo, non puoi infarcirmi di complimenti così, non voglio illudermi, insomma! Però, resta un danke grande quanto una casa. XD

 

simmyListing: grazie, grazie, grazie, mi fedele. Per essere rimasta, per continuare a dedicarrmi sempre parte del tuo tempo. <3 e scusa se non so dire altro, ma è veramente l’unica cosa che mi sovviene in questo momento. XD

 

   
 
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