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Autore: _Ellie_    09/01/2009    8 recensioni
{Una FF su Gustav}
Si, perchè io sono l’eterna idiota, il tipico personaggio delle favole che s’inciufola del principe azzurro, sapendo benissimo che non è stato, non è e non sarà possibile. Il masochismo esiste, gente. Il solo fatto di bramare “l’ama e sii amato” è da considerare il primo passo verso la pazzia, la frustrazione, le risate per cavolate, le uscite con altri uomini fallite per il solo fatto che loro non sono lui.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E fu un instante così eterno, che mi chiesi se fosse mai possibile che ogni santa volta quegli occhi troppo scuri, troppo caldi, al cui interno turbinavano emozioni così difficili da interpretare da non essere interpretate affatto, mi dovessero annientar

Warnings:

·         29 pagine di capitolo.

·         Occhio alla sottile linea rossa, caVe. Se l’ho messa è perché HOT is better. XD

 

 

 

10. Falling in Love  Wrong…

 

 

 

Mi  concedi un posto nel tuo cuore

Ma non nella tua vita.

 

Allora ti avverto che dentro

Farò un tale casino

Che il cuore rivelatore di Poe

Sarà al confronto

Un cuore silenzioso.

 

© Michele Mari – Cento poesie d’amore a Lady Hawke

 

 

 

 

E fu un instante così eterno, che mi chiesi se fosse mai possibile che ogni santa volta quegli occhi troppo scuri, troppo caldi, al cui interno turbinavano emozioni così difficili da interpretare da non essere interpretate affatto, mi dovessero annientare così.

 

Ci sono sguardi complici, sguardi infuriati, maliziosi, indifferenti.

 

Ma quello non era uno sguardo.

      Quello era un esame in piena regola.

 

Erano due specchi neri, dove la luce non sembrava entrare. E l’unica cosa che potevo fare era sentirmi frugare fino in fondo all’anima da due occhi che sembravano averne perso una.

Quello era il caos, e io dovevo riuscire a non dissolvermici dentro.

 

 

Era una sfida a mantenere gi occhi al suo stesso livello, mi sfidava tacitamente ad obbiettare alla durezza con cui mi frugavano dentro.

 

E io, per l’ennesima volta in quei giorni, mi sentii priva di corrazza, della mia accogliente e graffiata corrazza fatta di bugie e lacrime.

 

Ero indifesa, ancora una volta.

Ancora per colpa sua.

Ancora, e ancora, e ancora.

Sarebbe dovuto essere sempre così?

 

Sempre costretta alla battaglia, sempre stanata dal proprio rifugio, perennemente perseguitata ed eternamente oggetto di delusione?

 

Non ho chiesto io di nascere.

Non l’ho mai fatto.

 

Però sono pronta a dare battaglia, nel caso si oltrepassi di troppo la linea di demarcazione.

E lui, Gustav, l’ha oltrepassata da un pezzo.

 

Chiusi gli occhi, respirando piano.

E sciolsi la stretta delle nostra mani con un breve strattone, più che sufficiente data la poca forza con cui lui stringeva.

Cercai di ordinare al cuore di pompare meno sangue, ma non ci fu verso.

 

Come le vertigini che in un crescendo d’intensità accompagnano la caduta da un punto in alto, troppo in alto per non farsi male cadendo, così la mia mano stava per iniziare la tremare.

Serrai le labbra, contraendo i muscoli della mascella.

 

Per poi riaprire gli occhi, rilassare il viso in un’espressione vuota ed indifferente, mentre la mia voce, atona, sembrò spandersi come olio nell’aria rarefatta tra noi due.

 

-E tu che ci fai qui?

 

E mi sentii invincibile. Per un’eterno secondo, ero io quella che, tra i due, ne stava uscendo vincitrice. Lo scrutavo con occhi vuoti, privi di qualsiasi cosa che non fosse un desolante fastidio.

E noia.

 

Sono sempre stata geniale, con le maschere.

Ma quelle dell’indifferente, impermeabile ai graffi degli altri ed alle mie stesse urla, quella maschera che aveva ceduto in pochissime occasioni, beh, quella era il mio unico vero vanto ed orgoglio.

 

 

...

 

 

Ed è come se un fiammifero desse fuoco a una pozza di benzina.

 

Il suo gesto di scuotersi di dosso la mia mano, il mio sguardo, la mia intera presenza, scrollando semplicemente le spalle e stringendo stringendo le palpebre in un’espressione diffidente, mi fa ammattire.

La vedo così chiaramente allontanarsi da me che a malapena posso trattenermi dall’allungare una mano ed afferrarla di nuovo, per impedirle di dileguarsi.

 

Si allontana da me di un passo, chiude la sua mente in un compatto cofanetto blindato, cerca di mettere terra tra noi due.

Cerca ancora di buttare acqua su quello che io so che proviamo. Il solo fatto di creare così poco scompiglio apparente nella sua “nuova vita” significa che, forse, non ho mai smesso di farne veramente parte.

 

Se sei mesi non mi hanno annientato, se sei mesi non mi hanno pesato come sei anni, se sei mesi non sono stati l’inferno in terra, allora io finirò definitivamente annientato da quest’occhiata indifferente con cui mi viviseziona, accompagnata da un cipiglio deciso, la bocca stretta in un’unica linea sottile priva di colore le cui labbra si schiudono per un breve, terrorizzante, attimo .

 

-Che ci fai tu qui?

 

Che ci fai tu qui?

 

Ogni singola lettera è come lava nel sangue e fuoco sulla pelle: dolore allo stato puro. Ho ancora un cuore, da qualche parte?

Penso che me l’abbia appena strappato.

 

Abbasso la mano che l’ha stretta, sentendo come la pelle che l’ha sfiorata piange perchè non ne sente più il calore. E anch’io, dentro, vorrei piangere.

 

Piangere su quest’immagine di lei con i capelli assurdamente corti, abiti troppo larghi e niente trucco per ingentilire il pallore cadaverico delle sue labbra, della sua pelle.

Vorrei piangere sul fatto che siamo uno di fronte all’altra e la sento lontana come non mai, vorrei piangere su ciò che sembra essere tipico dei nostri incontri: il dolore.

 

Perchè sono stato buttato qui? Perchè sono ancora vivo, perchè continuo ancora a sentire così distintamente come tutto, tutto, tra noi sia rabbia e vuoto e disperazione?

 

Chiudo gli occhi, cercando di trovare un patetico riparo nel mio buio personale, l’unica cosa che sembra rimanere immutata in questo vortice di tensione che è come palpabile tra di noi.

Chiudo gli occhi perchè i suoi occhi bruciano, ghiaccio senza alcuna pietà premuto con forza sopra pelle dolorante e rossa.

 

-Come hai fatto a trovarmi?

 

Però il suo tono è freddo, inquisitorio. È soverchiante, passa come acido tra le mie palpebre e le spalanca ancora una volta, solo perchè io possa di nuovo vedere la sua figura mingherlina e la sua espressione granitica.

 

-Trovarti?

 

Il mio tono è attonito.

Ripeto l’ultima parola, come chi non ha capito bene.

Perchè io non voglio capire.

 

Scuote la testa con un verso scocciato, incrociando le braccia.

 

-Come possiamo esserci rincontrati dopo che io sono venuta qua in America? Come puoi aver saputo che io ero qua?

 

Sciolgo i pugni, sollevo le mani di fronte a me. Un gesto sia per fermarla, sia per difendermi.

 

-Qua?

 

I suoi occhi azzurri, come lava gelida che scorre turbolenta, mi fulminano. Di nuovo. Spalanca le braccia in un gesto scocciato, eppure così simile ad un grottesco abbraccio. Abbraccia il nulla, il nulla dove vorrei trovarmi io adesso.

 

-Gustav, smettila di ripetere come un cretino!

 

Come una frustata nell’aria immobile, il suo tono colpisce duro, cattivo.

 

-Cosa. Ci. Fai. Qui?

 

Scandisce ogni parola con cura, la voce grossa, tutta la ragione dalla sua parte. Secondo lei.

 

-Io seguirti?

 

Mi colpisco il petto con una mano, parlando piano.

Lei però sobbalza, come se le avessi urlato contro.

E cosa succederà quando lo farò?

 

Fuggirà via come ha sempre fatto, forse. Perchè Dorcas fugge, non affronta, ferisce e lascia gli altri a leccarsi le ferite, piange e non si fa consolare, piangendoti in faccia solo per farti sentire peggio.

 

E come lacrime che puzzano di gas, come lacrime al vetriolo che cadono sopra la nostra pelle, così il dolore si moltiplica per ogni momento di silenzio, ed è stillicidio di dolore, agonia di quel poco che resta di me.

 

Alzo la voce. Mi avvicino di un passo.

 

-Io seguirti?

 

Lei indietreggia di un passo, pur non cambiando espressione. Guardinga, sull’attenti, pronta a mordere se io scatto.

 

Spalanco le braccia in un gesto di rabbia, stirando l’angolo della bocca in un sogghigno.

 

-Ti credi così importante?

 

Deglutisce vistosamente.

 

-Cosa fai allora qui?

 

Occhi al cielo da parte mia.

 

-E’ che non posso più guardare un concerto dei Metallica in santa pace?

-Non quando io sono il tecnico del suono, Gustav.

 

Ritrorno a cercare i suoi occhi, occhi che devo fulminare, devo vedere spalancarsi in un’espressione terrorizzata. È benzina quella che mi scorre nelle vene, adrenalina che mi pulsa nel cervello, facendomi sfiorare il confine della pazzia. Ancora una volta, ancora per colpa sua.

Lei mi farà morire!

 

-Perchè dovrebbe fregarmene qualcosa, se tu ci sei o no?

 

Sussulta, spalanca gli occhi, ma si ricompone.

Ma non mi basta, non è mai abbastanza.

Io conosco Dorcas, intuisco meglio degli altri cosa prova e cosa no. E adesso l’unica cosa che ci separa è ciò che abbiamo lasciato in sospeso, ciò che non abbiamo affrontato prima per paura di farci del male.

 

-Ti ho solo visto in tv, Dorcas. Su una cassa a dare ordini, poi a scherzare con il tuo direttore d’orchestra. Perchè avrei dovuto preoccuparmi del fatto che tu non saresti stata dietro il palco, mentre io andavo a prendere una boccata d’aria?

 

Piega la testa su una spalla, continuando a scrutarmi sospettosa.

 

Ma tutto questo deve finire. Sono stanco, sono sfibrato dall’attesa, logorato dai dubbi, e mi sono lasciato prendere troppe volte per il culo dalla sua paura di affrontare il dolore. Ha la maschera più resistente che abbia mai visto, ha un bagaglio di ricordi che non la lascia vivere.

Perchè lei non vuole realmente vivere. Lei ne ha paura!

 

-Allora mi sono sbagliata.

 

Gira la testa da un’altra parte, incrociando di nuovo le braccia.

 

In questo sei bravissima, vero, Dorcas?

Gira la faccia da un’altra parte! Lavatene le mani ancora, e ancora, e ancora!

 

Ma c’è ironia in tutto questo, no?

 

E allora stiro le labbra in un ghigno. E rido, rido con il dolore che mi balla in petto, e lei a pochi metri, ma anni luce, da me.

 

Dorcas si gira di scatto, osservandomi con la coda dell’occhio.

 

-“Allora mi sono sbagliata”?

 

Scuoto la testa, disperato.

Mi passo la mano sul volto.

 

Sono stanco!

 

Stanco di tutto, stanco di stare impazzendo e soffrendo e...

 

-Su cosa, esattamente?

 

Chiedo io, improvvisamente serio.

 

Mi guarda negli occhi, adesso.

E cosa ci vedi nei miei occhi, Dorcas? O meglio, cosa non ci vedi?

Tutto ciò che mi hai portato via? Il vuoto che hai creato dentro di me è l’abisso più scuro con cui mi sia mai dovuto confrontare, e non ne vedo il fondo, non lo vedo perchè è un’abisso che ti contiene tutta e tu, semplicemente, non hai fine.

Sei ciò che mi fa andare avanti, nel bene e nel male.

 

Nel bene e nel male.

 

Si stringe le spalle, ora.

Povera, povera piccola...

Che qualcuno ti debba aiutare a togliere la maschera?

 

Stringo la bocca e i pugni, avanzo verso di lei fino ad rendere nullo il poco spazio che ci separa.

 

-Su cosa, esattamente...?

 

Ripeto la frase più lentamente, scandendo tutte le parole e respirando la sua stessa aria.

L’ossigeno si rarefà di colpo, la tensione si taglia a fette.

E in tutto questo, lei.

Piccolo esserino infagottato in abiti troppo larghi.

E i suoi occhi spalancati, in cui turbinano sentimenti in rapida successione, tale da farmi venire il capogiro.

Eppure io sento che in lei c’è ancora qualcosa, lo sento, perchè è come se i suoi occhi, anche nella sofferenza, brillassero più dei miei, provassero di più, potessero comunicare di più.

E io lo so cosa cosa può essere, come può avere di più di me.

 

Cederle il potere di fare di me quel che vuole non è forse cedere la propria anima a qualcun’altro?

 

-Dorcas...

-Non lo so.

 

Rimango fermo là, di fronte a lei e alla sue espressione combattuta, i suoi occhi che improvvisamente sono scattati dal mio viso al pavimento ai miei piedi.

 

-Cosa non sai?

-Cosa credevo prima. Mi sono solo sbagliata. Su tutto.

 

La sua voce cede, cade, crolla di due ottave in sotto. S’incrina e si spezza come vetro troppo fragile, eppure non è abbastanza.

 

Non sarà mai abbastanza finche tutto questo non finirà.

 

-Suoi tuoi sospetti del perchè io fossi qui? Su di me, sui tuoi sentimenti, sul fatto che per l’ennesima volte hai fatto la cazzata di sparire?

 

Ad ogni domanda un sussulto, ad ogni sussulto nuovo dolore.

 

-Su cosa esattamente, Dorcas?

 

Si stringe ossessivamente tra le braccia, non mi guarda. Eppure la piega della sua bocca esprime rabbia. È pronta a difendersi, credo.

Di fatti si gira e mi squadra, occhi lucidi e tremito di dolore all’angolo della bocca.

 

-Su cosa? Lo vuoi veramente sapere?

-Entro domattina, magari.

 

Prende un respiro più grosso, sempre continuando a frugare dentro di me, mettendomi perennemente a soccquadro.

 

-Ho sbagliato ad essere ancora qui, a fuggire, a baciarti, ad interessarmi a te, lavorare per i Tokio Hotel... a non morire quando era tempo di farlo.

 

Forse non è stata la risposta migliore che potesse dare. Non a me, non in queste condizioni, non adesso.

 

-No, Dorcas. Se vuoi pentirti fino in fondo devi pentirti di essere nata, di essere umana, devi pentirti del fatto che Dio ci ha fatto in grado di soffrire per le fottute nevrastenie di qualcun’altro, nevrastenie che mi faranno impazzire, lo so.

 

La mia voce bassa sibila e colpisce come uno schiaffo a tradimento, ringhia in contrapposizione alla sua voce flebile.

 

E vederla socchiudere gli occhi ancora una volta, stringersi più forte tra le sue stesse braccia, rincantucciarsi in se stessa come un cane ferito dal cattivone di turno mi fa impazzire ancora una volta.

Si spera che sia l’ultima.

 

-Cazzo, Dorcas, SCUOTITI! Smettila di comportarti come se tutto il mondo ce l’avesse con TE!

 

Lei spalanca gli occhi come se l’avessi aggredita fisicamente.

Brucio dalla voglia di prenderla per le spalle e scuoterla, scuoterla finchè non la smetterà di comportarsi come se il mondo le volesse male!

 

Come se lei non ce le avesse le palle per mangiarseli tutti a colazione!

 

-Tu non sai di cosa parli.

 

Scuote la testa, spalanca la braccia. E qualcosa si accende dietro a quei due vuoti specchi azzurri.

Finalmente.

 

-Sì che lo so, Dorcas...

- non lo sai, smettila!

-E INVECE LO SO, PERCHÈ IN QUESTI SEI MESI NON È STATO ALTRO CHE L’INFERNO IN TERRA PER ME, E MI SONO STANCATO DI SENTIRTI DIRE CHE NESSUNO TI PUÒ CAPIRE, DORCAS!

 

Smetto di gridare, ansimando perchè non ho più fiato. L’ha bruciato l’incendio senza fiamme che sembra essere divampato qui, nei pochi centimetri che ci separano.

 

Ma lei, come sempre, non riesce ad affrontare la mia vicinanza, non riesce ad esplodere.

 

Quindi, cerca di spingermi via. Fa pressione con le sue manine sul mio petto, cerca di spintonarmi via con una forza che non credevo avesse, i tratti del viso contratti e fiato corto.

Ma non stavolta, non più.

Quindi le afferro i polsi, tenendoli fermi quando cerca di strapparli dalla mia presa.

Ma io non la lascerò andare, basta.

 

Quindi strattono, facendo cessare ogni movimento da parte sua.

Movimento fisico, s’intende.

Il suo fiato brucia e gela la pelle, e gli occhi sprizzano scintille.

 

-E così mi credi solo una vittimista? Credi che io non sappia come vanno a finire questa cose?

-Quali cose?

-...Dolore, angoscia, e illusioni, illusioni su illusioni come una droga che costa poco!

-QUALI COSE?

 

Stringe gli occhi, contraendo la mascella.

 

-Quelle in cui tu ti ostini a credere, Gustav! Tu t’illudi che ci sia futuro, che per me c’è una possibilità, ma io lo so, lo so che non ci potrà mai essere perchè io ogni volta rovinerò tutto...

-Non è vero!

 

Non tace, continua a parlare e quando capisce che cerco di zittirla, solleva la voce fino a farmi entrare in testa ciò che lei sta dicendo.

 

-E’ vero, perchè io rovino sempre tutto, Gustav! Solo troppo disillusa per credere in qualcosa come questo, non marcerebbe mai come tu t’illudi che farebbe!

-NON È VERO!

 

Ma stavolta tocca a lei scuotermi.

 

-SAI L’UNICA COSA VERA, IN TUTTO QUESTO? È CHE INNAMORARMI DI TE È STATO SBAGLIATO!

 

E stavolta non si deve neanche agitare per liberarsi, perchè sono io che la lascio andare. Perchè un colpo in pieno stomaco, un colpo in pieno petto, non so se riuscirò ad assorbirlo.

 

Ed è sangue, il sapore di quello che mi sento in bocca, è dolore quello che mi esplode in petto.

Ogni singola fibra del mio corpo sta gridando, ma nulla sta gridando come l’eco della voce di Dorcas nella mia testa. E mi chiedo, attonito, come posso essere ancora vivo, ancora in piedi, dopo tutto questo.

 

Boccheggio.

 

Cosa si può dire, quando non ci si ricorda neppure come si fa a respirare?

 È il rifiuto più nero quello che mi sconquassa da dentro, quello che distrugge quel poco che rimaneva in me. E sempre attonito, mi chiedo come faccia a essere ancora integro, come il mondo non si accorga che sto vivendo, respirando, con un mostro in petto e il mio cuore conservato in un barattolo pieno di formalina tra le braccia di Dorcas.

 

Dio, mi manca l’aria!

È troppo compatta per essere respirata, è pesante come piombo, mi sta dilaniando i polmoni ad ogni nuova boccata.

Dio, Dio, Dio!

Perchè sono ancora vivo?

 

Lei abbassa gli occhi, le spalle cedono.

Ed è dolore, quello che le contrae i lineamenti.

E capisco che anche questa volta ha vinto lei. Che ha una maschera talmente dura, talmente abbarbicata alla Dorcas che non viene mai allo scoperto da essere disposta ad annientare chiunque cerchi di tirarla in superficie. Eppure, se devo morire come sto facendo, non lo farò con questo peso sulla coscienza.

 

Quindi sbatto gli occhi, come se mi stessi svegliando da un largo sogno. Un eterno incubo. Prendo fiato e parlo.

Parlo.

 

-Tutto è sbagliato, allora. Mi sono sbagliato io, su tutto. Mi sono sbagliato sul fatto che tu avessi le palle per affrontare tutto ciò, come hai sempre affrontato tutto il resto. Mi sono sbagliato a credere in te, ancora una volta.

 

Tono basso, monocorde. E non voglio più vedere, per favore. Così, chiudo gli occhi. E continuo questo mio sconclusionato discorso.

 

-Ho sbagliato a ridere di ogni tua battuta, a tenderti la mano per salire dal palco, mi sono sbagliato a farmi fasciare le dita da te, mi sono sbagliato ad osservarti una mattina e trovarti così piccola e bella da farmi venire le vertigini. Mi sono sbagliato a continuare a credere in ogni tua parola, ho sbagliato a baciarti ed a illudermi, ho sbagliato a continuare a credere.

 

Solo, non voglio piangere. Solo, dopo questo io voglio solo morire.

Guardandola negli occhi. Quindi li riapro e cerco i suoi.

 

-Mi sono sbagliato a soffrire per te, a lottare per un “noi”. Ho sbagliato e continuo a sbagliare, e un altro sbaglio è il fatto che io sia orgoglioso di tutto questo.

 

Come pozze di ghiaccio bollente, la tempesta di dolore che si avvicina galoppando, così nei suoi occhi si può distinguere un intero universo.

 

-Ed è proprio sbagliato ripeterti, anche qua, anche adesso, che io ti amo. E non m’importa se è sbagliato, non m’importa se tu dici che non si può.

 

La guardo dall’alto, l’osservo un’ultima volta.

 

-Non si può o non vuoi che si possa?

 

 

...

 

 

Ed è sempre così.

E sarà sempre così.

 

Ogni dannata volta, Gustav, ritorneremo al punto di partenza, a quel nodo che ci tiene indissolubilmente legati e che ci fa dannare, quella nostra catena che ci strozza, che c’impedisce di viverci come dovremmo fare.

 

È quel dannato problema che non abbiano mai risolto, il problema che non ha nome volto, che è fatto da tutto e da nulla. Perchè quel problema, semplicemente, siamo noi.

 

Ed ogni volta cadremo, e ci piangeremo addosso e c’illuderemo che l’abbiamo superato, che ce l’abbiamo fatta, che quello è il nostro traguardo, l’equilibrio definitivo.

 

E adesso che ho la gola in fiamme, i polmoni che risucchiano aria per mantermi viva, lo stomaco che sembra essere un tutt’uno bollente con il mio cuore, mi ritrovo a guardarti così, senza parole.

 

E mi va bene così.

 

Riesco a capire solo vagamente cosa posso averti riversato addosso in questi ultimi minuti, eternità brevissime che saranno una svolta da cui ripartire per costruire tutto.

Era tempo di gridare, per me.

Era tempo di farmi scoppiare il cuore, di disotterrarlo con la forza della disperazione, di tirarlo fuori e districarlo e strapparlo dalle catene delle bugie che mi ero raccontata.

È stato doloroso, sai?

Così doloroso che ho dovuto gridare, e farmi del male, e raschiarmi la gola e cercare un disperato motivo che ti facesse crollare.

 

Perchè io voglio ancora che tu crolli.

Io ci sanguino, a vedere le mie menzogne spazzate via. Percepisco distintamente il livido che si sta formando dentro di me, le vene che si rompono, i graffi che mi sono fatta nella speranza di trattenere ancora per un po’ quelle illusioni nocive dentro di me. Anche se fanno male.

Ho i palmi segnati dalle mie stesse unghie, ho il fuoco del tuo sguardo che m’impazza dentro, e lo sento covare nella cenere di qualcosa che ho creduto, sperato, fino all’ultimo di essere io.

 

Crolla, ti prego.

Dimostrami di non essere così determinato, dimostrami di non essere così deciso a salvarci.

Puoi salvarti, Gustav Schäfer?

Puoi salvarmi?

 

Puoi...

 

Manca il fiato, mi brucia la gola, lacrime agli occhi e i muscoli delle labbra che fanno male.

E sento le mie spalle abbassarsi, rilassarsi contro il mio ordine, le mani scendere, aprirsi doloranti e con difficoltà per i crampi di quanto le ho strette. E abbasso gli occhi, ma li dovrei rialzare.

E dovrei asciugarmi quelle lacrime tradicitrici.

 

-Puoi salvarci?

 

Non so se l’ho sussurrato o gridato, ma la sua reazione è un sobbalzo.

La mia voce è irriconoscibile, rauca... trepidante, sottile, impaurita e assurdamente speranzosa.

 

Non ci devo credere, non ci devo credere.

Per me non c’è futuro.

 

Perchè ti sento così assurdamente vicino?

Smettila di guardarmi così.

 

Mi perdo ancora, ancora una volta, nella forza del tuo sguardo, nel fatto che cambia ogni giorno, ogni momento, ogni secondo. Hai occhi castani che sono un pugno nello stomaco, e sono così assurdamente chiari, quasi trasparenti per me, che mi stupisco anche che non siano realmente scritti, quei pensieri che vi vedo vorticare dentro.

 

E le mie mani tornano a rialzarsi, solo per stringersi attorno alle mie braccia, solo per cercare conforto in un gesto che fa capire quanto sia fragile, in questo momento. Sono sull’orlo di un burrone, adesso.

E sul fondo ci sei tu.

 

E sull’orlo, dietro di me, impazza il fuoco.

 

Lo stesso fuoco che vedo riflesso in te.

Tutto è sbagliato, adesso.

Tutto sta andando a puttane.

 

È solo rabbia ciò che sono destinata ad incontrare?

È solo rabbia, ciò che vivo?

È solo rabbia ciò che suscito?

 

È solo rabbia?

 

Sono stanca.

 

Sono sfinita. Sfibrata, assetata, afflita, distrutta, rattopata come una vecchia bambola di pezza troppo usata.

Cos’altro volete da me?

Cosa cercate in Dorcas?

Sono solo un fottuto essere umano che non avrebbe mai voluto nascere.

Mi sentite?

 

-Io non volevo tutto questo.

 

Perchè la mia bocca non sembra essere più in grado di produrre saliva?

 

Strofino le mani sulle braccia, cercando un calore che so di non poter trovare.

Schiocco la lingua, mentre sento i miei occhi infiammarsi, le sopracciglia contrarsi.

 

E se mi guardo intorno, vedo solo macerie. Sono ancora al limite, al bordo, a braccia aperte. E non ho più nulla da far sbattacchiare dal vento, non gonne dei troppi strati, non capelli ricci lacci di corsetti.

Non ho nulla.

 

Solo inchiostro, e tutto ciò che mi è sempre rimasto da ogni distruzione.

Continui a guardarmi così fissamente, e io so che tu stai vedendo ciò che realmente sono. Sei lì, ad aspettarmi al varco.

“O me, o il fuoco”, sembri dire.

Illuso.

Non vedi come io sono già stata ustionata?

Sono la sposa dell’incendio, e mi sento viva solo quando il mio cuore è un ammasso di cenere grigiastra.

 

-E non c’è più nulla da fare.

 

Quanto vale per te quella cenere?

 

E come un fiume in piena, come se non fossero semplici lacrime ma sale liquido, come se tutto l’alcool del mondo mi stesse disinfettando ferite che non sospetavo essere così profonde ed infette, sento le guance ardere come lava.

 

Quanto vale per te quella cenere umida di lacrime?

 

E l’unica cosa che vorrei fare è nascondermi, e scomparire, e saltarlo sul serio quell’orlo, ma per finire in un abisso nero che non sia rischiarato dalla tua esistenza.

Voglio ritornare nel mio buco umido e solitario, senza che nessuno mi ricordi quanto è bello il sole.

 

E chiudo gli occhi, sentendo l’ennesima coppia di lacrime gemelle scendere, intridersi dello sporco della mia faccia e cadere a terra con un plic! umido.

E chiudo gli occhi, sentendo la tua presenza farsi vicina ed inquietante, troppo presente, immediata, che esige risposte istantanee perchè mi ha lasciato fin troppo tempo per pensare, un tempo che ho utilizzato male preparando delle scuse piuttosto che delle certezze, delle affermazioni.

 

-Tu non puoi fare nulla.

 

Ed un singhiozzo mi sconquassa il petto senza che io gliene abbia dato il permesso, e mi fa star male, e contrarre il cuore.

Era un tono così definitivo, certo.

Un giudizio inappellabile.

 

Se anche chi mi vuole salvare mi reputa inadatta alla salvazione, come potrò mai...?

 

-Non se non me lo permetti.

 

E dal calore che mi ustiona il viso, posso capire che sei troppo vicino a me perchè ti possa ricacciare indietro negli abissi della mia coscienza per l’ennesima volta.

Non c’è più scampo, via di fuga.

 

La tua voce mi raspa dentro come carta vetrata, fa scintille contro i cocci del mio scudo, rende polvere la vecchia vernice nera.

Ed improvvisamente, mi rendo conto che essere messi di fronte a se stessi è una cosa terribile.

E vedo tutti i miei sbagli, tutte le mie vittorie, con la chiave con cui le avrei sempre dovute giudicare.

Polvere alla polvere.

Mi sono intossicata di bugie finchè c’è stato scampo, mi sono annullata quando ero agli sgoccioli. Tutto un enorme percorso per arrivare a questo?

 

Perchè devo provare il dolore di capire che ho le ginocchia sbucciate per le troppe volte che sono caduta e le pieghe delle mani sporche di una terra che non va mai via per tutte le volte che mi sono dovuta rialzare?

 

Sento i miei nervi sensibili al minimo spostamento d’aria, tutto il mio corpo adesso sente, ipersensibile perchè esausto.

E mi manca la terra sotto i piedi, ed è ciò che si sta facendo spazio a gomitate dentro di me, quello che mi sta facendo abbassare le spalle, ancora, e riaprire gli occhi, appena una fessura.

 

-Ti prego, fammi capire che sei ancora viva.

 

Non sembra essere una battuta.

Non per quel tono basso, pentrante, vibrante.

 

Mi risuona dentro, come quando il tamburo non suona negli amplificatori, ma nel tuo stomaco.

Mi sento le orecchie a pezzi, la fronte rossa, gli occhi bruciare.

 

Scuoto la testa in una maniera goffa, come se mi fossi dimenticata come ci si fa a muoversi.

 

Sono gonfia.

Satura.

 

Una supernova che solo vuole esplodere, per lasciare il nulla dietro di .

 

Un singhiozzo. Un’altro.

E un altro ancora.

 

Ed è oscillare senza equilibrio per alcuni secondi, prima indietro, poi in avanti.

Ed è trovare qualcosa di solido, di caldo, di pulsante, su cui appoggiarsi.

 

L’unica cosa che resta, per cadere con malagrazia e farla finita con uno schianto rumoroso contro il fondo del burrone, è appoggiare la fronte, poi le mani.

Aggrapparsi al tessuto di cotone ed esplodere.

 

Esplodere in mille scintille esauste, sentire le ultime piume di due alette rachitiche cadere in terra con un fruscio smorto.

Capitoli, cedi.

Muori.

 

Lasciando il nulla dietro di te.

 

Ma non sembra essere finita qua.

Io ho smesso di esistere, ma qualcosa batte ancora.

Posso sentire il suo respiro pronfondo. Un respiro che trova un eco nel mio.

 

Ho trovato un appiglio, forse.

Ma non l’ho trovato io.

Non l’io che ero fino a poco fa.

Non l’io che hanno conosciuto in tanti.

 

Continuamo ad aderire l’uno all’altro. So che se in questo momento mi scostassi, cadrebbe.

Cadremmo.

 

E sarebbe definitivo.

 

Ma non lo sarà.

Perchè non me l’aspettavo, ma quel nulla che mi porto dentro da un’eterno istante, ha una voce.

Una voce molto familiare.

Cristallina, limpida.

 

Quella limpidezza che non ricordavo avesse mai posseduto.

 

Lavato ciò che è scampato all’incendio, cosa resta?

Il tuo fiume d’inchiostro non è stato un caso. Il tuo fiume d’inchiostro è l’unica cosa che abbia mai contato.

Mi senti?

Mi stai sentendo?

Tutto ciò che hai cercato di credere su te stessa, tutto ciò che eri, non lo sei in realtà mai stata.

Tu sei nata con un braccio destinato ad essere diverso dall’altro.

Tu sei nata per avere inchiostro in svariate zone del tuo corpo.

 

Tu sei nata prima come disegno, poi come persona.

 

Tu non sei nulla che si possa spiegare a parole, tu sei tutto ciò che nessuno ha mai potuto descrivere.

Nessuno è ciò che dice di essere, tanto meno tu.

 

È come diamante puro, non più cristallo, lo scudo che sembra formarsi attorno al mio neonato Io. È come acqua gelida che passa via senza lasciare nulla se non me stessa.

Me stessa, e ciò che mi fa sentire viva.

 

E improvviamente capisco che quel nulla che mi è rimasto dentro non è tanto soverchiante come io avevo paura che fosse. Non è nero, è semplicemente incolore. Non è vuoto, è semplicemente pieno.

Di nulla.

 

Le lacrime scompaiono alla stessa maniera di come sono venute: gli occhi smettono di pizzicare, le scie si seccano con sorprendente rapidità. Riprendo a respirare lentamente, ogni boccata d’aria come se fosse la prima.

E non ha bisogno di essere identificato con un’odore particolare, adesso.

Semplicemente, respiro lui. La sua stessa aria. L’odore caldo della sua pelle.

 

E mi sento dannatamente bene.

 

Smetto di stringere la stoffa della sua maglietta, stendendo le palme delle mani sul suo petto.

Forse è un ordine silenzioso, forse è semplicemente che non ha più bisogno di parole per leggermi dentro.

 

Sento diventare bollente la pelle dei fianchi, sotto il suo tocco. Lentamente, quasi volesse essere sicuro di ciò che sta realmente succedendo, avvolge i fianchi prima con una mano, poi con l’altra.

E risale, lento come se avesse paura di vedermi scomparire da un momento all’altro.

Il suo tocco via via più profondo mi strappa un brivido inconsapevole, facendo scattare il mio viso all’insù.

 

I miei occhi prima si spalancano, per poi tornare a socchiudersi, tranquilli.

 

Sento di stare affogando in quel castano alcolico, so di non essere più in me, ma negli occhi di un’altra persona.

E mi vedo riflessa per la prima volta, come in uno specchio dai contorni rotondi e dal cistallo venato in oro.

Ed è così strano, vedersi rinascere negli occhi di qualcun’altro.

 

Con un’ultimo sospiro, tremante come se fosse il primo ed incerto passo verso qualcosa che so che sarà diverso da tutto ciò che ho provato prima, chiudo gli occhi.

Senza strizzarli, senza fretta.

Senza paura.

 

A braccia aperte verso un destino che non comprendo, verso un futuro che non mi va ancora d’immaginare.

Come un regalo di natale troppo aspettato, che non si vuole ancora scartare.

Perchè i giochi di luce sulla carta sono troppo affascinanti per voler porre fine all’attesa.

 

Ed è un come aria, come un tornado che mi prende e mi porta via. Un terremoto che scuote tutto, un’onda di qualcosa così potente e nascosto, che se fosse una manifestazione di un’entità reale mi girerebbe la pelle come un guanto.

 

Come alcool puro sulle mie labbra, il sapore di lacrime ormai secche che posso sentire nella sua bocca è diventato quasi mio, è quel fuoco che ho sempre pregato che mi bruciasse.

Dapprima lento, come se ancora ci fossero scrupoli da parte di uno dei due, l’unica cosa che riesco a distinguere è un calore bollente che quasi incendia i miei piercing.

Parte da là, torturandoli con morsi delicati, eppure con un senso d’urgenza dapprima trattenuto.

Allargo le dita sul suo petto, facendo risalire le mani, fino a fermarsi alla base del collo. Lo ruota leggermente, ed il sapore del ferro e delle sue labbra si fa più forte, quasi mi stordisce.

Pianto le unghie nella pelle, facendogli socchiudere le labbra per un gemito soffocato.

Quindi con un movimento della mascella quasi sincronico, ci troviamo a combaciare perfettamente l’uno nell’altra, ed una nuova vampata di calore mi fa sentire a pochi passi dall’inferno.

 

Ogni suo muscolo guizzia sotto pelle come un filo che si tende, quando una mano si poggia imperiosamente sulla mia schiena, mentre l’altra continua scendere, giù, giù.

 

Come un liquido che mi sta dando alla testa, non posso che continuare a cercare in lui quello che sembra manchi a me.

Ci baciamo con disperazione, come se fosse l’ultima volta, graffiandoci, facendoci male perchè è troppa la foga con cui ci stiamo baciando e perchè stiamo capendo cosa non siamo mai riusciti ad imbastire a parole.

 

Il fiato manca, lo respiriamo uno dalla bocca dell’altro, e quando c’è, è gelato in confronto alle ustioni che ci stiamo procurando. È droga, è la droga da cui sono in crisi d’astinenza dal primo giorno che l’ho visto, è l’ossatura di ciò che mi manterrà in piedi fino a quando sarà possibile.

 

E l’unica cosa che serve sapere è se la sua pelle è veramente calda come attraverso la stoffa della maglietta, e altrettanto liscia.

E mentre le sue dita risalgono il solco della mia schiena con una lentezza esasperante, io mi aggrappo al suo collo e mi rassegno, mi rassegno al fatto che il nulla che porto dentro è il tutto a cui non ho mai dato ascolto.

 

.-.-.-.-

 

È il sapore di limone che ho sempre immaginato che le sue labbra avessero. È sempre la stessa consistenza morbida e cedevole che ho baciato troppo tempo fa.

Come il gatto che è, le sue dita sottili tra i miei capelli ed aggrappate al mio collo, come cera morbida tra le mie dita, la sento riflettere tutto me stesso con la forza di uno specchio.

E non mi basta, non mi basta sentire la stoffa della sua maglietta troppo larga sotto le mie dita, il ferro dei suoi piercing sotto le mie labbra.

 

Con vera fame, perchè lei è l’unica cosa che sembra non bruciare tra le fiamme che mi porto dietro, concludo il bacio con tocco della lingua, per poi sfiorare la pelle, sentirla morbida sotto le mie labbra, e calda, calda come se il calore potesse essere olio che mi ustiona tutto, dalla bocca al petto. La mano solleva il bordo della maglietta, esplorando con cauta circospezione il bordo dei jans, le borchie delle tasche, gli anelli della cintura.

E passare le dita, e poi il palmo, e poi la mano sulla sua pelle setosa cercando di prenderne il più possibile, cercando di trovare la sazietà per questa maledettissima fame di lei che mi ha fatto impazzire per troppo tempo nel buio della solitudine.

 

 Ed è uno scemare lento, una pace che viene con il fatto che ormai siamo rassicurati dal fatto che non spariremo dopo tutto ciò, e che neppure ci importerebbe troppo, se sparissimo insieme.

 

Tra le braccia stringo qualcosa d’incredibilmente piccolo, goffo, umido di lacrime ormai secche.

Ed è come se mi avessero aperto il petto ed allargato i polmoni, respiro di più, respiro più a fondo, più di quanto abbia mai respirato in vita mia.

Muove le mani sottili con la delicatezza di farfalle timide, respira contro il mio petto come se lo avesse fatto da sempre, com’è giusto che sia, com’è ingiusto che non sia stato prima.

 

Mi scoppia il cuore come faceva solo quando lei non c’era, eppure adesso non è più saturo di disperazione.

Perchè di quell’ombra che sempre ci ha tenuto lontani, che fosse nei miei o nei suoi occhi, sembra essere sparita via.

E l’unica cosa che vale la pena dire è che è giusto così, che niente poteva andare diversamente, che se non ci avesse preceduto il dolore, questo sarebbe stato solo un sentimento scontato.

 

La sua voce è talmente sottile e soffocata dal mio abbraccio, che la prima volta quasi non la sento.

 

-Cosa?

 

Ho la gola secca e le labbra gonfie, che pulsano come se il cuore si fosse messo a pompare direttamente da là.

 

La sua mano si muove leggermente, spostandosi sul mio petto.

 

-Ti amo.

 

Un pugno che arriva attutito dalla profondità del pozzo che sono i suoi occhi.

Era previsto, sì, forse in un futuro incerto ed evanescente che non ci azzardavamo di sognare.

Perchè non ho mai avevo il coraggio di credere che da qualche parte, ancora, un “noi” ci avesse atteso con pazienza, tranquillo e senza fretta perchè a conoscenza di cose che neppure noi sapevamo.

 

E la tranquillità con cui sorride, la tranquillità con cui lo dice, ma fanno quasi vacillare.

Perchè il modo in cui lo dice è qualcosa che sembra provenire da un’altro mondo. Un mondo in cui lei sembra essere finalmente padrona di se stessa, e non schiava della sua disperazione.

 

E mi ritrovo a rispondere al suo sorriso, come se non avessi altro scopo nella vita.

E non sono piu sicuro di avere altri scopi a parte questo, adesso.

 

Nascondo il viso nell’incavo del suo collo, limitandomi a respirare quel nero leggero, quel lieve odore di folla e borotalco, quella sensazione di pace e stanchezza diffusa.

Pur continuando a sentire qualcosa rigirarsi nel profondo, pur avvertendo una vaga sensazione d’adrenali repressa, non voglio comunque muovermi.

Ho affrontato ciò che dovevo, ho fatto una salita trascinandomi sulle mie stesse mani, e adesso non ho ancora voglia di ritrovarmi faccia a faccia con ciò che implica essere sulla vetta.

 

Voglio godermi ogni momento di pace che ancora ci è concessa, perchè so fin troppo bene che tutto questo è così bello perchè dure in eterno.

 

Mi accarezza la schiena con un movimento lento, circolare. Attraverso il cotone della maglietta, posso sentire il calore dei suoi palmi, e posso percepirlo talmente ditintamente, quasi da vederlo, quando passa sulle spalle, accarezzando un paio di ali inivisibili ad occhio nudo.

 

-Non c’è bisogno di stringere così forte, Gustav. Non scappo mica.

 

Sento le sue labbra sorridere contro la mia guancia, il fiato leggero che mi solletica il collo.

Scandisce con calma ogni parola, con quella tranquillità tipica di chi è arrivato al limite e l’ha superato.

E non ha più bisogno di correre.

 

Allento leggermente la stretta, pur senza togliere le mani dalla sua vita.

Allontano il mio viso dal suo quel tanto a non poterle più contare le pieghe delle labbra, da non distinguere null’altro in quegli occhi se non blu, blu cobalto, blu cupo.

Soffio sul suo viso, facendo ondeggiare un ciuffo particolarmente lungo dei suoi capelli bianchi.

 

Quasi distrattamente, vi passo la mano.

È buffo distinguere nettamente l’ovale del viso, la curva della nuca, non più nascosti dalla capigliatura rasta.

Mi sembra di sfiorare un tipo particolarmente setoso di cotone, mentre i suoi ricci arruffati scivolano tra le mie dita.

 

-Erano antigenici per l’operazione, se proprio te lo stai chiedendo.

 

Sorrido a labbra chiuse, cercando i suoi occhi ed il suo sorriso obliquo che, ovviamente, non mancherà.

Ed accoli, eccoli comparire e schiudersi su quel viso adesso reso troppo fragile per l’assenza dei mille ricci e boccoli.

 

-Gustav, dimmi che sai ancora parlare.

 

Ridacchio, riuscendo a schiarire la gola con difficoltà.

E poi, rauca e spezzata, riesce finalmente a farsi sentire.

 

-A fatica, però.

 

Il sorriso si allarga ancora di più accompagnato da un lampo ironico negli occhi.

 

-Sono così tossica?

 

Appoggio la fronte contro la sua, dato che una ondata di stanchezza mi ha appena fatto tremare leggermente le gambe.

 

-Peggio, se proprio lo vuoi sapere.

 

Chiudo gli occhi, rilassato.

 

-Sei tutta la droga che non ho mai preso in vita mia. Sei un concentrato alto un metro e uno sputo di puri casini mentali per il quale mi sono lievemente roso il fegato.

 

Riapro gli occhi, ironico.

 

-Giusto per utilizzare un indiretta.

 

Un’indiretta che cade nel vuoto, nel silenzio più assoluto. Perchè come un’esimio cretino, un folle, pazzoide innamorato, non posso che farmi incantare dal sorrisino che le distende le labbra.

 

E vorrei continuare a parlare, ma il respiro tende a mozzarsi, in queste situazioni. L’aria diventa troppo satura di emozione per essere respirata in tutta tranquillità, e dall’aria sembr colare un liquido insivibile certo, trasparente ed incolore, ma dal vago sentore speziato, un liquido che ti prende alla bocca dello stomaco e t’infuoca, voluttuoso e sibillino.

 

Socchiudo gli occhi, mentre dal petto parte una vampa di strane fiamme piacevoli e calde, talmente pericolose, eccitanti, da farmi schiudere le labbra per cercare più aria, per prendere più fiato, cercando di calmare quel battito di troppo e di tenere a bada quella struggente sensazione che t’invoglia a volerne di più.

 

 

E tutto che si concentra in quegli occhi, occhi grandi, leggermente a mandorla, ciglia lunghe scure e un vortice di desideri cifrati in una lingua che mi suona vagamente familiare, turbina dietro a due spicchi di cielo cupo. Come acqua che fredda e dolorosa scorre sulla pelle, il suo sguardo non sembra schiodarsi dal mio viso, mentre le mani riposano sulle miei spalle, bruciando quasi la pelle.

 

Allora, tirando un grosso respiro, non posso che chiudere i miei, di occhi, e abbandonarmi al contatto tra le nostre due fronti.

 

-Cosa c’è?

 

Le sue dita scorrono tra i miei capelli, gesto innocente che mi fa venire la pelle d’oca.

Domanda dalla risposta troppo complicata, a cui rispondo con un verso di una poesia che ho letto non so dove e non so quando, chissà di chi.

 

-E i tuoi occhi sono lo scintillare azzurro dei fanali che abbagliano il guidatore prima di un frontale.

 

Fame.

Fame che non cessa, fame che non trova sazietà, fame che mi costringe a cercare la pelle sotto le mie labbra, in una scia di baci voluttuosi che a me mi stanno portanto al punto di non ritorno, mentre lei affonda il viso nell’incavo del mio collo.

 

-Du wirst für mich immer heilig sein...

 

Soffoca un’imprecazione contro la mia pelle, prima di afferrare il cellulare e portarselo all’orecchio, con espressione scazzata già prontamente stampata in faccia.

 

-Hallo?

-Dorcas, hai dieci minuti prima che i Metallica salgano sul palco. Si può sapere dove cazzo sei?

-Scheisse.

-Grazie ma no, preferisco andora essere chiamato solo Volkan.

-Ok, dammi tre minuti.

 

Chiude lo sportellino del cellulare senza schiodarmi occhi di dosso, forse perchè le mie mani non si rassegnano ancora a staccarsi dai suoi fianchi. Che discole.

 

Inclina la testa da un lato, mentre la sua mano passa ancora una volta tra i miei capelli.

 

-Dovrei andare.

 

Scorre lenta sulla tempia, per arrivare allo zigomo. E al cerotto.

 

-Non puoi certo mancare al concerto del secolo, Boss.

 

Biascico io a fatica, gola più rauca del normale e un sentimento che pulsa dappertutto, anche in zone non desiderabili.

 

-No, non posso.

 

Sussurra lei, scuotendo la testa e staccandosi dolcemente da me.

 

-Però tu sai che non è ancora finita.

 

Rialzo gli occhi dalle sue mani per cercare di nuovo il suo sguardo. Uno guardo che sembra brillare di vita propria, tanto è ilare. Un’ilarità che contrasta in maniera stridente con gli occhi rossi e le scie di lacrime sulle sue guance.

 

Ed adesso tocca a me sorridere, alzando le mani in segno di resa.

Ok, mi arrendo. C’è fin troppo da chiarire, ancora, per poter dire che ce l’abbiamo fatta. Non che importi granchè, ma è come un’icognita che, fastidiosa, pungola il silenzio pacifico che si è venuto a stabilire tra di noi.

 

-Non è neppure cominciata, Dorcas.

-Ah, il gusto dell’incognita.

 

E con in sottofondo il suo cellulare che torna a squillare ed una mia risata stanca, si gira ed inizia a correre, senza guardare indietro.

Perchè Dorcas non si volta mai indietro.

 

.-.-.-.-

 

Gente. C’è fin troppa gente in questo stramaledettissimo ingresso secondario. Urla di tecnici, spintoni di fans e ruggiti bassi da parti di quegli armadi quattro stagioni della security americana che, osservando bene, sono più tatuati e borchiati della stragrande maggioranza dei metallari che si affanano a sfondare il cordone di sicurezza. Qui sono tutti pazzi. Me compreso.

 

-Gustav, tu non stai bene!

 

La mano di Bill mi trattiene a stento dal buttarmi in mezzo alla mischia per cercare di passare. E non per certo per vedere i Metallica.

 

Dove cacchio stai, Dorcas?

 

-Gustav, smettila di smaniare! Si può sapere che hai?

 

La mano di Tom si posa prepotentemente sulla mia spalla, cercando di trascinarmi lontano. Ma io mi libero con una scrollata di spalle, degnandolo a malapena di una risposta.

 

-Sto aspettando una persona.

-Sì, ok, ma chi?

 

Georg, più furbo degli altri due, m’interroga con tono soave e trattiene Bill dal placcarmi un’altra volta.

 

Dov’è, dov’è, dov’è?

 

Purtroppo per lui però, io non lo degno di risposta. Ho il cervello in subbuglio, tanta di quella adrenlina in circolo da sembrare un eroinomane in crisi d’astinenza ed il cuore che batte i centottanta al secondo.

 

-Gustav Klaus Wolfgang Schäfer! Vuoi stare fermo un dannatissimo minuto?!

 

Come risvegliandomi da un sogno, o da un’incubo a seconda dei punti di vista, mi giro di scatto verso Tobi che, al limite della sua proverbiale, e pressocchè eterna, pazienza ha sovrastato per un momento tutto quel casino di voci che mi sta portando sul limite di una crisi isterica.

 

Non ti basta la camera, Schäfer?

 

E, come una botta dietro la nuca, la stanchezza di un concerto di quattro ore mi crolla sulle spalle, stordendomi di colpo. Adesso non sono più così sicuro da poter reggere l’intera situazione con solo la mia forza di volontà.

Sono dannatamente stanco.

 

-Sì, certo.

 

E ho ancora la voce dannatamente rauca da prima. Sembra che butti giù granita di vetro ogni volta che deglutisco, maledizione.

 

-Ehi, siamo tutti stanchi qui. Diamoci un momento di pausa, che ne dite?

 

È Christa a parlare, adesso. Solleva le mani, fermando con la sola forza del suo sangue freddo ed un’occhiata assassina qualsiasi protesta. Ed così che Bill richiude la bocca di scatto, preferendo incrociare le braccia, mentre Tom si accovaccioa sui talloni con un sospiro. Georg si stropiccia gli occhi con un verso stanco, Tobi lancia occhiate minacciose a chiunque ci fissi con troppa insistenza. E Christa mi squadra incuriosita.

 

-No, non è permesso a nessuno dei non adetti ai lavori accedere al backstage! Gli artisti sono distrutti, e la signinsession è prevista per domani e non verrà anticipata in nessun modo ad oggi!

 

Il gracchiare di un megafono ci riscuote a tutti quanti, facendoci voltare di scatto. Un tizio dello staff vestito interamente di nero, con pass rosso appuntato al petto, si sbraccia verso la fossa.

 

La cosa assurda è che è praticamente arrampicato sul cancello.

Ma non è l’unico.

 

Dorcas, quando s’incorporò allo staff dei Tokio Hotel, venne presto soprannominata Cita. Ma non perchè avesse un’aspetto scimmiesco, piuttosto perchè era l’unica capace d’arrampicarsi sulle impalcature del palco con l’agilità di un’atleta. Anche se poi toccava al medico fasciarle più strettamente le bende elastiche che stringevano il polso sinistro.

 

Ma, in questo preciso istante, sembra tutto meno che impedita dal polso.

 

Sotto lo sguardo stupito di quel centinaio di fans sfegatti che cercano passare contro tutto e tutti, lei scavalca la cancellata aguzza, si lascia dondola un po’ e si butta dall’altro lato.

E io mi ritrovo a sorridere. Perchè Dorcas è una dannatissima esibizionista. Un difetto che allunga la lista comprendente cinica, caustica, testarda, pesante e, soprattutto, adorabile.

La gente è piena di difetti, che volete farci?

 

Scambia alcune parole con l’uomo, parole inudibili visto il casino che sembra essersi moltiplicato dopo lo spettacolo offerto da Dorcas, adesso invisibile tra la folla.

Sto per lanciarmi alla sua ricerca, quando la mano di Tobi, decisamente più corpulenta di quella gracilina di Bill, m’impedisce di muovermi.

 

Mi giro per cercare di liberarmi, cercando di non ridere delle espressioni stupefatte dei ragazzi.

 

-Cosa?

 

Il biascicare di Tom da voce a la domanda inespressa di tutti quanti.

 

-E’ Dorcas!

 

Esclama Bill, portandosi immediatamente le mani alla bocca e guardandomi, in panico.

 

-Oh. Mio. Dio.

 

Scandisce Christa. Il suo imperturbabile aplomb si è perturbato, a quanto pare.

 

-Oh, beh. Chi non muore si rivede.

 

Ridacchia Georg, un mezzo sorriso a distendergli le labbra.

Li guardo uno per uno, la stretta di Tobi che si allenta sulla mia spalla secondo dopo secondo. Adesso sembra toccare a lui dire qualcosa, per uno strano gioco di parti.

 

-Scricciolo.

 

Mormora, pacato come sempre.

 

Ed in risposta, con un tono a metà tra lo scocciato ed il sommamente divertito, la voce di Dorcas.

Che mancava un po’ a tutti, sorriso obliquo compreso.

 

-Sempre a ricordarmi la mia miserabile altezza, Tobi?

 

E mi sembra quasi di sentire il clack sottomesso di un pezzo di mosaico che torna finalmente al suo posto.

 

.-.-.-.-.

 

-Probabilmente ho fatto venire un’infarto alla Diva.

-Per adesso lo hai solo fatto venire a me.

-Così tanto?

 

Il suo sguardo blu cobalto mi squadra, il sopracciglio inarcato in un’espressione sospettosa.

Le restituisco l’occhiata, sorpreso della sua stessa domanda.

 

-Il fatto che mi dimentico di respirare un momento sì e l’altro pure non ti sembra abbastanza?

 

Lei affonda di più mani nelle tasche della felpa oversize, arrossendo imbarazzata.

Dorcas che arrossisce?

 

-Ecco, io... non mi sembrava di avere così tanto ascendente su di te.

 

Camminiamo affiancati sul marciapiede che costeggia l’enorme spiaggia di Santa Monica, quasi totalmente sommersa per l’alta marea. Una brezza fredda che ci sommerge al ritmto dei cavalloni che s’infrangono sulla sabbia, si diverte a giocare con i capelli di Dorcas, scompigliandoglieli.

 

-E da cosa “non ti sembrava di evere tanto ascendente” su di me?

 

Si schiarisce la gola, eppure rimane in silenzio. Il suo viso oscilla tra oscurità e luce, mentre la sucessione pressocchè infinita di lampioni ci avvolge nella loro luce di un giallo malaticcio, prima di lasciarci alla mercè degli intervalli bui che si alternano con cadenza regolare ai coni di luce. Le luci e le ombre cambiano ad ogni passo sul suo viso, che non sembra decidersi del tutto su che espressione adottare.

 

-Io...

 

Sussurra, lo sguardo perso nell’intrico geometrico delle mattonelle del marciapiede.

 

-Tu?

 

Chiedo io, più attento a come le sue labbra si stirino in un’espressione tesa, per poi essere mordicchiate dal suo impietoso imbarazzo.

È in difficoltà, al momento.

E le sue labbra si fanno più rosse ogni momento che passa.

 

La palle pallida che diventa viola vicino agli occhi, segno che è da tempo che non dorme in una maniera decente. Lentiggini chiarissime che si fanno più fitte sul naso.

L’acciaio dei piercing che brilla di mille riflessi duri sulle labbra.

 

Forse non è giusto perdermi così tanto nell’osservare ogni suo movimento. Forse dovrei prestare più attenzione ad ogni parola non detta che si stampa a caratteri sul fuoco sul fondo dei suoi occhi fin troppo profondi. Forse dovrei tagliare con un coltello il suo spesso imbarazzo e dare voce a quel sentimento di disagio, sottile eppure presente, che serpeggia nel profondo dei miei pensieri, che si attorciglia sul ricordo di quella parole scambiate da Dorcas e quell’uomo dello staff, che si fanno quasi più vive e dolorose al ricordare l’espressione di dubbio e profonda confusione che era passata, veloce come un soffio, sul viso di Dorcas.

 

Dovrei smettere di fantasticare su cosa copre il tessuto della felpa quando mille pieghe si formano sulle spalle e sui fianchi, mentre spianandosi invece sul petto. Forse non è giusto mettere a tacere il proprio raziocinio con un ringhiare sordo, perché troppo impegnato ad osservare come i jeans aderiscano perfettamente alle sue gambe snelle, come mai potrebbero fare le gonne millestrati che è solita mettersi.

 

Era inquietante come stessi ignorando la mia coscienza ed il suo allarme nel capire che Dorcas in realtà aveva compreso ben poco dei sei mesi che avevo passato al limite tra disperazione e follia senza di lei.

Perchè con quell’espressione imbarazzata che le faceva mordere le labbra ed arrossire in quella maniera così suggerente, avrei potuto dimenticarmi anche della fine del mondo.

 

Eppure non trovavo il coraggio di toccarla, fermarla, guardarla spalancare gli occhi mentre mi avvicinavo, richiuderli poi mentre sentivo finalmente il freddo dei suoi piercing stridere con quel calore che mi bruciava le labbra ogni volta che mi avvicinavo a lei, non prima però di aver colto un lampo di puro languore che stuzzicava le mie fantasie più recondite.

Non sembrava essere mai il momento giusto, prima adesso, per colmare una distanza che andava aldilà del fisico, del tangibile.

 

-Io non lo so. Ci sono tante cose che non so, Gustav, e questa è solo una tra le tante.

 

Bofonchiò lei, incrociando le braccia e scuotendo la testa, come per arrendersi.

Eh, Magari.

 

.-.-.-

 

Imbarazzo. Un dannatissimo imbarazzo come mai prima d’allora mi stava incendiando le guance ogni tre per due, attirandosi gli sguardi imperscrutabili di Mister Aplomb.

Tutti parlano del sangue freddo britannico, ma anche Gustav Schäfer, che pure britannico non è, si sta dimostrando un ottimo elemento. Dobbiamo forse iniziare a parlare di puro sangue freddo teutonico?

 

-Come sarebbe a dire, tante cose che non sai?

 

Volgendo gli occhi in gloria per un breve istante, arrossisco ancora di più.

Dio, starò scottando.

 

Mi volto verso di lui, pronta a fargli una seria ramanzina su questa sua fastidiosa abitudine di ripetere l’ultimo moncone di frase che mi tocca biscicare a fatica per calmare queste sue curiosità da inquisitore.

Ma quando lo vedo fissarmi con la coda dell’occhio, uno sguardo imperscrutabile come padrone assoluto, tutte le frasi che avevo abilmente intrecciato dentro la mia testolina per far sì che filassero in un’acussa degna di tutto rispetto, si sfilacciano in mille parole senza senso.

E mi ritrovo di nuovo ad annegare nell’ambra, nel maledettissimo castano chiaro di quegli occhi che, senza previo avviso, diventano lo specchio della sua anima. Un’anima che non riesco più a comprendere come prima, di cui non riesco a capire il dolore.

 

Perchè se io in questi sei mesi sembro aver staccato la spina ed aver dimenticato come si pensa, lui sembra ricordarsi perfettamente cosa sia stato il nostro addio e, soprattutto cosa sia successo dopo.

 

“E invece lo so.”

Cosa sai, Gustav?

Perchè in questi sei mesi non sono stati altro che l’inferno in terra, per me.”

Un’inferno di cui io non so nulla, e di cui ho quasi paura di sapere

 “E mi sono stancato di sentirti dire che nessuno ti può capire, Dorcas.”

 

Echi nella mia testa, come un disco graffiato che continua a ripetere la stessa canzone.

 

“Nessuno ti può capire.”

 

Era vero? Avevo arrancato da sola nell’indifferenza di chiunque la circondasse? Avevo ricevuto abbracci e sorrisi per sanare un dolore di cui nessuno voleva seriamente farsi carico?

 

“Nessuno ti può capire.”

 

È così claustrofobica la consapevolezza del fatto che anche lui è stato solo, completamente da solo, di fronte a tutto il dolore che vedo serpeggiare di tanto in tanto dietro quegli occhi stanchi.

 

“Nessuno ti può capire.”

 

A parte te, forse.

Forse perchè....

Perchè?

Ha sofferto tanto quanto te.

Oh.

O forse di più.

Di più?

 

Ma ciò che più è assurdo, è come tutto questo, adesso come adesso, non conti.

 

C’è qualcosa che, acquattato nell’ombra, attende solo il momento propizio per creare più danno possibile. Sento come si rafforza ai confini della mia coscenza, come si faccia via via più preoccupante ogni parola che io mi ostino a non dire.

 

Distolgo a fatica lo sguardo dal suo, solo per osservare come, inesorabilmente, la sagoma del complesso dove vivo si sia fatto ormai imponente.

Siamo a casa mia.

 

Ed è in quel momento che, al posto di venire assalita da dubbi e ripensamenti, vengo quasi stordita da uno strano senso di pace.

E capisco, con una calma che non mi appartiene, che entrambi siamo troppo stanchi di qualsiasi cosa che ci riguardi, per continuare il discorso lasciato a metà.

Non è tempo di parlare, non adesso.

Non stanotte.

 

Mi giro verso di lui, trovandolo a contemplare con il sopracciglio inarcato la facciata del complesso.

A cosa starà pensando quella tua testolina sovraccarica, Gustav?

 

Cerco il mazzo di chiavi disperso in uno dei mille tasconi della felpa, e, quando l’ho trovato, lo faccio tintinnare tra le mie mani più di quanto sia necessario.

Cosa può significare, adesso, l’allegro suono metallico di più chiavi che tintinnano al scontarsi fra di loro?

 

-Non hai risposto alla mia domanda.

 

Saliamo le scale che portano al terzo piano in un silenzio interrotto solo dallo scalpiccio dei nostri passi.

 

-Forse perchè non ho risposte, Gustav. O forse perchè la domanda, e di conseguenza la risposta, è troppo complessa da risolvere in così poco tempo.

 

Mormoro io, voltandomi e continuando a camminare all’indietro tastando le pareti del corridoio, certa di non cadere perchè conosco il pianerottolo come le mie tasche.

Così posso osservare la sua espressione dubbiosa, il suo avvicinarsi a passi cadenzati e decisi verso di me.

Mi mordo le labbra un’ultima volta prima di girarmi in direzione della porta ed infilare le chiavi nella serratura, che scatta con un clack sommesso.

Eppure non apro la porta, stupita come sono da un’ombra che improvvisamente oscura la luce del corridoio.

 

Ombra che scopro essere lo stesso corpo di Gustav, che si puntella poggiando le mani ai due lati del mio viso.

E non posso certo dire di essere sorpresa.

 

Piuttosto, quando mi giro verso di lui, perferisco sorridere leggermente.

E lasciar parlare la stessa tensione che aleggia tra di noi.

 

-O la domanda è troppo complessa, o tu sei troppo pigra per darle una risposta.

 

Inarco un sopracciglio, dubbiosa, appoggiandomi alla porta.

 

-Hai veramente così tanta voglia di parlare?

 

Piego la testa di lato, osservandolo con espressione interrogativa. Non prima di aver calcato la mano su quel “parlare”, caricandolo di tutti i significati che possono suscitare un sussuro a mezzavoce e la consapevolezza di essere ad una distanza fin troppo ravvicinata da poter essere ignorata.

 

Lui distoglie lo sguardo, facendosi sfuggire un sospiro stanco.

Decido di farlo capitolare.

 

-Come ti sei fatto quelle cicatrici sul viso, Gustav?

 

Lui spalanca gli occhi, sorpreso. Boccheggia, senza trovare risposta.

Apre la bocca senza riuscire a proferire parola, per poi richiuderla, mentre un lampo di dolore passa per un momento nei suoi occhi.

 

Annuisco lentamente, staccandomi dalla porta.

 

-Forse non è il momento adatto, non trovi?

 

Gli accarezzo delicatamente la guancia, sentendo sotto le dita l’asperità della cicatrice sullo zigomo. Traccio il contorno del suo viso con entrambe le mani, seguendo la linea della mascella, il naso, cercando di non dimenticare l’effetto inebriante della sua pelle incredibilmente morbida sotto le mie dita. Lo accarezzo lentamente, come si fa con un bambino o un disperato, fino a fargli chiudere gli occhi e rilassare la piega dura della sua bocca.

 

Solo allora il mio indice si avventura a sfiorarne le labbra, leggermente screpolate, sottili e rosse, rosse di un rosso così invitante da farmi perdere quasi la concezione della realtà. Cosa c’è che importi più di lui, adesso?

 

Mi alzo sulla punta dei piedi, facendo leva sulle sue spalle che, gonfie e tese, sono ancora impegnate nello sfrorzo di puntellarsi contro la parete.

 

-Forse è il momento di smettere di pensare per un po’, Gustav.

 

Mi aggrappo più forte a lui, perchè il mondo sembra aver iniziato a turbinare intorno ai suoi occhi, adesso che li ha spalancati, carichi di qualcosa che potrebbe essere la mia fine.

Un qualcosa che, bollente, surriscalda ogni singolo centimetro della mia pelle.

 

-Solo per un po’.

 

_______________________________________

 

 

Trovo la forza di sussurrare tra le sue labbra, improvvisamente possessive, mentre il buio, avvolgente e carico di promesse sussurrate da occhiate indiscrete e voglie malcelate, mi esplode dentro, risucchiando qualsiasi cosa che non sia lui e la consapevolezza che sue le mani che si sono poggiate sulla vita, provocandomi un altro giramento.

 

Ed è l’eco di un desiderio soffocato per tanto, troppo tempo, che si era beato di ogni suo gesto ed aveva risposto con ogni tipo di fantasia, quello che m’induce a lasciar perdere le sue spalle, coperte da fastidiosissimo cotone, e a scendere, scendere passando per il petto, lo stomaco, la vita , fino ad afferrare i lembi della maglietta e scivolare al di sotto di essa.

 

Beandomi nel sentire ogni guizzo di quei muscoli in tensione, lo feci dannare ogni singolo secondo in cui mi dedicai ad accarezzare la sua pelle, avida, dannatamente avida di ogni singola sensazione che serpeggiava dalle mie dita fino ad esplodere nella mia testa.

Gemetti quando, dalle mie labbra, passò alla pelle del collo. Dimostrandomi che no, non era affatto il santo che si diceva che fosse.

Mille sensazioni che affondavano le loro radici in qualcosa che non era un semplice desiderio, ma, come stavo scoprendo, sembrava piuttosto un territorio sconosciuto, in cui ogni gesto assumeva più significati di quanti potesse averne nel solo campo del sesso.

 

Ed io ero avida ogni singola parte di lui, in quel momento.

 

Volevo di più, sempre di più.

 

Dalle sue spalle scesi per tutta la schiena, mentre lui risaliva con una scia di baci infuocati su per il mio collo, fino a seguire il profilo della mascella. Ma si fermò con un brivido quando, con la punta delle dita, sfiorai quella stretta stiscia di pelle sensibile al di sotto dello stomaco. Giocai maliziosamente con ogni suo brivido, creandone di nuovi ad ogni mia carezza, sovraccaricandolo, facendolo impazzire al sfiorare, una volta di più, quella pelle chiara più morbida, ultimo confine oltre la quale, in teoria, non si poteva andare.

 

Smise di baciarmi, staccandosi leggermente da me, i suoi occhi castani incandescenti, tanto era il desiderio di cui brillavano.

Ansimava e mi guardava in una maniera tale che, neppure sforzandomi, avrei potuto trovare qualcosa di simile nello sguardo di nessuno degli uomini, fidanzati o storie che fossero, con cui ero stata.

Mi bramava, mi bramava con una forza tale da farmi venire quasi i brivi di paura, perchè, se in quel momento avessi potuto sentire ciò che i suoi occhi cercavano di dirmi, allora avrei potuto comprendere l’inferno che si era portato dentro per tutto questo tempo.

Ma me ne dimenticai non appena lui portò le mani ai lembi della maglietta, sollevandola in un gonfiarsi di muscoli delle spalle e tendersi di quelli del bacino, togliendosela del tutto e lasciandola cadere indifferente ai suoi piedi.

 

Sorrisi quando tornai a baciarlo sulle labbra, appiattita con il suo corpo da una stretta possessiva, la pelle che bruciava come in preda alla febbre,.

Sorridevo ancora quando, finalmente, girai la maniglia alle mie spalle con la mano libera.

 

Quando la porta dell’appartamento si spalancò verso l’interno, l’oscurità dell’appartamento ci inghiottì famelica.

 

Quasi più famelica di noi.

   

 

 

.-.-.-.-.-.

 

 

Oh, oh, oh. Della serie “chi non muore si rivede”!

Per chi se lo aspettava, per chi no.

Occhio: il capitolo non è CONCLUSIVO.

Non ancora. Purtroppo.

 

Vado di corsa, sono in punizione without PC per una settimana, editerò, nel caso, in futuro.

 Ma non abbastanza di corsa per dimenticarmi di dedicare questo chap a quella mente perversa  di LadyNotorius. Sei una maledetta schiavista, ma ti voglio bene.

 

Comunque sia…

Danke

Grazie

Gracias

Merci

A:

 

Ladynotorius

Laphy

kiki91

Lady Vibeke

_Princess_

simmyListing

NeraLuna

VivienneWest

 

Prometto solennemente di rieditare per lo meno i ringraziamenti. Figurarsi quando mi commenterete il chap!

   
 
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