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29 pagine di
capitolo.
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Occhio alla sottile linea rossa, caVe. Se l’ho messa è perché HOT
is better. XD
10. Falling in Love Wrong…
Mi concedi un posto nel
tuo cuore
Ma non nella tua vita.
Allora ti
avverto che là dentro
Farò un
tale casino
Che il cuore rivelatore di Poe
Sarà al confronto
Un cuore
silenzioso.
© Michele Mari
– Cento poesie d’amore a Lady Hawke
…
E fu un instante così eterno, che mi
chiesi se fosse mai possibile che ogni santa volta quegli
occhi troppo scuri, troppo caldi, al cui interno turbinavano emozioni così
difficili da interpretare da non essere interpretate affatto, mi dovessero
annientare così.
Ci sono sguardi complici, sguardi infuriati, maliziosi, indifferenti.
Ma quello non era uno sguardo.
Quello era un esame in piena regola.
Erano due specchi neri, dove la luce non sembrava
entrare. E l’unica cosa che potevo fare era sentirmi frugare fino in fondo
all’anima da due occhi che sembravano averne perso una.
Quello era il caos, e io dovevo riuscire a non dissolvermici dentro.
Era una sfida a mantenere gi occhi al suo stesso livello, mi sfidava
tacitamente ad obbiettare alla durezza con cui mi frugavano dentro.
E io, per l’ennesima volta in quei giorni, mi sentii priva di corrazza, della mia accogliente e graffiata corrazza fatta di bugie e lacrime.
Ero indifesa, ancora una volta.
Ancora per colpa sua.
Ancora, e ancora, e ancora.
Sarebbe dovuto essere sempre così?
Sempre costretta alla battaglia, sempre stanata dal proprio rifugio,
perennemente perseguitata ed eternamente oggetto di delusione?
Non ho chiesto io di nascere.
Non l’ho mai fatto.
Però sono pronta a dare battaglia, nel caso si oltrepassi di troppo la
linea di demarcazione.
E lui, Gustav, l’ha oltrepassata da un pezzo.
Chiusi gli occhi, respirando piano.
E sciolsi la stretta delle nostra mani con un
breve strattone, più che sufficiente data la poca forza con cui lui stringeva.
Cercai di ordinare al cuore di pompare meno sangue, ma non ci fu verso.
Come le vertigini che in un crescendo d’intensità accompagnano la caduta da
un punto in alto, troppo in alto per non farsi male cadendo, così la mia mano
stava per iniziare la tremare.
Serrai le labbra, contraendo i muscoli della mascella.
Per poi riaprire gli occhi, rilassare il viso in un’espressione vuota ed
indifferente, mentre la mia voce, atona, sembrò spandersi come olio nell’aria
rarefatta tra noi due.
-E tu che ci fai qui?
E mi sentii invincibile. Per un’eterno
secondo, ero io quella che, tra i due, ne stava uscendo vincitrice. Lo scrutavo
con occhi vuoti, privi di qualsiasi cosa che non fosse un desolante fastidio.
E noia.
Sono sempre stata geniale, con le maschere.
Ma quelle dell’indifferente, impermeabile ai graffi degli altri ed alle mie
stesse urla, quella maschera che aveva ceduto in pochissime occasioni, beh,
quella era il mio unico vero vanto ed orgoglio.
...
Ed è come se un fiammifero desse fuoco a una pozza di benzina.
Il suo gesto di scuotersi di dosso la mia mano, il mio sguardo, la mia
intera presenza, scrollando semplicemente le spalle e stringendo
stringendo le palpebre in un’espressione
diffidente, mi fa ammattire.
La vedo così chiaramente allontanarsi da me che a malapena posso
trattenermi dall’allungare una mano ed afferrarla di nuovo, per impedirle di
dileguarsi.
Si allontana da me di un passo, chiude la sua mente in un compatto
cofanetto blindato, cerca di mettere terra tra noi due.
Cerca ancora di buttare acqua su quello che io so che proviamo. Il solo
fatto di creare così poco scompiglio apparente nella sua “nuova vita” significa
che, forse, non ho mai smesso di farne veramente parte.
Se sei mesi non mi hanno annientato, se sei mesi non mi hanno pesato come
sei anni, se sei mesi non sono stati l’inferno in terra, allora io finirò
definitivamente annientato da quest’occhiata indifferente con cui mi
viviseziona, accompagnata da un cipiglio deciso, la bocca stretta in un’unica
linea sottile priva di colore le cui labbra si schiudono per un breve,
terrorizzante, attimo .
-Che ci fai tu qui?
Che ci fai tu
qui?
Ogni singola lettera è come lava nel sangue e fuoco sulla pelle: dolore
allo stato puro. Ho ancora un cuore, da
qualche parte?
Penso che me l’abbia appena strappato.
Abbasso la mano che l’ha stretta, sentendo come la pelle che l’ha sfiorata
piange perchè non ne sente più il calore. E anch’io,
dentro, vorrei piangere.
Piangere su quest’immagine di lei con i capelli assurdamente corti, abiti
troppo larghi e niente trucco per ingentilire il pallore cadaverico delle sue
labbra, della sua pelle.
Vorrei piangere sul fatto che siamo uno di fronte all’altra e la sento
lontana come non mai, vorrei piangere su ciò che sembra essere tipico dei
nostri incontri: il dolore.
Perchè sono stato buttato qui? Perchè sono ancora vivo, perchè
continuo ancora a sentire così distintamente come tutto, tutto, tra noi sia rabbia e vuoto e disperazione?
Chiudo gli occhi, cercando di trovare un patetico riparo nel mio buio
personale, l’unica cosa che sembra rimanere immutata in questo vortice di
tensione che è come palpabile tra di noi.
Chiudo gli occhi perchè i suoi occhi bruciano, ghiaccio
senza alcuna pietà premuto con forza sopra pelle dolorante e rossa.
-Come hai fatto a trovarmi?
Però il suo tono è freddo, inquisitorio. È soverchiante, passa come acido
tra le mie palpebre e le spalanca ancora una volta, solo perchè
io possa di nuovo vedere la sua figura mingherlina e la sua espressione
granitica.
-Trovarti?
Il mio tono è attonito.
Ripeto l’ultima parola, come chi non ha capito bene.
Perchè io non voglio capire.
Scuote la testa con un verso scocciato, incrociando le braccia.
-Come possiamo esserci rincontrati dopo che io sono venuta qua in America?
Come puoi aver saputo che io ero qua?
Sciolgo i pugni, sollevo le mani di fronte a me. Un gesto sia per fermarla,
sia per difendermi.
-Qua?
I suoi occhi azzurri, come lava gelida che scorre turbolenta, mi fulminano.
Di nuovo. Spalanca le braccia in un gesto scocciato, eppure così simile ad un
grottesco abbraccio. Abbraccia il nulla, il nulla dove vorrei trovarmi io
adesso.
-Gustav, smettila di ripetere come un
cretino!
Come una frustata nell’aria immobile, il suo tono colpisce duro, cattivo.
-Cosa. Ci. Fai. Qui?
Scandisce ogni parola con cura, la voce grossa, tutta la ragione dalla sua
parte. Secondo lei.
-Io seguirti?
Mi colpisco il petto con una mano, parlando piano.
Lei però sobbalza, come se le avessi urlato contro.
E cosa succederà quando lo farò?
Fuggirà via
come ha sempre fatto, forse. Perchè Dorcas fugge, non affronta, ferisce e lascia gli altri a
leccarsi le ferite, piange e non si fa consolare, piangendoti in faccia solo
per farti sentire peggio.
E come lacrime che puzzano di gas, come lacrime al vetriolo che cadono
sopra la nostra pelle, così il dolore si moltiplica per ogni momento di
silenzio, ed è stillicidio di dolore, agonia di quel poco che resta di me.
Alzo la voce. Mi avvicino di un passo.
-Io seguirti?
Lei indietreggia di un passo, pur non cambiando espressione. Guardinga,
sull’attenti, pronta a mordere se io scatto.
Spalanco le braccia in un gesto di rabbia, stirando l’angolo della bocca in
un sogghigno.
-Ti credi così importante?
Deglutisce vistosamente.
-Cosa fai allora qui?
Occhi al cielo da parte mia.
-E’ che non posso più guardare un concerto dei Metallica in santa pace?
-Non quando io sono il tecnico del suono, Gustav.
Ritrorno a cercare i suoi occhi, occhi che
devo fulminare, devo vedere spalancarsi in un’espressione terrorizzata. È
benzina quella che mi scorre nelle vene, adrenalina che mi pulsa nel cervello,
facendomi sfiorare il confine della pazzia. Ancora una volta, ancora per colpa
sua.
Lei mi farà
morire!
-Perchè dovrebbe fregarmene qualcosa, se tu
ci sei o no?
Sussulta, spalanca gli occhi, ma si ricompone.
Ma non mi basta, non è mai abbastanza.
Io conosco Dorcas, intuisco meglio degli altri cosa prova e cosa no. E adesso l’unica cosa che
ci separa è ciò che abbiamo lasciato in sospeso, ciò che non abbiamo affrontato
prima per paura di farci del male.
-Ti ho solo visto in tv, Dorcas. Su una cassa a
dare ordini, poi a scherzare con il tuo direttore d’orchestra. Perchè avrei dovuto preoccuparmi
del fatto che tu non saresti stata dietro il palco, mentre io andavo a prendere
una boccata d’aria?
Piega la testa su una spalla, continuando a scrutarmi sospettosa.
Ma tutto questo deve finire. Sono stanco, sono sfibrato dall’attesa,
logorato dai dubbi, e mi sono lasciato prendere troppe volte per il culo dalla
sua paura di affrontare il dolore. Ha la maschera più resistente che abbia mai
visto, ha un bagaglio di ricordi che non la lascia vivere.
Perchè lei non vuole realmente vivere. Lei ne ha paura!
-Allora mi sono sbagliata.
Gira la testa da un’altra parte, incrociando di nuovo le braccia.
In questo sei
bravissima, vero, Dorcas?
Gira la faccia
da un’altra parte! Lavatene le mani ancora, e ancora, e ancora!
Ma c’è ironia in tutto questo, no?
E allora stiro le labbra in un ghigno. E rido, rido con il dolore che mi
balla in petto, e lei a pochi metri, ma anni luce, da
me.
Dorcas si gira di scatto, osservandomi con
la coda dell’occhio.
-“Allora mi sono sbagliata”?
Scuoto la testa, disperato.
Mi passo la mano sul volto.
Sono stanco!
Stanco di tutto, stanco di stare impazzendo e soffrendo e...
-Su cosa, esattamente?
Chiedo io, improvvisamente serio.
Mi guarda negli occhi, adesso.
E cosa ci vedi nei miei occhi, Dorcas? O meglio,
cosa non ci vedi?
Tutto ciò che mi hai portato via? Il vuoto che hai creato dentro di me è
l’abisso più scuro con cui mi sia mai dovuto
confrontare, e non ne vedo il fondo, non lo vedo perchè
è un’abisso che ti contiene tutta e tu,
semplicemente, non hai fine.
Sei ciò che mi fa andare avanti, nel bene e nel male.
Nel bene e nel male.
Si stringe le spalle, ora.
Povera, povera
piccola...
Che qualcuno ti debba aiutare a togliere la maschera?
Stringo la bocca e i pugni, avanzo verso di lei fino ad rendere nullo il
poco spazio che ci separa.
-Su cosa, esattamente...?
Ripeto la frase più lentamente, scandendo tutte le parole e respirando la
sua stessa aria.
L’ossigeno si rarefà di colpo, la tensione si
taglia a fette.
E in tutto questo, lei.
Piccolo esserino infagottato in abiti troppo
larghi.
E i suoi occhi spalancati, in cui turbinano sentimenti in rapida
successione, tale da farmi venire il capogiro.
Eppure io sento che in lei c’è ancora qualcosa, lo sento, perchè è come se i suoi occhi, anche nella sofferenza,
brillassero più dei miei, provassero di più, potessero comunicare di più.
E io lo so cosa cosa può
essere, come può avere di più di me.
Cederle il
potere di fare di me quel che vuole non è forse cedere la propria anima a
qualcun’altro?
-Dorcas...
-Non lo so.
Rimango fermo là, di fronte a lei e alla sue
espressione combattuta, i suoi occhi che improvvisamente sono scattati dal mio
viso al pavimento ai miei piedi.
-Cosa non sai?
-Cosa credevo prima. Mi sono solo sbagliata. Su tutto.
La sua voce cede, cade, crolla di due ottave in sotto. S’incrina e si
spezza come vetro troppo fragile, eppure non è abbastanza.
Non sarà mai
abbastanza finche tutto questo non finirà.
-Suoi tuoi sospetti del perchè io fossi qui? Su di me, sui tuoi sentimenti, sul
fatto che per l’ennesima volte hai fatto la cazzata di
sparire?
Ad ogni domanda un sussulto, ad ogni sussulto nuovo dolore.
-Su cosa esattamente, Dorcas?
Si stringe ossessivamente tra le braccia, non mi guarda. Eppure la piega
della sua bocca esprime rabbia. È pronta a difendersi,
credo.
Di fatti si gira e mi squadra, occhi lucidi e
tremito di dolore all’angolo della bocca.
-Su cosa? Lo vuoi veramente sapere?
-Entro domattina, magari.
Prende un respiro più grosso, sempre continuando a frugare dentro di me,
mettendomi perennemente a soccquadro.
-Ho sbagliato ad essere ancora qui, a fuggire, a baciarti, ad interessarmi
a te, lavorare per i Tokio Hotel... a non morire
quando era tempo di farlo.
Forse non è stata la risposta migliore che potesse dare. Non a me, non in
queste condizioni, non adesso.
-No, Dorcas. Se vuoi pentirti fino in fondo devi
pentirti di essere nata, di essere umana, devi pentirti del fatto che Dio ci ha
fatto in grado di soffrire per le fottute nevrastenie di qualcun’altro,
nevrastenie che mi faranno impazzire, lo so.
La mia voce bassa sibila e colpisce come uno schiaffo a tradimento, ringhia
in contrapposizione alla sua voce flebile.
E vederla socchiudere gli occhi ancora una volta, stringersi più forte tra
le sue stesse braccia, rincantucciarsi in se stessa come un cane ferito dal cattivone di turno mi fa impazzire ancora una volta.
Si spera che sia l’ultima.
-Cazzo, Dorcas, SCUOTITI! Smettila di
comportarti come se tutto il mondo
ce l’avesse con TE!
Lei spalanca gli occhi come se l’avessi aggredita fisicamente.
Brucio dalla voglia di prenderla per le spalle e scuoterla, scuoterla finchè non la smetterà di comportarsi come se il mondo le
volesse male!
Come se lei non ce le avesse le palle per mangiarseli tutti a colazione!
-Tu non sai di cosa parli.
Scuote la testa, spalanca la braccia. E qualcosa
si accende dietro a quei due vuoti specchi azzurri.
Finalmente.
-Sì che lo so, Dorcas...
- non lo sai, smettila!
-E INVECE LO SO, PERCHÈ IN QUESTI SEI MESI NON È STATO ALTRO CHE L’INFERNO
IN TERRA PER ME, E MI SONO STANCATO DI SENTIRTI DIRE CHE NESSUNO TI PUÒ CAPIRE, DORCAS!
Smetto di gridare, ansimando perchè non ho più
fiato. L’ha bruciato l’incendio senza fiamme che sembra essere divampato qui,
nei pochi centimetri che ci separano.
Ma lei, come sempre, non riesce ad affrontare la mia vicinanza, non riesce
ad esplodere.
Quindi, cerca di spingermi via. Fa pressione con le sue manine sul mio
petto, cerca di spintonarmi via con una forza che non credevo avesse, i tratti
del viso contratti e fiato corto.
Ma non stavolta, non più.
Quindi le afferro i polsi, tenendoli fermi quando cerca di strapparli dalla
mia presa.
Ma io non la lascerò andare, basta.
Quindi strattono, facendo cessare ogni movimento da parte sua.
Movimento fisico, s’intende.
Il suo fiato brucia e gela la pelle, e gli occhi sprizzano scintille.
-E così mi credi solo una vittimista? Credi che io non sappia come vanno a
finire questa cose?
-Quali cose?
-...Dolore, angoscia, e illusioni, illusioni su
illusioni come una droga che costa poco!
-QUALI COSE?
Stringe gli occhi, contraendo la mascella.
-Quelle in cui tu ti ostini a credere, Gustav! Tu
t’illudi che ci sia futuro, che per me c’è una possibilità, ma io lo so, lo so
che non ci potrà mai essere perchè io ogni volta
rovinerò tutto...
-Non è vero!
Non tace, continua a parlare e quando capisce che cerco di zittirla,
solleva la voce fino a farmi entrare in testa ciò che lei sta dicendo.
-E’ vero, perchè io rovino sempre tutto, Gustav!
Solo troppo disillusa per credere in qualcosa come questo, non marcerebbe mai
come tu t’illudi che farebbe!
-NON È VERO!
Ma stavolta tocca a lei scuotermi.
-SAI L’UNICA COSA VERA, IN TUTTO QUESTO? È CHE INNAMORARMI DI TE È STATO SBAGLIATO!
E stavolta non si deve neanche agitare per liberarsi, perchè
sono io che la lascio andare. Perchè
un colpo in pieno stomaco, un colpo in pieno petto, non so se riuscirò ad
assorbirlo.
Ed è sangue, il sapore di quello che mi sento in bocca, è dolore quello che
mi esplode in petto.
Ogni singola fibra del mio corpo sta gridando, ma nulla sta gridando come
l’eco della voce di Dorcas nella mia testa. E mi
chiedo, attonito, come posso essere ancora vivo, ancora in piedi, dopo tutto questo.
Boccheggio.
Cosa si può dire, quando non ci si ricorda neppure come si fa a respirare?
È il rifiuto più nero quello
che mi sconquassa da dentro, quello che distrugge quel poco che rimaneva in me.
E sempre attonito, mi chiedo come faccia a essere ancora integro, come il mondo
non si accorga che sto vivendo, respirando, con un mostro in petto e il mio
cuore conservato in un barattolo pieno di formalina tra le braccia di Dorcas.
Dio, mi manca l’aria!
È troppo compatta per essere respirata, è pesante
come piombo, mi sta dilaniando i polmoni ad ogni nuova boccata.
Dio, Dio, Dio!
Perchè sono ancora vivo?
Lei abbassa gli occhi, le spalle cedono.
Ed è dolore, quello che le contrae i lineamenti.
E capisco che anche questa volta ha vinto lei. Che ha una maschera talmente
dura, talmente abbarbicata alla Dorcas che non viene
mai allo scoperto da essere disposta ad annientare chiunque cerchi di tirarla
in superficie. Eppure, se devo morire come sto facendo, non lo farò con questo
peso sulla coscienza.
Quindi sbatto gli occhi, come se mi stessi svegliando da un largo sogno. Un
eterno incubo. Prendo fiato e parlo.
Parlo.
-Tutto è sbagliato, allora. Mi sono sbagliato io, su tutto. Mi sono
sbagliato sul fatto che tu avessi le
palle per affrontare tutto ciò, come hai sempre affrontato tutto il resto.
Mi sono sbagliato a credere in te,
ancora una volta.
Tono basso, monocorde. E non voglio più vedere, per favore. Così, chiudo
gli occhi. E continuo questo mio sconclusionato discorso.
-Ho sbagliato a ridere di ogni tua
battuta, a tenderti la mano per salire dal palco, mi sono sbagliato a farmi
fasciare le dita da te, mi sono sbagliato ad osservarti una mattina e trovarti
così piccola e bella da farmi venire le vertigini. Mi sono sbagliato a
continuare a credere in ogni tua parola, ho sbagliato a baciarti ed a
illudermi, ho sbagliato a continuare a credere.
Solo, non voglio piangere. Solo, dopo questo io voglio solo morire.
Guardandola negli occhi. Quindi li riapro e cerco i suoi.
-Mi sono sbagliato a soffrire per te, a lottare per un “noi”. Ho sbagliato
e continuo a sbagliare, e un altro sbaglio è il fatto che io sia orgoglioso di tutto questo.
Come pozze di ghiaccio bollente, la tempesta di dolore che si avvicina
galoppando, così nei suoi occhi si può distinguere un intero universo.
-Ed è proprio sbagliato ripeterti, anche qua, anche adesso, che io ti amo.
E non m’importa se è sbagliato, non m’importa se tu dici che non si può.
La guardo dall’alto, l’osservo un’ultima volta.
-Non si può o
non vuoi che si possa?
...
Ed è sempre così.
E sarà sempre così.
Ogni dannata volta, Gustav, ritorneremo al punto di partenza, a quel nodo
che ci tiene indissolubilmente legati e che ci fa dannare, quella nostra catena
che ci strozza, che c’impedisce di viverci come dovremmo fare.
È quel dannato problema che non abbiano mai risolto, il problema che non ha
nome nè volto, che è fatto da tutto e da nulla. Perchè quel problema, semplicemente, siamo noi.
Ed ogni volta cadremo, e ci piangeremo addosso e c’illuderemo che l’abbiamo
superato, che ce l’abbiamo fatta, che quello è il nostro traguardo,
l’equilibrio definitivo.
E adesso che ho la gola in fiamme, i polmoni che risucchiano aria per mantermi viva, lo stomaco che sembra essere un tutt’uno
bollente con il mio cuore, mi ritrovo a guardarti così, senza parole.
E mi va bene così.
Riesco a capire solo vagamente cosa posso averti riversato addosso in
questi ultimi minuti, eternità brevissime che saranno una svolta da cui
ripartire per costruire tutto.
Era tempo di gridare, per me.
Era tempo di farmi scoppiare il cuore, di disotterrarlo
con la forza della disperazione, di tirarlo fuori e districarlo e strapparlo
dalle catene delle bugie che mi ero raccontata.
È stato doloroso, sai?
Così doloroso che ho dovuto gridare, e farmi del male, e raschiarmi la gola
e cercare un disperato motivo che ti facesse crollare.
Perchè io voglio ancora che tu crolli.
Io ci sanguino, a vedere le mie menzogne spazzate via. Percepisco
distintamente il livido che si sta formando dentro di me, le vene che si
rompono, i graffi che mi sono fatta nella speranza di trattenere ancora per un
po’ quelle illusioni nocive dentro di me. Anche se fanno male.
Ho i palmi segnati dalle mie stesse unghie, ho il fuoco del tuo sguardo che
m’impazza dentro, e lo sento covare nella cenere di qualcosa che ho creduto,
sperato, fino all’ultimo di essere io.
Crolla, ti prego.
Dimostrami di non essere così determinato, dimostrami di non essere così
deciso a salvarci.
Puoi salvarti, Gustav Schäfer?
Puoi salvarmi?
Puoi...
Manca il fiato, mi brucia la gola, lacrime agli occhi e i muscoli delle
labbra che fanno male.
E sento le mie spalle abbassarsi, rilassarsi contro il mio ordine, le mani
scendere, aprirsi doloranti e con difficoltà per i crampi di quanto le ho
strette. E abbasso gli occhi, ma li dovrei rialzare.
E dovrei asciugarmi quelle lacrime tradicitrici.
-Puoi salvarci?
Non so se l’ho sussurrato o gridato, ma la sua reazione è un sobbalzo.
La mia voce è irriconoscibile, rauca... trepidante, sottile, impaurita e
assurdamente speranzosa.
Non ci devo credere, non ci devo credere.
Per me non c’è futuro.
Perchè ti sento così assurdamente vicino?
Smettila di guardarmi così.
Mi perdo ancora, ancora una volta, nella forza del tuo sguardo, nel fatto
che cambia ogni giorno, ogni momento, ogni secondo. Hai occhi castani che sono
un pugno nello stomaco, e sono così assurdamente chiari, quasi trasparenti per
me, che mi stupisco anche che non siano realmente scritti, quei pensieri che vi
vedo vorticare dentro.
E le mie mani tornano a rialzarsi, solo per stringersi attorno alle mie
braccia, solo per cercare conforto in un gesto che fa capire quanto sia
fragile, in questo momento. Sono sull’orlo di un burrone, adesso.
E sul fondo ci sei tu.
E sull’orlo, dietro di me, impazza il fuoco.
Lo stesso fuoco che vedo riflesso in te.
Tutto è sbagliato, adesso.
Tutto sta andando a puttane.
È solo rabbia ciò che sono destinata ad incontrare?
È solo rabbia, ciò che vivo?
È solo rabbia ciò che suscito?
È solo rabbia?
Sono stanca.
Sono sfinita. Sfibrata, assetata, afflita, distrutta,
rattopata come una vecchia bambola di pezza troppo
usata.
Cos’altro volete da me?
Cosa cercate in Dorcas?
Sono solo un fottuto essere umano che non avrebbe mai
voluto nascere.
Mi sentite?
-Io non volevo tutto questo.
Perchè la mia bocca non sembra essere più in
grado di produrre saliva?
Strofino le mani sulle braccia, cercando un calore che so di non poter
trovare.
Schiocco la lingua, mentre sento i miei occhi infiammarsi, le sopracciglia
contrarsi.
E se mi guardo intorno, vedo solo macerie. Sono ancora al limite, al bordo,
a braccia aperte. E non ho più nulla da far sbattacchiare
dal vento, non gonne dei troppi strati, non capelli ricci nè
lacci di corsetti.
Non ho nulla.
Solo inchiostro, e tutto ciò che mi è sempre rimasto da ogni distruzione.
Continui a guardarmi così fissamente, e io so che tu stai vedendo ciò che
realmente sono. Sei lì, ad aspettarmi al varco.
“O me, o il fuoco”, sembri dire.
Illuso.
Non vedi come io sono già stata ustionata?
Sono la sposa dell’incendio, e mi sento viva solo
quando il mio cuore è un ammasso di cenere grigiastra.
-E non c’è più nulla da fare.
Quanto vale per te quella cenere?
E come un fiume in piena, come se non fossero semplici lacrime ma sale
liquido, come se tutto l’alcool del mondo mi stesse disinfettando ferite che
non sospetavo essere così profonde ed infette, sento
le guance ardere come lava.
Quanto vale per te quella cenere umida di lacrime?
E l’unica cosa che vorrei fare è nascondermi, e scomparire, e saltarlo sul
serio quell’orlo, ma per finire in un abisso nero che non sia rischiarato dalla
tua esistenza.
Voglio ritornare nel mio buco umido e solitario, senza che nessuno mi
ricordi quanto è bello il sole.
E chiudo gli occhi, sentendo l’ennesima coppia di lacrime gemelle scendere,
intridersi dello sporco della mia faccia e cadere a terra con un plic! umido.
E chiudo gli occhi, sentendo la tua presenza farsi vicina ed inquietante,
troppo presente, immediata, che esige risposte istantanee perchè
mi ha lasciato fin troppo tempo per pensare, un tempo che ho utilizzato male
preparando delle scuse piuttosto che delle certezze, delle affermazioni.
-Tu non puoi fare nulla.
Ed un singhiozzo mi sconquassa il petto senza che io gliene abbia dato il
permesso, e mi fa star male, e contrarre il cuore.
Era un tono così definitivo, certo.
Un giudizio inappellabile.
Se anche chi mi vuole salvare mi reputa inadatta alla salvazione, come
potrò mai...?
-Non se non me lo permetti.
E dal calore che mi ustiona il viso, posso capire che sei troppo vicino a
me perchè ti possa ricacciare indietro negli abissi
della mia coscienza per l’ennesima volta.
Non c’è più scampo, nè via di fuga.
La tua voce mi raspa dentro come carta vetrata, fa scintille contro i cocci
del mio scudo, rende polvere la vecchia vernice nera.
Ed improvvisamente, mi rendo conto che essere messi di fronte a se stessi è
una cosa terribile.
E vedo tutti i miei sbagli, tutte le mie vittorie, con la chiave con cui le
avrei sempre dovute giudicare.
Polvere alla polvere.
Mi sono intossicata di bugie finchè c’è stato
scampo, mi sono annullata quando ero agli sgoccioli. Tutto un enorme percorso
per arrivare a questo?
Perchè devo provare il dolore di capire che
ho le ginocchia sbucciate per le troppe volte che sono caduta e le pieghe delle
mani sporche di una terra che non va mai via per tutte le volte che mi sono
dovuta rialzare?
Sento i miei nervi sensibili al minimo spostamento d’aria, tutto il mio
corpo adesso sente, ipersensibile perchè esausto.
E mi manca la terra sotto i piedi, ed è ciò che si sta facendo spazio a
gomitate dentro di me, quello che mi sta facendo abbassare le spalle, ancora, e
riaprire gli occhi, appena una fessura.
-Ti prego, fammi capire che sei ancora viva.
Non sembra essere una battuta.
Non per quel tono basso, pentrante, vibrante.
Mi risuona dentro, come quando il tamburo non suona negli amplificatori, ma
nel tuo stomaco.
Mi sento le orecchie a pezzi, la fronte rossa, gli occhi bruciare.
Scuoto la testa in una maniera goffa, come se mi fossi dimenticata come ci
si fa a muoversi.
Sono gonfia.
Satura.
Una supernova che solo vuole esplodere, per lasciare il nulla dietro di sè.
Un singhiozzo. Un’altro.
E un altro ancora.
Ed è oscillare senza equilibrio per alcuni secondi, prima indietro, poi in
avanti.
Ed è trovare qualcosa di solido, di caldo, di pulsante, su cui appoggiarsi.
L’unica cosa che resta, per cadere con malagrazia e farla finita con uno
schianto rumoroso contro il fondo del burrone, è appoggiare la fronte, poi le
mani.
Aggrapparsi al tessuto di cotone ed esplodere.
Esplodere in mille scintille esauste, sentire le ultime piume di due alette
rachitiche cadere in terra con un fruscio smorto.
Capitoli, cedi.
Muori.
Lasciando il
nulla dietro di te.
Ma non sembra essere finita qua.
Io ho smesso di esistere, ma qualcosa batte ancora.
Posso sentire il suo respiro pronfondo. Un
respiro che trova un eco nel mio.
Ho trovato un appiglio, forse.
Ma non l’ho trovato io.
Non l’io che ero fino a poco fa.
Non l’io che hanno conosciuto in tanti.
Continuamo ad aderire l’uno all’altro. So
che se in questo momento mi scostassi, cadrebbe.
Cadremmo.
E sarebbe definitivo.
Ma non lo sarà.
Perchè non me l’aspettavo, ma quel nulla che
mi porto dentro da un’eterno
istante, ha una voce.
Una voce molto familiare.
Cristallina, limpida.
Quella limpidezza che non ricordavo avesse mai posseduto.
Lavato ciò che
è scampato all’incendio, cosa resta?
Il tuo fiume
d’inchiostro non è stato un caso. Il tuo fiume d’inchiostro è l’unica cosa che
abbia mai contato.
Mi senti?
Mi stai
sentendo?
Tutto ciò che
hai cercato di credere su te stessa, tutto ciò che eri, non lo sei in realtà mai
stata.
Tu sei nata con
un braccio destinato ad essere diverso dall’altro.
Tu sei nata per
avere inchiostro in svariate zone del tuo corpo.
Tu sei nata
prima come disegno, poi come persona.
Tu non sei
nulla che si possa spiegare a parole, tu sei tutto ciò che nessuno ha mai
potuto descrivere.
Nessuno è ciò
che dice di essere, tanto meno tu.
È come diamante puro, non più cristallo, lo scudo che sembra formarsi
attorno al mio neonato Io. È come acqua gelida che passa via senza lasciare
nulla se non me stessa.
Me stessa, e ciò che mi fa sentire viva.
E improvviamente capisco che quel nulla che mi è
rimasto dentro non è tanto soverchiante come io avevo
paura che fosse. Non è nero, è semplicemente incolore. Non è vuoto, è
semplicemente pieno.
Di nulla.
Le lacrime scompaiono alla stessa maniera di come sono venute: gli occhi
smettono di pizzicare, le scie si seccano con sorprendente rapidità. Riprendo a
respirare lentamente, ogni boccata d’aria come se fosse la prima.
E non ha bisogno di essere identificato con un’odore particolare, adesso.
Semplicemente, respiro lui. La sua stessa aria. L’odore caldo della sua
pelle.
E mi sento dannatamente bene.
Smetto di stringere la stoffa della sua maglietta, stendendo le palme delle
mani sul suo petto.
Forse è un ordine silenzioso, forse è semplicemente che non ha più bisogno
di parole per leggermi dentro.
Sento diventare bollente la pelle dei fianchi, sotto il suo tocco.
Lentamente, quasi volesse essere sicuro di ciò che sta realmente succedendo,
avvolge i fianchi prima con una mano, poi con l’altra.
E risale, lento come se avesse paura di vedermi scomparire da un momento
all’altro.
Il suo tocco via via più profondo mi strappa un
brivido inconsapevole, facendo scattare il mio viso all’insù.
I miei occhi prima si spalancano, per poi tornare a socchiudersi,
tranquilli.
Sento di stare affogando in quel castano alcolico, so di non essere più in
me, ma negli occhi di un’altra persona.
E mi vedo riflessa per la prima volta, come in uno specchio dai contorni
rotondi e dal cistallo venato in oro.
Ed è così strano, vedersi rinascere negli occhi di qualcun’altro.
Con un’ultimo sospiro,
tremante come se fosse il primo ed incerto passo verso qualcosa che so che sarà
diverso da tutto ciò che ho provato prima, chiudo gli occhi.
Senza strizzarli, senza fretta.
Senza paura.
A braccia aperte verso un destino che non comprendo, verso un futuro che
non mi va ancora d’immaginare.
Come un regalo di natale troppo aspettato, che non
si vuole ancora scartare.
Perchè i giochi di luce sulla carta sono
troppo affascinanti per voler porre fine all’attesa.
Ed è un come aria, come un tornado che mi prende e
mi porta via. Un terremoto che scuote tutto, un’onda di qualcosa così potente e
nascosto, che se fosse una manifestazione di un’entità reale mi girerebbe la
pelle come un guanto.
Come alcool puro sulle mie labbra, il sapore di lacrime ormai secche che
posso sentire nella sua bocca è diventato quasi mio, è quel fuoco che ho sempre
pregato che mi bruciasse.
Dapprima lento, come se ancora ci fossero scrupoli da parte di uno dei due,
l’unica cosa che riesco a distinguere è un calore bollente che quasi incendia i
miei piercing.
Parte da là, torturandoli con morsi delicati, eppure con un senso d’urgenza
dapprima trattenuto.
Allargo le dita sul suo petto, facendo risalire le mani, fino a fermarsi
alla base del collo. Lo ruota leggermente, ed il sapore del ferro e delle sue
labbra si fa più forte, quasi mi stordisce.
Pianto le unghie nella pelle, facendogli socchiudere le labbra per un
gemito soffocato.
Quindi con un movimento della mascella quasi sincronico, ci troviamo a
combaciare perfettamente l’uno nell’altra, ed una nuova vampata di calore mi fa
sentire a pochi passi dall’inferno.
Ogni suo muscolo guizzia sotto pelle come un filo
che si tende, quando una mano si poggia imperiosamente sulla mia schiena,
mentre l’altra continua scendere, giù, giù.
Come un liquido che mi sta dando alla testa, non posso che continuare a
cercare in lui quello che sembra manchi a me.
Ci baciamo con disperazione, come se fosse l’ultima volta, graffiandoci,
facendoci male perchè è troppa la foga con cui ci
stiamo baciando e perchè stiamo capendo cosa non
siamo mai riusciti ad imbastire a parole.
Il fiato manca, lo respiriamo uno dalla bocca dell’altro, e quando c’è, è
gelato in confronto alle ustioni che ci stiamo procurando. È droga, è la droga
da cui sono in crisi d’astinenza dal primo giorno che l’ho visto, è l’ossatura
di ciò che mi manterrà in piedi fino a quando sarà possibile.
E l’unica cosa che serve sapere è se la sua pelle è veramente calda come
attraverso la stoffa della maglietta, e altrettanto liscia.
E mentre le sue dita risalgono il solco della mia schiena con una lentezza
esasperante, io mi aggrappo al suo collo e mi rassegno, mi rassegno al fatto
che il nulla che porto dentro è il tutto a cui non ho mai dato ascolto.
.-.-.-.-
È il sapore di limone che ho sempre immaginato che le sue labbra avessero.
È sempre la stessa consistenza morbida e cedevole che ho baciato troppo tempo
fa.
Come il gatto che è, le sue dita sottili tra i miei capelli ed aggrappate
al mio collo, come cera morbida tra le mie dita, la sento riflettere tutto me
stesso con la forza di uno specchio.
E non mi basta, non mi basta sentire la stoffa della sua maglietta troppo
larga sotto le mie dita, nè il ferro dei suoi
piercing sotto le mie labbra.
Con vera fame, perchè lei è l’unica cosa che
sembra non bruciare tra le fiamme che mi porto dietro, concludo il bacio con
tocco della lingua, per poi sfiorare la pelle, sentirla morbida sotto le mie
labbra, e calda, calda come se il calore potesse essere olio che mi ustiona
tutto, dalla bocca al petto. La mano solleva il bordo della maglietta,
esplorando con cauta circospezione il bordo dei jans, le borchie delle tasche, gli anelli della cintura.
E passare le dita, e poi il palmo, e poi la mano sulla sua pelle setosa
cercando di prenderne il più possibile, cercando di trovare la sazietà per
questa maledettissima fame di lei che mi ha fatto impazzire per troppo tempo
nel buio della solitudine.
Ed è uno scemare lento, una pace che
viene con il fatto che ormai siamo rassicurati dal fatto che non spariremo dopo
tutto ciò, e che neppure ci importerebbe troppo, se
sparissimo insieme.
Tra le braccia stringo qualcosa d’incredibilmente piccolo, goffo, umido di
lacrime ormai secche.
Ed è come se mi avessero aperto il petto ed allargato i polmoni, respiro di
più, respiro più a fondo, più di quanto abbia mai respirato in vita mia.
Muove le mani sottili con la delicatezza di farfalle timide, respira contro
il mio petto come se lo avesse fatto da sempre, com’è giusto che sia, com’è
ingiusto che non sia stato prima.
Mi scoppia il cuore come faceva solo quando lei non c’era, eppure adesso
non è più saturo di disperazione.
Perchè di quell’ombra che sempre ci ha
tenuto lontani, che fosse nei miei o nei suoi occhi, sembra essere sparita via.
E l’unica cosa che vale la pena dire è che è giusto così, che niente poteva andare diversamente, che se non ci avesse preceduto
il dolore, questo sarebbe stato solo un sentimento scontato.
La sua voce è talmente sottile e soffocata dal mio abbraccio, che la prima
volta quasi non la sento.
-Cosa?
Ho la gola secca e le labbra gonfie, che pulsano come se il cuore si fosse
messo a pompare direttamente da là.
La sua mano si muove leggermente, spostandosi sul mio petto.
-Ti amo.
Un pugno che arriva attutito dalla profondità del pozzo che sono i suoi
occhi.
Era previsto, sì, forse in un futuro incerto ed evanescente che non ci
azzardavamo di sognare.
Perchè non ho mai avevo il coraggio di
credere che da qualche parte, ancora, un “noi” ci avesse atteso con pazienza,
tranquillo e senza fretta perchè a conoscenza di cose
che neppure noi sapevamo.
E la tranquillità con cui sorride, la tranquillità con cui lo dice, ma
fanno quasi vacillare.
Perchè il modo in cui lo dice è qualcosa che
sembra provenire da un’altro mondo. Un mondo in cui
lei sembra essere finalmente padrona di se stessa, e non schiava della sua
disperazione.
E mi ritrovo a rispondere al suo sorriso, come se non avessi altro scopo
nella vita.
E non sono piu sicuro di avere altri scopi a
parte questo, adesso.
Nascondo il viso nell’incavo del suo collo, limitandomi a respirare quel
nero leggero, quel lieve odore di folla e borotalco, quella sensazione di pace
e stanchezza diffusa.
Pur continuando a sentire qualcosa rigirarsi nel profondo, pur avvertendo
una vaga sensazione d’adrenali repressa, non voglio
comunque muovermi.
Ho affrontato ciò che dovevo, ho fatto una salita trascinandomi sulle mie
stesse mani, e adesso non ho ancora voglia di ritrovarmi faccia a faccia con
ciò che implica essere sulla vetta.
Voglio godermi ogni momento di pace che ancora ci è concessa, perchè so fin troppo bene che tutto questo è così bello perchè dure in eterno.
Mi accarezza la schiena con un movimento lento, circolare. Attraverso il
cotone della maglietta, posso sentire il calore dei suoi palmi, e posso
percepirlo talmente ditintamente, quasi da vederlo,
quando passa sulle spalle, accarezzando un paio di ali inivisibili
ad occhio nudo.
-Non c’è bisogno di stringere così forte, Gustav. Non scappo mica.
Sento le sue labbra sorridere contro la mia guancia, il fiato leggero che
mi solletica il collo.
Scandisce con calma ogni parola, con quella tranquillità tipica di chi è
arrivato al limite e l’ha superato.
E non ha più bisogno di correre.
Allento leggermente la stretta, pur senza togliere le mani dalla sua vita.
Allontano il mio viso dal suo quel tanto a non poterle più contare le
pieghe delle labbra, da non distinguere null’altro in quegli occhi se non blu,
blu cobalto, blu cupo.
Soffio sul suo viso, facendo ondeggiare un ciuffo particolarmente lungo dei
suoi capelli bianchi.
Quasi distrattamente, vi passo la mano.
È buffo distinguere nettamente l’ovale del viso, la curva della nuca, non
più nascosti dalla capigliatura rasta.
Mi sembra di sfiorare un tipo particolarmente setoso di cotone, mentre i
suoi ricci arruffati scivolano tra le mie dita.
-Erano antigenici per l’operazione, se proprio te lo stai chiedendo.
Sorrido a labbra chiuse, cercando i suoi occhi ed il suo sorriso obliquo
che, ovviamente, non mancherà.
Ed accoli, eccoli comparire e schiudersi su quel
viso adesso reso troppo fragile per l’assenza dei mille ricci e boccoli.
-Gustav, dimmi che sai ancora parlare.
Ridacchio, riuscendo a schiarire la gola con difficoltà.
E poi, rauca e spezzata, riesce finalmente a farsi sentire.
-A fatica, però.
Il sorriso si allarga ancora di più accompagnato da un lampo ironico negli
occhi.
-Sono così tossica?
Appoggio la fronte contro la sua, dato che una ondata
di stanchezza mi ha appena fatto tremare leggermente le gambe.
-Peggio, se proprio lo vuoi sapere.
Chiudo gli occhi, rilassato.
-Sei tutta la droga che non ho mai preso in vita mia. Sei un concentrato
alto un metro e uno sputo di puri casini mentali per il quale mi sono
lievemente roso il fegato.
Riapro gli occhi, ironico.
-Giusto per utilizzare un indiretta.
Un’indiretta che cade nel vuoto, nel silenzio più assoluto. Perchè come un’esimio
cretino, un folle, pazzoide innamorato, non posso che farmi incantare dal
sorrisino che le distende le labbra.
E vorrei continuare a parlare, ma il respiro tende a mozzarsi, in queste
situazioni. L’aria diventa troppo satura di emozione per essere respirata in
tutta tranquillità, e dall’aria sembr colare un
liquido insivibile certo, trasparente ed incolore, ma
dal vago sentore speziato, un liquido che ti prende alla bocca dello stomaco e
t’infuoca, voluttuoso e sibillino.
Socchiudo gli occhi, mentre dal petto parte una vampa di strane fiamme
piacevoli e calde, talmente pericolose, eccitanti, da farmi schiudere le labbra
per cercare più aria, per prendere più fiato, cercando di calmare quel battito
di troppo e di tenere a bada quella struggente sensazione che t’invoglia a
volerne di più.
E tutto che si concentra in quegli occhi, occhi grandi, leggermente a
mandorla, ciglia lunghe scure e un vortice di desideri cifrati in una lingua che
mi suona vagamente familiare, turbina dietro a due spicchi di cielo cupo. Come
acqua che fredda e dolorosa scorre sulla pelle, il suo sguardo non sembra
schiodarsi dal mio viso, mentre le mani riposano sulle
miei spalle, bruciando quasi la pelle.
Allora, tirando un grosso respiro, non posso che chiudere i miei, di occhi,
e abbandonarmi al contatto tra le nostre due fronti.
-Cosa c’è?
Le sue dita scorrono tra i miei capelli, gesto innocente che mi fa venire
la pelle d’oca.
Domanda dalla risposta troppo complicata, a cui rispondo con un verso di
una poesia che ho letto non so dove e non so quando, chissà di chi.
-E i tuoi occhi sono lo scintillare azzurro dei fanali che abbagliano il
guidatore prima di un frontale.
Fame.
Fame che non cessa, fame che non trova sazietà, fame che mi costringe a
cercare la pelle sotto le mie labbra, in una scia di baci voluttuosi che a me mi stanno portanto al punto di non
ritorno, mentre lei affonda il viso nell’incavo del mio collo.
-Du wirst für mich immer heilig sein...
Soffoca un’imprecazione contro la mia pelle, prima di afferrare il
cellulare e portarselo all’orecchio, con espressione scazzata già prontamente
stampata in faccia.
-Hallo?
-Dorcas, hai dieci minuti prima che i Metallica
salgano sul palco. Si può sapere dove cazzo sei?
-Scheisse.
-Grazie ma no, preferisco andora essere chiamato
solo Volkan.
-Ok, dammi tre minuti.
Chiude lo sportellino del cellulare senza schiodarmi occhi di dosso, forse perchè le mie mani non si rassegnano ancora a staccarsi dai
suoi fianchi. Che discole.
Inclina la testa da un lato, mentre la sua mano passa ancora una volta tra
i miei capelli.
-Dovrei andare.
Scorre lenta sulla tempia, per arrivare allo zigomo. E al cerotto.
-Non puoi certo mancare al concerto del secolo, Boss.
Biascico io a fatica, gola più rauca del normale e un sentimento che pulsa
dappertutto, anche in zone non desiderabili.
-No, non posso.
Sussurra lei, scuotendo la testa e staccandosi dolcemente da me.
-Però tu sai che non è ancora finita.
Rialzo gli occhi dalle sue mani per cercare di nuovo il suo sguardo. Uno
guardo che sembra brillare di vita propria, tanto è ilare. Un’ilarità che
contrasta in maniera stridente con gli occhi rossi e le scie di lacrime sulle
sue guance.
Ed adesso tocca a me sorridere, alzando le mani in segno di resa.
Ok, mi arrendo. C’è fin troppo da chiarire, ancora, per poter dire che ce
l’abbiamo fatta. Non che importi granchè, ma è come
un’icognita che, fastidiosa, pungola il silenzio
pacifico che si è venuto a stabilire tra di noi.
-Non è neppure cominciata, Dorcas.
-Ah, il gusto dell’incognita.
E con in sottofondo il suo cellulare che torna a
squillare ed una mia risata stanca, si gira ed inizia a correre, senza guardare
indietro.
Perchè Dorcas non
si volta mai indietro.
.-.-.-.-
Gente. C’è fin troppa gente in questo stramaledettissimo ingresso
secondario. Urla di tecnici, spintoni di fans e
ruggiti bassi da parti di quegli armadi quattro stagioni della security
americana che, osservando bene, sono più tatuati e borchiati della stragrande
maggioranza dei metallari che si affanano a sfondare
il cordone di sicurezza. Qui sono tutti pazzi. Me compreso.
-Gustav, tu non stai bene!
La mano di Bill mi trattiene a stento dal buttarmi in mezzo alla mischia
per cercare di passare. E non per certo
per vedere i Metallica.
Dove cacchio
stai, Dorcas?
-Gustav, smettila di smaniare! Si può sapere
che hai?
La mano di Tom si posa prepotentemente sulla mia spalla, cercando di
trascinarmi lontano. Ma io mi libero con una scrollata di spalle, degnandolo a
malapena di una risposta.
-Sto aspettando una persona.
-Sì, ok, ma chi?
Georg, più furbo degli altri due, m’interroga con tono soave e trattiene
Bill dal placcarmi un’altra volta.
Dov’è, dov’è, dov’è?
Purtroppo per lui però, io non lo degno di risposta. Ho il cervello in subbuglio,
tanta di quella adrenlina in circolo da sembrare un eroinomane
in crisi d’astinenza ed il cuore che batte i centottanta al secondo.
-Gustav
Klaus Wolfgang Schäfer! Vuoi stare fermo un
dannatissimo minuto?!
Come risvegliandomi da un sogno, o da un’incubo
a seconda dei punti di vista, mi giro di scatto verso Tobi
che, al limite della sua proverbiale, e pressocchè
eterna, pazienza ha sovrastato per un momento tutto quel casino di voci che mi
sta portando sul limite di una crisi isterica.
Non ti basta la camera, Schäfer?
E, come una botta dietro la nuca, la stanchezza di un concerto di quattro
ore mi crolla sulle spalle, stordendomi di colpo. Adesso non sono più così
sicuro da poter reggere l’intera situazione con solo la mia forza di volontà.
Sono dannatamente stanco.
-Sì, certo.
E ho ancora la voce dannatamente rauca da prima. Sembra che butti giù
granita di vetro ogni volta che deglutisco, maledizione.
-Ehi, siamo tutti stanchi qui. Diamoci un momento di pausa, che ne dite?
È Christa a parlare, adesso. Solleva le mani,
fermando con la sola forza del suo sangue freddo ed un’occhiata assassina
qualsiasi protesta. Ed così che Bill richiude la bocca di scatto, preferendo
incrociare le braccia, mentre Tom si accovaccioa sui
talloni con un sospiro. Georg si stropiccia gli occhi con un verso stanco, Tobi lancia occhiate minacciose a chiunque ci fissi con
troppa insistenza. E Christa mi squadra incuriosita.
-No, non è permesso a nessuno dei non
adetti ai lavori accedere al backstage! Gli artisti
sono distrutti, e la signinsession è prevista per
domani e non verrà anticipata in nessun modo ad oggi!
Il gracchiare di un megafono ci riscuote a tutti quanti, facendoci voltare
di scatto. Un tizio dello staff vestito interamente di nero, con pass rosso
appuntato al petto, si sbraccia verso la fossa.
La cosa assurda è che è praticamente arrampicato sul cancello.
Ma non è l’unico.
Dorcas, quando s’incorporò allo staff dei Tokio Hotel, venne presto soprannominata Cita. Ma non perchè
avesse un’aspetto scimmiesco,
piuttosto perchè era l’unica capace d’arrampicarsi
sulle impalcature del palco con l’agilità di un’atleta. Anche se poi toccava al
medico fasciarle più strettamente le bende elastiche che stringevano il polso
sinistro.
Ma, in questo preciso istante, sembra tutto meno che impedita dal polso.
Sotto lo sguardo stupito di quel centinaio di fans
sfegatti che cercano passare contro tutto e tutti, lei scavalca la cancellata aguzza, si lascia
dondola un po’ e si butta dall’altro lato.
E io mi ritrovo a sorridere. Perchè Dorcas è una dannatissima esibizionista. Un difetto che allunga
la lista comprendente cinica, caustica, testarda, pesante e, soprattutto,
adorabile.
La gente è piena di difetti, che volete farci?
Scambia alcune parole con l’uomo, parole inudibili visto
il casino che sembra essersi moltiplicato dopo lo spettacolo offerto da Dorcas, adesso invisibile tra la folla.
Sto per lanciarmi alla sua ricerca, quando la mano di Tobi,
decisamente più corpulenta di quella gracilina di Bill, m’impedisce di muovermi.
Mi giro per cercare di liberarmi, cercando di non ridere delle espressioni
stupefatte dei ragazzi.
-Cosa?
Il biascicare di Tom da voce a la domanda
inespressa di tutti quanti.
-E’ Dorcas!
Esclama Bill, portandosi immediatamente le mani alla bocca e guardandomi,
in panico.
-Oh. Mio. Dio.
Scandisce Christa. Il suo imperturbabile aplomb
si è perturbato, a quanto pare.
-Oh, beh. Chi non muore si rivede.
Ridacchia Georg, un mezzo sorriso a distendergli le labbra.
Li guardo uno per uno, la stretta di Tobi che si allenta sulla mia spalla secondo dopo secondo.
Adesso sembra toccare a lui dire qualcosa, per uno strano gioco di parti.
-Scricciolo.
Mormora, pacato come sempre.
Ed in risposta, con un tono a metà tra lo scocciato ed il sommamente divertito,
la voce di Dorcas.
Che mancava un po’ a tutti, sorriso obliquo
compreso.
-Sempre a ricordarmi la mia miserabile altezza, Tobi?
E mi sembra quasi di sentire il clack sottomesso di un pezzo di mosaico che torna finalmente
al suo posto.
.-.-.-.-.
-Probabilmente ho fatto venire un’infarto
alla Diva.
-Per adesso lo hai solo fatto venire a me.
-Così tanto?
Il suo sguardo blu cobalto mi squadra, il sopracciglio inarcato in
un’espressione sospettosa.
Le restituisco l’occhiata, sorpreso della sua stessa domanda.
-Il fatto che mi dimentico di respirare
un momento sì e l’altro pure non ti sembra abbastanza?
Lei affonda di più mani nelle tasche della felpa oversize,
arrossendo imbarazzata.
Dorcas che arrossisce?
-Ecco, io... non mi sembrava di avere così tanto ascendente su di te.
Camminiamo affiancati sul marciapiede che costeggia l’enorme spiaggia di
Santa Monica, quasi totalmente sommersa per l’alta marea. Una brezza fredda che
ci sommerge al ritmto dei cavalloni che s’infrangono
sulla sabbia, si diverte a giocare con i capelli di Dorcas,
scompigliandoglieli.
-E da cosa “non ti sembrava di evere tanto
ascendente” su di me?
Si schiarisce la gola, eppure rimane in silenzio. Il suo viso oscilla tra
oscurità e luce, mentre la sucessione pressocchè infinita di lampioni ci avvolge nella loro luce
di un giallo malaticcio, prima di lasciarci alla mercè
degli intervalli bui che si alternano con cadenza regolare ai coni di luce. Le
luci e le ombre cambiano ad ogni passo sul suo viso, che non sembra decidersi
del tutto su che espressione adottare.
-Io...
Sussurra, lo sguardo perso nell’intrico
geometrico delle mattonelle del marciapiede.
-Tu?
Chiedo io, più attento a come le sue labbra si stirino in un’espressione
tesa, per poi essere mordicchiate dal suo impietoso imbarazzo.
È in difficoltà, al momento.
E le sue labbra si fanno più rosse ogni momento che passa.
La palle pallida che diventa viola
vicino agli occhi, segno che è da tempo che non dorme in una maniera decente.
Lentiggini chiarissime che si fanno più fitte sul naso.
L’acciaio dei piercing che brilla di mille riflessi duri sulle labbra.
Forse non è giusto perdermi così tanto nell’osservare ogni suo movimento.
Forse dovrei prestare più attenzione ad ogni parola non detta che si stampa a
caratteri sul fuoco sul fondo dei suoi occhi fin troppo profondi. Forse dovrei
tagliare con un coltello il suo spesso imbarazzo e dare voce a quel sentimento
di disagio, sottile eppure presente, che serpeggia nel profondo dei miei
pensieri, che si attorciglia sul ricordo di quella parole
scambiate da Dorcas e quell’uomo dello staff, che si
fanno quasi più vive e dolorose al ricordare l’espressione di dubbio e profonda
confusione che era passata, veloce come un soffio, sul viso di Dorcas.
Dovrei smettere di fantasticare su cosa copre il tessuto della felpa quando
mille pieghe si formano sulle spalle e sui fianchi, mentre spianandosi invece
sul petto. Forse non è giusto mettere a tacere il proprio raziocinio con un
ringhiare sordo, perché troppo impegnato ad osservare come i jeans aderiscano
perfettamente alle sue gambe snelle, come mai potrebbero fare le gonne millestrati che è solita mettersi.
Era inquietante come stessi ignorando la mia coscienza ed il suo allarme
nel capire che Dorcas in realtà aveva compreso ben
poco dei sei mesi che avevo passato al limite tra disperazione e follia senza
di lei.
Perchè con quell’espressione imbarazzata che
le faceva mordere le labbra ed arrossire in quella maniera così suggerente,
avrei potuto dimenticarmi anche della fine del mondo.
Eppure non trovavo il coraggio di toccarla, fermarla, guardarla spalancare
gli occhi mentre mi avvicinavo, richiuderli poi mentre sentivo finalmente il
freddo dei suoi piercing stridere con quel calore che mi bruciava le labbra
ogni volta che mi avvicinavo a lei, non prima però di aver colto un lampo di
puro languore che stuzzicava le mie fantasie più recondite.
Non sembrava essere mai il momento giusto, nè
prima nè adesso, per colmare una distanza che andava
aldilà del fisico, del tangibile.
-Io non lo so. Ci sono tante cose che non so, Gustav, e questa è solo una
tra le tante.
Bofonchiò lei, incrociando le braccia e scuotendo la testa, come per
arrendersi.
Eh, Magari.
.-.-.-
Imbarazzo. Un dannatissimo imbarazzo come mai prima d’allora mi stava
incendiando le guance ogni tre per due, attirandosi gli sguardi imperscrutabili
di Mister Aplomb.
Tutti parlano del sangue freddo britannico, ma anche Gustav Schäfer, che pure britannico non è, si sta dimostrando un ottimo
elemento. Dobbiamo forse iniziare a parlare di puro sangue freddo teutonico?
-Come sarebbe a dire, tante cose che non sai?
Volgendo gli occhi in gloria per un breve istante, arrossisco ancora di
più.
Dio, starò scottando.
Mi volto verso di lui, pronta a fargli una seria ramanzina su questa sua
fastidiosa abitudine di ripetere l’ultimo moncone di frase che mi tocca biscicare a fatica per calmare queste sue curiosità da
inquisitore.
Ma quando lo vedo fissarmi con la coda dell’occhio, uno sguardo
imperscrutabile come padrone assoluto, tutte le frasi che avevo abilmente
intrecciato dentro la mia testolina per far sì che filassero in un’acussa degna di tutto rispetto, si sfilacciano in mille
parole senza senso.
E mi ritrovo di nuovo ad annegare nell’ambra, nel maledettissimo castano
chiaro di quegli occhi che, senza previo avviso, diventano lo specchio della
sua anima. Un’anima che non riesco più a comprendere come prima, di cui non
riesco a capire il dolore.
Perchè se io in questi sei mesi sembro aver
staccato la spina ed aver dimenticato come si pensa, lui sembra ricordarsi
perfettamente cosa sia stato il nostro addio e, soprattutto cosa sia successo
dopo.
“E invece lo
so.”
Cosa sai, Gustav?
“Perchè in questi sei mesi non sono stati altro che l’inferno
in terra, per me.”
Un’inferno di cui io non so nulla, e di cui ho quasi paura
di sapere
“E mi sono stancato di sentirti dire che
nessuno ti può capire, Dorcas.”
Echi nella mia testa, come un disco graffiato che continua a ripetere la
stessa canzone.
“Nessuno ti può
capire.”
Era vero? Avevo arrancato da sola nell’indifferenza di chiunque la
circondasse? Avevo ricevuto abbracci e sorrisi per sanare un dolore di cui
nessuno voleva seriamente farsi carico?
“Nessuno ti può
capire.”
È così claustrofobica la consapevolezza del fatto che anche lui è stato
solo, completamente da solo, di fronte a tutto il dolore che vedo serpeggiare
di tanto in tanto dietro quegli occhi stanchi.
“Nessuno ti può
capire.”
A parte te,
forse.
Forse perchè....
Perchè?
Ha sofferto
tanto quanto te.
Oh.
O forse di più.
Di più?
Ma ciò che più è assurdo, è come tutto questo, adesso come adesso, non
conti.
C’è qualcosa che, acquattato nell’ombra, attende solo il momento propizio
per creare più danno possibile. Sento come si rafforza ai confini della mia coscenza, come si faccia via via
più preoccupante ogni parola che io mi ostino a non
dire.
Distolgo a fatica lo sguardo dal suo, solo per osservare come,
inesorabilmente, la sagoma del complesso dove vivo si sia fatto ormai
imponente.
Siamo a casa mia.
Ed è in quel momento che, al posto di venire assalita da dubbi e
ripensamenti, vengo quasi stordita da uno strano senso di pace.
E capisco, con una calma che non mi appartiene, che entrambi siamo troppo
stanchi di qualsiasi cosa che ci riguardi, per continuare il discorso lasciato
a metà.
Non è tempo di parlare, non adesso.
Non stanotte.
Mi giro verso di lui, trovandolo a contemplare con il sopracciglio inarcato
la facciata del complesso.
A cosa starà pensando quella tua testolina sovraccarica, Gustav?
Cerco il mazzo di chiavi disperso in uno dei mille tasconi
della felpa, e, quando l’ho trovato, lo faccio tintinnare tra le mie mani più
di quanto sia necessario.
Cosa può significare, adesso, l’allegro suono metallico di più chiavi che
tintinnano al scontarsi fra di loro?
-Non hai risposto alla mia domanda.
Saliamo le scale che portano al terzo piano in un silenzio interrotto solo
dallo scalpiccio dei nostri passi.
-Forse perchè non ho risposte,
Gustav. O forse perchè la domanda, e di conseguenza
la risposta, è troppo complessa da risolvere in così poco tempo.
Mormoro io, voltandomi e continuando a camminare all’indietro tastando le
pareti del corridoio, certa di non cadere perchè
conosco il pianerottolo come le mie tasche.
Così posso osservare la sua espressione dubbiosa, il suo avvicinarsi a
passi cadenzati e decisi verso di me.
Mi mordo le labbra un’ultima volta prima di girarmi in direzione della
porta ed infilare le chiavi nella serratura, che scatta con un clack sommesso.
Eppure non apro la porta, stupita come sono da un’ombra che improvvisamente
oscura la luce del corridoio.
Ombra che scopro essere lo stesso corpo di Gustav, che si puntella poggiando
le mani ai due lati del mio viso.
E non posso certo dire di essere sorpresa.
Piuttosto, quando mi giro verso di lui, perferisco
sorridere leggermente.
E lasciar parlare la stessa tensione che aleggia tra di noi.
-O la domanda è troppo complessa, o tu sei troppo pigra per darle una
risposta.
Inarco un sopracciglio, dubbiosa, appoggiandomi alla
porta.
-Hai veramente così tanta voglia di parlare?
Piego la testa di lato, osservandolo con espressione interrogativa. Non
prima di aver calcato la mano su quel “parlare”, caricandolo di tutti i
significati che possono suscitare un sussuro a mezzavoce e la consapevolezza di essere ad una distanza fin
troppo ravvicinata da poter essere ignorata.
Lui distoglie lo sguardo, facendosi sfuggire un
sospiro stanco.
Decido di farlo capitolare.
-Come ti sei fatto quelle cicatrici sul viso, Gustav?
Lui spalanca gli occhi, sorpreso. Boccheggia, senza trovare risposta.
Apre la bocca senza riuscire a proferire parola, per poi richiuderla,
mentre un lampo di dolore passa per un momento nei suoi occhi.
Annuisco lentamente, staccandomi dalla porta.
-Forse non è il momento adatto, non trovi?
Gli accarezzo delicatamente la guancia, sentendo sotto le dita l’asperità
della cicatrice sullo zigomo. Traccio il contorno del suo viso con entrambe le
mani, seguendo la linea della mascella, il naso, cercando di non dimenticare
l’effetto inebriante della sua pelle incredibilmente morbida sotto le mie dita.
Lo accarezzo lentamente, come si fa con un bambino o un disperato, fino a
fargli chiudere gli occhi e rilassare la piega dura della sua bocca.
Solo allora il mio indice si avventura a sfiorarne le labbra, leggermente
screpolate, sottili e rosse, rosse di un rosso così invitante da farmi perdere
quasi la concezione della realtà. Cosa c’è che importi più di lui, adesso?
Mi alzo sulla punta dei piedi, facendo leva sulle sue spalle che, gonfie e tese, sono ancora impegnate nello sfrorzo di puntellarsi contro la parete.
-Forse è il momento di smettere di pensare per un po’, Gustav.
Mi aggrappo più forte a lui, perchè il mondo
sembra aver iniziato a turbinare intorno ai suoi occhi, adesso che li ha spalancati,
carichi di qualcosa che potrebbe essere la mia fine.
Un qualcosa che, bollente, surriscalda ogni singolo centimetro della mia
pelle.
-Solo per un po’.
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Trovo la forza di sussurrare tra le sue labbra, improvvisamente possessive,
mentre il buio, avvolgente e carico di promesse sussurrate da occhiate
indiscrete e voglie malcelate, mi esplode dentro, risucchiando qualsiasi cosa
che non sia lui e la consapevolezza che sue le mani che si sono poggiate sulla
vita, provocandomi un altro giramento.
Ed è l’eco di un desiderio soffocato per tanto, troppo tempo, che si era
beato di ogni suo gesto ed aveva risposto con ogni tipo di fantasia, quello che
m’induce a lasciar perdere le sue spalle, coperte da fastidiosissimo cotone, e
a scendere, scendere passando per il petto, lo stomaco, la vita , fino ad afferrare i lembi della maglietta e scivolare al
di sotto di essa.
Beandomi nel sentire ogni guizzo di quei muscoli in tensione, lo feci
dannare ogni singolo secondo in cui mi dedicai ad accarezzare la sua pelle,
avida, dannatamente avida di ogni singola sensazione che serpeggiava dalle mie
dita fino ad esplodere nella mia testa.
Gemetti quando, dalle mie labbra, passò alla pelle del collo. Dimostrandomi
che no, non era affatto il santo che si diceva che fosse.
Mille sensazioni che affondavano le loro radici in qualcosa che non era un
semplice desiderio, ma, come stavo scoprendo, sembrava piuttosto un territorio
sconosciuto, in cui ogni gesto assumeva più significati di quanti potesse
averne nel solo campo del sesso.
Ed io ero avida ogni singola parte di lui, in quel momento.
Volevo di più, sempre di più.
Dalle sue spalle scesi per tutta la schiena, mentre lui risaliva con una
scia di baci infuocati su per il mio collo, fino a seguire il profilo della
mascella. Ma si fermò con un brivido quando, con la punta delle dita, sfiorai
quella stretta stiscia di pelle sensibile al di sotto
dello stomaco. Giocai maliziosamente con ogni suo brivido, creandone di nuovi
ad ogni mia carezza, sovraccaricandolo, facendolo impazzire al
sfiorare, una volta di più, quella pelle chiara più morbida, ultimo confine oltre
la quale, in teoria, non si poteva andare.
Smise di baciarmi, staccandosi leggermente da me, i suoi occhi castani incandescenti,
tanto era il desiderio di cui brillavano.
Ansimava e mi guardava in una maniera tale che, neppure sforzandomi, avrei
potuto trovare qualcosa di simile nello sguardo di nessuno degli uomini,
fidanzati o storie che fossero, con cui ero stata.
Mi bramava, mi bramava con una forza tale da farmi venire quasi i brivi di paura, perchè, se in
quel momento avessi potuto sentire ciò che i suoi occhi cercavano di dirmi,
allora avrei potuto comprendere l’inferno che si era portato dentro per tutto
questo tempo.
Ma me ne dimenticai non appena lui portò le mani ai lembi della maglietta,
sollevandola in un gonfiarsi di muscoli delle spalle e tendersi di quelli del
bacino, togliendosela del tutto e lasciandola cadere indifferente ai suoi
piedi.
Sorrisi quando tornai a baciarlo sulle labbra, appiattita con il suo corpo da
una stretta possessiva, la pelle che bruciava come in preda alla febbre,.
Sorridevo ancora quando, finalmente, girai la maniglia alle mie spalle con
la mano libera.
Quando la porta dell’appartamento si spalancò verso l’interno, l’oscurità
dell’appartamento ci inghiottì famelica.
Quasi più
famelica di noi.
.-.-.-.-.-.
Oh, oh, oh.
Della serie “chi non muore si rivede”!
Per chi se lo aspettava, per chi no.
Occhio: il capitolo non è CONCLUSIVO.
Non ancora. Purtroppo.
Vado di corsa, sono in punizione without PC per
una settimana, editerò, nel caso, in futuro.
Ma non abbastanza di corsa per dimenticarmi di dedicare questo chap
a quella mente perversa di LadyNotorius.
Sei una maledetta schiavista, ma ti voglio bene.
Comunque sia…
Danke
Grazie
Gracias
Merci
A:
Prometto solennemente di rieditare per lo meno i ringraziamenti. Figurarsi
quando mi commenterete il chap!