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Autore: _White_    18/11/2014    1 recensioni
La vita di Irina potrebbe essere un racconto, infatti gli ingredienti necessari ci sono tutti: lei è la goffa eroina e vive accanto a Thomas, il classico bel ragazzo solitario e distaccato che la tratta come un suo pari. Ma si sa che le apparenze ingannano... Una piccola love story cresce sotto il cielo della Liverpool universitaria.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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7. When sooner or later is over

Quella domenica mattina, il sole splendeva sulla città, sprigionando un lieve tepore che riscaldava gli alberi e le panchine e asciugava le pozzanghere createsi con l’acquazzone abbattutosi nei giorni precedenti. Qualche meteorologo aveva ottimisticamente ipotizzato che la primavera stesse finalmente giungendo in Inghilterra, ma Irina non ci credeva. Sapeva che le piogge sarebbero tornate, ma per il momento non le interessava più di tanto. Voleva soltanto godersi quella giornata di sole all’aria aperta, infatti aveva pulito il dondolo in giardino e lo aveva rivestito con dei cuscini per starci più comoda. La siepe che recintava il cortile posteriore aveva appena iniziato a fare le gemme, quindi non proiettava una grande ombra intorno a sé, lasciando così la ragazza completamente al sole. Neanche questo importava a Irina. I raggi del sole erano così deboli che non se ne avvertiva il calore. Ogni tanto spirava anche qualche scia di vento, non troppo fredda, ma abbastanza fastidiosa da dover indossare una giacca per proteggersi. Irina soffiò sui palmi delle mani per riscaldarle. Forse aveva bisogno di guanti, ma faticava ad impugnare la penna se aveva le mani coperte. Sì, stava scrivendo.
Quel giorno si era alzata con un’idea in mente per un nuovo brano e aveva deciso di stenderlo su carta in giardino, che era l’angolo della casa che la ispirava di più. Fece rimbalzare tra i suoi pensieri l’ambientazione della storia mentre si infilava un maglioncino blu slavato e un paio di vecchi pantaloni che usava per stare in casa. Durante la colazione delineò i personaggi e, nel frattempo che strofinava la plastica bianca del dondolo per rimuovere la sporcizia invernale, architettò i dialoghi. Finita la pulizia, corse in camera sua e recuperò dal primo cassetto della scrivania il suo quaderno delle bozze e la sua penna da scrittura. Mentre discendeva le scale, la scena era definita nei minimi particolari, pronta per essere trascritta.
Avrebbe fatto prima a battere direttamente a computer il racconto, ma trovava dispersivo scrivere direttamente sul foglio digitale di Word: si concentrava di più su quale tasto pigiare, invece che su ciò che voleva descrivere, rallentando così la sua fervida ispirazione, finché non le scompariva del tutto la voglia di scrivere. Invece il fruscio della biro sulla ruvida carta la trasportava nel mondo che si era appena immaginata, catturandola fino a quando non concludeva il pezzo con la parola “FINE”. Ovviamente ricopiava tutto a computer quando aveva il tempo e soprattutto la voglia di farlo, più che altro per tenere tutte le sue storie archiviate in un unico luogo. Nel corso degli anni aveva riempito due quaderni tascabili e alcune pagine di vari quaderni scolastici con i suoi racconti e li aveva riscritti tutti in digitale. In questo modo era più facile trovarne uno, rileggerlo e apportarne delle modifiche, se necessario. La maggior parte di queste storie brevi aveva come protagonista Raissa, una giovane segretaria del Cremlino durante la Guerra Fredda che passava informazioni al governo americano. Ogni racconto era lungo circa trenta pagine e descriveva una delle sue avventure, fatte di spie, inganni, pericolo e amore. Non era grande letteratura, ma un semplice e innocuo passatempo. Irina non aveva mai fatto leggere a nessuno i suoi scritti, perché se ne vergognava troppo. Aveva paura del giudizio degli altri.
Anche adesso si stava occupando della sua eroina russa. Raissa era finalmente stata contattata dal suo fidanzato, Aleksandr, scomparso nel nulla dopo l’ultima missione per conto degli Stati Uniti e in cui era quasi stato scoperto. Aveva passato giorni terribili in attesa di qualche comunicato interno del KGB riguardo a un giovane rivoluzionario catturato, ma quando aveva trovato il sassolino bianco (il loro segnale in codice) sul davanzale della finestra in cucina, tutte le sue preoccupazioni erano scomparse e, non riuscendo a controllarsi, pianse di gioia. Dovevano trascorrere due giorni dall’avvenuto contatto per l’incontro nel loro luogo sicuro al solito orario, questa era la procedura. Il meccanismo serviva per precauzione, in modo da poter verificare se il messaggio era stato manomesso o no, come non si sapeva: era il piccolo segreto dei due innamorati.
 
Accertatasi che la segnalazione era sicura, la ragazza si appostò nel vicolo sul retro della solita tavola calda alle cinque del pomeriggio e attese Aleksandr, impaziente. Il cuore le martellava nel petto, pronto a esplodere nel caso in cui lui si fosse fatto vedere oppure no. Ma sarebbe venuto, Raissa ne era convinta. Il suo istinto non sbagliava mai. Un leggero scalpiccio di passi attirò la sua attenzione e gli occhi corsero in quella direzione. Dalla zona in ombra della stradina emerse una gracile figura maschile dall’aspetto trasandato e sporco di fuliggine, ma Raissa non ci badò e corse dal suo amato. Con le lacrime agli occhi, lo strinse in un caloroso abbraccio e lo baciò teneramente.
“Dove sei stato?” gli chiese lei con voce tremante per il pianto e per l’emozione di averlo lì, tra le braccia, ancora vivo.
“Grazie a Dio, Mikhail ha dato il segnale d’emergenza in tempo, poco prima dell’arrivo delle guardie, così sono riuscito a fuggire prima che mi vedessero. Sono andato dal Rigattiere, che mi ha nascosto nel deposito illegale del carbone, ecco perché sono così impolverato. Mi dispiace essermi fatto vivo in queste condizioni: avrei preferito darmi una ripulita prima di incontrarti, ma non ne ho avuto il tempo, perdonami.”
“Non m’interessa il tuo aspetto, Aleksandr, ma che tu sia vivo. Ho temuto che il KGB ti avesse catturato.” gli rivelò in un sussurro. Una mano si staccò dal stretto fianco di lui e si posò sulla sua guancia, accarezzandola dolcemente.
“Non accadrà tanto presto e tanto facilmente, piccola, te lo prometto” rispose lui, stringendola più forte a sé, quasi si aspettasse che lei svenisse da un momento all’altro e che lui fosse pronto a sorreggerla. In fondo, stava facendo proprio questo: sorreggerla nell’abisso in cui l’aveva condotta. Se solo suo fratello non fosse stato incarcerato ingiustamente e poi giustiziato da Mosca, Aleksandr non avrebbe scoperto che era l’Unione la vera traditrice degli ideali che professava, decidendo così di passare dalla parte degli americani e lavorare nel loro controspionaggio. Raissa era una santa per averlo voluto seguire nella sua pazza crociata, nella speranza di costruire insieme un roseo futuro nella ricca America e vivere così il sogno promesso dai nuovi alleati.
“Oh, non promettere cose che non puoi mantenere, perché non dipendono da te. È come prendere in giro la morte: nessuno ci riesce mai. E so che morirei dal dolore se il tuo proposito non si avverasse.” lo rimproverò lei, con l’animo già provato dalle ultime settimane passate senza notizie del ragazzo.
“Non ti devi preoccupare, il Generale mi ha informato che i nostri passaporti sono pronti e che presto lasceremo questa terra dimenticata da Dio per una nuova vita. Insieme. Devo solo svolgere un’ultima missione, poi potremo finalmente andarcene in un Paese libero.” e le asciugò le lacrime colate sulle sue rosse guance. “Ora devo andare. Fatti forza ancora per qualche settimana e fai la tua parte. Se lavoriamo bene entrambi, finirà tutto in fretta. Ti contatterò io, d’accordo?” Raissa annuì, intristita per dover lasciarlo andare un’altra volta. Non le piaceva che lui si esponesse ai rischi che lo spionaggio sul campo comportava, ma non poteva certo ammettere che neanche il fotografare i documenti segreti del governo fosse privo di pericoli. Doveva solo tenere duro per ancora poco tempo, poi se ne sarebbero andati dall’URSS. Avrebbero vissuto in una tranquilla cittadina americana, magari in uno di quei villini dei quartieri raccomandabili che una volta il Generale le aveva mostrato in una foto per convincerla a continuare lo spionaggio. In quell’ambiente caldo e amorevole lei e Aleksandr avrebbero vissuto una vita piena e felice: si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei figli. La vita che lei aveva sempre sognato.
Il ragazzo la salutò con un intenso bacio, carico di desiderio e speranza di rivederla ancora, poi si allontanò. Raissa rimase nel vicolo ancora per qualche minuto, sempre secondo le regole del loro protocollo, ma anche per riprendersi da quel turbinio di emozioni che l’avevano invasa. Inconsciamente si portò le mani al grembo e…
 
Irina alzò un attimo lo sguardo per osservare il cielo. Una parola le era sfuggita dalla punta a sfera della penna e stava cercando di acchiapparla prima che raggiungesse le nuvole, allora in quel caso sarebbe andata persa. Gli occhi vagarono per un po’ nell’immenso azzurro che si stagliava sopra di loro e, una volta trovata la parola fuggiasca, tornarono ad incollarsi sulle bianche pagine, impazienti di essere riempite, ma non fecero in tempo a raggiungere l’obiettivo che si accorsero di un’ombra poco distante.
- Accidenti, Thomas, mi hai fatto prendere un colpo! – sobbalzò Irina nell’aver individuato il vicino di casa, appoggiato alla siepe di confine, che la stava controllando.
- Scusa, non volevo spaventarti.
- Da quanto sei lì? – domandò la ragazza, sistemandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio destro.
- Da un po’. – rispose lui, restando sul vago. Non intendeva spiegarle che l’aveva spiata dalla finestra del solaio mentre stava pulendo il dondolo e che, appena lei aveva attaccato a scrivere, lui era corso fuori per ammirarla. Era un atteggiamento da vero stalker, ma lo affascinava l’aria concentrata che Irina assumeva quando si perdeva nel suo mondo di fantasia. Nei primi tempo della loro conoscenza, lui le aveva domandato più volte l’argomento dei suoi testi, ma lei aveva sempre risposto troppo timidamente per avere un’idea chiara di cosa le passasse nella testa, quindi aveva smesso di insistere. Non era pronta a far conoscere al mondo le sue storie, lo capiva, anche se gli dispiaceva.
- E cosa sei venuto a fare in giardino? – continuò lei, insospettita dall’atteggiamento dell’amico: Thomas se ne stava tranquillamente appoggiato al cespuglio di rami e la osservava nella tipica “posa da rimorchio”, ovvero braccia incrociate e sguardo focoso. La ragazza lo aveva visto rimorchiare tante volte, perciò ormai aveva imparato a riconoscere ogni singolo gesto che lui faceva.
- Beh, è una bella giornata, quindi ho pensato di trascorrerla all’aria aperta, prima che ritorni il maltempo. – inventò immediatamente lui, colto alla sprovvista. Cavoli, non si aspettava un interrogatorio di terzo grado.
- Thomas, non mentire, che so che sei allergico al sole. – ribatté lei. Non fu difficile smascherare la bugia: in due anni e mezzo di vicinanza, Thomas era uscito in giardino solo per qualche evento all’aperto organizzato dai suoi genitori o perché Yuki lo aveva costretto a rastrellare le foglie cadute dai due tigli in fondo al cortile.
- Va bene, lo ammetto, mi hai scoperto. – e alzò le mani in segno di resa. – Mi stavo annoiando. Ho guardato fuori dalla finestra e ti ho visto qui sul retro, così sono venuto a chiederti se ti andava di fare qualcosa, tipo vedere un film. Una volta uscito, mi sono accorto che stavi scrivendo ed eri così presa, che non ho voluto disturbarti. – sì, insomma, neanche questa era la pura verità, però almeno era più credibile della prima balla.
- Grazie del pensiero, ma, come hai appena detto, sono abbastanza presa dalla scrittura al momento e vorrei finire il pezzo, se non ti dispiace. – la frase nella mente della ragazza era risuonata più dolce e meno stizzita di quanto risultò nel dirla, ma Irina se ne accorse ormai a cose fatte. Stava per chiedere d’impulso scusa, quando notò che l’espressione del ragazzo non era mutata. Forse Thomas non aveva dato peso al tono dell’amica, cosa abbastanza strana, perché lui si accorgeva sempre di dettagli simili. Pensandoci bene, poteva averlo notato, ma non voleva renderlo noto perché si era reso conto che l’aveva disturbata e gli dispiaceva o più probabilmente perché non aveva voglia di discutere. Avevano già mezzo litigato due sere prima e un’altra piccola offesa avrebbe scatenato uno scontro senza precedenti.
Il battibeccare era una prerogativa della loro amicizia, ma nell’ultimo periodo entrambi erano diventati meno tolleranti e se la prendevano per piccole cose, per esempio una frase detta con intonazione errata. Irina non capiva il perché di questo cambiamento, ma forse non voleva ammettere con sé stessa che ultimamente aveva iniziato ad essere più gelosa nei confronti dell’amico e che si era accorta di fissarlo più attentamente e più a lungo del necessario. Tutti questi comportamenti avevano fortemente messo in discussione il sentimento di semplice amicizia che credeva di provare e, per mascherare il disaccordo nella sua testa, aveva assunto un atteggiamento più offensivo del normale.
- Va bene, nessun problema. Se dovessi cambiare idea, mandami un sms o suona al campanello. – tagliò corto lui e se ne ritornò in casa, lasciandola interdetta in cortile.
Tipico di Thomas: fa tutto il contrario di quello che ci si aspetta da lui, rifletté lei mentre riapriva il quaderno, quel bellissimo quaderno dalle pagine bianche e dalla copertina in pelle in stile vintage che le aveva regalato Thomas per Natale. Rilesse l’ultima parte che aveva prodotto prima di essere stata fermata e ci fece qualche correzione. Posizionò la punta della penna vicino all’ultima parola scritta, pronta a continuare, quando si accorse che l’immagine mentale che si era fatta di Aleksandr corrispondeva in tutto e per tutto al suo migliore amico nella vita reale. Dannazione, lui era ovunque, ma almeno nella fiction aveva più cuore!

   
 
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