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Autore: acchiappanuvole    18/11/2014    4 recensioni
Dalle gallerie asettiche percorse da gente a maree contrarie, il suono di una chitarra rimbalza sui muri scrostati, vortica nell'aria respirata mille e mille volte, si espande come un richiamo che Reira segue accompagnata sempre da quella infantile, folle, speranza che cancella le leggi divine, le riduce a incubi dai quali è possibile svegliarsi e ritrovare ciò che si credeva perduto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nana Komatsui, Reira Serizawa, Satsuki Ichinose, Shinichi Okazaki, Takumi Ichinose
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ruin
Il contatto con il bordo caldo della tazza le da un piacevole tepore, il colore scuro del liquido le ricorda occhi lontani, persi  in qualche dimensione straniera che tuttavia  non la lascia ancora sconfitta in quella che, per tutti quegli anni, è stata una ricerca senza risultati. Ma ora non può pensare a Nana, deve chiuderla dietro una preziosa porta, una porta pesante. Solo per poco. Solo per poco. Satsuki compirà 15 anni a breve e lei è fermamente decisa a prepararle una magnifica festa. Le cucirà uno yukata  nuovo, di quelli adatti ad una signorina, e sa già che sua figlia sarà splendida. Poggia la tazza, lo sguardo vaga per il grande appartamento, si sofferma su una porta chiusa ed il cuore le batte un po’ più forte.  Le succede sempre, con quella strana aspettativa di poter aprire quella stessa porta e trovarlo seduto sul letto, con la sua fedele chitarra a comporre qualche splendida melodia. E’ una delusione infantile invece quella che l’accompagna ogni giorno, quando varca davvero quella soglia, per  pulire, appendere l’ennesimo poster senza nemmeno essere certa corrisponda ai suoi gusti. Ren la fissa da sopra la spalliera del letto, ha lo sguardo che Nana amava tanto, la bocca accenna un sorriso ironico.
-Sono una madre tanto disastrosa, Ren?- e non è certa di averlo chiesto a quel fantasma  o a suo figlio.
Ma ci sarà tempo per parlare, perché stavolta è sicura: Ren rientrerà per il compleanno della sorella. Potranno stare tutti e quattro insieme, passeggiare per le vie del centro,cenare al ristorante, come una vera famiglia. Sa già che non potrà far a meno di pavoneggiarsi, di essere fiera nel guardare i suoi bambini. Terrà stretta la mano di Satsuki, e si aggrapperà al braccio di Ren come una teenager innamorata. E poi… Poi forse riuscirà ad incontrare lo sguardo di suo marito, quello sguardo distante, distaccato, uno sguardo che tante volte ha odiato. Che strano tipo di amore è il suo.
Controlla l’orologio. L’ora giusta per poter chiamare. Impugna la cornetta e attende un poco, forse una qualche forma di coraggio, prima di comporre il numero.  Riesce a udire la voce di Takumi, la sente nella mente, bassa e profonda,  un po’ assonnata. O forse sarà direttamente Ren a rispondere?
-Pronto-
Hachi si morde le labbra, stringe più forte la cornetta e per un attimo la voce le si blocca in gola in modo fastidioso.
-Pronto?-
-Ssi… Pronto, Reira sono Nana-.
Ed anche dall’altro capo del telefono c’è un istante di silenzio, o così le è sembrato.
-Nana, come stai?- la voce di Reira è dolce, conciliante, ma fredda come una carezza invernale.
-Molto bene, ti ringrazio- si sforza di sorridere come se l’altra potesse vederla – E tu?-
-Non mi lamento. Vuoi parlare con Takumi?-
-In verità cercavo Ren, ma se Takumi è lì…-
- Deve ancora rientrare, ma Ren è qui. Solo un istante…- 
Ascolta i passi di Reira allontanarsi, rumori indistinti, e quel primo fastidio tenta di sciogliersi, deve concentrarsi su Ren, su tutte le cose che vuole chiedergli, dirgli quanto sia felice che abbia deciso di rientrare.
-Nana-
-Sì?-
-Mi dispiace ma è sotto la doccia, mi ha detto che ti richiamerà  domani-
-Oh, capisco-  ma in realtà non è così. Hachi non capisce. E’ la terza volta in una settimana che Ren schiva le sue telefonate.
- Vuoi  lasciargli detto qualcosa?-
-Come sta?- Hachi incalza, vorrebbe dirle , chiederle tante altre cose, ma trattiene, trattiene come gli eventi le hanno insegnato a fare.
-Non preoccuparti, sta benone-
Ancora quella frase, ripetuta tutte le altre volte da Takumi.
-Bene, allora digli di chiamarmi assolutamente domani. Io voglio sentire la sua voce.-
-Certamente-
-Saluta anche Takumi-
Hachi non attende risposta, chiude la comunicazione, e forse Reira si sarà offesa, forse si aspettava conversassero come lontane amiche. Ma sa che non è così. Reira non vedeva l’ora di chiudere la comunicazione tanto quanto lei.
Se fosse ancora una stupida ragazzetta, ora probabilmente chiamerebbe Junko per renderla partecipe di quell’ennesimo colpo al cuore. Ma è una donna. Una madre.  E domani Ren chiamerà. Non c’è motivo di piangere ora.
 
Blindness
-Non puoi continuare a non voler rispondere, la fai soffrire- Reira è seduta sul grosso divano nero del salotto. I capelli, raccolti in una lunga treccia, le danno un’aria più matura, più malinconica. In alto, sopra la fronte, qualche filo bianco fa capolino fra i capelli ramati.
Ren la osserva, le è sempre piaciuto osservarla, con quella curiosità un po’ bambina, un po’ affascinata che colloca Reira nella semplicità perfetta di una parola: bella.
-Domani la chiamerò. Stasera non sapevo che dirle-.
-Nana vuole semplicemente sentire la tua voce, poco importa quale sia l’argomento di conversazione. Le manchi molto e lo sai. Inoltre a breve sarà il compleanno di Satsuki, vorrà di certo coinvolgerti nei preparativi-.
-Verrai anche tu?- Ren le siede accanto, Reira accenna un sorriso carezzandogli la guancia
-Sai che non amo tornare in Giappone. Voglio bene a Satsuki, ma non me la sento di rientrare-
-Credi che mamma non sarebbe contenta?-
Reira scosta la mano, è sorpresa dall’improvviso cambio di tono – Sai bene che non si tratta di questo, Ren-.
Il ragazzo distoglie lo sguardo – Si lo so- improvvisamente si sente nervoso – Vorrei rimanere qui anch’io-
-Non dire sciocchezze!- e Reira gli da una sberletta –Satsuki ci tiene molto che tu ci sia. E anche se fai il duro sono certa che anche tu vuoi essere presente alla sua festa-.
- E papà?-
 - Takumi ha già prenotato i biglietti-
- Non ti sentirai sola?-
-Cosa credi sia una nonnina?! Starò benone-  ma mentre lo dice Reira ha smesso di guardalo, i suoi occhi vagano su quella stanza minimale, priva di qualsiasi calore. Non può fare a meno di dirsi che rispecchia l’anima del proprietario. – Inoltre ci sono delle faccende che devo sbrigare- conclude addossando meglio la schiena al cuscino compatto.
- E che faccende sarebbero?-
La donna strabuzza gli occhi – Sei peggio di una madre- ridacchia notando un lieve rossore colorare le guance del ragazzo – Una donna potrà avere i suoi segreti-.
-Qui tutti in realtà non fanno altro che avere segreti, è come vivere in una stupida soap opera- e la può sentire la rabbia graffiare parole apparentemente calme,i pugni di Ren stringersi un po’ a voler fermare emozioni che non desidera manifestare.
- Perché dici questo?- e Reira è combattuta su come agire. Abbracciarlo come una madre premurosa o trattarlo al pari di un adulto. Ma come può lei, bambina mai adulta, essere credibile in un ruolo tanto complicato.
- Non importa- Ren sospira, i tratti del viso si distendono, ricompone una perfetta maschera di placida parvenza.
-Ren, l’adolescenza è un periodo molto difficile. Probabilmente il più difficile. Io lo ricordo bene. C’erano volte che ce l’avevo col mondo intero, non comprendevo il comportamento di mia madre e …-
-Amavi senza essere corrisposta-
Reira s’irrigidisce, sente freddo, si volta verso la finestra sorprendendosi di trovarla chiusa. Che sciocca.
-Ciascuno si innamora e succede talvolta di non essere corrisposti. Ad esempio quando Yasu non fece nulla per fermarmi dalla mia intenzione di partire per Tokio, beh, pensai che alla fine il mio amore non doveva essere poi molto corrisposto. Per non parlare di tutte le cotte avute al liceo. Che c’è?-
Ren sorride, la guarda con una tenerezza tale che Reira è costretta a distogliere lo sguardo imbarazzata. Conosce quello sguardo. E’ lo sguardo di Ren. Così simile allo sguardo di quel giorno…
“Dopotutto Reira, la cosa alla quale davvero non vuoi rinunciare, è rimanere al fianco di Takumi”.
 
-Sei bella Reira- è un tono privo di malizia quello di Ren –Ti guardavo per quello-.
Reira sa che sta mentendo ma accetta di buon grado quella virata improvvisa che le permette di non affrontare acque troppo profonde  e pericolose. Gonfia le guance come quando era bambina e lo scruta sottecchi con teatrale rimprovero – Non ti starai innamorando di me ragazzino?! Sono troppo vecchia!-
Ren  raccoglie la sfida – Questo è vero-
-Impudente, somigli tutto a tuo padre- sbotta lei sentendosi un pochino offesa nella vanità.
-Lo pensi davvero?-
-Mh?-
-Pensi davvero che io gli somigli?-
E c’è una strana ansia nella voce di Ren, una richiesta negli occhi che Reira non riesce ad interpretare. L’ingenuità di Ren non è mai esistita sul volto di Takumi, nemmeno quando erano bambini.
-Sei suo figlio dopotutto- mormora  come se l’argomento d’improvviso la infastidisse; stringe le spalle e cerca un qualsiasi appiglio di fuga che le permetta di schivare qualunque argomento Ren voglia toccare al riguardo.
- Vorrei che tu lo ripetessi- Ren è risoluto, improvvisamente adulto, non si cura del palese impaccio che la donna non riesce a nascondere.
Reria sospira, le spalle al muro e la mente aggrovigliata –Che cosa?-
-Quello che hai appena detto, vorrei lo ripetessi-
-Ren…-
-Per favore-
-Sei suo figlio dopotutto- la voce di Reira questa volta è chiara, dura anche se non era nelle sue intenzioni. Lascia il divano, resta immobile un istante prima di fissare l’orologio appeso alla parete. E’ un orologio assurdo, di quelli che puoi trovare solo a Camden Town, uno dei luoghi preferiti di Ren.
-E’ tardi, meglio che vada-
-Non rimani a cena?-
-No- Reira recupera il cappotto, l’idea di veder rientrare Takumi d’improvviso la terrorizza, vuole scappare e rimanere allo stesso tempo. La medesima sensazione provata pochi giorni prima alla fermata di Angel.
Ren l’affianca, le sfiora il braccio e Reira sussulta scossa all’improvviso dalle sue ansie.
-Mi dispiace- sussurra Ren
-Perché?- Reira lo fissa esasperata – Perché ti dispiace, Ren? –
- Ho imparato che cambi improvvisamente umore quando si parla di qualcosa che ha a che fare con papà, e so il perché. Non avrei dovuto-.
-Stavamo parlando di te non di tuo padre- improvvisamente si sente più calma, lo sguardo di Ren è tornato ad essere quello di un bambino  che attende una sgridata.
- In verità credo che non si parli mai veramente di me-
E’ sorpresa da quell’ennesima uscita. Ren è esattamente come il mare. Un secondo calmo e splendente sotto i raggi del sole, ti invoglia ad immergerti nelle sue acque chiare, certa di poter scorgere il fondo bianco. Ma d’un tratto quello stesso mare diventa nero e tempestoso, travolge e rende sempre più difficile il riuscire a rimanere a galla.
Ren e il mare. Sono sempre stati correlati, da sempre. Reira lo sa. Se vuole parlare con Ren deve raggiungere il mare, il mare d’inverno. Non è difficile, può raggiungere Brighton e trovarsi di fronte la distesa dell’oceano. Poca importa se è un oceano diverso, Ren è dentro le profondità di ogni mare e può ascoltarla.
-Ti sei sentito trascurato, lo so. Se me ne fossi accorta prima, se fossi stata più matura avrei potuto aiutarti-.
-Non è stata colpa tua, Reira-
-Invece sì, stavi venendo a prendermi. E’ stata colpa mia. Volevo rimanere lontana da lui e sono stata egoista e tu hai pagato il mio egoismo-.
Ren abbassa gli occhi, il viso è pallido e la mano malferma quando la poggia sulla spalla di Reira.
-Reira siediti, non volevo sconvolgerti. Sono stato stupido. Vuoi che suoni qualcosa? Qualcosa che ti piaccia, qualcosa che tu possa cantare -.
-No, io…Sono stanca, vorrei dormire. Devo tornare a casa. Credo di dover chiamare mia madre, mi sembra di averglielo promesso-.
-Puoi chiamarla anche da qui. Vorrei che tu rimanessi, stare solo  non mi piace. A breve arriverà anche Naoki. Lo aspettiamo insieme-.
Ren le prende la mano, è fredda tanto quanto la sua, riconduce Reira al divano, la aiuta a sedersi lentamente. Reira appoggia istintivamente la guancia sulla spalla del ragazzo, si sente improvvisamente esausta. Sa che è successo qualcosa, qualcosa di sbagliato, ma non riesce a metterlo a fuoco, a ricordalo.
-Perdonami Ren, sono solo stanca-.
-Lo so, riposati. Io starò qui con te-
Reira ha gli occhi chiusi ma sorride, è un sogno dolce quello che l’accoglie, deve riposare. Solo per un po’.
 
 
 
 
 
Soul in a bottle
Ha telefonato ad un negozio di forniture per ufficio per comprare una di quelle macchinette che riducono la carta in mille pezzi, tanti coriandoli piccolissimi. La osserva divorare vorace i fogli, uno dopo l’altro, così come la vita fa con i giorni degli esseri umani.  Forse è una questione di ordine. 
Seduto alla scrivania, un pacchetto di Gitanes vuoto e una tazza di caffè ormai freddo a ornare una triste distesa di documenti.  Ne prova improvvisamente nausea, il desiderio di evadere può risolversi anche solo guardando fuori dalla finestra. C’è chi porta il cane a passeggio, chi va in bici, chi in skateboard.
Alcuni ragazzi con l’aria da teppisti parlottano tra loro. Nonostante continui a fissarli, non sono quelle le persone che vede. Ma una distesa di volti perduti, di luoghi dove ha vissuto ed il mare di un’infanzia sepolta, dove finiti i giochi ha imparato a pensare soltanto a se stesso.
E’ tutto quello che resta. Una regione remota dei sogni. Un luogo imprevedibile, anche se ripetitivo, enigmatico e terribile, anche se benigno, come sono sempre i sogni.
Il tizio dai lunghi capelli e l’aria spavalda ne sapeva qualcosa. Un sogno lungo un’eternità. Ha passato trent’anni della sua vita in quel modo e, senza dubbio, potrebbe affrontarne tantissimi altri con la stessa incongrua facilità.
E , comunque, non ha molta scelta.
Deve farlo per non dover guardare.  Perché se sei condannato a guardare la tua immagine in uno specchio, sei condannato a guardare tutto per sempre, senza poter più intervenire. Questo, si dice, è il sostanziale e patetico significato della sua vita.
Il bambino sulla spiaggia e l’uomo che è ora in quale punto preciso di tutta la storia sono diventati due entità separate?
Sarebbe utile tornare indietro  per poterlo chiedere. Sa già come andrebbe. Si avvicinerebbe a quel ragazzino dall’aria imbronciata guardandolo dall’alto in basso.
Esordirebbe con un –Ehi, teppistello!- mostrandosi davanti a lui con un completo nero e scarpe firmate che affondano nella sabbia – Guardami. Ti piace quello che sei diventato?Ne sei soddisfatto?-
E forse quel Takumi bambino farebbe una smorfia disgustata, o più semplicemente scrollerebbe le spalle ribattendo – Affari tuoi,amico-.
Lo diverte immaginare una scena simile.  E’ terrificante ma riassume tutto il suo essere. Per questo non vuole più guardare. Non vuole più guardarsi. Guardare lo schifo che hai davanti ogni singolo giorno della tua vita.
Probabilmente aveva già smesso di farlo quando in un remoto passato aveva preso in considerazione la possibilità di uccidere suo padre. Era stato il pensiero di un momento, ma comunque formulato.
Onestamente, siamo certi che gli esseri umani vogliano sempre guardare e capire?
Takumi pensa a quando ha visto sua madre morire. 
Ha visto anche le mani di un uomo che lo hanno malmenato per buona parte della sua infanzia.
Ha visto i suoi progetti cadere in bidoni di spazzatura, e ha visto se stesso rifugiarsi nell’indifferenza umana e nell’ego, forse solo per paura. Paura di essere malmenato di nuovo. Paura di guardare.
Cazzo. Guardare.
Nel primo cassetto a sinistra custodisce una foto.  Ren e Satsuki  durante il tanabata. Sono vicini l’uno all’altra; Satsuki sorride, ha una yukata nuovo e dei fermagli a forma di farfalla dei quali va molto orgogliosa.  Ren le tiene la mano, non indossa l’abito tradizionale, ma una t-shirt dei Sex Pistols e dei jeans slavati.  Sorride a sua volta in direzione dell’obiettivo mentre dietro la luce aurea dei fuochi d’artificio rende quell’immagine un perfetto istante congelato al tempo.
Takumi li ama. Ne è pienamente capace ed è il primo a stupirsene.
Quando li ha tenuti in braccio per la prima volta, in entrambe le occasioni non ha potuto fare a meno di pensare “ Sono miei. Sono il mio sangue”.  Non si sarebbe mai creduto capace di pensare qualcosa del genere, proprio lui che non aveva mai dato importanza ai legami di sangue, almeno fino a quel momento.  Ma questo invece che spingerlo sulle rive della coscienza e del buon senso, non aveva fatto altro che spingerlo ulteriormente tra le braccia del lavoro.
Il lavoro come un rifugio.
Non sono predisposto a fare nient’altro. Sono composto da troppi pezzi sbagliati. Il modo in cui sono stati assemblati hanno reso il mio essere come la vetrata opaca del grande atrio delle scuole medie. Non c’è voluto molto a mandarla in frantumi. Era vetro scadente, anche se a vederlo da fuori lo avresti giudicato infrangibile”.
Fuori c’è poca luce e sta iniziando a piovere.  In strada sono rimasti solo due ragazzi in skate e una donna che cammina velocemente riparandosi la testa dalla pioggia con un giornale. Mentre cammina svelta non cede alla tentazione di lanciare sguardi alle vetrine. Un po’ per i vestiti un po’ per controllare la propria immagine. La cosa lo fa sorridere. Lo fa ricordare.
Nana e quel suo modo dolce e frivolo, i sorrisi ancora ingenui prima che il diavolo tentatore con i capelli lunghi, il basso e la cura del sesso le tendesse la mano per offrirle la mela. Solo mordendola si è accorta di quanto acerbo fosse quel frutto.
E’ così. Takumi ne è consapevole. Non è mai stato in grado di donare frutti dolci a nessuno. E’ una constatazione difficile da non fare. Non ha ancora capito come sono andate veramente le cose e probabilmente non lo capirà mai.
Nana avrebbe potuto accusarlo di essere sempre impaziente e detestabile, ogni volta che in quegli anni di improbabile matrimonio tentava di parlare con lui. Di lui. Di loro.
Avrebbe potuto, ma non ne è stata in grado.
Ed ora il senso di colpa, per tutto quello che ha fatto e per tutto quello che non è stato in grado di fare, lo coglie come un assassino nascosto nel buio.
Ci sono state troppe omissioni.
Sentirsi in colpa non serve a nulla e soprattutto non cambia i fatti.
Takumi è sempre stato un sognatore realista.
Il cellulare squilla. Deve cambiare la suoneria, è tremenda.  Sul display compare il nome di Ren. Lampeggia su di  uno sfondo totalmente nero, come un monito.
-Papà…-
Inzialmente Takumi fatica a riconoscere la voce di suo figlio, suona così adulta e distante.
-Dimmi pure- non ci sono saluti e convenevoli, non con Ren.
-Ho bisogno che torni a casa-
Takumi distoglie lo sguardo dalla finestra. La pioggia è più forte, uno scrosciare fastidioso.
-E’ successo qualcosa? Stai bene?-
-Si tratta di Reira-
Takumi aderisce la schiena alla sedia, chiude gli occhi per un istante prima di riprendere il controllo della propria voce.
-Ho capito, arriverò a breve. Non preoccuparti-.
- Grazie- è un sussurro prima che la comunicazione si interrompa.
I vetri gocciolanti impediscono ogni visuale, ma Takumi intravede la propria immagine sulla superficie trasparente.  Sa anche senza vederli che i suoi occhi sono nuovamente freddi, nuovamente distanti.
Non c’è mai stata nobiltà d’animo. Solo interesse personale.  Ha chiuso la sua anima in una bottiglia lasciata a galleggiare in una pozza d’acqua stagnante. Ce l’ha messa lui e lì ha deciso di lasciarla.
 
 
 
  
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