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Autore: Flora    31/01/2005    5 recensioni
Naoussa, Macedonia. Ricordi, memorie, voci dal passato, e le tracce di un fuoco che brucia troppo alto. I giorni possono essere infiniti a Mieza per Alessandro ed Efestione.
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“Perché mi permetti di farti questo?”
Alessandro incurvò le labbra in un sorriso sottile. “Perché mi piace vedere questo sguardo nei tuoi occhi. Questo sguardo lo conosco solo io. Non voglio che guardi nessun altro al mondo così. Ti uccido se lo fai. Preferisco saperti morto, che pensare di venire secondo nella tua vita.”

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Questa storia fa parte del mio ciclo di racconti su Alessandro il Grande.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
Capitoli:
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Capitolo 4.








Cassandro non riusciva a dormire.
Si girava e rigirava nudo nel suo letto, incapace di chiudere occhio, così accaldato da avere la sensazione di soffocare.
La stanza era immersa nell’oscurità e non un filo d’aria sembrava attraversarla. Gettò di lato le coperte e si alzò con un grugnito, raggiungendo la finestra da cui poteva scorgere uno stralcio del bosco scuro e silenzioso al di là del prato. Si passò una mano tra i capelli sudati.
Quanto odiava quel caldo.
E quanto detestava quel posto, così isolato che gli pareva di trovarsi in mezzo al nulla.
Si voltò e osservò il letto vuoto e disordinato accanto al suo. Filota, il suo compagno di stanza, aveva pensato bene di uscire quella notte, probabilmente per andare a fottersi qualche puttana di Beroia in compagnia dei suoi amichetti.
Chissà cosa ne avrebbe pensato suo padre, il grande generale Parmenione, se avesse saputo che suo figlio se la faceva con quella feccia.
Le labbra gli si allungarono in un sorriso crudele; magari ne sarebbe stato persino contento.
A ogni modo, Filota poteva rimanersene in giro fino all’indomani per quanto lo riguardava. Forse era la volta buona che sarebbe riuscito a dormire, se il caldo non l’ammazzava prima; quell’idiota russava come un toro in calore.
La stanza era piccola e puzzava di cavallo. Ancora una volta si maledisse per aver dato retta a suo padre ed essersi fatto convincere a venire in quel posto disgustoso.
E pensare che lui stesso aveva insistito. Doveva essere impazzito.
A quest’ora avrebbe potuto essere nella sua casa di Pella a farsi preparare un bagno da qualche servo, o nella fresca residenza di famiglia, sulle colline attorno al fiume Asso, a festeggiare e bere vino dopo una giornata di caccia.
Antipatro, suo padre, era l’uomo più importante di Macedonia dopo lo stesso Re. Generale e diplomatico, godeva della massima fiducia da parte di Filippo, che gli aveva persino lasciato la reggenza dello Stato le volte in cui la guerra l’aveva costretto ad assentarsi.
Quando si era reso necessario far accompagnare Alessandro a Mieza, suo padre – com’era ovvio – aveva proposto il suo nome al Re. Che lui andasse a Mieza era scontato: tutti i figli dei nobili e dei generali più altolocati di Macedonia avrebbero scortato il principe alla scuola di Aristotele, e lui non sarebbe stato da meno. Aveva persino insistito, e a voler ben vedere c’era dell’ironia tragica in tutto questo.
Non si era mai pentito tanto amaramente di qualcosa in vita sua.
Imprecò a bassa voce. Il caldo era insopportabile; se fosse rimasto ancora un momento in quella stanzetta angusta, il suo letto avrebbe finito per diventare la sua tomba.
Si infilò un chitone di lino leggero e uscì all’aperto. La brezza notturna gli diede immediato sollievo e lo fece sospirare di piacere.
Si avviò a passo veloce verso il retro della lunga e bassa costruzione del dormitorio, raggiungendo una grossa cisterna di pietra per l’acqua piovana. Sedette sul bordo della vasca e tuffò la testa nell’acqua, poi la scrollò e si allungò all’indietro, lasciando che le gocce gli scendessero giù dai riccioli castani lungo il collo e le spalle.
La notte era umida e pesante attorno a lui, il frinire dei grilli e il fruscio delle piante non gli erano mai sembrati tanto desolanti.
Non riusciva ad ammettere di sentirsi così male, di sentirsi così solo.
All’inizio non ci aveva fatto caso, non aveva notato come gli altri compagni formassero ogni giorno di più un gruppo compatto e affiatato, mentre lui veniva lasciato fuori come un animale fastidioso. Non ci aveva fatto caso perché la cosa non gli era mai importata, ma alla fine non aveva potuto ignorarlo.
No, non aveva più potuto ignorarlo.
Sbatté le palpebre con forza. Credeva di sapere di chi fosse la colpa.
Alessandro.
Sembravano tutti sbavargli addosso e pendere dalle labbra di quel ragazzino arrogante e indisponente. Che cosa ci trovavano in lui?
Possibile che nessuno si accorgesse che era solo un moccioso vanesio che cercava di atteggiarsi da adulto?
Qualcuno avrebbe dovuto insegnargli a stare al suo posto. Era sicuro che se non fosse stato il figlio del Re, non avrebbe ricevuto la metà delle attenzioni che sembravano circondarlo.
Fece una smorfia e sputò nell’erba.
L’antipatia che provava per Alessandro era stata reciproca e immediata, non riusciva nemmeno a ricordare com’era iniziata, se c’era stato un inizio.
Antipatro l’aveva portato a palazzo molte volte e, nonostante lui fosse di qualche anno più grande del principe, quest’ultimo l’aveva sempre guardato dall’alto in basso, con un’aria di superiorità che Cassandro gli avrebbe volentieri cancellato dalla faccia a suon di pugni.
Non erano mai andati d’accordo, anche quando lui e quel grosso cinghiale di Tolomeo erano stati gli unici ragazzi a frequentare regolarmente il palazzo reale.
La rivalità era stata immediata, Cassandro credeva da ambo le parti – riuscendogli difficile riconoscere che Alessandro non l’aveva preso in considerazione neanche per un momento.
Non c’erano state liti aperte e questo rendeva il tutto ancora più insopportabile.
Gli costava ammettere che era venuto a Mieza armato delle più buone intenzioni. Forse, in cuor suo, aveva desiderato fare amicizia con lui, anche solo per compiacere suo padre che sembrava avere molto a cuore il suo futuro alla corte del principe.
Forse, semplicemente, non voleva più sentirsi solo.
Al contrario, le cose erano addirittura peggiorate. La sua antipatia si era trasformata in odio – e in aperto disprezzo, da parte di Alessandro. Lo sciame di leccapiedi che gli ronzava attorno non aveva tardato ad assumere lo stesso atteggiamento, non c’era da stupirsi di questo. Solo Filota sembrava condividere la sua opinione ma era troppo occupato a cercare di farsi amico questo o quello, perché potesse esserne sicuro.
A ogni modo, Filota era l’unico a essergli in qualche modo sopportabile.
C’era, invero, qualcun altro che odiava tanto quanto Alessandro, sebbene all’inizio gli fosse sembrato impossibile: quell’intrigante bastardo ateniese, che Alessandro si portava appresso come un cane fedele e che sembrava adorare con tutto il cuore. Un ateniese che cercava di fare il macedone, con quella sua parlata indisponente e quel modo di fare che sembrava intendere quanto si ritenesse superiore a tutti loro.
Avrebbe scambiato volentieri due paroline lui con Efestione, se solo non avesse avuto la fortuna di essere l’amichetto del cuore di Alessandro.
Si ricordava bene le risatine, le parole dietro le spalle, i dispetti.
Oh, Alessandro no – e nemmeno Efestione. I due signorini erano troppo superiori a queste cose, ma c’era stata una mattina in cui si era svegliato in un letto pieno di rane viscide e rivoltanti, ed era sicuro che lui non ne fosse stato all’oscuro; non poteva non sapere che i suoi detestabili amici si divertivano a tormentarlo in quel modo.
Efestione non gli aveva mai rivolto la parola sgarbatamente, né preso in giro, ma era sicuro che lo disprezzasse e la sua freddezza da greco borioso gli riusciva ancora più intollerabile.
Un nodo rovente gli si formò nelle viscere, minacciando di soffocarlo.
Li odiava.
In cuor suo, nei desideri che nemmeno si nominano, sapeva il perché – sebbene nelle lunghe, interminabili ore di veglia questo fosse solo un pensiero informe che si rifletteva appena sullo specchio scuro della sua coscienza. Li odiava perché insieme erano avvolti in un bozzolo dorato che sembrava catturare i raggi del sole; li odiava perché insieme sembrava che niente potesse scalfirli.
Li odiava perché insieme erano invulnerabili.
Chiuse gli occhi, vedendo il mondo vacillare – e pensò alla sua casa. Non a suo padre – poco più che un estraneo severo e dalla cinghiata facile – e neppure a sua madre, una presenza di contorno, fragile e immateriale fin dai primi anni di vita.
Non pensò neanche ai suoi numerosi fratelli e sorelle, così chiassosi e invadenti che erano stati più un fastidio che una gioia per lui.
Tutti, eccetto uno.
Nicanore, il più piccolo di casa, che lo amava teneramente.
Nicanore, che a sette anni già voleva cavalcare come un uomo e gli aveva chiesto di insegnargli a farlo, insieme al modo di lanciare il giavellotto per cacciare il cinghiale.
Ecco. Per Nicanore avrebbe dato la vita.
Era stato a casa pochissimo dalla sua partenza per Mieza e, ogni volta che tornava, il fratello sembrava diverso, sempre più grande – come avesse deciso di crescere senza aspettarlo.
Quanto odiava essere lì, in mezzo a quegli idioti repellenti, mentre l’unico essere che amava – e che lo amava ricambiandolo – rischiava di diventare un estraneo lontano da lui. Gli avrebbe insegnato lui ad andare a cavallo, e sarebbe stato lui ad accompagnarlo a cacciare il suo primo cinghiale, dandogli il diritto di sedere alla tavola degli uomini.
E ancora, ci sarebbe stato lui con Nicanore, quando avesse ucciso il suo primo uomo, guadagnando così la cintura per portare la spada come un vero guerriero.
Il pensiero gli diede una fitta di dolore.
Alessandro si era conquistato la sua cintura a quattordici anni, lui solo l’anno scorso, a diciotto. Perché il pensiero doveva sempre tornare a quel maledetto ragazzino?
Ma non poté evitarlo, nemmeno questa volta, e il ricordo lo riassalì con forza, portando con sé la consueta scia di sensazioni: rabbia, vergogna, eccitazione, dolore.
Era accaduto un anno prima e il periodo era pressappoco lo stesso. Ricordava la calura insopportabile, la sensazione di soffocare.
Il Re era impegnato in Tracia, in una campagna-lampo contro una bellicosa tribù ribelle. Aveva richiamato il figlio a nord, insieme a molti dei suoi compagni più grandi, perché assaggiassero la vita in un campo militare e potessero mettersi alla prova in una vera battaglia.
Oh, certo, era poco più che una scaramuccia con un gruppo di barbari vestiti di pelli e tatuati di blu, e tutti loro erano stati educati alle armi e al combattimento fin da quando erano bambini, ma Cassandro era stato ugualmente eccitato e spaventato quando i soldati della scorta erano venuti a prenderli per accompagnarli all’accampamento.
Le loro corazze di bronzo e le lunghe sarisse appuntite brillavano nel sole estivo mentre attraversavano il corso dello Strimone, dirigendosi a est, verso le montagne che sovrastano la costa egea, nel territorio dei bistoni – dove Filippo li stava aspettando.
Ricordava il sole a picco e il cielo di un blu abbacinante, il peana dei soldati e il frastuono degli zoccoli dei cavalli che accompagnavano la loro marcia, risuonando tra le rocce nude e scandendo il passo. Ogni particolare era impresso indelebile, marchiato a fuoco nella memoria.
C’erano stati tutti: Tolomeo, Filota, Nearco, Cratero, Perdicca e ovviamente Efestione e… Alessandro.
Marciava a capo della fila su quel suo demonio di cavallo, i capelli una colata d’oro e sembrava che fosse sempre stato lì, che ci fosse nato, invece di essere uno stupido quattordicenne che ancora puzzava di latte.
Filota gli aveva detto che aveva passato l’infanzia con i soldati. Chi si credeva di essere?
Poi, era arrivata la battaglia.
Solo una cosa si ricordava, della battaglia – vivida, incancellabile come le striate di sangue sul corpo e tra i capelli, in bocca, ovunque – quando tutto il resto era ormai solo un frastuono indistinto di grida umane e nitriti di cavallo, clangore di spade e bagliori di lame.
Alessandro, che irrompeva nella cittadella come una scia di fuoco, senza tirarsi indietro, incosciente tra i primi della linea, mentre lui arrancava a fatica nelle retrovie, ansimante, coperto di fango e sangue secco, la bocca piena di un rivoltante sapore metallico.
Efestione era stato sempre accanto a lui, alto ed eretto sul suo cavallo, non gli aveva lasciato il fianco scoperto per un attimo.
Poi, tutto era finito.
Li rivedeva ancora, fianco a fianco come i Dioscuri davanti all’altare, quando erano stati offerti sacrifici a Eracle per la vittoria e il fumo dell’olocausto saliva in alto, denso e rovente verso il cielo azzurro.
Era stata una sua impressione o c’era davvero quella sfumatura rossa tra le nuvole?
Il viso di Alessandro era incrostato di sangue. Sangue nei capelli, sangue sulle spalle, sul torso, sangue dappertutto, come un animale scannato, eppure sembrava coperto d’oro – lucido, splendente. Gli aveva visto tranciare la testa di un uomo con un colpo di spada, l’espressione serena e concentrata, mentre lui, in battaglia, combatteva con una smorfia contratta sul viso.
Oh, il re e Parmenione – persino suo padre Antipatro! – l’avevano sgridato per la sua incoscienza, ma si vedeva che erano orgogliosi. Parmenione – che era quanto di più simile a un dio per lui – l’aveva guardato con ammirazione e affetto, mettendogli una mano sulla testa, come un padre. Persino i più anziani soldati macedoni, uomini duri come la pietra, uomini che non si impressionavano di nulla ormai, erano rimasti colpiti e si complimentavano con lui, chiamandolo Kyrie. Il giovane Signore. Tra questi anche i soldati di Antipatro, di suo padre!
In quel momento gli aveva augurato la morte. Aveva sperato che fosse finito squartato da una lancia nella battaglia appena finita.
Emerse dalla sua visione con un brivido, mentre i contorni oleosi del fuoco e le sagome di quel giorno lontano sfumavano lentamente, come il fumo del sacrificio, lasciando il posto alla notte che adesso lo avvolgeva come una coltre viscida.
Si alzò adagio dal bordo della cisterna e si sgranchì le gambe. Avrebbe fatto due passi, forse si sarebbe sentito un po’ meglio. Girò l’angolo e udì uno scoppio di risate improvvise. Ormai gli occhi si erano abituati all’oscurità e scorse due figure in piedi, vicine, nello spazio chiuso del giardino.
Da non credere: quell’idiota di Tolomeo che se la rideva beato con l’ateniese, come se fossero i più grandi amici. Sentì lo stomaco torcerglisi per il disgusto.
Vide Efestione salutare Tolomeo con un cenno della mano e avviarsi nella sua direzione. Quando fu abbastanza vicino, Cassandro uscì dall’ombra e si piantò davanti a lui.
L’altro alzò un sopracciglio e fece per passargli a fianco, ma Cassandro lo fermò, prendendolo per un braccio. “Stavamo cominciando a preoccuparci, sai? Siete tornati dalla passeggiatina al chiaro di luna?”
Efestione socchiuse gli occhi e liberò il braccio con uno strattone.
“Buonasera anche a te, Cassandro.”
Quest’ultimo serrò le labbra, poi sorrise. “Non stai adempiendo molto bene ai tuoi doveri di cane da guardia, ragazzo di Atene. Se continui così il tuo padroncino potrebbe finire per essere sculacciato. Pensa un po’ che tragedia!”
Efestione si accomodò meglio nella sua posizione, portando le mani alla cintura. “Sai, a volte mi chiedo, Cassandro… quando parli ti rendi conto di quello che dici o blateri a vanvera perché ti piace sentire il raglio della tua voce?”
Cassando strinse i pugni. Si fronteggiarono per qualche istante occhi negli occhi, senza dire una parola. Lui era alto ma Efestione lo superava di una buona spanna. Il suo viso non tradiva alcuna emozione, si limitava a guardarlo tranquillo dall’alto della sua statura. Cassandro avrebbe voluto cancellargli quell’odiosa espressione dalla faccia, prenderlo a schiaffi fin quando non gli avesse mostrato un po’ di rispetto.
“Bene, è stata una bella conversazione, Cassandro, e ti ringrazio,” disse Efestione, rompendo il silenzio, “adesso però, se non ti dispiace, avrei altro da fare.”
Cassandro lo prese per il collo della tunica, tirandolo verso di sé finché il viso non fu quasi a contatto con il suo. “Ascoltami bene, figlio di una troia ateniese,” ringhiò, “credi di poter venire qui e sbattermi in faccia quella tua aria arrogante senza pagare conseguenze per questo? Lo credi veramente?”
Efestione mise una mano sulla sua e strinse, finché le nocche non gli diventarono bianche. Cassandro socchiuse gli occhi. Efestione aveva una stretta forte.
“Non mi interessa discutere con te, Cassandro. Né di questo, né di altro. Se sei a caccia di un diversivo per passare una serata noiosa lo stai cercando con la persona sbagliata.” Poi lo spinse via con un gesto deciso e Cassandro vacillò, facendo un passo indietro per mantenere l’equilibrio.
“Oh no. No. Invece dovrai ascoltarmi. È ora che qualcuno ti insegni qual è il tuo posto qui. È giunto il momento di fare un bel discorsetto da uomo a uomo, sempre che tu non decida di andare a chiamare il tuo padroncino perché ti venga a difendere!”
Efestione fece un passo avanti allungando un braccio per afferrarlo, quando una voce irruppe improvvisa nell’aria ferma:
“Chi è che dovrebbe andare a chiamare?”
Si voltarono entrambi e Alessandro era lì in piedi, a gambe divaricate, con uno sguardo furioso tra le sopracciglia corrugate.
Cassandro si liberò dalla stretta e si eresse in tutta la sua statura, ma evitò di guardarlo negli occhi. “Oh, nessuno in particolare. Io ed Efestione stavamo solo avendo un piccolo scambio di opinioni, niente di più. “
Efestione lo guardò con disgusto mentre Alessandro si faceva avanti, mettendosi tra di loro. Poi, fulmineo come un felino, afferrò Cassandro per i capelli e lo sbatté con forza contro il muro, abbassandogli la testa così che potesse guardarlo dritto nelle iridi grigie.
Quello che Cassandro vide non gli piacque. Le forze sembrarono abbandonarlo in un istante.
“Bene, Cassandro. Allora accetterai anche questo piccolo scambio di opinioni con me, dico bene?” Lo lasciò, rapido così come l’aveva ghermito e per poco Cassandro non finì lungo e disteso per terra.
“È sempre interessante discutere con te. Adesso, però, se vuoi scusarci…”
Si allontanarono lasciandolo lì da solo, appoggiato contro il muro gelido , un tremito involontario che gli saliva dalle viscere.
Cercò di scacciarlo ma non ci riuscì.
Li osservò camminare, senza che nessuno dei due si voltasse neanche per un attimo a guardarlo, anche solo per maledirlo o inveire contro di lui, e una volta in più augurò loro la morte.








“Devi essere sempre così impulsivo, Efestione? Ti ho visto. Se non fossi arrivato avresti finito per farci a pugni, e dopo come avresti spiegato ad Aristotele le sue ossa rotte?”
Efestione lo guardò di sbieco, facendo una smorfia. “Detto da te suona come un complimento, visto il modo in cui gli hai sbattuto la testa contro il muro. E comunque non vedo cosa ci sarebbe stato di male. Cassandro sta cercando di provocarmi in tutti i modi, e da un bel pezzo. Gli avrei dato solo quello che voleva.”
Camminavano fianco a fianco lungo il muro del dormitorio, diretti verso l’edificio principale.
“Questo è fuori dubbio e forse, con qualche dente rotto, la pianterebbe di andarsene in giro come un gallo altezzoso. Ma non ne vale la pena, non voglio che tu ti metta a fare a botte con quell’idiota.”
Efestione sospirò rassegnato ma Alessandro non parve farci caso. “Credimi, philè,” continuò, “il peggior nemico di Cassando è lui stesso. Lascialo pure avvelenarsi nella sua miseria, è innocuo."
Efestione scosse la testa, prendendolo per una spalla. “Non penso che sia così innocuo come credi e tu non sei mai stato bravo a giudicare le persone. È questo che mi preoccupa. Non mi piace. Non mi piace il modo in cui ti guarda: con disprezzo, con odio e allo stesso tempo con un’invidia insana. No, non ho mai pensato neanche per un attimo che fosse innocuo.”
Alessandro sorrise. Si strinse nelle spalle in un gesto sbrigativo. “Stai esagerando. Che Cassandro sia invidioso è lampante, ma gli passerà. E se non dovesse passargli non vedo proprio perché dargli importanza. Sbrighiamoci adesso, se vogliamo trovare qualcosa da mangiare.” Si avviò veloce verso l’ingresso dell’imponente costruzione di pietra, poi si voltò verso Efestione, che era rimasto immobile. “Ti vuoi muovere, sì o no?”
Efestione scosse la testa e lo seguì all’interno del corridoio rischiarato fiocamente dalle lampade di bronzo traforato appese alle pareti. I loro passi risuonavano come colpi nello spazio silenzioso, l’odore acre e familiare dell’olio che bruciava sembrava spandersi dappertutto.
Raggiunsero la cucina e la trovarono deserta. Il vasto locale era stipato di vasi, paioli di rame, stufe e bracieri, e un profumo variegato di spezie ed erbe aleggiava nell’aria.
“Menmet dev’essere già andato a letto, meglio così. Prendiamo qualcosa da mangiare e filiamo. Sto morendo di fame.”
Efestione annuì. Si diressero verso uno scaffale ricolmo di piccoli vasi coperti da teli di lino; riempirono una brocca con del vino e misero dell’uva passa, fichi e una focaccia di farina d’orzo su un vassoio, poi si avviarono veloci verso l’uscita, in direzione del dormitorio. Arrivati nella stanza che condividevano, Alessandro accese la piccola lampada a olio che teneva sul ripiano accanto alla finestra. Efestione sedette sul suo letto, appoggiando il vassoio e la brocca accanto a sé.
Il locale era piccolo e afoso, esposto ai raggi del sole durante il giorno. I letti si trovavano proprio sotto la finestra, mentre in un angolo c’erano le due cassapanche con i loro vestiti e un tavolino di legno con i dittici di cera e gli stilo per la scrittura.
Di lì a poco, un tenue chiarore illuminò le pareti della stanzetta.
Alessandro appoggiò la lampada vicino al letto, sedendosi accanto a Efestione. Lui gli sorrise e gli porse un pezzo di focaccia, assieme a una manciata d’uva.
Mangiarono in silenzio, condividendo lo stesso piatto come facevano sempre, poi Efestione prese uno dei kylix che si trovavano sulla mensola e versò un po’ di vino nella coppa, portandosela alle labbra.
Alessandro lo osservava concentrato e silenzioso. Assaporare il vino era un gesto che avevano condiviso molte volte, quasi un rituale segreto tra loro.
Il vino era vita, il vino era l’anima del dio. Rappresentava la chiarezza della visione, la passione dei desideri che danno fuoco all’anima di un uomo.
Il vino significava essere uomini.
Quando Efestione ebbe finito di bere gli porse la coppa; Alessandro gliela prese dalle mani e la fece ruotare, accostando le labbra al punto esatto in cui lui aveva bevuto.
Si ritrovò a fissare la sua bocca appoggiata all’orlo del recipiente, sentendosi improvvisamente a corto di parole. Alessandro aveva una sensualità selvatica, spontanea e al contempo inconsapevole, e questo riusciva a confonderlo del tutto.
Incapace di trattenersi, allungò una mano e fece scorrere tra le dita una ciocca dorata dei suoi capelli.
Alessandro sbatté gli occhi una volta, poi appoggiò la coppa accanto a sé e lo fissò in silenzio. Teneva ancora dell’uva in una mano e Alessandro gliela sollevò, portandosela alla bocca e cominciando a mangiare i pochi chicchi che erano rimasti. Quando ebbe finito staccò le labbra per un istante, guardandolo con un’espressione indecifrabile. Poi si mise le sue dita in bocca e cominciò a succhiarle forte, una a una.
Efestione sussultò e si sentì girare la testa, incapace di staccare gli occhi da Alessandro, intento a leccargli la mano con una lentezza dolorosa ed esasperante. Senza neanche rendersi conto di quello che faceva lo spinse sul letto, adagiandosi sopra di lui con tutto il suo peso e facendo cadere la coppa, che finì a terra con uno schianto.
Nella foga del gesto sentì il chitone di Alessandro strapparsi su una spalla, e rimasero a fissarsi senza staccare gli occhi l’uno dall’altro.
Efestione teneva le mani saldamente ancorate ai suoi polsi ma lui non si mosse. Si limitava a guardarlo con uno sguardo fiducioso.
Ecco – rifletté Efestione – questo era ciò che lo confondeva di più. Alessandro, sempre così fulmineo, rapido ed elusivo come un gatto selvatico, era con lui – e lui solo – docile e arrendevole. Sapeva che non avrebbe mai potuto tenerlo così se non avesse voluto, e la cosa lo inorgogliva e lo turbava al tempo stesso. Niente avrebbe potuto essere più immenso di questa fiducia, più prezioso di questa resa, questo abbandono segreto che nessuno vedeva, nessuno poteva conoscere.
Le parole gli uscirono a fatica, rauche, come richiamate dal profondo di sé. Non era certo di avere parlato fin quando non sentì la sua stessa voce arrivargli alle orecchie.
“Perché mi permetti di farti questo?”
Alessandro incurvò le labbra in un sorriso sottile. “Perché mi piace vedere questo sguardo nei tuoi occhi. Questo sguardo lo conosco solo io.” Poi lo artigliò per le braccia, rapido come la zampata di un leone, e con le labbra che quasi toccavano le sue, bisbigliò: “Non voglio che guardi nessun altro al mondo così. Ti uccido se lo fai. Preferisco saperti morto, che pensare di venire secondo nella tua vita.”
Efestione si liberò dalla stretta e gli sorrise, attirandolo a sé. “Sai che è impossibile. Non c’è nulla a questo mondo che mi sia più caro di te. Nulla.”
Alessandro gli si aggrappò con forza disperata, la pelle rovente, come se stesse bruciando. “Philè. Mio philè…” era la sola cosa capace di ripetere, ancora e ancora, mentre Efestione lo baciava sulla bocca, sulle spalle, sui muscoli delle braccia e del petto, senza sosta.
Trovò con le labbra una piccola cicatrice, non l’unica, sul braccio di Alessandro e la leccò, la mente annebbiata dal desiderio, mentre i loro chitoni scivolavano via, andandosi a unire ai frammenti della coppa sul pavimento.
Quando lo prese, con un’unica spinta possente, sentì un ansito sfuggire dalle sue labbra, il suo respiro spezzato e veloce – Alessandro, che non emetteva mai un lamento, nemmeno quando veniva ferito – e rimase immobile sopra di lui.
“Non… fermarti.” Fu solo un bisbiglio contro il suo orecchio mentre Alessandro gli afferrava i capelli e gli scavava con le dita la pelle della schiena. Ne avrebbe portato i graffi addosso per giorni, ma in quel momento non importava, non gli sarebbe importato nemmeno se l’avesse fatto a pezzi con le sue stesse mani.
Alessandro aveva tenuto per tutto il tempo gli occhi chiusi ma in quell’istante li riaprì, due pozzi grigi sovrastati da sopracciglia arcuate come ali, ed Efestione affogò ancora una volta in quelle profondità ardenti, in quella fiducia totale e nel fuoco che la avviluppava come una follia invocata dagli Dei.
Nella miriade di pensieri sconnessi che gli affollavano la mente, uno più di tutti sembrò tornare in superficie, sfocato e imperioso come una voce sentita in sogno. Una volta lui e Alessandro avevano trovato un libro tra le carte di Aristotele, un’opera scritta dal suo vecchio maestro, un filosofo ateniese chiamato Platone.
L’avevano letto di nascosto, incantati e anche un po’ colpevoli, perché Platone parlava dell’amore in quel libro, parlava degli amanti e del loro desiderio, della loro brama di fondersi l’uno con l’altro in una stessa colata incandescente, per non essere mai staccati, mai rimossi – notte e giorno. In particolare ricordava un unico, singolo passaggio – di come il Dio Efesto, trovatosi dinanzi agli amanti, avesse loro chiesto che cosa desiderassero di più, se non forse quella fusione, quella comunione senza ritorno. Ed entrambi avevano risposto: “… ecco, proprio questa è la mia febbre, da sempre. Confondermi, liquefarmi col mio amore, farmi uno da quei due che siamo."
Ed era tutto racchiuso lì, pensò confusamente Efestione mentre affondava nel suo amato – era tutto custodito lì, in quel suo desiderio convulso di diventare un tutt’uno con lui, conficcarglisi nella carne come un marchio rovente, l’identico marchio che Alessandro gli aveva impresso addosso con il suo stesso fuoco.
Alla fine giacquero a lungo, in silenzio, l’uno accanto all’altro, mentre il sudore si asciugava sulla pelle e i loro respiri tornavano lievi.
Quando Efestione voltò la testa, vide che Alessandro era addormentato, i lineamenti distesi e rilassati come gli accadeva sempre dopo l’amore. Era, questa, una delle poche cose in grado di farlo cadere in un sonno profondo e senza sogni.
Gli scostò una ciocca di capelli che gli copriva il viso, nel gesto familiare, e rimase seduto immobile a fissare il lembo di cielo scuro che si intravedeva dalla finestra, simile a un drappo adornato di pietre lucenti.
La notte era umida e profumata, e nella stanza l’odore acre del sesso si mischiava a quello degli oleandri che crescevano nei prati. Sulle labbra poteva sentire il sapore del sudore di Alessandro che era salato e leggero come acqua di mare.
Si rese conto con stupore che una strana vertigine si stava facendo strada dentro di lui. Osservò di nuovo il viso di Alessandro, immerso nel riposo, e sentì ancora quella morsa di inquietudine annodargli le viscere in un groviglio doloroso.
A volte si chiedeva se non fosse troppo quello che l’amico gli stava dando, se tutta quella fiducia, tutto quell’amore, un giorno Alessandro non li avrebbe pagati a un prezzo troppo alto.
Chiuse gli occhi per scacciare il pensiero.
Lui non l’avrebbe mai tradito, non avrebbe mai permesso che quei doni inestimabili andassero perduti, né che Alessandro dovesse pagare per questo. Mai. Non finché avesse avuto vita.
E allora perché doveva sentirsi così in ansia quando tutto ciò che voleva, tutto ciò che aveva mai voluto, giaceva sereno e al sicuro accanto a lui?
Rimase sveglio a lungo, incapace di placare i pensieri che correvano veloci, come prede inermi spaventate da un latrare lontano, per poi cadere in uno stato di nervoso dormiveglia. Non si rese conto di essersi addormentato fin quando non sentì i singhiozzi di Alessandro riportarlo bruscamente alla realtà. Si voltò verso di lui col cuore in gola. Alessandro era ancora addormentato ma piangeva nel sonno, si lamentava come se lo stessero straziando, mentre con le mani annaspava nell’aria, la ghermiva nel vano tentativo di afferrare qualcosa.
Lo scosse più volte, chiamandolo per nome, finché non aprì gli occhi di scatto, fissandoli nei suoi. Occhi vuoti: perduti, posseduti. Poi lo riconobbe, e tutta la vita sembrò rifluire in lui, assieme al rossore sulle guance ceree e al calore nel corpo. Gli sorrise titubante, ancora sperduto.
Efestione lo prese tra le braccia, in silenzio, facendogli appoggiare la testa sulla sua spalla. Alessandro oppose resistenza, poi si abbandonò all’abbraccio. Gli circondò la vita, a cercare un calore che sembrava essere scomparso da lui.
“Ho fatto un incubo, philè.”
“Lo so, ma è finito. È passata. Lo sai, vero?”
Alessandro si scostò e alzò gli occhi, ancora offuscati da un’eco di quel vuoto folle e senza ritorno. “No, non lo so.” Scosse la testa nello sforzo di ricordare, poi strinse le mani a pugno in una presa dolorosa sulle sue braccia, come cercasse di mantenere il contatto con la realtà aggrappandosi a qualcosa.
“Sogno sempre la stessa cosa, ogni notte. Ogni volta che chiudo gli occhi. Sogno di essere in uno spazio vuoto e sconosciuto, ma non ho paura fin quando non comincio a sentire le fiamme che salgono attorno a me, come una parete di lava, e iniziano a consumarmi, a liquefarmi come fossi un cadavere dimenticato su una pira funebre. Grido, ma nessuno mi sente. Le fiamme sono attorno a me, ma nascono in me, nascono dentro di me e mi mangiano, mi scavano, mi consumano finché non rimane più nulla.”
Prese a scuotere la testa da una parte all’altra, le pupille dilatate, facendosi sbattere i capelli sulle guance. Efestione gli prese il volto tra le mani, costringendolo a fermarsi.
“Adesso ascolta: era un sogno, Alessandro. Niente di questo è reale, lo capisci? Solo un sogno, portato da Hermes per ricordarci che siamo mortali.”
Alessandro si morse il labbro, talmente forte da farselo sanguinare, poi fissò di nuovo Efestione, mentre un rivolo di sangue gli scorreva sul mento, una piccola striatura rossa, viva come un rubino.
Efestione allungò una mano per asciugarla, ma Alessandro lo bloccò con uno scatto. “Vuoi sapere qual è la cosa peggiore, la più orribile di quel sogno?” si interruppe un istante, ma quando si accorse che Efestione stava per parlare riprese con foga: “Non sono le fiamme, e nemmeno il calore che mi scava le ossa. Oh, no. È il fatto che, mentre brucio, mentre mi consumo, io… sono solo. Non c’è nessuno lì, nessuno mi sente, anche se grido. Anche se urlo fino a farmi scoppiare i polmoni.” Alzò la voce tutto d’un tratto, afferrandosi a lui con energia incontrollata. “Io chiamo il tuo nome, Efestione, lo grido con tutta la voce che ho in corpo ma tu non ci sei, o forse non mi senti. Ti chiamo ma tu non arrivi, non ci sei. Non ci sei!” La sua voce era un grido, le mani serrate a pugno; le unghie scavavano mezzelune vermiglie nella carne tenera dei palmi.
Efestione gliele prese fra le sue e lentamente, con dolcezza, gli fece rilasciare la stretta.
“Tu non sei solo. E io sono qui. Se dovessi chiamarmi non avresti bisogno di urlare, perché io sarei a non più di due passi da te. Ti basterebbe alzare gli occhi, come stai facendo ora, per vedermi. Non puoi non saperlo.”
Alessandro abbassò le spalle con un sospiro, come se tutta la tensione l’avesse abbandonato di colpo. Si appoggiò a lui e lasciò che l’abbracciasse, lo cullasse in una stretta calda, rassicurante. “Forse sì. Ci sei, questo è vero, posso vederti. Ma che farei se un giorno dovessi svegliarmi e tu non rispondessi più al mio richiamo? Che farei se dovessi svegliarmi e tu non fossi più qui?”
“Ci sarò.”
Alessandro rimase in silenzio mentre Efestione lo accarezzava, sussurrava e lo cullava come un bambino, e la tensione sembrava scivolare via come un mantello pesante tolto alla fine della giornata.
Parakaleo se emoi pareinai eis aei, Hephaistion. Non andartene mai.Fu solo un sussurro e dopo pochi istanti era nuovamente addormentato, il respiro leggero e regolare.
Efestione lo tenne contro di sé a lungo, mentre la luna completava la sua salita e le stelle si facevano ancora più brillanti nel cielo nero.
Non ci sarebbero più stati sogni fino a domani, ma lui non avrebbe potuto dormire, ormai. Chiuse gli occhi, sentendo la notte respirare gravida attorno a lui, come una creatura viva.
Doveva diventare forte.
Doveva diventare molto più forte per proteggerlo dal suo stesso fuoco. Non importava quali segni questo avrebbe lasciato su di sé, fintanto che ciò servisse a preservarlo, a evitare che il fuoco lo toccasse.
Il marchio era stato inciso indelebile nelle sue carni, era il suo destino e la sua stessa maledizione. Ma non aveva paura. L’aveva scelto consapevolmente e avrebbe tenuto fede a quel voto, avesse dovuto bruciare vivo per questo.
Pensò a Orfeo, a come era sceso tra le ombre per ricondurre indietro la sua Euridice; pensò a come spesso Alessandro gli dicesse che la realtà gli appariva sfocata, immateriale, come dietro a un velo, o nascosta da un’ombra.
Se era così, allora voleva avere il coraggio di Orfeo. L’avrebbe trovato ovunque fosse e l’avrebbe riportato indietro, verso il sole. Non si sarebbe voltato, non avrebbe indugiato neanche se tutte le teste ringhianti di Cerbero e le fiamme più atroci avessero lacerato il suo corpo mortale. Nulla avrebbe potuto impedirgli di guidarlo fino alla fine del sentiero e tenerlo per mano, nella luce del giorno.
Appoggiò il palmo sulla guancia di Alessandro, che era tornata tiepida e soffice, e lui sospirò nel sonno.
Sì – pensò Efestione in un attimo di improvvisa, quasi divina chiarezza: doveva diventare forte per poterlo condurre con sé, illeso, attraverso il fuoco.





Fine





Note:

1) Nel 324 a.c., nella città di Ecbatana in Asia, dopo una lunghissima campagna che porterà Alessandro e il suo esercito a conquistare la gran parte del mondo conosciuto e a essere alla testa di un impero che si estendeva dai confini della Grecia fino all’India, Efestione si ammalerà e morirà improvvisamente in pochi giorni – poco più che trentenne.
Tutte le fonti storiche sono concordi nel dire che Alessandro fu letteralmente devastato dal dolore.
Giacque sul corpo dell’amico per quasi un giorno e una notte, fin quando non ne fu tratto via a forza dai suoi compagni, poi rimase rinchiuso nella sua stanza per più di una settimana, senza bere né mangiare, incapace di fare nient’altro che piangere e dormire.
Quando tornò in sé, fu per dare il via ad una bizzarra – all’epoca fu creduto pazzo – forma di compianto. Aveva già dato ordine di impiccare il medico che, invece di rimanere con Efestione, se n’era andato a vedere i giochi; si tagliò i capelli (come Achille aveva fatto per Patroclo) e fece fare lo stesso con le criniere di tutti i cavalli; fece spegnere tutti i fuochi (un privilegio riservato solo alla la morte del Re e che fu infatti interpretato come cattivo auspicio) e ricoprire le sette mura di Ecbatana con vernice nera.
Il tempio di Esculapio, patrono della salute, fu fatto radere al suolo, ed egli stesso si imbarcò in una guerra lampo contro i Cossiani, per offrire i morti in sacrificio all’ombra dell’ amico, nella sua discesa verso l’Ade.
Ordinò che il reggimento di Efestione portasse il suo nome ad perpetuum e che tutti gli accordi commerciali fossero firmati in suo nome.
L’azione più folle, e anche la più disperata, fu l’invio di un’ambasciata diretta all’oracolo dell’oasi di Siwa, nel deserto libico, dove Alessandro stesso, anni prima, era stato riconosciuto come figlio di Zeus-Ammon, affinché anche a Efestione fosse riconosciuto lo status divino
Questo era molto più di un semplice “riconoscimento” per il morto.
Secondo i greci, solo le anime degli eroi o degli Dei erano ammesse nell’Elysium, mentre ai comuni mortali era riservata un’esistenza “inferiore”, nell’Ade.
In quale modo poteva l’anima deificata del figlio di Zeus-Ammon essere riunita all’anima mortale di Efestione, figlio di Amintore, se non riconoscendo anche a lui uno status superiore?
A ogni modo, a Efestione non fu concessa la divinità, ma fu comunque permesso che venisse adorato come eroe divino, permettendogli così, l’accesso all’Elysium.
Il funerale si svolse a Babilonia, e la pira funebre che Alessandro fece costruire fu ricordata come il monumento funebre più colossale dell’antichità, nel quale spese una somma esorbitante per l’epoca.
Il suo comportamento, che egli ne fosse consapevole o meno, divenne sempre più autodistruttivo; beveva spropositatamente, e continuò a farlo anche quando si ammalò, nove mesi dopo la morte di Efestione, mentre si trovava ancora a Babilonia.
Rifiutò ostinatamente di essere visto da alcun medico e la malattia lo consumò in dieci giorni, nonostante anni e anni di campagne al limite dell’immaginabile avessero dimostrato la tempra di cui era fatto.
Quando morì aveva trentatré anni.


2) Alessandro si lasciò alle spalle un impero immenso e nessun erede. Rossane, la sua prima moglie, era incinta, ma il bambino non era ancora nato quando il re morì.
Se Efestione fosse sopravvissuto ad Alessandro è logico pensare che sarebbe andata a lui la reggenza e la tutela del piccolo Alessandro IV, fin quando non fosse stato abbastanza grande per regnare.
Efestione era Chiliarca – secondo in comando – di Alessandro, e pochi mesi prima della sua morte, a Susa, quando si erano tenuti i matrimoni di massa tra i generali macedoni e le donne persiane, Alessandro aveva preso in moglie Statira (la figlia del defunto re di Persia, Dario), e aveva dato la sorella Dripeti in sposa a Efestione.
In questo modo, aveva detto, essi sarebbero potuti diventare parenti (gesto ancora più significativo, se si pensa che Efestione non aveva più alcun consanguineo nell’esercito macedone) e i loro figli avrebbero condiviso lo stesso sangue e sarebbero stati ugualmente eredi dell’impero, rendendo quindi ufficiale l’eventuale successione di Efestione alla reggenza, se questo fosse stato necessario.
Purtroppo non andò così, e alla morte di Alessandro si scatenò una lotta per la successione tra i generali che erano rimasti – Tolomeo, Cratero, Perdicca, Seleuco, Antigono, per menzionarne alcuni – lotta che si protrasse per più di vent’anni, frammentando l’immenso impero in regni più piccoli e indebolendolo, fino a renderlo facile preda della conquista romana che sarebbe avvenuta nei secoli successivi.
Statira e Dripeti furono richiamate a Babilonia da Rossane prima che potessero sapere che il Re era morto, e furono avvelenate dalla stessa Regina (ciò fa supporre che Statira potesse essere stata incinta, al momento dell’assassinio).
In seguito Rossane rimase sotto la protezione di Perdicca (che prese la reggenza) e, alla morte di quest’ultimo, rimase in Macedonia col piccolo Alessandro IV, assieme a Olimpia, la madre di Alessandro, che era riuscita a prendere il potere con un atto di forza.
Sia Olimpia che Rossane e, ovviamente, il figlio di Alessandro ancora tredicenne, furono trucidati da Cassandro, che divenne così, alla fine, re di Macedonia.


3) Una parola su Cassandro: l’odio reciproco tra lui e Alessandro è ben documentato; sebbene fosse stato tra i compagni che avevano studiato a Mieza con lui (nonché figlio di uno degli uomini più fedeli a Filippo e, dopo, ad Alessandro stesso), fu l’unico che Alessandro non portò con sé in Asia.
Lo rivide solo poco prima della sua morte, quando Cassandro si recò a Babilonia per portare un’ambasciata di suo padre Antipatro.
L’odio riesplose feroce come non mai: Cassandro fu sorpreso da Alessandro a ridere di un vecchio persiano che si prosternava, e il Re gli sbatté la testa contro il muro, alla presenza di tutti.
Anche dopo molti anni dalla sua morte, e dopo che Cassandro aveva massacrato tutta la sua famiglia estinguendo così il suo sangue per sempre, si dice che non riuscisse a non tremare davanti a una statua di Alessandro.
Il personaggio di Nicanore non è inventato.
Cassandro ebbe davvero un fratello che combatté per lui quando (anni dopo la morte di Alessandro), Olimpia prese il potere in Macedonia e si mise quindi sulla sua strada.
Senza dubbio Nicanore doveva averlo amato perché si fece trucidare da Olimpia per la causa del fratello.
Cassandro ordinò la lapidazione di Olimpia non appena le ebbe messo le mani sopra, morte verso la quale la Regina andò incontro con stoico coraggio.


4) Tolomeo fu indubbiamente uno dei “Diadochi”(i successori) più potenti; a lui andò la satrapia dell’Egitto, di cui divenne faraone dopo la morte del principe Alessandro IV, e sotto di lui (e la sua stirpe, i “tolemaici” appunto), la nazione prosperò, e Alessandria divenne il centro più importante di tutto il medio oriente antico, ospitando la famosa biblioteca per la quale ancora oggi la città è famosa.
La linea di Tolomeo si estinse con l’ultima regina, Cleopatra, quando l’Egitto divenne provincia romana, nel 30 a.c.


5) Una piccola nota, infine, su altri due personaggi menzionati nel racconto: Parmenione, generale in capo dell’esercito macedone ai tempi di Filippo e, per un certo periodo, anche in quello di Alessandro, è riconosciuto come uno dei geni militari del suo tempo.
La sua fedeltà a Filippo è ben documentata, così come i suoi interventi chiave e decisivi nella sottomissione delle numerose città greche (nonché della Tracia e dell’Illyria), che fecero della Macedonia la potenza del tempo.
Filota, suo figlio, fu uno dei compagni di Alessandro che lo seguirono in Asia, nonché capo della cavalleria del suo esercito, fin quando, nel 330 a.c. fu trovato colpevole di una cospirazione contro la vita di Alessandro, sebbene non sia mai stato provato se ne fosse stato coinvolto in prima persona o se, avendolo saputo da terzi, avesse omesso di dire quello che sapeva.
Filota fu condannato a morte dall’assemblea macedone e giustiziato, e sebbene la colpevolezza (o il coinvolgimento) del padre Parmenione non sia mai stata provata, se ne rese necessaria l’eliminazione.
Parmenione, infatti, era rimasto indietro con una parte del suo esercito e controllava le linee di rifornimento a ovest, dalle quali dipendeva l’esistenza stessa dell’esercito di Alessandro.
Colpevole o no, Parmenione avrebbe voluto la sua faida, e aveva dalla sua parte uomini che gli erano fedelissimi.
La notte stessa in cui Filota fu giustiziato, tre dromedari partirono diretti a ovest, con l’ordine di morte per il vecchio generale.
Questo episodio rimane senza dubbio uno dei più oscuri nella vita di Alessandro (assieme all’uccisione di Clito), e lui stesso ne portò il rimorso per anni, senza farne mistero; non deve essere difficile pensare che un tempo Alessandro doveva avere molto amato Parmenione, forse la figura più simile a un padre che egli avesse mai avuto.


  
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