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Autore: HeySoul    10/01/2015    2 recensioni
Si limitava a studiarla da lontano, qualche volta. In una moviola di capelli disordinati ed espressioni concentrate, di gambe accavallate deliziosamente e i suoi calzini al ginocchio a farla sembrare più giovane.
Genere: Commedia, Generale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alex Turner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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 Doppio aggiornamento! Non dimenticate di leggere il capitolo otto!

Avviso a tutti che, in realtà, da quando ho scritto questo ultimo capitolo e quello precedente sono passati almeno tre mesi. Mi dispiace tantissimo per il ritardo ma ancora di più penso che si notino delle differenze, spero non vi diano fastidio. Ci vediamo a fine capitolo per i ringraziamenti! 

 
Epilogue

"You and me could have been a team.
Each had a half of a king and queen seat.
Like the beginning of Mean Streets
You could Be My Baby"

 
I pomeriggi le erano sempre piaciuti un po’ di più rispetto agli altri momenti della giornata. Erano tranquilli, e non implicavano niente. Nelle mattinate si era costretti ad impugnare le redini della propria vita, e magari andare anche a lavoro. Compiere tutte quelle azioni che, alla fine, non si pensa neanche di fare, se non quando, la notte prima, ti chiedi quali siano i tuoi impegni del giorno successivo; solo per infierire un po’ su un umore già pessimo di suo, poi. Alzarsi, preparare la colazione, aprire le tende, e così discorrendo. Le sere sono troppo frenetiche invece, perché le decisioni che non si possono prendere la mattina – perché già imposte – le si mettono in pratica la sera. Ogni sera, perché poi in una non c’è mai tempo. Le notti le piacevano ma non sempre, perché a volte fa freddo e si capisce che quel letto non è quello giusto, e che vorresti essere nel tuo. Sapeva che le piacerebbe il sorgere del sole ma sapeva anche che alzarsi presto per quello, ogni giorno, non sarebbe stato lo stesso. E poi dal suo appartamento l’alba non si vedeva, e sarebbe dovuta andare fuori città per ammirarla come si deve. Così i pomeriggi erano quelli che preferiva. Alcuni anni prima li avrebbe passati in un modo diverso: leggendo un libro, ballando senza seguire il tempo e sulle note di una canzone che nemmeno conosceva, magari. Invece di questi tempi quelle ore avevano assunto un ruolo ancora più importante. Iniziava quando entrava nella camera di sua figlia, dove la piccola si rintanava per giocare quando lei ancora era intenta a sparecchiare la tavola. La trovava sempre un po’ corrucciata, con la fronte corrugata e le labbra strette. A volte le chiedeva cosa non andava e alla fine risultava sempre un problema non della piccola, bensì della scimmietta di pezza che portava con sé. Allora Eileen si appoggiava alla parete, con le braccia incrociate al petto, e si perdeva un po’ a guardare la parete di fronte a lei. Prima dell’arrivo della bambina l’immagine dipinta cambiava spesso, tanto che a volte si chiedeva quanto spessore avesse aggiunto al muro. Poi ripassava mentalmente ogni disegno, finendo per dimenticarne qualcuno. Invece, da quando la piccola aveva fatto il suo ingresso in quella casa, il disegno era rimasto lo stesso. Le avevano chiesto spesso cosa raffigurasse. Ci provava a rispondere, davvero, ma alla fine glissava la domanda, dicendo che era solo un disegno. Eppure tutte le persone che la conoscevano sapevano di stare assistendo ad una bugia, quando si sentivano dire così. Lei non ci faceva caso e, invece, si girava e indicava l’altro dipinto, sulla parete opposta. Una scena di un acquario, molto calmante, a dire il vero. Poteva sembrare anche l’immagine di una vita della Grande Barriera Corallina o di un qualsiasi punto di un mare caldo, con un tasso particolarmente alto di vita sottomarina. Era stata la piccola a dirle che, invece, era proprio un acquario, perché i pesci avevano gli occhi un po’ tristi e, seguendo il ragionamento, nell’oceano non avrebbero avuto le stesse espressioni. Così ad Eileen il dipinto non era sembrato più così tanto calmante e si era ripromessa di cambiarlo. Ma finché le faceva da diversivo per il disegno della parete opposta non la disturbava. Il punto era che le piaceva tenere il ricordo di qualcuno ma non in modo troppo esplicito. Perché alla fine quella era casa sua e non trovava giusto che qualcuno, entrando, leggesse i ricordi di quelle mura come se glielo avesse permesso lei. Non teneva foto, infatti, ma disegnare le riusciva bene e perciò lasciava che i suoi ricordi venissero raccontati da pennelli e matite. Guardare quella parete lo faceva nel pomeriggio, mai in mattinata o durante la notte. L’avrebbe fatto durante l’alba, ma la luce non sarebbe stata quella giusta, così tradita dalla città, e allora ci rinunciava. Un’altra novità dei nuovi pomeriggi erano le domande della figlia. Sembrava che le più contorte le riservasse in quelle ore, come se lo avvertisse. E quella di quel giorno le era piaciuta particolarmente, quasi la stesse aspettando.
«Chi è lui, mamma?» E avrebbe potuto indicare il disegno della parete, invece prese per mano la sua scimmietta di pezza e si alzò, fino a premere la punta dell’indice sui colori, in un punto preciso. Eileen proprio non se lo spiegava, come sua figlia fosse riuscita a capirlo. Era pura astrazione, eppure aveva poggiato il ditino proprio dove l’autrice aveva immaginato il viso di un uomo, anche se, inutile dirlo, il viso di un uomo proprio non c’era. Allora Eileen sorrise, ampiamente pure, senza nascondere che la piccola avesse fatto pieno centro.
«La vuoi sentire una storia, mh?» Disse, prima di sedersi sul pavimento, incrociando le gambe. La bambina annuì con enfasi e un sorriso sdentato, ma dolce, scattando fino a raggiungere la madre. Si accoccolò sulle gambe con l’esperienza di un gesto ripetuto altre volte, appoggiando la schiena sul petto della donna. Aveva capito da sola che la storia raccontava di quel lui da lei indicato e, tirando le somme, aveva anche capito che necessitava di avere come sfondo di quel racconto il dipinto nella parete. Eileen si limitò a stringerla un po’ con le braccia.
«Lui è stato un mio amico, di quelli a cui vuoi molto bene, hai presente, tesoro?»
«Come Mindy?» Alzò il braccio, in modo da far dondolare il pupazzo.
«No, non come Mindy. Mindy mi ricorda un po’ Lana, lo sai.» Rise appena, stringendo la piccola maggiormente e affondando per qualche secondo il naso nell’incavo fra la spalla e il collo. Aveva un buonissimo odore, di shampoo e bambino: infantile.
«Come Thomas! Ecco, così.» Trovare le parole per descrivere un amore era sempre un po’ difficile. Perché con i bambini si pensa a mettere tutto sul piano più basso, più semplice possibile. Ma l’amore non è poi mica così semplice, come tante altre cose, così si finisce per mettere solo confusione. Basterebbe parlare invece, e loro capirebbero. Magari sbattendo le ciglia e arricciando il naso, prima. Dicendo che sono cose da grandi e tornando a giocare poi, che non si era rivelato mica così interessante. Comunque Thomas era un bambino della stessa età della figlia di Eileen, andavano a scuola insieme, ed era la prima ufficiale cotta della bambina. Di quelle cotte che viene voglia di restare vicino a lui e abbracciarlo, di tanto in tanto.
Storse il naso e poi alzò lo sguardo verso la mamma, trovando gli occhi scuri di lei senza difficoltà.
«E perché lui non è qui? Thomas è a casa sua, è anche lui a casa sua?»
«Certamente.»
«E perché non l’ho mai incontrato?»
«Perché è un vecchio amico. Anche io non lo vedo da tanto.»
«Come Bubi?»
Bubi era un gatto, di pezza anche lui, ma faceva parte della categoria dei giocattoli persi. Li si mette dentro uno scatolone, in uno sgabuzzino buio, e poi non li si ritrova più. Alla fine sono come vecchi amici: persi. Questo fu il secondo esempio per aiutare la bambina a capire la storia. Alla fine il racconto andò avanti con domande e risposte. Le raccontò del primo incontro con il ragazzo, nella stanza con tante luci eppure buia. Della pioggia e della musica. Si sentiva un po’ sperduta quella notte e non sapeva nemmeno come ci era arrivata in discoteca. Pensava che la musica ad un volume tanto alto l’avrebbe aiutata a non pensare, e alla fine era stato così. Non aveva pensato, o almeno non l’aveva fatto lucidamente, quando aveva sorriso ad uno sconosciuto e quando aveva accettato di ballare. Quando si era lasciata stringere e, senza volerlo, conoscere. Descrisse il vestito blu che portava, che sapeva un po’ di notte e un po’ di oceano. Forse ce l’aveva da qualche parte nell’armadio, disse. Glielo avrebbe fatto vedere di sicuro. Poi passò al secondo incontro. Sorvolò completamente sul fatto che, a quel tempo, il negozietto all’angolo non era gestito da Jamie, la ragazzina timidissima che serviva i cupcakes come se fossero bicchieri di cristallo, ma dalla Signora Renée, sua madre. La donna era morta in un incidente d’auto, senza che fosse all’interno della vettura, da pedone. Ad Eileen mancava il modo in cui le carezzava la guancia quando chiedeva la cioccolata fondente, dicendo che la vita che portava in grembo era un dono. Le sarebbe piaciuto che pizzicasse la guancia a sua figlia, adesso, passandole un dolcetto sottobanco.
Non descrisse il vestito che indossava quel giorno perché, disse, se lo era già dimenticato. Ma si perse nei dettagli sulla bontà del dolce che aveva mangiato.
«E lui cosa aveva mangiato, mamma?»
«Caffè amaro e cornetto al cioccolato e panna!» Inutile dire che si sorprese di ricordarselo così bene. Si guadagnò un’occhiata curiosa, a proposito. Se non altro, le due si intendevano su tali argomenti. Probabilmente la prima caratteristica che la piccola aveva ereditato dalla madre era quella della passione per i dolci.
«Lui ha gli occhi marroni?»
«Perché lo chiedi?» Prese ad arricciarle una ciocca di capelli biondissimi con l’indice.
«Non lo so. Il caffè a me non piace – pausa, smorfia – ma a te un po’ sì. Tu hai gli occhi marroni, mamma!» Come ragionamento non faceva una piega, anche se la statistica dell’esperimento era stata fatta su tre persone. E che, se in effetti sarebbe stata allargata ad altri individui, non avrebbe funzionato per nulla.
«Stai dicendo che chi ha gli occhi azzurri come te non può bere caffè?»
«Sì. No? Può! Ma non gli piace. O forse non è così?» Ad Eileen venne in mente la volta che la figlia era riuscita a battere probabilmente un record mondiale di bugie, quando aveva rotto il classico vaso e sparso terra e impronte di piedini in giro per casa. La prima volta che era stata incriminata aveva incolpato il gatto, la seconda volta aveva detto che si era rotto da solo, la terza che l’aveva trovato così, la quarta che era stato il vento.
Sembrò pensarci un po’ su, la donna. La piccola sapeva, invece, che era concentrata su qualcos’altro e che i suoi pensieri erano tutti per quel lui che, per adesso, ancora non capiva del tutto. Però se lo immaginava come una buona persona e non aveva paura di sapere. Era curiosa, eppure non troppo. Se guardava il dipinto, allora un po’ lui se lo immaginava.
«Ero molto triste, in quei mesi. Faceva freddo.»
«Era inverno?» Stropicciò la scimmietta, guardandola nei bottoncini lucidi che fungevano da occhi. Poi passò a guardare la sua mamma e la vide annuire, mentre sorrideva leggermente.
«Ti sentivi sola?» Le chiese, ancora.
«Quando faceva freddo, sì.» Non spiegò oltre. Si aspettava che sua figlia le ponesse un’altra serie di domande, invece riprese a stringere il pupazzo e a guardare il dipinto. Si prese una pausa. Di fuori si sentiva il rumore del traffico ma anche la musica sinfonica del vicino del piano di sotto. Pensava ad Alexander, ovviamente. Ricordava il modo con cui la stringeva e la faceva sentire al caldo, e al sicuro. Si sentiva amata ma non voleva esserlo, in fondo. Si colpevolizzava spesso e, come parola, non le piaceva neanche tanto. Se l’avesse ripetuta a voce alta, adesso per esempio, avrebbe risentito quello stesso vocabolo in almeno tre modi diversi, uscire dalle labbra rosee della piccola.
Poi decise che la pausa fosse durata abbastanza e riprese a raccontare.
«Persino Lana lo adorava! Dovevi vederla mentre lo prendeva in giro come solo lei sa fare, e lui rideva.» Rise anche la piccola. Per fortuna l’immaginazione aiutava in quella storia piena di lacune e vicoli ciechi. Continuò, con l’episodio del ghiaccio e delle scale.
«Io continuavo a mettere il ghiaccio sulla sua ferita e lui continuava a spostarlo su di me.»
«Tu lo fai sempre! Io ti pettino i capelli e tu li vuoi sempre pettinare a me!» Eileen le concesse un sorriso complice, mentre l’altra si spostava. Sgattaiolò da un abbraccio d’occasione e si sedette davanti alla donna. La guardava dritto dritto negli occhi, anche se non sempre lo sguardo veniva ricambiato. La luce era perfetta e vedeva il colore del dipinto riflesso nelle iridi che osservava con così tanta curiosità. Eileen tralasciava le parti che, ovviamente, non poteva raccontare ad una bambina di cinque anni. Tutte le volte che avevano fatto l’amore e si era lasciata volere bene, senza rimpianti. O quando lui aveva colpito in pieno il zigomo dell’altro uomo di cui era rimasta ipnotizzata, ma che mai aveva amato. Se ci pensava, lo rivedeva in ogni tratto del viso di sua figlia. Ma doveva impegnarsi per farlo. Alexander, di certo, si sarebbe curato di far notare che tutta la dolcezza di quel confetto biondo era specchio di quella di Eileen. Eric, poi, non lo vedeva da quel giorno. Non si era più rifatto vivo e, non troppo tempo dopo, era finito in prigione. Non era andata a trovarlo e non si era mai pentita di non provare empatia per lui. Non aveva semplicemente voltato pagina, iniziato un nuovo capitolo della propria vita, ma si era presa la briga di cambiare libro. E anche se ora la copertina era tutta sgualcita e la carta odorava di vecchio, sapeva di avere in mano il giusto racconto e di amare ogni sua riga.
Sorrise di sfuggita e la bambina lo notò immediatamente, neanche l’avesse sbandierato.
«Perché sorridi? Mamma?»
«Perché mi sono ricordata di una cosa. Aspetta, guarda.» In qualche secondo estrasse dalla tasca il suo cellulare. In quella casa non vi erano tabù, nemmeno quello della tecnologia. Smanettò per qualche secondo, per poi porgerlo all’altra che lo prese con entrambe le manine, facendo attenzione a non farlo cadere. Sullo schermo era apparsa una foto buffa che fece ridere immediatamente la biondina. Eileen aveva tutti i capelli arruffati e gli occhi volutamente storti; un sorriso divertito sul volto. Ma al suo fianco vi era il lui di cui stavano parlando e la piccola non poté fare a meno di dischiudere le labbra in una piccola O. Il ragazzo non guardava l’obiettivo ma l’amante, e rideva di gusto. Gli occhi erano un po’ socchiusi e il naso un po’ arrossato per il freddo. Sembravano felici.
«E’ bello, mamma!» Cantilenò, dando un’ultima occhiata al dispositivo e poi ripassandolo alla proprietaria.
«Ti piace, eh?» Sorrise maliziosa, precedendo un momento tanto conosciuto. La piccola tentò di fuggire ma venne comunque investita da un’ondata di solletico. La camera si riempì velocemente di risate e di movimento. Sembrava giusto mostrare del contrasto fra le posizioni pressoché statiche di poco prima e tutto questo nuovo trambusto. Quando si calmarono, la più piccola rimase appoggiata alla parete nota, i palmi orientati verso il muro, all’indietro, ma il corpo rivolto verso l’altra che non si era scomposta troppo. Sembrava pronta ad un secondo round. Stava giusto per incominciare a correre di nuovo, questa volta ponendosi l’obiettivo di portare Mindy con sé. Ma, prima che potesse effettivamente scattare, spalancò gli occhi per lo stupore e la curiosità. Sua madre aveva incominciato a cantare, inizialmente a voce bassa e poi più alta. Lo faceva solo quando la bimba era più piccola e la notte si prolungava troppo a lungo, e gli occhioni chiari rimanevano prepotentemente puntati sulla donna, sveglissimi. Poi aveva smesso. Sembrava fosse diventato un segreto, nascosto a tutti tranne che a se stessa. Cantava quando dipingeva ma mai era apparso alla piccola di sentire quella canzone uscire dalle labbra della propria mamma. Eppure la conosceva bene e, dopo l’iniziale stupore, si aggiunse, dando inizio ad un duetto. Erano felici e sorridevano in continuazione, così da dare alla loro musica il giusto sentimento. Quando la canzone finì, risero insieme.
«Lui canta?» Chiese la biondina, senza lasciarsi sfuggire il sorriso divertito. Eileen annuì piano, con gli zigomi alti per l’espressione compiaciuta, come se non aspettasse altro. Sentiva di aver creato un filo da ragno tessitore, capace di portare la sua ascoltatrice ad una conclusione. Prese ad intonare un'altra melodia. Allungò le gambe, districando l’intreccio in cui le aveva tenute fino ad ora, mostrando le calze al ginocchio, candide come erano sempre state. Le tenne così per qualche secondo, continuando a canticchiare piano, quasi timidamente. La bambina, in piedi com’era, affievolì la piega delle labbra, senza abbandonarla. Strinse un po’ più forte la scimmietta, guardando incantata la madre. Poi lasciò scivolare lo sguardo sulle gambe affusolate, ed ecco di nuovo ad incontrare lo sguardo scuro della donna. Infine si voltò completamente, immergendosi nel dipinto. La piccola sapeva, dentro di sé, che la risposta a qualsiasi domanda stava in quell’ammasso di colori e sfumature. L’aveva guardato tante volte, quel dipinto, e solo adesso si accorse di aver trovato la risposta. Restò così per minuti interi, con le labbra dischiuse. Ad Eileen piacque guardarla, anche se le era concessa solo la vista della schiena minuscola. Osservandola, pensò a quel ragazzo che aveva incontrato e che aveva lasciato andare. L’aveva visto partire, andare via fisicamente, ma si rese conto di essere stata lei a decidere di non tenerlo con sé. A suo tempo, aveva potuto possederne una parte. Gli occhi, la voce, il fascino e la dolcezza. Avrebbe potuto allungarne la permanenza ma aveva deciso, probabilmente ancora prima di conoscerlo, di non condividere un’esistenza con lui. Se avessero voluto, avrebbero potuto farlo, senza rimorsi e senza guardarsi indietro. Si sarebbero amati, per tutti il tempo. Ma avevano deciso di non farlo, capendo di non stare abbandonando tutto, ma di avere dei ricordi che permettessero loro di tornare a casa, ogni volta.
La bambina si voltò. Con lentezza, senza l’intenzione di rompere l’incanto che si era andato a creare. Spalancò gli occhioni chiarissimi e porse un’ultima domanda.
«Qual è il suo nome?» Lo chiese piano e con voce dolce.
«Alex
«Come me?»
«Come te, tesoro.»

 
Eccoci qui arrivati alla fine! Prima che ve ne andiate ringrazio tutti quelli che sono giunti fino a questo punto. Questa storia è stata un’avventura da cui ho imparato un sacco di cose. Ammetto che la storia non è un granché e i ritardi verso la fine nella pubblicazione erano dati proprio da una profonda indecisione. Ero arrivata ad un certo punto che volevo cancellare tutto e nascondermi in un angolino al buio. Ma alla fine tengo ai personaggi che ho creato più di quanto mi sarei mai aspettata. Eileen, Lana, la piccola Alex.
Ho imparato in primis a non pubblicare mai nulla senza prima aver concluso definitivamente la storia e a strutturarla meglio, senza nascondermi dietro all’aggettivo “romanzato”.
Ringrazio Monica, che è stata la prima a leggere ogni capitolo e darmi un parere.
E ovviamente ringrazio gli Arctic Monkeys! Che con Knee Socks e con la loro musica hanno ispirato questa folle fan fiction che, per quanto non sia venuta fuori come me l’ero immaginata, è pur sempre un inizio!
Ringrazio ancora tutti voi che avete letto e, in modo particolare, a tutti quelli che hanno trovato il tempo per recensire.





 
 
  
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