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Autore: Christa Mason    14/01/2015    1 recensioni
Julian Casablancas (cantante degli Strokes - è anche bene sapere che gli Arctic Monkeys nascono come cover band degli Strokes) e Alex Turner si incontrano nel principale aeroporto di New York. Complicità, confessioni, intimità, una sbronza insieme e...
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alex Turner
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Julian, 
  persino a scriverlo mi sento stupido. Mi sono costruito addosso una montagna di frasi depresse da rockstar fallita che ti snocciolavo con aria sconsolata, Non mi sento capito, Julian, non sono più un’artista, voglio cambiare qualcosa nella mia vita, sento che gli Arctic Monkeys non mi rappresentano più…, mentre tu stavi attraversando una crisi d’astinenza e tua moglie era chiusa in una clinica in Italia per partorire il vostro secondo figlio. Tu ci saresti andato prima in Italia, quel tanto che bastava per tenere la mano a Juliet mentre vedevate la nuova vita a cui avevate dato inizio nascere. Ma il vostro secondo bambino stava nascendo un tre settimane di anticipo, per quello ti trovavi in un aeroporto a sera tarda, aspettando un volo notturno che forse non sarebbe mai arrivato. Un secondo figlio, un secondo inizio per un matrimonio che avevo sempre creduto più che stabile. Leggevo ogni tanto di voi, online e sui giornali, con la giusta discrezione avevate fatto intuire che tutto stava andando alla grande: in un mondo dove nessuno sembrava aver trovato l’amore, ecco che la famiglia Casablancas sorrideva alle macchine fotografiche e faceva quelle pacifiche e timide interviste, quasi noiose per quanto sembravate felici. 
  - Perchè in Italia, non abitate a New York? - 
  - Lì fanno le cose con una certa cura, a quanto pare, e forse voleva starmi lontana per un po’, quel tanto che le basta per capire che in fondo mi ama e che ne vale ancora la pena. Poi l’Italia le piace molto, voleva scappare per un po’ e ha scelto l’Italia.- 
  - Pensavo foste felici. - 
  - Lo siamo. Lei è molto felice, felice abbastanza per tutti e due, io non troppo, normale. -
  - Si può essere felici in modo normale? -
Hai allargato le braccia come per dire Eccomi, sono qui, la prova che si può essere felice in modo normale. Non avrei saputo che altro dire, osservavo le tue mani, segnate di inchiostro come quelle di ogni songwriter al lavoro, che tremavano lievemente tenendo il bicchiere in mano, notai la linea del tuo profilo, i tuoi capelli che si accumulavano dietro le orecchie e uno sguardo stanco che mi dedicavi di tanto in tanto. 
  - Potevi dirmelo, intendo prima che passassi un’ora a parlare di quanto facesse schifo la mia vita. - 
  - Avevi bisogno di parlare, Turner. E la mia vita non fa schifo. - disse l’uomo che sudava freddo perchè gli mancava una dose e aveva una moglie dall’altro capo del mondo che stava per partorire.
  - No? - 
  - Un figlio è una cosa bella. - 
  - Okay. -
  Mi guardasti, con il tuo sguardo abbastanza indecifrabile, inquietante. Eravamo ancora seduti sul bancone del falso pub dell’aeroporto. Nel corso della serata avevamo parlato spesso senza guardarci in faccia, con il viso rivolto allo schermo delle partenze (o dovrei dire non partenze) di fronte a noi. In quel momento avevamo preso ad osservare le nostre arie stanche ed esauste. 
  - Odio i tuoi capelli. - hai concluso infine, togliendomi gli occhi di dosso ed allungando la mano oltre il bancone per prendere l’intera bottiglia di scotch. Non potevo credere che avessi detto una cosa del genere, non dopo che avevamo deciso di parlare di ciò che di privato non avremmo mai condiviso con altri. 
  Sorrisi. - Sì, beh… Sai cosa? Io odio i tuoi. - 
  Fu allora che mi baciasti. Fu veloce, inaspettato, strano. Il mio bicchiere cadde a terra in mille frantumi. Mi avevi preso, avvicinato a te, e baciato in quel modo tutto irruente e sgarbato come si faceva con le compagne di classe al liceo. La tua mano s’era infiltrata nei miei capelli, quelli che avevi detto di odiare. Potevo vedere il barista scuotere la testa. Questi vengono qui, in uno stupido pub all’aeroporto e pensano di potersela spassare come a Las Vegas. Mi scuso se in quel momento rimasi fermo, immobile e impassibile. Ancora non ho capito cosa ti aspettassi da me in quell’istante, che ricambiassi quell’attenzione ubriaca, che ti allontanassi violentemente giurando che non ero un frocio qualsiasi che puoi rimorchiarti in una sala d’aspetto? Cosa t’aspettavi Julian? Rimasi semplicemente lì, era la ciò che avrebbe fatto un codardo, ed era ciò che stavo facendo io. Certo, le cose si fecero ancora più strane quando sentii la tua lingua sulla mia, e la tua disperazione che cercava conforto nella mia, la tua insistenza e la mia assenza. Io non c’ero, ero annebbiato e distante, sono convinto che se m’avessi accoltellato non avresti udito un lamento e non mi sarei accorto di niente.
  Mi lasciasti e ritornasti alla tua bottiglia. Senza dire una parola. 
  - Julian? - 
  - Cosa? - e non c’era scontrosità nella tua voce, come se quel bacio fosse stata la cosa più giusta da fare in quel momento, come se non te ne fossi neanche accorto. Non mi guardavi.
  - Guardami, Julian. - 
  Mi guardasti con l’aria colpevole di chi ha perso un amico, un confidente, e che probabilmente non ha più niente da parte, devi aver pensato proprio questo perchè ti ributtasti su di me, aggrappandoti alla mia giacca di pelle mi tiravi verso di te, arrogante, prepotente. Le nostre lingue si scontrarono ancora. Eravamo in un triste pub deserto, in un aeroporto saturo di gente rassegnata dai ritardi causati della neve newyorkese, e noi eravamo lì, inaspettati amanti, decadenti rock star. Probabilmente con la mia giacca di pelle e i miei jeans da settecento dollari devo esserti sembrato una pagina di Vogue - Uomo ambulante, un personaggio ridicolo che si portava dietro una copia di Trappola per topi e che è troppo orgoglioso per ammettere che in fondo la sua vita non è poi così male. Questo ti volevo dire insomma, che mi dispiace per tutte le cose che ho detto, e che in fondo non sono vere, sono così abituato al fatto che debba lamentarmi di qualcosa che non riesco a non farlo. Io sto benissimo e sono felice, felice della valanga di soldi che mi ha cambiato, di quella stronza di Arielle che mi ha lasciato e di quelle stronze scimmiette che hanno deciso di raddrizzarmi. 
  Ricambiai il tuo bacio, eravamo veramente patetici, complici del fatto che il nostro finto amore sarebbe potuto funzionare solo all’interno di un finto pub. Eravamo impetuosi, per nulla delicati, non avevamo paura di sembrare affrettati o troppo passionali, tra di noi non c’era questo genere di riguardo. Contenevo il tuo viso, e ti ho ho amato per quei cinque minuti, dico sul serio. Poi cominciai a pensare, pensavo a tua moglie in Italia, al tuo primo figlio che non ricordo come si chiama, e al secondo in arrivo che spero davvero tu non chiamerai Alex in ricordo di quella notte in cui ti eri ubriacato in un aeroporto mentre tuo figlio stava per nascere. Sentivo la tua pelle, il sudore di un corpo che bramava una dose e me, incontrollabile. Ti baciavo, sentendo il sangue pulsare alla base del tuo collo, tu baciavi me infiltrandoti con una ambigua e violenta passione nella mia bocca. Pensavo ancora a tua moglie, pensavo a te che te la scopavi dolcemente, per non farle del male, e poi pensavo a te che scopavi me, senza la gentilezza che riservavi a lei. 
  Ci siamo fermati. 
  - Forse potremmo andare da un’altra parte, ce l’avrà un bagno questo posto… - mi hai detto aggiustandomi la giacca. Forse non te lo ricordi, ma facevi sul serio. 
  - No, Julian, sei ubriaco. - 
  - Lo so, scusami. - 
  - Hai smesso di tremare, però. - 

  
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