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Autore: Jump And Touch The Sky    22/01/2015    0 recensioni
-"Per cui, che aveva fatto? La prima cosa che le era venuta in mente, la cosa più intelligente che avrebbe potuto fare... Aveva scritto una letterina a Babbo Natale."-
Uno scherzo cretino. Una studentessa disperata. Una reputazione da salvare. Una strana letterina di Natale. Una serie di fortunate coincidenze. Il Natale di Jared forse non sarà tranquillo come spera...
Genere: Comico, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo III

21 dicembre, Parigi

Avrebbe dovuto prevederlo, maledizione. Le era successo almeno un milione di volte in vita sua, lo sapeva di essere una sbadata cronica. E ancora non ne aveva preso atto!
Valentina si lanciò fuori dall’albergo senza nemmeno fare colazione, la giacca slacciata, la borsa appesa a una spalla, una sequela di imprecazioni tra le più svariate come colonna sonora. Quasi lanciò le chiavi della sua stanza alla receptionist, buttò là un frenetico “bonjour” e si schiantò contro la porta chiusa dell’hotel, in barba al bel cartello colorato con su scritto di tirare.   –Ahia, mannaggia alle porte!- esclamò, riuscendo finalmente ad aprirla per poi fiondarsi fuori e richiudersela alle spalle di fronte allo sguardo attonito della povera receptionist.
Perché non aveva messo a caricare il telefono, eh? Per quale oscura ragione non aveva collegato alla presa quel maledettissimo caricatore? E ovviamente, quella notte la batteria era morta, e quella mattina la sveglia non aveva suonato, ergo, lei era in ritardo di un’ora sulla sua tabella di marcia!
Cacciò fuori dalla borsa una cartina e guardò il percorso che –per fortuna- aveva segnato la sera prima con un pennarello rosso. Lo studio di quel... come si chiamava? Jean Jacques, Jean... Va be’, che importanza aveva quello stupido nome?
Attraverso la strada e poi vado giù per di là, un paio di svolte a destra, una a sinistra e in una mezz’ora dovrei essere arrivata, e che ci vuole? Al Lucca Comics è stato molto peggio. rimuginò, gli occhi fissi sulla cartina. –Perfetto, andiamo!- così dicendo, Valentina attraversò di corsa la strada, senza quasi guardare a destra e a sinistra. Fu un attimo.
Una manciata di metri più giù dell’hotel cinque stelle, a un passo dal marciapiede, sentì un bruttissimo rumore di freni e si ritrovò quasi spiaccicata sul cofano di un taxi, per fortuna integra.
Era successo tutto talmente in fretta che non aveva fatto nemmeno in tempo ad imprecare. Lei. Invece da dentro la vettura era partita una splendida parolaccia in inglese.
Valentina guardò un attimo il conducente, un grosso tizio dalla folta barba bianca, che la fissava pallido come un cencio, terrorizzato. Fortuna che aveva frenato in tempo. Lei non lanciò nemmeno uno sguardo al sedile posteriore della vettura e riprese a correre come se niente fosse, infilandosi in una viuzza laterale con la cartina spiegata tra le mani.
Una mezz’ora dopo, non era ancora arrivata. In compenso, era stanca morta. Aveva corso fino ad allora, rischiando di essere investita non solo da quel taxi, ma anche da altre due automobili, intruppando in una sedia di un baretto lungo un marciapiede e quasi portandosela dietro insieme al cameriere che proprio in quel momento stava sparecchiando il tavolo... e infine, ciliegina sulla torta, aveva dovuto cambiare percorso perché un dannatissimo tombino era esploso quella notte a causa della pioggia e quindi la strada era chiusa. Di conseguenza aveva fermato proprio il vigile più puntiglioso di tutta Parigi per chiedere indicazioni. Insomma, al momento era stanca, con un diavolo per capello, in ritardo e, ancora peggio, si era quasi persa.
Stava ponderando l’ipotesi di buttarsi nella Senna e farla finita, quando alzò lo sguardo e davanti a lei trovò non solo lo studio di quel Jean-coso, ma anche un taxi parcheggiato all’ingresso.
Taxi che proprio in quel momento stava partendo. Valentina stavolta attese che fosse passato prima di attraversare la strada.
Jared doveva essere già dentro. Perfetto! C’era solo un problema: lui era dentro, lei era fuori.
Non poteva di certo presentarsi alla porta con un: “Salve, sono venuta qui per rapire il vostro modello! Me lo prestate un attimo, poi ve lo rispedisco per posta dopo Natale?” No. Decisamente non poteva.
Studiò un momento la situazione. Altro che studiolo di periferia di un fotografo squattrinato. Quello lì aveva fior di quattrini, e si vedeva.
Fior di quattrini... studio grande... tanto lavoro... fior di segretarie! Pensò Valentina, appostata fuori dalla porta. Mentre si complimentava con se stessa per l’idea geniale che aveva avuto, prese coscienza dello stato indecente in cui si trovava. Capelli per aria, stivali bagnati, giacca macchiata dallo scontro col taxi, occhiaie e aria sconvolta con tanto di luce folle negli occhi. Sconfortata, si appoggiò contro la parete dello studio, con un sospiro. Ma che diamine stava facendo? Tutto ciò era assurdo, patetico... surreale. Ma poi, in fin dei conti, anche se la sua reputazione fosse stata rovinata, che importava? Oddio, importare, importava. Tutti l’avrebbero sfottuta fino alla fine dei tempi. Però, alla fine, pazienza. Se ne sarebbe fatta una ragione.
Si voltò verso la porta, alla sua sinistra. Ormai era in gioco, tanto valeva giocare.
Inforcò gli occhiali da sole ed entrò nello studio con enorme nonchalance.

***
Quella mattina, Jared aveva una strana sensazione addosso.
Mentre addentava uno dei suoi amati pancakes vegani, faceva il punto della situazione, riepilogando tutto quello che avrebbe dovuto fare durante la giornata.
Sembrava tutto sotto controllo. E allora che era quel senso di pericolo che si sentiva addosso?
Il taxi del giorno prima lo aspettava fuori dalla porta, puntualissimo.
-Bonjour, grazie mille, amico. Andiamo allo studio fotografico di Jean Paul Sartre in rue...
-Oh, conosco la strada, nessun problema. Allora, come si trova a Parigi?- lo interruppe il tassista, allegro.
Jared si accomodò sul sedile posteriore, iniziando a guardare fuori dal finestrino, mentre la macchina partiva. –Bene, come sempre. Speriamo che oggi non sia una giornata sfortunata come ier...
Non fece in tempo a finire la frase, che il tassista frenò con un’esclamazione in francese e si sentì un tonfo. Jared alzò di scatto la testa. Gli sfuggì un’imprecazione. Avevano quasi investito una ragazza dall’aria estremamente trafelata, che adesso si trovava appoggiata al cofano con gli occhi sgranati. Un attimo e poi corse via.
-Non ci posso credere, ma chi insegna ai bambini ad attraversare la strada? EH?! Dopo crescono, ed ecco i risultati! E per fortuna non si è fatta niente, quella svitata, altrimenti sarei finito nei guai io!- iniziò a blaterare il tassista, quasi più scosso della ragazza investita. Jared tirò un sospiro di sollievo, superando lo spavento iniziale, e tornò a guardare la città che scorreva fuori dal suo finestrino. Vide di sfuggita la ragazza infilarsi in una strada secondaria in tutta fretta.
Chissà dove andava correndo in quel modo.
Forse aveva un appuntamento.
Appena arrivati allo studio fotografico, Jared ringraziò e congedò l’autista, per poi avviarsi.
Jean Paul era un tipo bizzarro.
I lati della testa rasati, una specie di ciuffo biondo spiaccicato sulla fronte, indubbiamente tinto, magrissimo, avvolto in una camicetta nera con le maniche bordate di pizzo e in un paio di pantaloni a righe, indossava un paio di scarpe di vernice dello stesso colore del ciuffo e guardava tutti dall’alto in basso. Ci guardò persino lui, non appena se lo trovò di fronte.
–Jared Leto, o un suo sosia, suppongo.
Jared annuì. Solo allora Jean Paul abbandonò la sua espressione arrogante e scoppiò a ridere di una tremenda risata nasale che a Jared fece quasi venire i brividi. Gli strinse la mano con entrambe le sue e iniziò a scuoterla vigorosamente. –Benevenuto, benvenuto, ti stavamo aspettando! Posso darti del tu, vero? Tu puoi chiamarmi Gigì se ti va.- iniziò a blaterare. Jared rimase impietrito, fissando inorridito quello strano scherzo della natura che aveva di fronte.
-O...okay. Vogliamo iniziare?- tagliò corto, imponendosi di stare calmo. Il volto di Jean Paul si trasformò improvvisamente nel serioso ritratto della professionalità. –Certamente. Di qua, prego.
Jared lo seguì in una delle stanza adiacenti, dov’era il set fotografico. Non vedeva l’ora di aver finito.

Dopo un’ora di scatti e di cambi d’abito con il chiacchiericcio di Gigì di sottofondo, non si sarebbe stupito se, guardandosi allo specchio, avesse scoperto di avere una mongolfiera al posto della testa.
Stava rivestendosi in un camerino a un angolo della stanza, quando sentì entrare qualcuno.
Non capì quello che stava dicendo la ragazza che era entrata, né quello che le rispose Gigì.
-Ma tu chi sei?- sentì, solo, mentre infilava in tasca il suo blackberry e usciva dal camerino.
-Mi ha assunto la scorsa settimana insieme a Roxanne, non ricorda? Sono Amélie D’Alembert.
Appena vide arrivare Jared, la ragazza tacque.
Jean Paul lanciò un’occhiata al suo costoso orologio e si portò una mano alla bocca con un gridolino raccapricciato. –E’ tardi! E’ TARDISSIMO!- esclamò, impallidendo di colpo. Strinse di nuovo la mano a Jared farneticando cose che quest’ultimo nemmeno ascoltò.
-Amélie, accompagna il signor Leto all’uscita, io devo scappare- concluse, andandosene quasi di corsa.
La ragazza lo guardò allontanarsi perplessa, Jared nemmeno se ne curò.
-Allora? Andiamo?- fece, stropicciandosi gli occhi.
Amélie sobbalzò, annuì frettolosamente.
-Mi segua.
Jared obbedì. Lungo il corridoio, notò che la ragazza camminava in modo strano. Scarpe tacco dodici. Tutte le indossavano, lì dentro.
Ma tu pensa che tipo ‘sto Jean Paul. Anche le segretarie in divisa. E che divisa...
Ma la conferma che quella proprio non sapeva camminare su quei trampoli arrivò un minuto dopo. Amélie fece per prendere dal guardaroba la giacca di Jared, ma si storse una caviglia e crollò malamente a terra, trascinandosi dietro giacca, gruccia e quasi mezzo armadio.
-Tutto bene?- fece lui, aiutandola ad alzarsi. Lei lo guardò appena, tentando di riguadagnare l’equilibrio perduto. Abbozzò un sorriso, ma le venne malissimo. Gli porse la giacca e solo allora si accorsero che era strappata.
Jared alzò gli occhi al cielo. Amélie impallidì.
-Ehm...
-Fa niente, non ti preoccupare.- tagliò corto lui, prendendosi la giacca. Ne avrebbe comprata un’altra.
La ragazza stava per dire qualcosa, ma all’improvviso sgranò gli occhi, come se avesse visto qualcosa che non avrebbe voluto. Jared si voltò nella sua stessa direzione, incuriosito, ma Amélie istintivamente glielo impedì prendendogli il volto tra le mani e costringendolo a voltarsi verso di lei. Ritrasse subito le mani, imbarazzata. –Per sdebitarmi l’invito a pranzo, signor Leto.- disse, afferrando una borsa dal guardaroba e togliendosi le scarpe. Lui era sempre più perplesso. Stava per replicare, ma Amélie lo prese sottobraccio e quasi lo trascinò fuori dallo studio, senza lasciargliene il tempo.
Si allontanarono velocemente e a malapena udirono il grido d’orrore di Gigì, che si era appena accorto che la vera Amélie si trovava rinchiusa in un bagno da un paio d’ore e che dalla stanza dove tenevano le uniformi delle impiegate mancava un completo.

Jared era troppo sconcertato per fare qualsiasi cosa, così lasciò che Amélie se lo trascinasse dietro per diverse decine di metri, prima di reagire.
-Senti, per la giacca non importa, non c’è bisogno che m’inviti a pranzo.- disse, fermandosi di botto, riprendendo coscienza del suo ruolo nel mondo. Lui era Jared Leto, insomma. Invece quella lì era una sfigata ragazzina francese di almeno quindici anni più giovane di lui, che faceva da segretaria a un tizio estremamente inquietante. E che camminava sull’asfalto bagnato senza scarpe.
La ragazzina in questione si fermò e gli piantò in faccia uno sguardo affannato. Sembrava che stesse cercando di fare qualcosa senza avere la minima idea di come fare.
-Per cui, ti saluto. E mettiti le scarpe.- fece Jared, senza aspettare una sua risposta. Girò i tacchi e s’incamminò, lasciandola impalata in mezzo al marciapiede con quell’aria da deficiente e la bocca socchiusa, come se fosse sul punto di dire qualcosa.
-Ehi! Razza di antipatico che non sei altro! Lo sapevo che eri una diva, ma non mi aspettavo fino a questo punto!
Jared si fermò, interdetto. Veramente, questa non se l’aspettava. Si voltò lentamente, offeso. Paradossalmente, quella scena somigliava a un film western. Sarebbe stato anche buffo, se solo non fosse stato leso l’onore di una diva e quello di una ragazzina che non aveva alcuna intenzione di farsi mettere i piedi in testa.
-Credo di non aver capito bene.- fece Jared, a denti stretti.
La ragazzina non fece una piega, continuando a guardarlo con occhi brucianti d’irritazione.
-Oh, sì che hai capito, invece. Hai capito benissimo.

Valentina non ci stava proprio. No. Dopo tutto quello che aveva passato per colpa di quello stupido uomo di mezza età con i capelli più lunghi e belli dei suoi, non ci stava a farsi trattare in quella maniera.
Non avrebbe mai pensato che un giorno avrebbe insultato Jared Leto. Ma quel giorno era arrivato, per quanto potesse essere assurdo.
Era quasi andata sotto a un taxi. Aveva già sopportato una sequela infinita di figuracce. Aveva chiuso una tizia in un bagno e le aveva fregato l’identità per potersi avvicinare a lui. Aveva dovuto indossare una stupida minigonna e aveva dovuto camminare su dei trampoli per colpa dei quali si era quasi rotta una gamba. Aveva dovuto parlare con un essere che sembrava uscito da una delle peggiori puntate di “Ma come ti vesti” che si faceva chiamare Gigì. Gigì! Stava camminando scalza sul marciapiede di Parigi. Bagnato. Aveva freddo. E lui, Jared, quell’antipatico megalomane mestruato, osava trattarla in quel modo?! Okay che l’aveva praticamente rapito e gli aveva strappato la giacca, ma non gli aveva mica fatto sparire la sua riserva segreta di guacamole, accidenti!
Jared aveva un’espressione a metà tra l’indignato e il perplesso.
-Ammetto che questa è una cosa che non mi capita spesso. Di solito le donne cadono ai miei piedi- disse, alzando un sopracciglio: -e non mi danno della... diva antipatica. Forse tu non sai chi sono io.
Valentina scoppiò a ridere. –Oh, se lo so! Lo so fin troppo bene, non temere...- rispose, con una punta d’acido nella voce: -E’ per questo che non ti permetto di scaricarmi in questo modo.
-Senti, non so cosa tu ti sia messa in testa, ma io sono qui per lavorare e non per farti da baby-sitter. Perciò facciamo finta di non esserci mai incontrati e addio, okay? Ti saluto.- concluse Jared, facendo di nuovo per andarsene.
Valentina lasciò cadere le scarpe e se ne andò per la sua strada, stizzita. Aveva ragione lui. Che si era messa in testa?
Stava girando l’angolo della strada dove si trovava l’albergo, proprio dove quella mattina era stata quasi accoppata dal taxi, quando si trovò faccia a faccia con Jared. Di nuovo. Lo guardò perplessa. Che diamine ci faceva lì?
Al vederla, lui ebbe più o meno la stessa reazione.
-Mi stai seguendo?!- sbottarono, stereofonici. –No!- risposero, di nuovo all’unisono. Entrambi sbuffarono. La scenetta stava per ripetersi, ma Jared tappò la bocca a Valentina.
-Non seguirmi, va bene? Non. Devi. Seguirmi!
Lei si tolse la sua mano dalla faccia con un gesto secco.
-Io non ti sto seguendo! Casomai tu stai seguendo me, anche se non capisco perché!
Jared si esibì in una risatina irritata. Se andava avanti così, l’avrebbe ammazzata, ne era sicuro. Poi, all’improvviso, si ricordò di quella mattina. La tizia semi-spiaccicata sul cofano del taxi. Smise all’istante di ridere.
-Eri tu!
Valentina sobbalzò. –Io? Io che?
-Stamattina, quella matta che attraversava di corsa la strada... eri tu! Ma allora è da stamattina che mi pedini! Idiota, per poco non ti ammazzava, il tassita, dopo ci sarei finito di mezzo pure io, lo sai questo?
-M...ma... quindi in quella macchina c’eri tu? E io non me ne sono accorta?! Cioè, potevo risparmiarm... vabbe’, lasciamo perdere. Mi dispiace di essere stata quasi uccisa, vostro onore, farò in modo che la cosa non si ripeta.
Jared era lì lì per metterle le mani addosso, ma s’impose di calmarsi. Non poteva andare in giro e strozzare la gente, no, no, non poteva... per quanto in quel momento gli avrebbe fatto piacere. Moltissimo.
-Okay. Va bene. Manteniamo la calma, parliamo da persone civili. Mi spieghi per favore chi diamine sei e che ci fai qui? Magari scopriamo che non c’è bisogno di denunce, avvocati e processi...- le lanciò un’occhiata dall’alto in basso -...da cui tu sicuramente usciresti sconfitta.
Per tutta risposta, lei starnutì un paio di volte. Jared avvertì un lieve senso di colpa strisciargli nello stomaco. Forse era vero che si era comportato come una diva acida. Oddio, era vero anche che aveva ragione, però...
-Non è una storia interessante.- disse Valentina, che aveva fatto appena in tempo a rimettersi le sue scarpe ed era congelata.
-Lo decido io che cos’è interessante e cosa non lo è. Se hai bisogno di cambiarti parlo con quelli dell’hotel e ti faccio entrare.- replicò Jared. Valentina si morse un labbro, come se avesse improvvisamente raggiunto un’importante consapevolezza.
-Tu alloggi qui. Vero?- disse, indicando l’hotel a cinque stelle alla sua sinistra. Jared annuì e lei desiderò ardentemente avere una pistola per porre fine alle sue sofferenze una volta per tutte. –Perfetto. Io alloggio lì.- continuò, indicando il suo hotel: -E se avessi saputo prima questa cosa, molto probabilmente niente di tutto questo sarebbe successo.


 
 
 
-Note dell’autrice-
Forse questo capitolo avrebbe dovuto intitolarsi: “Storia di una divaH antipatica” :’)
No, okay, lo sappiamo tutti che tipo è Jared. In questo capitolo mi serviva il suo lato odioso e quindi ce l’ho messo, tutto qua xD
Spero che questa paginetta, scritta velocissimamente una settimana fa, piaccia a voi più di quanto piace a me (e cioè, sarò sincera, poco). La mia vena comica sembrava essersi esaurita, ma l’ho ritrovata e adesso sto cercando di farla riemergere andando avanti con la storia.
Niente, grazie a tutti quelli che hanno la pazienza di leggere una boiata simile xD
Non c’è bisogno di dire che i nomi e i personaggi francesi presenti sono tutti inventati, right?
Buon Non-Compleanno a tutti.
-Valentina
   
 
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