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N a s c o n d i t i





 

È notte. La paura mi blocca il respiro. Avremmo già dovuto essere arrivati al rifugio di emergenza, ma vaghiamo ancora, incerti dei nostri stessi passi. Non sono mai stata fuori di notte, prima. Non da sola.
Ho perso la strada, non so più dove mi trovo, né dove sto trascinando Jonah.
Ci muoviamo come fantasmi tra i tronchi degli alberi, mentre i lamenti dei corpi morti ci inseguono, sempre più vicini.
Mi fermo. Un'ombra scura ci sbarra il sentiero. Si trascina verso di noi.
Afferro il pugnale, ma la mano ancora stretta attorno a quella di mio fratello mi annebbia il pensiero. Il primo istinto è di proteggerlo. Il Vagante si avvicina, e noi indietreggiamo di riflesso.
Jonah si nasconde dietro le mie gambe, e allora imbraccio il fucile e sparo. Il colpo riecheggia nella foresta per un lungo terribile momento che sembra infinito.
Il corpo del Vagante stramazza a terra e mi blocco. Fisso Jonah, e lui guarda me.
Mi siedo su di un tronco vicino, cerco di riprendere fiato. Non riesco a pensare e l'unica sensazione reale è la morte che mi soffia sul collo.
– Moriremo, Jonah, – biascico. La mia voce trema, suona rotta e distante.
Altri morti si stanno avvicinando. Sento frusciare le foglie e i rami attorno a noi, e so che ci hanno circondato. Lui non risponde, non dice nulla. Mi guarda spaesato, con quei suoi occhi vacui e assenti.
La ferita alla coscia continua a pulsare: il proiettile è ancora all'interno. Perdo velocemente sangue, e so che la lucidità sciama via con esso.
Mi sento debole, esausta. La gamba ha completamente perso sensibilità.
Chiudo gli occhi e vedo mio padre. Trattengo un singhiozzo, stringo i denti e mi metto in piedi.
La gamba cede e cado a terra, lasciandomi sfuggire un lamento. I passi strascicati degli Erranti si avvicinano più rapidamente, incoraggiati dai rumori.
Jonah continua a fissarmi, senza emettere un fiato, con una espressione deprivata di qualsivoglia emozione.
E penso che restare sdraiata così – tra la terra umidiccia e le foglie secche – sia meglio che continuare a scappare. Cedere alla stanchezza, riprendere fiato e spararsi un colpo in testa.
Allungo la mano a prendere il fucile e lo punto in faccia a Jonah: neppure questa volta sembra sorpreso.
Mi ci vuole qualche secondo per metabolizzare che sto davvero per ammazzare mio fratello. Faccio cadere a terra il fucile, senza riuscire più a trattenere i singhiozzi.
Piangendo mi rialzo, soffocando un urlo di dolore mentre il sangue fiotta più copioso a causa dello sforzo.
Con i piedi ben piantati a terra, questa volta, apro un varco laddove i Vaganti sono meno numerosi.
Perché "È proprio quando cadiamo che sappiamo di volerci rialzare per poter correre".
Ora ho l'immagine dell'uomo che mi ha cresciuta e che ha dato la vita per salvare la mia, davanti agli occhi; come se volesse guidarmi. E questa sua frase è l'ultimo sentore di speranza che mi costringo a seguire.
– Andiamo, – dico strattonando Jonah per una manica, – Stammi dietro.
Mi trascino verso l'unica via che pare abbastanza libera.
Passa quella che forse è un'altra ora, ma so di essere finalmente in salvo.
L'ebrezza è tale che per un attimo dimentico il dolore, la fatica e il senso di vomito, e apro la botola.
Jonah e io ci lanciamo un ultimo sguardo, poi – con un breve sospiro – ci buttiamo al suo interno.