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Autore: Dark Magician    16/04/2015    1 recensioni
La falena giaceva immobile, inclinata su un fianco, la lancia che le trapassava il torace da parte a parte. La punta riluceva nell’aria secca, intrisa di sangue scuro.
Il ragazzo mosse un passo incerto indietro, premendo con più forza la mano sulla ferita sul fianco. Sangue e sudore gli appiccicavano la divisa alla schiena e alle gambe.
I moncherini delle ali bruciavano, le scaglie sfrigolavano e si accartocciavano all’interno delle fiamme azzurre. Si era liberato così tanto Chroma da rendere ogni respiro un’agonia, avrebbero di certo continuato a bruciare per ore ed ore, anche dopo aver consumato la carcassa.
La sciarpa bruciacchiata stretta nell’altra mano, il ragazzo ruotò su se stesso e si allontanò con passi lenti, trascinandosi sotto il sole cocente.
Non sapeva fin dove sarebbe riuscito ad arrivare, ma non vedeva altre vie. Tanto valeva scoprirlo, quindi.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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falene2 Descartes spinse a fondo la lancia e rimase immobile, piantando i piedi a terra. Il Chroma della falena vibrava e si abbatteva contro il suo come le onde su una scogliera, mentre le tre zampe integre si agitavano e spazzavano il suolo. I monconi delle ali vibravano e spargevano sangue ovunque, come una nebbiolina.
«Oh no, bella. Oh no, oh no, non hai capito», rise Descartes, stringendo i denti in un sorriso larghissimo «È finita. È finita. Rassegnati e muori».
Rinsaldò la presa sulla lancia e si piegò in avanti per mantenere la posizione. Il sangue della falena la percorreva copioso, gocciolandogli addosso.
Prese un respiro profondo, anche se aveva solo voglia di ridere, e quando espirò oltre all’aria gettò fuori un’ondata di Chroma, veicolandolo con la lancia. Una fiammata azzurra scivolò sull’arma e si riversò nel corpo della falena, e l’animale emise uno stridio sofferente mentre le scaglie attorno alla ferita prendevano fuoco e si accartocciavano.
Un’onda di Chroma violaceo percorse la lancia a ritroso e colpì Descartes con tanta forza da mozzargli il respiro, costringendolo a sbilanciarsi indietro.
«Fottiti», gemette Descartes, e per un istante perse il controllo sul proprio Chroma. Le fiamme si affievolirono, mentre la lancia gli scivolava dalle mani, e la falena tentò disperatamente di raddrizzarsi.
«Fottiti!», ripeté, strillandolo talmente forte da sentirsi bruciare la gola «Non ci pensare neanche! Non provarci! Crepa, stronza, crepa!».
Strinse i denti, i muscoli della faccia che vibravano e gli trascinavano gli angoli della bocca in un sorriso schizzato. La lancia di nuovo salda fra le mani, mosse un passo in avanti, spingendo con tutta la forza che possedeva e liberando ondate di Chroma con un grido disperato.
Lo sentiva, il Chroma, bruciargli il petto e sgorgare dalle braccia con la forza travolgente di una slavina, e cozzare contro quello della falena che non aspettava altro che un varco per abbatterglisi contro.
Si era ridotto tutto ad un braccio di ferro fra loro e, Dei, lo eccitava sempre da impazzire.
Le fiamme blu si levavano imponenti e sfrigolavano; la falena strideva spaventata, e quel rumore gli perforava i timpani e lo caricava al tempo stesso.
Il Chroma della falena si affievolì di colpo, così bruscamente che Descartes si sentì sbalzare in avanti e inciampò nei propri piedi, perdendo quasi la presa sulla lancia.
La falena cessò di agitarsi e si inclinò su un fianco, immobile. Il suo sangue nero continuava a sgorgare lungo la lancia, e Descartes poteva avvertire quel Chroma estraneo vibrargli lungo le braccia, come a volerlo attaccare con gli ultimi brandelli di forza.
«Eddai, smettila e muori», rise in modo isterico, lasciando andare l’arma, ed indietreggiò di un passo. Gli tremavano le braccia.
«È finita, quindi crepa e basta. Non ti fai un favore a-».
Il dolore gli attraversò il corpo con una tale intensità da mozzargli le parole in gola e fargli cedere le gambe. Cadde in ginocchio, buttando una mano in avanti per non sbattere la faccia.
L’altra mano la portò al fianco sinistro, e quando se la mise davanti al viso trovò il guanto sporco di sangue di un rosso intenso, oltre a quello nerastro della falena.
Sgranò gli occhi e abbassò lo sguardo, allargando lo squarcio nella divisa per riuscire ad osservarsi la ferita.
Era così profonda, Dei – quella roba rosa brillante che si intravedeva era intestino, forse?
«Io non mi sono ferito», disse, battendo gli occhi. Portò le mani a coprire lo squarcio e guardò la falena.
«Quando me l’hai fatta? Prima non c’era. Non c’era. Me ne sarei accorto, no?».
Per un attimo gli si offuscò la vista, e scosse la testa.
«Me ne sarei accorto. L’avrei sentito. Quando me l’hai fatta?».
Sentiva il cuore aumentare i battiti, sudore e sangue gli appiccicavano la maglia alla schiena.
Le fiamme blu continuavano a bruciare, e pure il petto gli bruciava ancora.
Cercò di direzionare il Chroma sul fianco, ma l’unica cosa che avvertì fu il debole Chroma della falena pizzicargli le braccia e poi un dolore bruciante attorno allo sterno, come se gli avessero artigliato le costole.
Le labbra tremanti gli si distesero in un sorriso isterico.
Tentò di nuovo di dirottare il Chroma sulla ferita, ma ancora non ottenne nessun risultato, e non capiva se era perché ne aveva perso il controllo o se ne aveva gettato fuori troppo per l’ennesima volta.
«Non funziona», pigolò. Con una mano strinse la sciarpa così forte da strozzarsi «Mi fa male, Dei. Non funziona, non funziona!».
Sfilò i guanti e portò di nuovo le mani al fianco, premendo con tutta la forza che le braccia tremanti gli consentivano. Cercò di focalizzare l’attenzione sulla punta delle dita – nonostante il lieve crepitio delle fiamme gli sembrava quasi di sentirlo, il rumore del sangue che colava fuori, e si morse un labbro nel tentativo di non distrarsi.
Le dita pizzicavano appena, e non riuscì a concentrarvi che qualche misera scintilla di Chroma.
Rimase così, in silenzio, le mani sul fianco, mentre respirare diventava ogni istante più faticoso e il sole lo soffocava – eppure, Dei, sentiva le mani gelide, non aveva senso.
«Sono morto», disse in un sussurro, alzando lo sguardo verso la falena. Macchiette nere gli danzavano sulla retina.
«No. No, no, non lo accetto» rise debolmente, e la risata gli scosse l’intero corpo «Non posso morire. Non così. Non posso morire».
Rise di nuovo, mentre le lacrime cominciavano a solcargli le guance.
«Non posso morire!», strillò. Con una mano si sfilò la sciarpa e la sventolò – solo per un istante, il braccio non resse di più «Non posso morire qui! Non ora! Devo ridargliela! Devo ridargli la sciarpa!».
La falena rimase in silenzio, gli occhi come tanti specchietti rivolti verso di lui. Non capiva nemmeno se era ancora viva.
«Non posso morire così, non posso! Cazzo, c’ero così vicino, così vicino! Non me l’ero… non così. Non così!».
Sentì i muscoli della schiena tremare e cedere pian piano, e si accasciò su un fianco.
Alzò lo sguardo verso la falena e rise ancora, nonostante i singhiozzi.
«Come te. Dei, non voglio morire così. Non posso! È-».
Tossì e vomitò un miscuglio di bile e sangue, poi rise, rise e rise ancora, raccogliendosi su se stesso e piangendo e ridendo e piangendo e ridendo sempre più istericamente.
«Io non devo morire così. Devo morire mentre sono in missione con lui, capisci? È così patetico che mi taglierei le vene, cazzo, ma sarebbe così perfetto! Devo morire mentre siamo in missione assieme, me lo sono figurato un casino di volte. Devo morire fra le sue braccia, con lui che mi prega di non lasciarlo e io che finalmente gli dico tutto e poi crepo. Non posso morire qui, da solo, in mezzo al cazzo di niente!».
Tossì ancora e rimase in silenzio alcuni secondi, ansimante.
«Me lo riprometto ogni volta, ogni volta, e finisco sempre col fuggire. Quanto sono vigliacco e patetico. Anche questa volta, prima di partire… ero convinto, sai? Volevo dirglielo, quando mi ha dato la sciarpa. Quanto faccio schifo. Vero? Vero che faccio schifo?».
La falena era sempre immobile e silenziosa, ma il suo Chroma gli vibrò sulle braccia.
Lo stava ascoltando?
«È un sì? Certo che lo è. Che fine di merda. Cazzo, cazzo, non può andare così. Non posso morire senza avergli detto che lo amo, non posso. Non voglio, cazzo, non voglio! Falena!».
Allungò una mano, strisciandola sul terreno. Divenne tutto nero, il crepitare delle fiamme si affievolì fino a sparire, e pure ogni sensazione scomparve. Il dolore, il calore del sole e le mani gelide, il petto che bruciava – tutto sparì nel giro di pochi istanti, e rimase solo quel brivido sulle braccia.
«Falena! Lui non lo capirà mai, vero? Dei, è così stupido in queste cose…! Non ci arriverà da solo, vero?», singhiozzò. Anche la sua stessa voce gli giungeva ovattata.
«Dietrich», gemette, come fosse una preghiera «Non lasciarmi morire da so-».
Il respiro gli si spezzò a metà.

Descartes si tirò indietro i capelli.
Perché ovviamente fra tutte le cose pure questa vigliaccheria era rimasta – non poteva dirglielo, non ora, non così. Non in queste circostanze.
Non se tutto quello che era rimasto continuava a mescolarsi con quel poco che gli apparteneva, distruggendo ogni linea di demarcazione fra lui e Descartes – il Descartes vero, originale, ma pure questa era una differenza che cominciava a venir meno.
«Poi devo essere morto anch’io o qualcosa del genere, e non so quanto tempo dopo ho aperto gli occhi e… e mi sono visto da fuori», concluse.
Più ci rifletteva, più la scelta di omettere ogni dettaglio sui sentimenti di Descartes – sui suoi sentimenti, anzi, casino per casino – gli pareva saggia. In teoria poteva pure dire tutto rimanendo sull’impersonale, ma sentiva chiaramente di non potercela fare.
Troppa confusione, troppa.
Si massaggiò le tempie e sospirò.
«Non ha senso», sbottò Dietrich dall’altro lato del tavolo della cucina. Era pallido come un lenzuolo e continuava a scuotere la testa a scatti, non l’aveva mai visto così sconvolto.
Cioè, Descartes non l’aveva mai visto così. Quello vero.
Quello vero, non io. Quello vero, si ripeté Descartes nel vano tentativo di piazzare paletti immaginari per tenere separate le due cose. Lo sapeva benissimo che non sarebbe servito a niente, ci provava da giorni e giorni e ogni volta che pensava di esserci riuscito bum, ricordo di Dietrich, il rimpianto gli si ancorava all’anima come un gatto rabbioso e spazzava via tutti i paletti.
«Come cazzo…», continuò Dietrich, sollevando le mani. Gli tremavano.
«Come cazzo hai fatto tu… cioè… perché?».
Descartes sgranò gli occhi – “perché?” era proprio l’ultima domanda che si aspettava.
«Non lo so», rispose «C’è chi sostiene che impregnare il proprio Chroma di forti sentimenti possa portare a conseguenze imprevedibili. A quanto pare non sono tutte storielle. Non c’è stato niente di volontario».
«E perché prima hai detto che è tutta colpa mia?», sibilò Dietrich «Cosa c’entrano i sentimenti?».
«Dei, non ce la puoi proprio fare», sghignazzò Descartes, anche se in realtà gli veniva da piangere. Con gesti lenti si sfilò la sciarpa e gliela porse.
Gli sorrise, tentando di ignorare le pugnalate che sentiva all’anima «Avrebbe voluto rivederti e… e dartela. E dirti quanto sei stato importante per lui. Cose così».
Cose così. Cose così, proprio.
Restituirgli quella dannata sciarpa era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare e al tempo stesso la prima. La sciarpa, la regina del paradosso.
Era l’unica cosa che lo legava a Dietrich, e voleva rivederlo e ridargliela perché se l’erano promesso – ma non era con lui che Dietrich aveva quel patto melenso, era con il vero Descartes, eppure la sentiva come fosse una cosa sua. Gli piangeva il cuore all’idea di separarsene e non aveva senso, si sentiva felice di aver rivisto Dietrich e non aveva senso nemmeno quello perché cazzo, lui non era davvero Descartes e non voleva nemmeno esserlo, non ci teneva a portarsi addosso quel fardello di sentimenti repressi che il vero Descartes covava da anni.
Peccato che fosse già troppo tardi – e probabilmente il “troppo tardi” era cominciato nel momento stesso in cui aveva aperto gli occhi.
Non voleva che Dietrich lo guardasse in quel modo, un misto fra il disgusto e il raccapriccio, perché per quanto cercasse di opporsi quel turbinio folle di sensazioni gli straziava l’anima.
L’unica cosa che riusciva a pensare era solo “sorridimi come al solito, smettila di guardarmi così”.
«Io-» Dietrich sollevò la sciarpa, ma la lasciò ricadere subito sul tavolo «Non lo so. Des è… cioè… che cazzo è rimasto di lui?».
Che è rimasto di lui?
Descartes rise, una risata così amara che gli parve quasi di sentirne il sapore in bocca «Di lui? Cos’è che io ho sostituito, semmai. Ha riempito tutto ciò che sarebbe rimasto vuoto – ho i suoi ricordi, ho i suoi sentimenti, i suoi rimpianti, i suoi desideri, ho pure questa stupenda sensazione di gioia che provava mentre uccideva le falene – mentre uccideva me – che ti lascio immaginare quanto sia piacevole! Ho il suo affetto per te e il mio terrore per voi Aviatori – per noi Aviatori, Dei, perché lo sono anch’io anche se non sono davvero lui, e puoi ben vedere che ho anche questa confusa consapevolezza di non essere Descartes benché stia cominciando pian piano a crederci. Dimmelo, Dietrich, dimmelo tu che cosa sono, spiegami perché ti vedo comunque come ti vedeva Descartes pur sapendo che non sono lui».
Dietrich rimase in silenzio, lo sguardo fisso sulla sciarpa poggiata sul tavolo. Aveva un che di vacuo negli occhi – Dei, avrebbe dato un rene pur di sapere che cosa gli stesse frullando nella testa in quell’istante.
«Quindi tu sei una falena, in pratica».
La voce gelida di Attina infranse quell’atmosfera cupa, riuscendo nel non semplice compito di renderla immensamente più pesante nel giro di tre secondi.
Descartes mosse appena la testa per guardarla – era dall’inizio del discorso che evitava di farlo, non aveva trovato il coraggio. Era certo che Attina avesse superato i limiti del “prenderla malissimo” già dopo quindici parole.
Aprì la bocca per ribattere, ma la richiuse subito.
Aveva passato ore, nei giorni precedenti, a prepararsi un repertorio di cose da dire nel caso l’argomento fosse saltato fuori – una serie di scuse, giustificazioni, spiegazioni sentite – e nonostante ciò gli bastò uno sguardo per fargli capire che non c’era niente, proprio niente, che potesse dirle per ammorbidire quell’odio profondo che Attina provava per le falene. Qualsiasi frase di più di tre parole sarebbe servita solo a renderla più isterica.
«Sì», disse quindi, intrecciando le dita con tanta forza da farsi male.
«E nonostante ciò hai fatto comunque tutte quelle scenette da amico fidato?».
Una parte di lui avrebbe voluto schiaffeggiarla e cacciarle un po’ di obiettività in testa a suon di sberle. Tutti quei pregiudizi gli stringevano lo stomaco dalla rabbia – una sensazione che apparteneva di per certo solo a lui e non era un residuo del vero Descartes, se non altro.
«Non è colpa di una falena se Cordata è stata spazzata via», sbottò, rivolgendole un sorriso tirato «È stata colpa di un Aviatore. Le falene non si lasciano esplodere da sole, sai, non riescono nemmeno a contemplare l’idea di “suicidio”. Un Aviatore che invece pecca di superbia e penetra un Cuore instabile – quello sì che succede, di tanto in tanto».
Attina sgranò gli occhi e serrò le labbra.
In un certo senso l’aveva davvero schiaffeggiata, alla fine.
«Tu hai-», sibilò, ma Descartes la interruppe con una risata isterica.
«“Io ho” un bel niente, ero sul posto ma troppo distante per fare qualcosa. E si è visto, perché se ci fossi stato io al posto di Heinrich non avrei commesso un errore del genere e non sarebbe successo niente! C’è una ragione se sono il migliore, sai, ed è perché a differenza di tutti gli altri non ho mai sbagliato a trafiggere una falena, nemmeno di un dito, persino sotto pioggia, neve o che-».
Descartes si interruppe e si portò le mani al viso.
Addio, cari paletti, addio. Si era appena vantato di quanto era bravo a far morire in quel modo atroce le falene, e l’orgoglio gli pulsava in testa e gli ricordava quanto ne andava fiero.
Fosse stato da solo si sarebbe voltato per vomitare nel lavello.
Orgoglio, senso di colpa, rabbia – sovrastato dall’intensità di tutto questo, quel poco che gli era rimasto di sé, quelle minuscole sensazioni da creaturina inferiore, non potevano far altro che soccombere e lasciarsi travolgere. Non c’era posto che per quell’unica certezza, il sapere di non essere davvero Descartes, e a pensarci bene era pure l’unica cosa la cui mancanza l’avrebbe fatto sentire meglio.
«Non ce la posso fare», sussurrò, allargando le dita e passandosele sulle guance. Spostò lo sguardo su Attina, ma lo distolse dopo mezzo secondo – un po’ perché aveva due occhi allucinati che davano i brividi, un po’ per un vago senso di vergogna che non capiva del tutto.
«Oh beh», disse Attina, scattando in piedi «Quindi è stata colpa vostra, insomma. Bello. Hai raddoppiato i motivi per odiarti».
«Attina-».
«Taci. Taci, taci, non voglio sentire più una singola parola uscire da quella tua dannata bocca» Attina scosse la testa e si portò le mani alle orecchie «Ti odio. Sei un… un… dovevo affogarti in quel fosso, avrei fatto un favore ad entrambi. Crepa, Descartes o quel cazzo che sei. Crepa, te lo dico col cuore».
Attina uscì dalla cucina, sbattendosi la porta alle spalle. Pochi istanti dopo Descartes sentì il suono di un’altra porta che si chiudeva bruscamente – doveva essersi rifugiata in camera da letto.
Dovrei lasciarle qualcosa da mangiare fuori dalla porta, pensò, e si sentì un cretino. Come se fossero quelle le cose importanti.
«Si può invertire? C’è qualche soluzione, vero?».
Descartes inarcò le sopracciglia e si voltò a fissare Dietrich, che continuava ad osservare la sciarpa con aria smarrita.
«Invertire?», gli chiese. Dietrich alzò la testa e annuì, un'espressione spiritata sul volto.
«Des è di certo da qualche parte lì dentro. Quello che hai detto prima… quello era lui, parola per parola. Sono sicuro».
Descartes batté le palpebre.
Dei santissimi, questo no.
«Descartes è morto», disse, incrociando le braccia – la cosa in qualche modo gli dava protezione, e Dei se ne aveva bisogno. Prese un respiro profondo e cercò di placare la sensazione fastidiosa che sentiva alla gola.
«Possiamo dire che la sua anima è rimasta, sì, ma non la sua coscienza. Il suo cuore si era fermato, e lo so perché stato il mio Chroma a farlo ripartire, in un certo senso l’ho sentito».
«Secondo me ti sbagli», disse Dietrich convinto. Aveva un che di speranzoso, sia nella postura che nel tono di voce «Insomma, hai i suoi ricordi, no? E le sue sensazioni, no? Quindi hai una parte della sua anima. E se hai la sua anima, c’è anche lui».
Schioccò le dita e tacque per un istante, fissando il vuoto.
«No, ma che dico. È Des che ha accolto la tua… la tua anima o qualsiasi cosa tu abbia. Magari la sua personalità è semplicemente addormentata lì sotto o che so io, e per ora esce solo a sprazzi come prima. Magari fra un po’ di tempo si sveglierà e tornerà tutto a posto».
«Lo sentirei» Descartes si schiarì la voce con un colpo di tosse, gli si stava incrinando «Lo sentirei se fosse così, credo. Se fosse rimasto qualcos’altro di lui me ne accorgerei».
«Ma non puoi esserne sicuro. O se invece fosse la tua convinzione di non essere lui ad essere falsa? Magari è solo l’influenza dei ricordi della falena. Può essere, no?».
«Dietrich…» Descartes sospirò e poggiò le mani sul tavolo, sorridendogli debolmente «Prima non sei riuscito a sincronizzarti e non perché ti abbia respinto di mia volontà, ma perché hai cercato di farlo con lui e lui non… non sono io. E Dei, credimi, non so cosa darei per esserlo. Sarebbe tutto così semplice».
«Ci dev’essere un modo per riavere indietro Descartes», asserì Dietrich, lo sguardo sempre vacuo. Dava l’idea di non aver sentito una parola. «O per svegliarlo, insomma. Si potrebbe chiedere ad un medium, magari, o forse anche i sacerdoti di Holba se ne intendono. Qualcosa tipo una seduta spiritica?».
«Dannazione, Dietrich!», sbottò Descartes, e gli afferrò un polso «Io non lo so, non ho idea di cosa renda una persona “quella” persona e la differenzi dagli altri, non so se ci sia davvero qualcosa o no, però so che io non sono Descartes. È asceso nei giardini degli Dei? Sta vagando come uno spirito senza meta? Perché no, non so nemmeno se queste cose accadano davvero. L’unica certezza che ho è che, anche se i suoi ultimi residui li ha assorbiti il mio, non è il Chroma di Descartes che ti risponde quando lo chiami».
Gli toccò una guancia con la punta delle dita e vi concentrò qualche scintilla di Chroma, quel poco che bastava per pizzicare quello di Dietrich ed ottenere una risposta.
La sensazione che ne ricevette fu come prendere la scossa, e ritrasse la mano.
«Vedi? Mi respingi. Non credo tu possa avere una dimostrazione più intima di questa».
Dietrich scosse la testa.
«Des non può essere morto. Quello di prima era lui, cazzo, era lui, lo conosco da talmente tanto che non posso sbagliarmi! Era lui, e anche le facce che tu fai sono le sue! Dev’esserci qualcosa, qualsiasi cosa, che possiamo fare».
«Dei, Dietrich…!», mugolò Descartes. Voleva aggiungere altro, cose tipo inviti ad accettare la situazione, ma Dietrich lo precedette battendo i pugni sul tavolo con tanta enfasi da farlo sobbalzare.
«Non può non esserci qualcosa che posso fare!», gridò, alzandosi in piedi e piegandosi in avanti «Descartes deve essere vivo! È lì, nascosto da qualche parte, e io lo tirerò fuori! Lui è… lui c’è ancora, non è morto davvero. Non può. Non lui. Non può essere stato ucciso da una falena!».
Descartes si passò una mano sulla faccia. Un po’ cominciava ad alterarlo, la situazione.
«Lui è davvero il migliore», continuò Dietrich, stirando un sorriso tremante come la sua voce «Ha ucciso tredici falene, tredici, addirittura quel fenomeno di Coombs lo ammira. È persino riuscito a sopravvivere a Cordata. Anche quella volta che aveva superato il limite con il Chroma l’ha scampata. Non può averlo ucciso una falena. Tutto questo è… è… non ha senso!».
«Lo so», disse piano Descartes. Quanto aveva ragione, non c’era davvero nulla di sensato in tutta quella faccenda. Non era sensato nemmeno che la disperata speranza che Dietrich continuava ad avere gli facesse così male. La avvertiva come una sorta di tradimento, e razionalmente lo sapeva benissimo che era assurdo vederla così. Non si aspettava certo reazioni positive, lui – ma qualcosa all’interno, un miscuglio di tutti i ricordi, i sentimenti, le aspettative del vero Descartes sì, non attendeva altro che un gesto affettuoso, e vedersi rifiutato a quella maniera lo uccideva.
Avrebbe finito con l’impazzire, prima o poi.
«… Des è il mio migliore amico», sussurrò Dietrich, richiamando la sua attenzione con la stessa piacevolezza di una stilettata. Due lacrime gli solcarono le guance, scivolandogli fin nella barbetta.
«Non può essersene andato così. Non… non così. Cazzo, ho avuto questo incubo così tante volte! Non è giusto, Dei, non se lo merita. Certo, col nostro lavoro è una cosa che si mette in conto, però… non così, non da solo. Era sempre così terrorizzato, cazzo, all’idea di morire senza nessuno accanto! Se almeno… se almeno fossi stato lì…!».
Descartes sollevò la sciarpa e gliela porse «In un certo senso c’eri».
Dietrich la prese e la soppesò per un istante, lasciandosi ricadere sulla sedia. Poi si sciolse in singhiozzi e si accasciò sul tavolo.

«Ho… ho bisogno di pensare», disse Dietrich, in piedi sulla soglia della cucina.
Descartes mise un pentolino d’acqua sul fuoco e annuì «Lo capisco».
Dietrich tacque, fissandosi gli stivali. Aprì la bocca come a voler dire qualcosa, ma la richiuse e se ne andò senza proferir parola.
Nell’istante in cui sentì sbattere la porta, Descartes si chinò sul lavello e vomitò anche l’anima – magari avesse potuto farlo sul serio; la sua o quella del vero Descartes, gli sarebbe bastato cacciare fuori almeno una delle due e sarebbe stato tutto perfetto.
Si sciacquò la bocca, e quando alzò lo sguardo si trovò davanti le forbici da cucina.
Chissà se forse…
Le afferrò e si catapultò in bagno, scontrandosi col lavandino così forte da farsi male. Guardò prima le forbici, poi lo specchio, e con un gesto esitante si tagliò via una lunga ciocca di capelli.
La tenne in mano, rimirandola. Assomigliare al vero Descartes non avrebbe risolto niente, ma forse l’avrebbe fatto sentire me-
Con uno svolazzo di lucine violacee la ciocca si dissolse nell’aria, e i capelli tagliati ricrebbero fino a tornare alla lunghezza di prima.
Non gli era concesso nemmeno questo, quindi.
Si passò una mano sul viso e si lasciò andare in un pianto silenzioso, voltandosi per non incrociare il proprio riflesso nemmeno per sbaglio.

Anita rincasò dal turno di notte verso le sette di mattina. Albeggiava da poco, e investiti dal sole che entrava dalla finestra gli oggetti si allungavano in ombre tetre, in un’atmosfera assurda che ricordava un po’ un funerale.
Descartes era seduto sulla poltrona, le mani incrociate sul ventre, e come vide avanzare Anita si alzò e le andò incontro.
«Come mai sei sveglio?», gli chiese Anita. Si accorse della sua espressione distrutta solo in un secondo momento.
«Va tutto bene?».
Descartes si strofinò un occhio col palmo di una mano e la fissò implorante.
«Odio chiederglielo così, sarà di certo distrutta dal lavoro», disse, accennando un sorriso che durò pochissimo «Ma non avrebbe qualche minuto per… per parlare?».
«Oh cielo. Tutto il tempo che vuoi».

*
«Descartes è un viscido bastardo di merda», sibilò Attina. Con sua grande sorpresa, però, zia Anita non reagì in nessun modo, nemmeno un sopracciglio inarcato. Lavò la propria tazza e la ripose con una tranquillità assurda.
«Dico sul serio, è uno stronzo».
«Lo so», rispose Anita, e un angolo della bocca tradì un mezzo sorriso «Abbiamo fatto una chiacchierata, poco fa».
«Eh? E perché non l’hai ancora cacciato via?».
«Che motivo avrei di farlo?».
Gli occhi di Attina si ridussero a due fessure «Ma ti ha detto tutto tutto? Anche che è una schifo di falena?».
«Sì, mi ha detto tutto», rispose Anita, ancora tranquillissima, manco stessero parlando di ovvietà. Ma Dei, come cazzo faceva a essere così impassibile? A non fregarle per niente? Fingeva giusto per darle ai nervi?
«E basta? La cosa non ti disgusta? Io gli scarnificherei il viso ad unghiate, guarda».
Anita si strinse nelle spalle «Ha bisogno di aiuto ed è utile ».
«Il tuo spirito da infermiera ti ha mandato in cancrena il cervello», sibilò Attina. Un po’ sperava di ottenere una risposta, anche solo un’occhiataccia, ma Anita passò oltre ed uscì dalla cucina.
«Non ignorarmi!», le strillò Attina, rincorrendola per il corridoio «Guarda che sono seria! Lo odio, lo odio tantissimo. Mandalo via!».
Anita sospirò. Entrò nella sua camera da letto e sfilò gli zoccoli con gesti stanchi, quasi affaticati, poi si sedette sul letto e guardò Attina. Negli occhi aveva un qualcosa che sapeva di delusione – quella delusione tipica di una madre, Dei, la cosa le faceva un po’ strano.
«Da quant’è che ti sincronizzi con Descartes?».
«E che ne so, una settimana? Forse un po’ di più».
«E da quanto non hai ricadute?».
La domanda la colpì come uno schiaffo, perché lo sapeva benissimo anche lei che quella cosa la stava aiutando. E ciò non migliorava la situazione, anzi, solo a pensarci le veniva voglia di sgozzare qualche cuscino con i denti, le veniva.
«Zia, lo so che non è una cosa facile e neanch’io l’ho capita molto bene, ma è una falena. Tu non hai visto come ha reagito il suo amico, io sì».
«Sei un’ingrata», disse secca Anita, in un tono che non dava adito ad ulteriori polemiche.
Attina tacque qualche istante, gli occhi sgranati.
La stava prendendo in giro?
«Tu non hai capito la situazione!», le strillò, allargando le braccia di scatto «Oppure ti è davvero marcito il cervello. Come fa a non farti né caldo né freddo, me lo spieghi? Credevo odiassi anche tu le falene!».
«Le falene sono animali, Attina. E ti avverto, continua su questo tono e sarai tu a dormire fuori, stanotte. Sono seria».
«Tu non capisci niente!», sbottò Attina, e tornò in corridoio chiudendo la porta dietro di sé con tanta forza da farla tremare.
Oh, giusto, poi c’era quella carinissima cosa che il bastardo le aveva detto, che tutto il casino di Cordata era colpa di un Aviatore. Le rodeva talmente tanto lo stomaco che se le fosse venuta un’ulcera non si sarebbe stupita affatto.
Percorse il corridoio pestando il pavimento con forza, come a volerlo uccidere. Le facevano pure male da morire le guance, dal gran stringere i denti per il nervoso.
Prese le scarpe dallo sgabuzzino, e quando si voltò verso l’attaccapanni per recuperare il cappotto scorse Descartes. Era sulla soglia del salotto, appoggiato allo stipite con aria patetica, e o sul pavimento c’era qualcosa di estremamente interessante o non aveva il coraggio di guardarla in faccia.
Attina fu indecisa per un attimo se apostrofarlo con un “che cazzo vuoi” o mandarlo a cagare senza punti di domanda, ma alla fine scelse una terza opzione. Lo ignorò, e con uno strattone secco tirò giù il cappottino beige.
«Attina…», disse lui in un filo di voce «Non possiamo, non so, ragionare un-».
«Tu per me sei morto», lo interruppe secca Attina, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Prese la cartella e uscì di casa senza aggiungere una parola.

Descartes batté la fronte contro lo stipite. Nelle intenzioni voleva farlo piano, ma riuscì comunque a farsi male.
Aveva riflettuto a lungo su chi fosse stato più fortunato, fra lui e il vero Descartes, senza riuscire però a darsi una risposta. Beh, ora una mezza idea cominciava ad averla.
L’unico lato positivo, forse, era che peggio di così difficilmente poteva andare.

Peggio di così non può andare, pensò Attina. Tempo mezzo secondo e Linda, correndo verso di lei con un certo entusiasmo, le rivolse un largo sorriso e le sussurrò «Mi sono messa con Nicola».
Attina sentì gli angoli della bocca sciogliersi e non si sarebbe stupita se le fossero colati giù dalla faccia.
No, okay, come dice il detto, “A forza si scavare si finisce nelle voragini di Lathos” e in quel momento le pareva proprio di sentirle, le fiamme delle dannazione eterna. Le bruciavano in mezzo al petto e alla testa e facevano pure malissimo.
«Dai, non fare quella faccia. Ti assicuro che preso da solo è un bravo ragazzo».
«Stai scherzando? È un cretino».
Linda rise «Mannò, sei tu che sei prevenuta. Poi te lo faccio conoscere per bene, dai. Cambierai idea».
«È un cretino», ribadì Attina. Si morse un labbro – aveva sempre messo in conto l’eventualità, ma non era preparata al fatto che potesse darle così fastidio.
Dannata Linda e quei suoi capelli biondissimi e bellissimi.
Per un attimo le balenò in mente la pateticità di Descartes, e la cosa la fece sentire ancora peggio.
Dannato pure quello stronzo, qualsiasi cosa fosse.
«È stato così carino, quando si è fatto avanti! Mi ha portato pure un fiore, sai? Era troppo tenero».
«Disapprovo», sbottò Attina, e Linda rise di nuovo.
«Sei sempre così rigida! Vedrai, cambierai idea. Perché non ti metti con quel suo amico, Marco? Potremmo fare le uscite a quattro!».
«Per carità» Attina sbuffò e scosse la testa «Voglio meno contatti umani possibile, per un po’. Anzi, quasi quasi oggi me ne vado a zonzo».
«Sei un po’ strana, Atti. Problemi in casa?».
Attina sbuffò di nuovo «Parliamo di altro, ti va?».
«La puntata di ieri di “Vite tempestose” m’è piaciuta un casino», disse rapida Linda, accennando un sorriso e guardando altrove. Grazie agli Dei aveva sempre ben chiaro quando non era il caso di ficcanasare oltre.
«Me la sono persa, raccontami».
Percorsero la strada verso scuola continuando a parlare di banalità, con Linda che le riassumeva in modo dettagliato come la contessa e lo stalliere fossero finalmente riusciti a coronare il loro sogno d’amore, ma al ritorno del conte dato per morto Attina smise di ascoltare. Continuò ad annuire ed emettere ogni tanto versi entusiastici, lanciando a Linda occhiate di sbieco.
Dei, quanto le rodeva. Che Linda non le dispiacesse lo sapeva già da un po’, ma non immaginava fino a questo punto. Si sentiva quasi tradita.
Come si sentiva tradita da quello stronzo di Descartes, pure, anche se doveva ammettere di non aver capito benissimo tutta la faccenda. Pure il punto cruciale, “Descartes è una falena”, non l’aveva molto chiaro, ma le si era comunque ancorato al cervello e ogni pensiero finiva col rimbalzarci contro.
“È una falena”, “è una falena”, le suonava assurdo eppure le faceva male da morire. Ripensare a quella sensazione piacevole che le dava sincronizzarsi, poi, era ancora peggio.
Odiava le falene per ciò che era successo a Cordata, e fin qui aveva senso. Odiava le falene perché era stata una di loro a portarle via tutto, nessuno l’avrebbe mai biasimata per questo.
Odiava le falene ma Descartes in fondo le piaceva – e ciò le lasciava un retrogusto amarissimo, di tradimento, sia perché lui non gliel’aveva detto sia perché non pareva nemmeno avesse avuto intenzione di farlo.
Odiava le falene ma si sentiva confusa, perché se ciò che quello stronzo le aveva detto – e sembrava sincero, infervorato com’era – era vero, tutto quell’odio era insensato. Come lanciare un sasso contro una finestra ed incolpare il sasso di averla rotta, insomma. Quindi se era la mano ad avere la colpa, l’odio sarebbe stato più logico dirigerlo verso gli Aviatori, e guarda il caso Descartes era pure quello.
Quindi faceva bene ad odiarlo, no? Perché allora cominciava quasi a sentirsi in colpa?
«Mi fa male la testa», pigolò, e Linda rise.
«Sì, beh, te l’ho fatta un po’ troppo intricata, forse. In pratica quello che è morto era il vero figlio del conte, ma poi ci son stati quei due-tre scambi in culla che hanno complicato la faccenda».
Attina batté gli occhi e guardò Linda in silenzio.
Erano all’altezza del tempietto di Samsarta, ora, quella costruzione piccina con tre panche in croce all’ombra della biblioteca. Alle spalle di Linda, la dea Samsarta allargava le braccia, sopra al portone d’ingresso, i seni procaci ben in mostra – sembrava una madre amorevole che diceva al proprio neonato “vieni qui, ti stringerò contro il mio morbido petto e ti proteggerò da ogni cosa”.
Anche mamma aveva un petto morbido.
Il pensiero le attraversò la mente come una freccia, facendole ovviamente un male cane quando andò a conficcarsi sul fondo del cervello.
Zia Anita era secca, invece, non le dava la stessa sensazione.
«Atti, ma stai bene?», le chiese Linda. Attina abbassò lo sguardo per osservarla – aveva un’espressione corrucciata che era la morte, della serie “preoccupati sempre per me, ti prego, e guardami in eterno con questa faccetta che mi fai felice”.
«Oggi mi sembri un po’… un po’ fuori fase».
«Mi sento un po’ giù», ammise Attina, giocherellando con un codino «Ma non mi va molto di parlarne».
«Io sono sempre qui, se cambi idea».
Attina le sorrise, ma dentro sentiva solo l’impellente desiderio di lanciarsi sui gradini di pietra del tempietto e, a scelta, spaccarsi la fronte in due sugli spigoli o piangere fino a seccarsi gli occhi.
Ci rifletté un attimo e decise che sì, nel caso avrebbe scelto la prima, era più dignitosa e ci avrebbero pure messo secoli per pulire tutto.
Chissà se il cervello bastava raccoglierlo o c’era da diventar scemi a lavarlo via.

Attina squadrò il banco e poi la cartella poggiata sopra.
Le vocette delle sue compagne le giungevano alle orecchie a sprazzi – tutte a commentare “Vite tempestose”, accidenti, per una volta che perdeva una puntata poi tutti a parlare solo di quello.
Strizzò gli occhi, accecata dalla luce che entrava dalla finestra.
«Perché il mio banco è occupato?», borbottò.
«Perché quello non è il tuo banco», rispose Linda, una nota di preoccupazione nella voce «Atti, oggi sei proprio fusa, eh».
Attina batté gli occhi un paio di volte. La luce fastidiosa era sparita, diventando fioca e grigiastra.
«Cavolo» scosse la testa e raggiunse il proprio banco, in fondo all’aula, e Linda si sedette in quello accanto «È che stanotte non ho dormito niente, sono un po’ stanca».
«Un po’ si vede, hai la faccia stravolta» Linda le mise una mano sulla fronte, scostandole la frangia «No, non sei calda… però boh, se ti senti poco bene dimmelo subito, eh».
«Senti, Linda… tu come ti comporti con la gente che ti mente?», le chiese Attina. Incrociò le braccia sul banco e vi poggiò sopra il capo, rimanendo con gli occhi fissi sulla compagna «Perdoni o porti rancore?».
«Qualcuno ti ha fatto arrabbiare, eh?», sghignazzò Linda. Si sedette sul banco e batté i tacchetti delle scarpe sulla sedia «Non so. La seconda, forse. Dipende un po’ dai casi, se è una cosa poco importante magari delle scuse striscianti le accetto».
Attina rise «Questa me la segno. No, è una cosa importante».
«Ah, allora no, sulle cose importanti non transigo. Potrebbero anche regalarmi una villetta, guarda, avrebbero solo il mio disprezzo. E’ una persona importante?».
«No», sbottò Attina, e Linda annuì.
«In quel caso, men che meno. Ora però mi incuriosisci, cavolo. Di chi parli?».
«Non lo conosci».
«È il tizio di ieri, per caso? L’Aviatore?».
«No», ridacchiò Attina «Altra gente, altra gente. Un idiota irri-».
Le parole le morirono in gola. Linda era scomparsa, eppure ce l’aveva davanti agli occhi fino a un secondo prima.
Si raddrizzò, trattenendo il respiro. Il banco era diventato uno di quelli lunghi, da due posti, e la sedia ora era una panca. La vecchia scuola, forse?
La luce che entrava dalla finestra alla sua sinistra poi era intensissima, così forte da non riuscire a tenere gli occhi aperti.
Lasciò scivolare una mano lungo il bordo del banco, e sentirlo interrompersi quando ai suoi occhi continuava la risollevò un poco.
Se non altro era andata solo la vista, okay, poteva essere molto peggio.
«Atti? Tutto a posto?», le chiese Linda. La voce arrivava da lì accanto, e concentrandosi sentiva pure le vocette delle altre compagne.
Ora era tutta questione di non farsi prendere dal panico e fingere indifferenza. Non era la prima volta che le succedeva mentre era fuori, nel peggiore dei casi avrebbe finto uno svenimento e fine.
«Sì, scusa. Mi è venuta in mente una cosa», disse, passandosi una mano sulla faccia. Si soffermò poi a fissarsi le dita, così Linda non avrebbe capito che in realtà non la vedeva. Forse.
«Cosa? Non è che c’è un sottofondo romantico, in tutto ciò?».
«Ma figuriamoci», sbottò Attina «Quello è più donna di una donna vera».
Con la coda dell’occhio vedeva le compagne sedute ai banchi; alzò lo sguardo, alla lavagna la signora Falchedi stava scrivendo un sacco di numeri.
Ah, povera signora Falchedi, le era sempre stata antipatica.
I vetri delle finestre tremarono, pure l’inchiostro nel calamaio oscillò.
Linda aveva smesso di parlare o era andato pure l’udito?
«Linda?», disse piano Attina, ma l’unica risposta che ottenne fu la voce della Falchedi.
«Ora, se sottraete il risultato-».
I vetri esplosero in mille pezzi con un fragore assordante, e Attina alzò d’istinto un braccio per ripararsi. Schegge affilate le graffiarono il viso e le si piantarono nell’avambraccio, e anche se lo sapeva che non era reale le fece comunque male, forse più di quando era successo davvero.
Le sue compagne urlarono, la signora Falchedi si sbilanciò e cadde a terra.
Dei, vi prego, non questo.
Strizzò gli occhi e serrò i denti, tappandosi le orecchie con le mani, come se davvero potesse servire a qualcosa. L’esplosione la sentì lo stesso, come lo stesso vide il fuoco divorare l’aula, attaccarsi ai vestiti delle sue compagne che correvano disperate per i corridoi – e lei era in piedi lì in mezzo, ora, mentre tutte si pestavano, si accalcavano per uscire, e la sua gonna aveva preso fuoco.
«Cazzo, no! Spegniti!».
La colpì con le mani, d’istinto, ma quella continuò a bruciare e a ustionarle le gambe.
Si portò allora le mani al viso e scoppiò a piangere, buttando in quel pianto tutto – il dolore, la stanchezza, la delusione, e Dei, le gambe facevano così male!
«Descartes!», chiamò d’istinto, e quando se ne rese conto rimase un attimo senza fiato.
Ma le gambe bruciavano, dolevano da morire, e bocca e naso le si erano riempiti della puzza di bruciato, e tutte le bambine continuavano ad urlare e piangere, disperate e spaventate – e Descartes non arrivava, cazzo, non riusciva ad essere utile nemmeno quando c’era bisogno di lui.
Alcune ragazzine si affacciavano dalle finestre distrutte. Una si sporse troppo e cadde giù, o forse era saltata apposta, non lo sapeva – però in qualche modo sentì chiaramente il rumore dell’impatto al suolo e quello delle sue ossa che si spezzavano. Le bastava voltare la testa e la vedeva, dall’alto, tutta contorta in una posizione strana, e l’attimo dopo le era accanto, seduta nel sangue che le usciva dalla testa, la gonna strappata, le gambe ustionate che puzzavano di carne bruciata.
«Descartes!», lo chiamò ancora. Una bambina le corse davanti, la schiena in fiamme, inciampò nella ragazzina morta e cadde a terra.
«Devi rotolare!», le strillò Attina, allungando le braccia verso di lei, ma il fuoco le stava già divorando tutta la camicia e i capelli e la gonna e la bambina smise di urlare nel giro di pochi secondi.
«Perché io sì e tu no?», disse la ragazzina caduta. Gli occhi sbarrati ruotarono nelle orbite e si mossero verso di lei, e Attina scosse la testa.
«Mi dispiace», pigolò, portandosi le mani al viso. Un braccio rispose con una scarica intensa di dolore – poteva scorgere il bianco dell’osso forarle la pelle, Dei, e anche la gamba sinistra doveva essere rotta, faceva un angolo innaturale, sembrava quella di uno struzzo.
«Cazzo, Descartes! Ti prego», singhiozzò, e continuò a chiamare il suo nome in mezzo ai gemiti di dolore per quelli che le parvero secoli, mentre attorno a lei altre ragazzine e bambine urlavano, saltavano giù dalle finestre, pregavano ogni dio del pantheon di salvarle, e tutt’attorno, tutti gli edifici, era tutto nelle stesse condizioni.
Poi la vista le si appannò e tutto divenne prima di un bianco abbagliante e poi nero come la pece. I rumori si attutirono fino a scomparire, pure il dolore scomparve, e il suo cervello riuscì a formulare un “finalmente” prima di perdere conoscenza.

*
Basil faceva calcoli e disegnava grafici a velocità disumana da ore, ormai, e nonostante ciò aveva in volto una masochistica espressione rilassata.
«Poi sono io quello con dei problemi. Ma hai dormito, Base?», disse Tesla, picchiettandogli la testa con le nocche per attirare la sua attenzione «Guarda che se sei stanco e poi sbagli qualcosa tocca a me rifare tutto, eh».
“Potresti darmi una mano”, gesticolò Basil, e lo fissò storto. Tesla rise, prese la sua tazza e gli rubò un sorso di caffè.
«Cielo, che schifezza. Io sto ragionando, mio caro. Rifletto. Confronto. Faccio i cerchietti sulla mappa. Tu i cerchietti non li sai fare, lavori troppo di polso. Il trucco è il gomito, te lo dico sempre».
Basil scosse la testa e tornò ad osservare la serie di tracciati, mentre Tesla si avvicinò alla mappa infissa sulla parete opposta.
Sorseggiò il caffè e seguì con lo sguardo le puntine che aveva piantato.
«Senti, Base-», cominciò, ma si interruppe subito. Estrasse un sassetto da una tasca del lungo cappotto nero e lo lanciò a Basil, colpendolo ad una spalla.
Basil alzò lo sguardo e lo fissò di nuovo torvo, la bocca arricciata in un’espressione infastidita.
«Mi è venuta un’idea folle», disse Tesla, e si tamburellò le dita sullo sterno «Quant’erano le probabilità che Descartes sia col Cuore, un ottanta per cento? Ma ascolta. E se non fosse Descartes a essere col Cuore, ma il Cuore a essere con Descartes?».
Basil aggrottò le sopracciglia.
“E' la stessa cosa”, disse, e Tesla scosse la testa schioccando ripetutamente la lingua.
«No. Come al solito manchi di prospettiva, quello che intendo-».
«Dottor Tesla!».
La porta si spalancò ed entrò un Vigilante, trafelato. Si batté il pugno sul petto e raddrizzò la schiena.
«Una telefonata urgente per lei dalla sede di Metera».
«Metera?», ripeté Tesla.
Esattamente al centro dell’area delimitata dalle puntine.
Avrebbe voluto insegnare al Vigilante l’importanza del bussare con una storiella di dieci minuti abbondanti, ma forse la telefonata doveva avere la precedenza.
«Basil, vai tu a rispondere?», sghignazzò, e Basil gli rispose scuotendo la testa esasperato.

*
Descartes sospirò e si versò un altro bicchiere di latte. Trovava vagamente deprimente il fatto che il vero Descartes affogasse i suoi dispiaceri in quello anziché nell’alcool, ed era ancor più deprimente che fra tutte le cose anche quest’abitudine gli fosse rimasta.
Non gli veniva in mente niente di più patetico, Dei santissimi.
Si accasciò sul tavolo della cucina, fissando il bicchiere in controluce. Tu per me sei morto, gli aveva detto Attina, e quelle parole continuavano a rimbalzargli in testa da ore.
Tu per me sei morto.
Era doloroso. Dolore che si sommava a dolore, tanto per rendere ancora più radiosa la situazione, e l’unica consolazione era che, se non altro, per una volta il vero Descartes non c’entrava. Probabilmente lui si sarebbe messo a ridere e se ne sarebbe fregato.
Il rumore di un qualcosa a motore lo face sobbalzare. Si catapultò alla finestra e cercò di guardar fuori attraverso i ricami della tendina, tenendosi chinato per farsi notare il meno possibile.
Da quando era lì non aveva visto una sola automobile da quelle parti, difficile quindi che questo mezzo fosse solo di passaggio.
Difatti si fermò poco distante – e Dei santissimi, su una fiancata c’era l’insegna dei Vigilanti.
«È un caso, è un caso», sussurrò Descartes, accucciandosi, la schiena percorsa da brividi.
Sempre tenendosi basso scivolò fuori dalla cucina, ed era in corridoio quando la porta tremò, scossa da colpi energici.
Gli si mozzò il respiro e si fermò, fissando l’ingresso con orrore.
«Signora Cavalcanti!», chiamò una potente voce maschile «Siamo agenti della Vigilanza. È in casa?».
La testa di Anita fece capolino dalla camera. Sul viso aveva un’espressione fra il perplesso e il preoccupato, ma parlò in modo tanto tranquillo che Descartes sentì di poter respirare di nuovo.
«Un attimo, aspettate!», rispose, infilandosi la vestaglia. Indicò il salotto a Descartes e lui vi si diresse subito. Si acquattò nel primo posto che gli venne in mente, dietro al divano. Dava lo schienale alla porta, sembrava la postazione migliore.
Da lì sentì Anita aprire la porta d’ingresso – di certo solo uno spiraglio, il cigolio durò una frazione di secondo.
«Buongiorno, agenti», disse, la voce ferma e tranquilla come se stesse parlando con il postino. Come le invidiava quel sangue freddo.
«Come posso esservi d’aiuto?».
«La signora Cavalcanti? Ci duole informarla che sua figlia Attina versa in condizioni preoccupanti. E’ pregata di seguirci, la scorteremo noi-».
«Attina?», lo interruppe Anita. La voce le tremò per un istante «Oh, dei santissimi! Che le è successo? Come sta?».
«Attualmente sua figlia è preda di una sorta di delirio», rispose piatto il Vigilante «Ma prego, se vuole prendere le sue cose e seguirci, le spiegheremo tutto strada facendo».
«Datemi… datemi un istante», disse Anita, e richiuse la porta. Si affacciò sul salotto e scosse la testa, passandosi una mano sul viso. Con un gesto solo sembrò invecchiata di dieci anni.
«Enora traditrice, alla fine è successo», sussurrò, accasciandosi contro uno stipite «Dovevo immaginarlo, accidenti. Dovevo tenerla a casa. Ora sarà un miracolo non farla internare».
Descartes avvertì una fitta in mezzo al petto. Dal fondo della mente gli si risvegliò un ricordo, una ragazza dall’aspetto che definire sciupato sarebbe stato un eufemismo, e gli occorse qualche secondo per riconoscerla come la sorella del vero Descartes.
Già il destino di Attina lo preoccupava, ora si sentiva pure peggio.
«Vengo con lei», sussurrò, scavalcando il divano «Non so bene cosa posso fare, ma se la ricoverano potrei riuscire a sabotare gli esami, in qualche modo, così non la classificheranno subito come portatrice».
«No, no», borbottò Anita scuotendo la testa «Sei ricercato, ti riconosceranno all'istante».
«Se nascondo i capelli dubito, Descartes aveva la faccia invasa di lentiggini. Si faccia dire dove la porteranno e poi mi spieghi come arrivarci».
Anita lo fissò poco convinta, ma annuì debolmente.
«Prendi i vestiti di mio marito, ti mostro dove sono».

Adrienne era accucciata in un angolo della stanza, gli occhi spenti fissi sul vuoto. Un rivolo di saliva le colava fuori dalla bocca socchiusa.
«Ehi», la chiamò piano Descartes. Si inginocchiò davanti a lei e le prese una mano, ma Adrienne non parve accorgersene. Si limitò a battere le palpebre.
«Adrienne?», la chiamò ancora, intrecciando le dita con le sue «Sono io, sono Adrien. Mi… mi senti?».
Gli veniva da scorticarsi una guancia, e carezzò il volto della sorella per occupare la mano libera.
Concentrò qualche scintilla di Chroma sulla punta delle dita, come aveva imparato a fare così bene negli ultimi tempi, e in qualche modo il Chroma di Adrienne gli rispose. Vibrò lieve, armonizzandosi con il suo come due strumenti di un’orchestra.
«Annie», sussurrò, baciandole le dita «Dei, Annie, perdonami. Perdonami. Mi dispiace».
Le scostò i capelli dalla fronte, sfiorando con i polpastrelli quell’orribile cicatrice su una tempia.
«Io… io sto bene, sai? Certo, beh, a parte il fatto che sono innamorato della persona più ritardata del paese, però sto bene. Sono… sono felice. Ti penso sempre».
Adrienne continuò a fissare il vuoto, in silenzio. Chissà cosa stava pensando – chissà se riusciva a pensare.
«Ti voglio tanto bene, Annie. Riuscirò a portarti a casa, prima o poi».
Anche se era ormai troppo tardi.

«Il medico ha sconsigliato di spostarla finché la crisi perdura», disse il Vigilante, guidando Anita attraverso i corridoi della scuola. Ragazzine parlottavano tra loro, riunite in gruppetti, le mani davanti alla bocca con aria cospiratoria. Anita non riuscì a cogliere una sola parola, ma le bastò il loro atteggiamento per capire che parlavano tutte di ciò che era successo ad Attina.
Imboccarono una rampa di scale e poi un altro corridoio, tutto di un bianco tanto malaticcio da sembrare più un ospedale che una scuola, e superata una porta con sopra la targhetta “sala insegnanti” si fermarono accanto ad un’altra che recava scritto “infermeria”.
«Prego. Io rimarrò qui fuori, per ogni evenienza. Il mio collega le ha già anticipato che in questi casi la situazione è molto complessa, ma non si preoccupi, il benessere di sua figlia viene prima di tutto. Penseremo al resto non appena la crisi sarà cessata, e purtroppo è solo una questione di tempo».
«Certamente», rispose Anita, e accennò un sorriso «La ringrazio».
Entrò e si richiuse la porta alle spalle, lasciandosi andare in un sospiro fra il sollevato e il disperato.
Attina era stesa nel lettino, raggomitolata su un fianco, e si premeva con forza le mani sul viso.
«Attina», provò a chiamarla, ma come temeva non ottenne risposta. Le si avvicinò e le passò una mano fra i capelli, e nemmeno quel gesto parve avere un qualche effetto.
Con l’ennesimo sospiro, fece il giro del letto e si affacciò alla finestra.

C’era un punto abbastanza riparato, sul retro della scuola, dove la recinzione scivolava davanti ad una fila di alberelli dal tronco robusto. Costeggiavano un piccolo parco giochi che in quel momento era deserto, fatta eccezione per un bambino che si dondolava su un’altalena come se non ci fosse un domani.
Descartes osservò il cortile della scuola, oltre la recinzione. Da lì poteva scorgere l’ingresso principale, e da un paio di minuti pareva deserto pure quello. Poco prima c’era stato il suono della campanella, seguito da una processione di ragazzine che si erano allontanate a passo svelto con urletti eccitati; processione che si era diradata poco a poco, forse anche troppo rapidamente, e ora non rimaneva più nessuno nei paraggi.
Un vecchio raggiunse il cancello e lo richiuse, e non appena fu sparito dalla visuale Descartes si avvicinò alla recinzione.
Si guardò attorno ancora una volta, per sicurezza – il bambino continuava a dondolarsi come un indemoniato, con gridolini tipo “yeeeh”, “yu-uuuuh” che avevano un che di inquietante. Nessun altro in vista, però.
Non che avesse esattamente un’idea su come scavalcarla, quella cosa. Era alta, con spuntoni appuntiti e di certo in mezzo ai pali non poteva passarci.
Il vero Descartes l’avrebbe sciolta con le sue fiamme blu, e più la guardava più l’idea lo tentava.
Afferrò le sbarre con le mani e poggiò la pianta del piede contro la base di mattoni. Allungò una mano – arrivava senza problemi alla barra orizzontale che univa gli apici delle altre, quindi l’afferrò con entrambe le mani.
Beh, tanto valeva provare, al massimo avrebbe finito col farsi male.
Molleggiò un attimo sulle ginocchia e saltò, e in un qualche modo che forse c’entrava col Chroma che gli frullava per il corpo, quasi impazzito, riuscì a issarsi sopra gli spuntoni. Ricadde dall’altra parte con una capriola, atterrando di schiena e mancando la base di mattoni di quel che gli parve mezzo centimetro.
Il cappello rotolò via, liberandogli i capelli. Già che era diventato matto a farli stare tutti lì sotto…!
Lo raccolse e sgusciò in una rientranza dell’edificio. Ora veniva la parte difficile: non aveva la minima idea di dove fosse Attina di preciso, e anche se l’avesse trovata non era così scontato riuscire a raggiungerla senza dare nell’occhio.
Cos’era che aveva pensato, qualche ora prima? “Peggio di così non può andare”?
Svuotò i polmoni in un lungo sospiro, risistemò i capelli alla bell’e meglio ed uscì dal nascondiglio, muovendosi lungo il perimetro dell’edificio. Alternava nervose occhiate attorno a sé ad altre rivolte verso le finestre, alla ricerca della figura di Anita. Aveva detto che si sarebbe affacciata – sempre che ne avesse avuto modo, accidenti, perché potevano esserci Vigilanti in stanza con lei o poteva pure non trovarsi dove stava Attina. Ah, che situazione orribile.
Arrivato all’angolo lanciò prima un’occhiata oltre. Ancora nessuno in giro, continuava ad essere tutto deserto e silenzioso. Buon segno, se non altro.
Esaminò le finestre con attenzione e finalmente scorse Anita in una di quelle al primo piano.
Osservò di nuovo tutte quelle al piano terra, ma erano chiuse e non sarebbe stata una buona idea forzarle. Gli cadde allora l’occhio su una finestrella lunga e stretta a livello del terreno, e si chinò per esaminarla.
Dava su quello che pareva uno scantinato – polveroso, pieno di banchi ammucchiati, vecchi mobili e qualsiasi altra cosa a metà fra la spazzatura e il “ma no dai, potrebbe servire ancora”. Poteva essere un buon ingresso.
Posò le dita sul vetro, all’altezza di dove scorgeva la maniglia, e tramutò il Chroma che gli pizzicava i polpastrelli in fiammelle blu in modo da scioglierlo, per poter poi infilare una mano nell’apertura e aprire la finestra.
Scivolò silenzioso nello scantinato – dopo altre dieci-quindici occhiate di sicurezza, ovvio, farsi cogliere in piena effrazione sarebbe stato al limite del comico – e si diresse alla porta con passetti leggeri, trattenendo il respiro.
Grazie agli Dei quella era aperta, almeno.
Nessuno in giro, di nuovo. Tutto era immerso in un silenzio quasi innaturale, mancava solo un orologio dal battito pesante a rendere l’atmosfera più inquietante.
Salì la manciata di gradini che aveva accanto tendendosi basso, ma si rivelò una precauzione inutile perché davvero non c’era nessuno. Il corridoio in cui era sbucato era vuoto in una maniera desolante.
Nemmeno una voce, un bidello che puliva, un insegnante che passava di lì per caso.
A mezzo metro c’era una rampa di scale che saliva al primo piano, quindi vi si incamminò cauto.
Da dove si trovava prima a dove aveva scorto Anita aveva calcolato ad occhio una decina di metri, ed il fatto che la sua approssimazione coincidesse con la porta con su scritto “infermeria” era un ottimo segno, almeno non gli sarebbe toccato girare a vuoto.
Dalla sala professori arrivò una risata, seguita da un lieve parlottio, e anche questo in un certo senso lo rasserenò – tutto quel silenzio gli dava i brividi, aveva bisogno di un segno di normalità.
Scivolò leggero lungo il corridoio e raggiunse l’infermeria in tre passi o meno, con un tale slancio che se avesse perso l’equilibrio avrebbe come minimo sfondato la porta. Aprirla, fiondarsi dentro e richiuderla accuratamente fu poi questione di mezzo secondo.
«Mi batte forte il cuore», sussurrò, e Anita lo guardò perplessa.
«Come hai fatto ad entrare? Non ti ha visto nessuno?», gli chiese, sempre con un filo di voce.
Descartes scosse la testa «C’è gente in sala professori, ma nessuno in vista. Come sta Attina?».
Anita sospirò e carezzò la testa della bambina, che giaceva nel letto raggomitolata su un fianco, le mani premute sulla faccia.
«Di tanto in tanto ti chiama».
«È tutta colpa mia», borbottò Descartes. Si sedette accanto ad Attina e si chinò su di lei, carezzandole un braccio con delicatezza. Le forzò una mano nel modo più lieve che poté e le carezzò il palmo col pollice, prima di posarsela sul petto, all’altezza del cuore.
«Non so davvero se la cosa possa funzionare», sospirò «L’altra volta che ho dovuto forzarla non mi odiava in modo tanto viscerale. Se dovesse respingermi…».
«Ormai l’hai viziata, si aspetta che tu la salvi», sorrise Anita «Non è che ti andrebbe pure di accollartela, fra qualche anno?».
Descartes ridacchiò «Senza offesa, ma credo che passerò».
Prese un respiro profondo. Il cuore continuava a battergli a mille, accidenti, proprio il modo migliore per perdere il controllo del Chroma – Dei, il corpo umano era così… così instabile, se non avesse avuto quel perfetto senso dell’equilibrio che si ritrovava marchiato a fuoco nell’istinto gli si sarebbe già ucciso metà cervello. Non c’era da stupirsi che il vero Descartes fosse pazzo, e non aveva che una minima parte del Chroma che ora stava controllando lui.
Chiuse gli occhi e concesse all’energia lo spiraglio più piccolo che riusciva a figurarsi. Un brivido gli salì lungo il collo fino ad una tempia, per poi tornare giù e terminargli sullo sterno.
Il Chroma vibrò contro il palmo di Attina, una sorta di delicato bussare, e lei se ne accorse di certo perché aprì gli occhi. Fissava il vuoto, ma era comunque un passo avanti.
«Attina», la chiamò piano, facendo risuonare di nuovo il Chroma. Dal palmo della bambina gli arrivò una risposta debole, una vibrazione tenue ma al tempo stesso carica di risentimento e disperazione, e Descartes pregò mentalmente mezzo pantheon che prevalesse la seconda e non lo respingesse.
Fece vibrare il Chroma una terza volta, e Attina voltò appena il capo verso di lui.
Invece che aprirla verso di sé, quella porta a cui Descartes stava bussando Attina gliela sbatté metaforicamente in faccia – a livello pratico Descartes ricevette una scarica in pieno petto tale da farlo sussultare e piegare in due, mandando tra l’altro il suo Cuore a tanto così dal riversarsi nel resto del corpo.
«Sei un animale», sbottò, lasciandole andare la mano.
La bambina batté gli occhi qualche volta. Per un attimo le tremarono le labbra e sembrò sul punto di piangere, ma la smorfia si sciolse in una linguaccia.
«Te lo meriti tutto. Anche perché ci hai messo un casino».
«Attina», la chiamò Anita, e la bambina si allungò verso di lei per farsi abbracciare.
«Voleva continuare all’infinito», pigolò «Ho combinato un casino, vero?».
«Non ti preoccupare», le rispose Anita, ma suonò molto meno rassicurante di come certamente sperava «Andrà tutto bene. Descartes è qui apposta».
«Siamo proprio in ottime mani, allora», sbottò Attina, fulminando il suddetto con un’occhiata mortale. Ecco che l’odio tornava a galla, accidenti. Era solo passato in secondo piano.
Descartes distolse lo sguardo e si carezzò il collo. Ciò che Anita aveva inteso come battuta non lo era davvero molto, aveva finito col viziarla sul serio. Ovvio che gli stava molto a cuore aiutarla con le allucinazioni e tutto il resto, ma almeno un grazie gli pareva cortese, specie quando era stata lei per prima a-
Gli si ghiacciò il sangue nelle vene.
«Attina», sussurrò, sgranando gli occhi «Quante volte mi hai nominato?».
Attina corrugò la fronte, e in mezzo secondo sia lei che Anita parvero realizzare il problema.
«Mi metto fuori di guardia», sibilò Anita, ma non si era nemmeno rimessa dritta che la porta si aprì.
«Signori, signore, manteniamo la calma. Il primo proiettile che vedo prendere il volo sarà restituito al mittente per vie trasverse, non so se mi spiego».
Ad entrare fu un uomo con gli occhiali da sole, completamente vestito di nero e con un ciuffo di capelli orribile che gli cadeva su un lato della faccia.
Descartes rabbrividì.
Pericolo, gli strillarono i ricordi del vero Descartes, Scientifica. Brutta cosa.
L’uomo avanzò nella stanza, seguito a ruota da alcuni Vigilanti con le armi spianate.
«Adrien Descartes, ti- no, aspetta, sono un attimo confuso».
L’uomo si frugò in una tasca ed estrasse una foto. Spostò più volte lo sguardo dall’immagine a Descartes, e le sue sopracciglia si curvarono in un’espressione perplessa.
«Ohibò. Von Leibniz!».
Dietrich si fece spazio fra i Vigilanti e si affiancò all’uomo – che tra l’altro sentiva di conoscere, ma proprio non ricordava chi fosse – seguito poi da un ragazzo alto e moro.
Descartes assottigliò gli occhi, fissando Dietrich con un misto di delusione e rabbia, ma quello scosse la testa, sul viso un’espressione che poteva dire solo “io non c’entro niente”.
«C’è qualcosa che non mi torna», continuò lo scienziato «Gli somiglia come io somiglio alla mia gemella, nel senso che siamo simili ma lei, ehm, è femmina. E grassa».
«Non so che dirle», sussurrò Dietrich poco convinto.
«Mi piacciono i colpi di scena. Ragazzo! Mi confermi che sei Adrien Descartes, del corpo speciale dell’Aviazione eccetera eccetera? Oh, beh, tanto lo so benissimo che sei tu, non prenderti la briga di rifilarmi una sciocchezzuola giusto per rabbonirmi».
Descartes tacque. Fece per alzarsi in piedi, ma da come i Vigilanti strinsero la presa sui loro fucili intuì che non era una buona idea, e si rimise seduto sul letto.
«Con chi ho l’onore?», si limitò a chiedere, sforzando un sorriso. Sentiva il Chroma vorticargli nel petto, come impazzito, pulsando ad ogni battito del cuore.
«Dottor Luka Tesla», rispose l’uomo, accennando un mezzo inchino «Dottore si fa per dire, non sono un medico. Ragazzo mio, per prima cosa lascia che ti ringrazi. Non ne potevo più di stare qua, in mezzo al nulla, nella desolazione, come l’ultimo dei pezzenti. Quindi grazie di esserci cascato in pieno, grazie, anche se io avevo scommesso che saresti stato più furbo».
Il ragazzo moro gesticolò qualcosa, un sogghigno soddisfatto sulle labbra, e il dottor Tesla ricambiò con uno sguardo d’astio.
«Grazie, Base, di quello ne riparliamo dopo, eh. Sai» e si rivolse di nuovo a Descartes «È stato lui, Basil, il mio assistente – te lo ricordi? Una volta l’hai chiuso nello studio fondendo la serratura, che grasse risate mi sono fatto – dicevo, è stato Basil a pensare che magari potevamo attirarti qui con la bambina. Io gli ho subito detto che noo, dai, Descartes non è così ingenuo, è una persona esperta della vita, poi Base ha detto vogliamo scommettere? e io sono un vero uomo, non mi tiro mai indietro quando c’è una sfida. E perdo con stile. L’avresti mai detto che Base fosse un tale conoscitore dell’animo umano? Umano o quel che sei, insomma».
Tesla distese le labbra in un sorriso larghissimo, e Descartes sentì le mani stringere il bordo del letto in modo spasmodico senza che fosse lui a controllarle.
«Perché tu non sei davvero Descartes, vero? Ti mancano lo sguardo da pazzo, l’atteggiamento da pazzo, la parlata da pazzo e insomma, se fossi davvero Descartes avresti già cercato di carbonizzarci tutti, ne sono certo, e io avrei dovuto dare l’ordine di spararti – a malincuore, sia chiaro, non approvo la violenza se non quella verbale».
Basil tirò una manica al suo superiore e gesticolò qualcos’altro, e Tesla rise.
«Base dice che ti sto spaventando. Scusa, scusa, il fatto è che sono molto eccitato. Dimmi la verità», disse, muovendo qualche passo verso Descartes. Un Vigilante si spostò in avanti, il fucile sempre puntato, ma Tesla gli fece segno di rimanere indietro.
«Stai tranquillo, l’ultima cosa che voglio è spaventarti. Più di così, insomma. Dicevo, dimmi la verità. Mi hanno mandato qui a cercare il Cuore, più che a cercare te, ma a forza di osservare tutte le mie registrazioni m’è venuta un’idea bislacca. C’è forse la possibilità – assurda, me ne rendo conto, almeno quanto vedere Base che va tutto allegro a sentire un concerto – che il Cuore sia con te? E con te intendo molto con te, estremamente con te» si toccò lo sterno con la punta delle dita «Dentro di te, magari?».
Descartes sgranò gli occhi e socchiuse la bocca. Non riuscì ad emettere nemmeno un fiato.
Come faceva ad averlo capito?
Era tentato di cercare Dietrich con lo sguardo, ma di certo avrebbe ricevuto la stessa risposta di prima.
«Base!», esclamò Tesla, voltandosi «Non hai qualcosina da dirmi?».
Basil inarcò le sopracciglia e gesticolò di nuovo.
«Ma che fortuna e fortuna, questo è intelletto. Dunque, Adrien Descartes, ti consiglio di non opporre resistenza. I signori qui sono sul nervosetto andante e qualcosa mi spinge a pensare che abbiano pure il ditino iperattivo, non so se mi spiego. Se dovesse succederti qualcosa di brutto mi dispiacerebbe più che un casino, ma credo che saresti più dispiaciuto tu se dovesse succedere qualcosa a quelle lì».
«Non» Descartes si schiarì la voce e si sfilò il cappello, per potersi passare una mano fra i capelli «Non ho intenzione di fare niente».
Eppure sentiva il Chroma ribollire nelle braccia, e una vocina sul fondo della testa che gli dava suggerimenti arditi.
Falli fuori tutti e fregatene, diceva, ma se anche avesse avuto la freddezza e la bastardaggine per farlo – cosa che magari aveva il vero Descartes, ma lui nemmeno un accenno – cominciava a sentirsi stanco.
Troppe cose che continuavano ad andare per il verso sbagliato e nemmeno poteva ritagliarsi un attimo di tregua per stare solo con se stesso, dato che “se stesso” era un concetto così labile.
Voglio dormire e basta.
«Ditemi cosa devo fare e lo-».
«Dei, quanto sei mammoletta, Deschecca», lo interruppe Attina «E voi non avete il diritto di arrestarlo. Non ha fatto niente».
Tesla rise «Non guardare me, io sono già pieno fin qui di questa storia. Hanno spedito me più per una questione di antipatie che di meriti, temo. Io non ho interesse a sbatterlo davanti a una giuria, sai? Io voglio parlarci. Studiarlo. Cioè, bimbetta, riesci a cogliere la situazione? Ha un Cuore dentro di sé, un Cuore! Ed è ancora vivo! Quando mai mi ricapita un soggetto del genere? È unico».
Un brivido attraversò la schiena di Descartes.
«Voglio punzecchiarlo, tocchicciarlo – in modo innocente, ovvio – e passare con lui romantiche serate a lume di candela a fargli, beh, tutto quello che mi viene in mente. Non so se mi spiego».
«Tu sei psicopatico», disse Attina, e Tesla rise di nuovo.
«Un pochetto, sì, me lo dicono tutti».
«Come l’ha capito?», chiese Descartes con un filo di voce.
«Cosa, che il Cuore è dentro di te? Te l’ho detto, era solo un’ipotesi, non-».
«Mi sembrava una certezza, più che un’ipotesi».
Tesla sorrise «Andiamo, Descartes, io allevo falene da quando il tuo compare von Leibniz si spaccava i dentini da latte correndo in giro. Sono la loro mammina amorevole. Tutte le mamme riconoscono i loro pargoli, quando li vedono, è una cosa istintiva. E più ti guardo, più mi sembri una delle mie larvette – tra l’altro ho pure una gran voglia di abbracciarti, se non fosse che ti trovo un attimino rivoltante, con quegli occhi a palla, e che potrebbe venirti voglia di sgozzarmi. Oh, però sono così eccitato! Credo terrò la bambina come ostaggio, per farti rimanere tranquillo».
Basil si passò una mano sulla faccia.
«Attina non c’entra niente!», esclamò Descartes «Lasciala fuo-».
«Per me non c’è problema», disse Attina con aria di sufficienza, guadagnandosi anche un’occhiata stralunata da Anita.
«Non dirlo nemmeno per scherzo», le sibilò la donna. Descartes si limitò a passarsi una mano fra i capelli.
«Muoio», rise Tesla, sfilandosi gli occhiali da sole per potersi asciugare gli occhi «Alla faccia della diplomazia!».
«Fra ostaggio e farmaci, preferisco ostaggio. Se mi farete prendere qualche medicina strana Deschecca non collaborerà, vero?».
Descartes scosse la testa, portando alla testa anche l’altra mano.
«Mi sembra giusto», disse Tesla. Intrecciò le dita sul ventre e sospirò sollevato «Mi sento bene. Temevo sarebbe andata mooolto peggio, eh, anche le mie più rosee aspettative prevedevano minimo un morto o due. Non vi sentite meglio anche voi?».
Descartes sospirò. Quel che era peggio, in un certo senso Attina aveva pure ragione.
Era stanco, era così stanco. Gli avrebbero fatto male, tanto e pure a lungo, eppure anche quel terrore cominciava a trasformarsi in stanchezza.
Alzò lo sguardò e incrociò quello di Dietrich, che fissava la scena ritto come un fuso e più pallido delle pareti.
Dei, vi prego, fate qualcosa. Non ce la faccio più.
L’idea di un processo gli sembrò quasi allettante. Lo avrebbero condannato alla pena capitale senza battere ciglio, ne era certo, e il ritrovarsi a sperarlo non lo turbò quanto avrebbe creduto.
«Voglio parlare qualche minuto con Dietrich», disse, fissando gelido Tesla «In privato».
«Ohibò, in privato temo proprio non sia possibile, ma non vedo perché no. Qualche metro di distanza potrebbe essere sufficiente?».
«Mi accontenterò».

La caserma di Metera aveva un’ampia hall, sufficiente perché Descartes potesse rimanere al centro con i Vigilanti disposti a qualche metro, a raggiera, i fucili ben saldi in mano e gli indici già pronti sul grilletto.
Descartes cercò di passarsi una mano fra i capelli, ma con le manette il movimento non gli venne granché bene.
«Ti giuro che non c’entro niente», disse piano Dietrich. I suoi occhi saettavano su e giù, non riusciva ancora a guardarlo in faccia «È stato il medico che ha visitato Attina ad avvertire i Vigilanti».
Descartes accennò un sorriso «Lo immaginavo. Non preoccuparti».
«È… è così assurdo, Dei».
Descartes accennò un altro flebile sorriso.
«Ci ho pensato sopra un casino», continuò Dietrich, sempre in un sussurro «E io… io ho deciso che farò tutto il possibile per tirare fuori Des – il mio Des da lì dentro».
Il mio Des. Argh.
Mi sanguina il cuore.
Descartes chiuse gli occhi e sospirò. Era una sensazione strana, quella che gli ribolliva nel petto – a metà fra la rabbia e la disperazione e un’assurda voglia di ridere, ma la stanchezza continuava ad imperversare inarrestabile e mise a tacere tutto, soffocando ogni cosa.
«Sì, va bene», disse tornando a fissare Dietrich «A proposito del tuo Descartes, c’è una cosa che è il caso che tu sappia».
Gli angoli della bocca tiravano, gli veniva da ridere. Dietrich ci sarebbe rimasto di merda.
«Descartes non… come dire… eri speciale per lui».
«Lo so», borbottò Dietrich, corrugando la fronte.
«No, non lo sai. Lui avrebbe… lui avrebbe tanto voluto dirtelo, ci ha provato molte volte senza mai trovare il coraggio. Finiva sempre col fuggire da questa cosa, e alla fine è morto con un rimpianto così intenso da… beh, da combinare tutto questo».
Descartes si indicò con un risolino. Fanculo a tutti i giri di parole, non sarebbero serviti a niente.
«Descartes era innamorato di te. Da anni», disse, la voce che gli tremava. Si premurò di tralasciare la parte che riguardava il “tutto quello che lui provava ora lo provo io”, tanto Dietrich non avrebbe di certo capito.
Dietrich sgranò gli occhi e tacque. Poteva vedergliela nelle iridi, quell’affermazione, mentre gli ronzava nel cervello e cercava di far lavorare gli ingranaggi. Ovviamente se l’aspettava che c’avrebbe messo un po’ per-
«Non è vero», disse Dietrich in un tono convintissimo.
Descartes smise di respirare. Il Chroma gli ribollì nel petto con un picco tanto intenso da fargli male, come una pugnalata.
«…come?», chiese in un rantolo.
Dietrich scosse la testa. Aveva un’aria sperduta eppure dannatamente sicura al tempo stesso.
«Non è vero. Ti sbagli».
«Mi sbaglio? Mi sbaglio?».
Descartes batté qualche volta le palpebre, gli occhi sgranati. Gli faceva male la testa, gli faceva male il cuore – sentiva quasi la voglia di scarnificarsi una guancia.
«Come cazzo puoi dirmi che mi sbaglio?», gridò, sporgendosi verso Dietrich, che si piegò indietro d’istinto.
Vide con la coda dell’occhio i Vigilanti fremere e imbracciare il fucile più saldamente.
«Signori!», esclamò il dottor Tesla, allargando le braccia «Per carità, rilassatevi. È tutto a posto, non fatevi prendere dall’ansia!».
Descartes lo osservò per un istante, poi tornò a fissare Dietrich negli occhi.
«Come fai a dire che mi sbaglio?», ripeté abbassando la voce, a denti stretti. Le parole gli uscirono tremanti, ammantate di rabbia.
«Perché- perché non è vero», ribatté Dietrich, scuotendo la testa con scatti nervosi «Me ne sarei accorto».
«No! Non te ne sei mai accorto perché tu non ti accorgi mai di un cazzo!», gridò Descartes «Ti è morto dietro per anni, per anni!, mentre tu venivi preso in giro da quella troia di Elizabeth e cercavi di rimorchiare come un disperato! Ti moriva dietro mentre ti aiutava ad approcciare tutte quelle stupide oche – ma davvero non ti sei mai chiesto perché metà dei tuoi appuntamenti venivano sabotati, eh? Come potevi non vederlo?!».
«Io e Des siamo solo amici», borbottò Dietrich. Si vedeva chiaramente che persino lui stava dubitando, Dei, allora perché cazzo negava con tutta questa convinzione?
«Porca troia, Die, non ti sto chiedendo di… di accettarlo, voglio solo che tu te ne renda conto! Con tutte le volte che gli hai spezzato il cuore portandolo per locali, glielo devi!».
Me lo devi.
«Ti amava, Dei santissimi, ti amava così tanto che è morto ancorandomi a questo rimpianto. Era così disperato che avrebbe dato l’anima per morirti fra le braccia e dirtelo, quindi smettila di negare! Fallo per lui, gli spezzeresti il cuore».
«Ma non…» Dietrich alzò e abbassò lo sguardo più volte, confuso «Se fosse vero me l’avrebbe detto. Come posso fidarmi di te?».
Descartes si portò le mani alla testa e strinse i denti.
Il cuore faceva malissimo.
«Dei, quanto sei cretino», sibilò. Cercò di tranquillizzare il respiro, ma più ci provava più questo si velocizzava.
«Sei un cretino!», ripeté, gridandoglielo in faccia «Lo stai facendo di nuovo, cazzo, ti chiudi gli occhi! Come quando Elizabeth non ti ha scritto per due mesi e tu hai continuato a giustificarla! Togliti quelle cazzo di mani dagli occhi, per una volta! Ripensaci, ripensa a Descartes, a tutti i momenti passati insieme, a quanto eri speciale per lui. Come fai a negarlo? Come cazzo fai?».
Dietrich scosse la testa «Io non… non ho mai…».
«O sei cieco o stupido o tutti e due! Dei, Dietrich, Attina c’ha messo una settimana per capirlo, come ha fatto a non sorgerti nemmeno un dubbio in tutti questi anni? Non hai notato nemmeno una volta come ti guardava, come ti moriva dietro? Non ti è mai sembrato che si trattenesse?».
Dietrich si morse un labbro e sul viso gli comparve un’espressione colpevole.
«Perché non gli hai mai chiesto niente, sei l’hai notato? Come puoi… come fai a… Cazzo, Dietrich! Non aspettavo altro che un… un gesto, un segnale d’apertura, una cosa qualsiasi da parte tua che mi desse il coraggio di dirti tutto! Ti amo così tanto, cazzo, perché hai lasciato che morissi senza dirtelo? Perché non capisci mai niente? Non ti chiedo di ricambiarmi, mi basterebbe solo un-».
Descartes si interruppe. Si passò le mani sulla faccia con un gesto lento e gli sfuggì un risolino stanco.
«Ignora la prima persona, ti prego. È tutto… è tutto così un casino».
Dietrich tacque. Si limitò solo a scuotere il capo più volte, gli occhi sbarrati.
«Smettila di fare così, cazzo», sibilò Descartes. La rabbia gli attanagliava le viscere tanto da farlo tremare, tutti i muscoli irrigiditi «Smettila di fare così!».
Il Chroma gli percorse il corpo e scintille di energia gli scivolarono lungo le gambe, riversandosi al suolo. Altre scintille gli percorsero le braccia, la schiena, e si riversarono nell’aria scoppiettando. Sbriciolarono le manette, e Descartes allargò le braccia di scatto.
«Non mi interessa se continui a sperare che il vero Descartes sia vivo, non me ne frega niente» bugia, gli spezzava il cuore, e il Chroma reagiva alla menzogna riversandosi all’esterno con maggiore energia «Ma Dei, piantala con questa reazione da bambino piccolo! Io non-».
Dietrich sussultò, e Descartes si interruppe.
Anche il Chroma interruppe per un attimo il suo vorticare pazzo. Da armonico pur nella sua enfasi cominciò a vibrare scoordinato, stonato, e il battito del suo cuore parve quasi perdere il ritmo assieme ad esso.
Dietrich balzò in avanti e gli premette una mano all’altezza della milza, esclamando qualcosa che però Descartes non colse.
Guardò prima Dietrich, poi la sua mano. Era sporca di sangue di un rosso cupo – sangue che si stava anche allargando sulla camicia e gli colava lungo l’addome.
Non ho sentito lo sparo.
Voltò il capo lentamente, sorpreso. Il dottor Tesla stava urlando qualcosa a uno dei Vigilanti, ma alle orecchie gli giungevano solo dei suoni confusi. Anche Attina parlava, mentre l’assistente di Tesla la tratteneva. Vedeva la sua bocca muoversi ma di nuovo niente, solo suoni confusi.
Batté gli occhi e tornò a fissare Dietrich.
Li ho spaventati?
Non aveva nemmeno sentito il colpo. Non sentiva il dolore.
Sono così stanco.
I suoni confusi si appiattirono in un ronzio insistente – e poi il silenzio.
Spinse via Dietrich con le mani e se le portò alla faccia, coprendo gli occhi.
Sarei dovuto morire quel giorno.

«Complimentoni!», gridò Tesla «Era già a tanto così da una crisi, ottima idea fornirgli la spinta che gli serviva! Sevr’jan fevronya».
Dietrich prese Descartes per le spalle e lo scosse appena, seppur con una certa urgenza.
«Ehi. Ehi, Des. Des, ascoltami».
Des, non Des, Dei che casino assurdo.
Descartes non mosse un muscolo. Continuava a tenersi le mani sul viso, in silenzio, mentre il Chroma gli scoppiettava energico attorno e il sangue continuava a colare fuori, schizzandogli sullo stivale e sul pavimento.
«Des, ti prego. Mi senti? Dammi un segno. Sei ferito, devi farti cur-».
I capelli di Descartes si mossero, come sollevati da una folata di vento, e gli ondeggiarono attorno.
Parevano avere vita propria.
«Descartes!», strillò Attina, e un secondo dopo li raggiunse. Con la coda dell’occhio Dietrich poté scorgere l’assistente di Tesla piegato a metà.
«Non- non mi risponde», balbettò Dietrich, scuotendo la testa.
Attina gli lanciò un’occhiata intensa, ma intensa del tipo che se fosse stramazzato di lì a dieci secondi non gli sarebbe nemmeno parso strano.
«Deschecca, dai! Di’ qualcosa!», disse la bambina, picchiettandogli sulle mani. Si mordicchiò un labbro ed aggiunse, più piano «Senti, mi dispiace, okay? Forse ho un po’ esagerato. Ti odio ma non così tanto come ti ho detto stamattina. È ovviamente colpa tua, io non-».
Le dita di Descartes si mossero appena, lasciando uno spiraglio a livello degli occhi, e Attina si interruppe.
Dietrich mosse un passo indietro d’istinto, trascinando la bambina con sé – perché ne aveva viste, di falene, ne aveva viste tantissime, le aveva guardate negli occhi mentre crepavano e poi quegli occhi li aveva pure sognati per giorni e giorni, ogni volta, che lo fissavano e lo giudicavano in silenzio.
Aveva sognato gente con occhi di falena talmente tante volte da perderne il conto e Dei, erano sempre così angoscianti – quindi per un istante gli parve un’allucinazione, un bastardissimo scherzo da parte di quel miscuglio di angoscia, senso di colpa e tristezza che gli attanagliava le viscere.
Batté gli occhi e no, non era cambiato niente. Descartes aveva davvero gli occhi di una falena.
«Non-una-mossa!», scandì Tesla da qualche parte fuori dal suo campo visivo «Giuro sulle mie rotule che alla prossima mossa azzardata non risponderò più delle mie azioni!».
«Des?», disse Dietrich in un sussurro. Avrebbe voluto avvicinarsi e scuoterlo ancora, ma le gambe non volevano rispondergli. Deglutì a vuoto.
«Des?».
Scariche di Chroma saettavano in cerchio attorno ai piedi di Descartes, innalzandosi di tanto in tanto sotto forma di fiammelle bluastre.
Descartes lasciò scivolare una mano dal viso alla ferita sanguinante. Piegò la testa con un movimento lento – sembrava osservarla e non vederla al tempo stesso, ma indubbiamente la sentiva.
Batté le palpebre qualche volta, e Dietrich rabbrividì.
Era un incubo, era tutto un incubo.
Era il risultato della nottata passata a gironzolare pensando alle falene, ecco cos’era.
«Stiamo tutti calmi, va bene?», esclamò Tesla «Ha paura, ha solo paura! È un animale. Un animale con talmente tanto Chroma da radere al suolo il quartiere, ciò dovrebbe dissuadervi dall’usare le maniere forti».
«Des», sussurrò Dietrich, e allungò una mano.
Descartes parve fissarlo per un istante, poi riportò la mano al viso e gridò – un grido che era tutto fuorché umano, ricordava più la frenata di un treno, ma nonostante tutto era talmente permeato di dolore che Dietrich lo sentì sotto la pelle, in ogni centimetro, come tanti chiodini acuminati.
Ondate di Chroma partirono a raggiera, frustando il pavimento e tutto ciò che trovavano sul loro percorso. I Vigilanti si gridavano tra loro ordini confusi, correndo su e giù; qualcuno di loro tentò anche di sparare qualche colpo, ma i proiettili venivano deviati dal Chroma o addirittura sbriciolati dalle fiamme bluastre – e la stessa fine facevano i Vigilanti stessi quando il Chroma li investiva, bruciandoli con una tale energia da ridurli in polvere.
Ai piedi di Descartes il Chroma cominciò a cristallizzare.
«Dio ca- fuori!», gridò Tesla, e Dietrich non se lo fece ripetere.
Sollevò di peso Attina, che era ancora accanto a lui, paralizzata, e si affrettò all’esterno della caserma. Il Chroma si riversò sul pavimento e lo ricoprì come uno strato di ghiaccio, poi risalì le pareti e il soffitto e si propagò tanto velocemente da catturare alcuni Vigilanti che erano rimasti indietro.
Dietrich li vide cadere e – e poi niente, un istante prima erano a terra e quello dopo non esistevano più.
Appena all’esterno rimise giù Attina e gli venne d’istinto stringerla a sé. La bambina tremava, e Dietrich ci mise un po’ a capire che non era la sola, che tremava anche lui.
Pure i Vigilanti tremavano; alcuni di loro erano scossi da spasmi tali da non riuscire a reggersi in piedi.
L’unica persona padrona di sé pareva il dottor Tesla. Si assicurò che il portone fosse ben chiuso e vi si poggiò contro con la schiena, abbandonandosi a qualche respiro profondo.
«Okay», disse, dopo almeno un minuto di silenzio. Tutt’attorno si stava raccogliendo una folla di gente curiosa, ma nonostante il loro vociare quella manciata di secondi in cui Tesla tacque fu più lugubre che mai «La situazione è incresciosa».
I vetri delle finestre tremarono e si riempirono di crepe.
«Mentirei se dicessi che ci sono già passato, ma non disperiamo. Non tutto è perduto».
Fece qualche gesto al suo assistente, che si era lasciato cadere in ginocchio poco distante, e ne ricevette di rimando un’occhiata perplessa.
Dietrich dentro di sé rise istericamente. Anche le sue gambe volevano cedere, era un’impresa rimanere in piedi.
«Signori Vigilanti!», continuò Tesla, battendo piano le mani «Tralasciando che, come dire, io ve l’avevo detto, dovreste rispondere a me e al momento io vi comando di tenere lontana questa gentaglia. Vorrei dire che se non mi obbedirete prenderò provvedimenti, ma il fatto è che se io non trovo una via di fuga non ci sarà a, qualcuno su cui prendere provvedimenti, e b, qualcuno che li prenda. Non so se mi spiego. Von Leibniz!».
Dietrich sussultò e lo stesso fece Attina.
«Voi due, venite qui. Mi servite».
A Dietrich sfuggì un risolino. Lasciò andare Attina e mosse un passo – fu come spostare una colonna di cemento. Non raggiunse Tesla camminando, si trascinò.
Attina rimase ferma qualche istante, poi li raggiunse con una corsetta.
«Che cosa gli è successo?», chiese la bambina, la voce che le tremava. Aveva gli occhi lucidi, era proprio l’opposto di quel mostriciattolo velenoso del giorno prima.
«È tutta colpa mia», disse Dietrich in un sospiro. Non lo faceva per commiserarsi, lo pensava davvero. L’aveva capito benissimo, mentre Descartes gli diceva tutte quelle cose, che avrebbe dovuto per lo meno tacere e ascoltare in silenzio.
Anche perché, Dei, in qualche modo c’era una parte di lui che già sapeva. Peccato che il resto del corpo la prendesse sempre così a modo suo.
«Le responsabilità spartiamocele dopo», disse Tesla «Anche se io ovviamente non ho colpe. Ora, quella strana cosa falena-Descartes è in piena crisi. Sentimentale e d’identità pure, da quanto m’è parso di capire – ma anche di questo ne discutiamo dopo, eh?, sempre se ci rimarrà abbastanza pelle addosso da aver voglia di fare qualcosa che non sia spararci in bocca».
Rivolse ai due un largo sorriso e rise «Non prendetemi alla lettera, adoro usare immagini evocative. Comunque! Forse posso calmarlo – è una cosa che faccio spesso con i miei bambini, si agitano subito con gli estranei – ma ho bisogno di Chroma. Von Leibniz, dov’è la sua lancia?».
«Non- non lo so», balbettò Dietrich. Cercò di fare mente locale – l’aveva dietro prima, alla scuola? No, no, non aveva lo zaino, doveva essere rimasto tutto da qualche parte dentro la caserma.
«È là dentro, forse al primo piano», disse con un filo di voce, e Tesla schioccò la lingua.
«Questo non è buono. Diamine, dovevo portarmene dietro un frammento».
«Perché le serve il Chroma?», chiese Attina.
Tesla schioccò di nuovo la lingua e si aggiustò gli occhiali da sole sul naso «I miei bimbetti si prestano di più ad ascoltarmi se mentre parlo faccio risuonare del Chroma. Pensavo potesse funzionare anche in questo caso, ma a quanto pare manca la materia prima – lo dico sempre che sarei dovuto nascere portatore, accidenti. Questo dimostra in maniera incontrovertibile che gli Dei non esistono, altrimenti essendo caritatevoli e soprattutto onniscienti mi avrebbero concesso questo dono e io avrei risolto la situazione. Non fa una piega».
Schegge di vetro saltarono via dalle finestre, e sottili rami di Chroma cristallizzato cominciarono lentamente ad inerpicarsi lungo i muri, come un’edera.
«Però io e quest’idiota siamo portatori!», esclamò Attina.
Era già finito l’effetto “bambina tranquilla”, ma in un certo senso Dietrich si sentì sollevato.
«Se ci spiega come fare potremmo farlo noi e-».
Tesla la interruppe scoppiando a ridere.
«Non che non apprezzi la tua coraggiosa disperazione, esserino, ma il tuo corpo sprizza terrore come una femmina sprizzerebbe feromoni. Ora, non so il tizio là dentro, ma le falene sono più sensibili alla paura di quanto tu creda, finiresti solo per agitarlo. Oltre al fatto che di voi due mi fido quanto mi fido del mio postino, cioè poco – sono infidi i postini, tenetelo a mente» tacque un attimo, poi arricciò le labbra «Però mi hai dato uno spunto interessante. Base!».
Dietrich e Attina avvertirono un colpo di tosse alle loro spalle e voltarono appena la testa. Basil era in piedi dietro di loro, e chissà da quanto stava lì.
«Base, hai dietro il tuo coltellino, vero?», chiese Tesla, e Basil annuì. Si frugò in tasca e tirò fuori un coltello a serramanico, che aprì prima di porgergli.
«Come sei sempre premuroso», ridacchiò Tesla. Impugnò il coltello, lo soppesò, e con un gesto rapido afferrò una mano di Attina e le aprì un taglio sul palmo.
Attina strillò e ritrasse la mano.
«Tu sei scemo!», gridò, sporgendosi per mollargli un pestone – che Tesla evitò con una certa nonchalance.
«Giuro che ha senso e non sto agendo in preda ad un raptus», disse Tesla, battendosi un pugno sul petto «Von Leibniz, prego, favorisca».
Dietrich alzò le mani in posizione di difesa, d’istinto.
«Von Leibniz, su. Sono un suo superiore. Se io le dico “sull’attenti”, lei si mette sull’attenti. Se le dico “mi porti la colazione”, lei mi porta la colazione. Quindi se le dico di darmi la mano che la devo squarciare, obbedisca e basta. Non so se mi spiego».
Dietrich sospirò e si sfilò un guanto, poi porse la mano.
Dei, quanto odiava quell’uomo. Lo odiava sempre più ogni giorno che passava, e il sorriso divertito di Tesla mentre gli tagliava il palmo in obliquo sembrava dirgli che la cosa era reciproca.
«È una cosa da denuncia», sbottò Attina «Che deve fare?».
«Metto in pratica il tuo suggerimento», disse Tesla. Le prese la mano e la strofinò fra le proprie, impregnando i guanti neri di sangue, e lo stesso fece con quella di Dietrich.
«Uso il Chroma che avete nel sangue e spero che funzioni. Schioccherei le dita per scaramanzia, ma non mi riesce più da quando avevo quindici anni».
Sospirò e si girò, e con il capo fece segno a Basil di aprirgli il portone.
Il Chroma cristallizzato rivestì rapidamente le ante e si affacciò timido all’esterno, esitando sulla soglia. Al centro della stanza, dove prima si trovava Descartes, ora c’era solo un bozzolo di Chroma cristallizzato, ancorato al pavimento e alle pareti da setti traslucidi di un colore fra il blu e il viola.
«Oh, che delirio. Che Leya mi protegga», borbottò Tesla. Mosse un passo all’interno, e i suoi stivali scricchiolarono sul Chroma. Rimase fermo alcuni secondi, con il peso del corpo spostato indietro come aspettandosi il peggio, ma tutto rimase immobile e silenzioso.
«Descartes», chiamò allora con voce tranquilla e dolce, come una madre che vuole calmare il proprio bambino «So che non vuoi fare del male a nessuno. So che sei spaventato».
Più che la scena, Dietrich trovò angosciante la totale assenza di idiozie nelle parole di Tesla. La situazione doveva essere ancora più grave di quanto non sembrasse – che poi, già, e se Tesla non fosse riuscito a fare ciò che aveva in mente? L’unica soluzione sarebbe stata uccidere Des?
Uccidere Des?
Stringendo la mano ferita al petto, si morse forte le labbra.
Enora misericordiosa, ti scongiuro, non ci abbandonare.
«Descartes», ripeté Tesla, alzando la voce. Avanzò verso il bozzolo, chinandosi di tanto in tanto per lasciare tracce di sangue sul Chroma che rivestiva il pavimento.
«Descartes, so che puoi avvertirmi. Ti senti solo, vero? Concentrati. Ascoltami. Non sei solo».
Attina tirò una manica a Basil per attirare la sua attenzione.
«Cos’è che ha in mente, di preciso?», sussurrò.
Basil estrasse un blocchetto e scarabocchiò qualcosa, la mano che gli tremava.
“Vorrei saperlo anch’io”.
Tesla raggiunse il bozzolo con altri passi lenti e vi poggiò le mani sopra, in silenzio. Il Chroma che rivestiva la facciata della caserma vibrò e parve quasi artigliarla, tanto che l’intonaco si scheggiò e migliaia di frammenti ricaddero al suolo.
Basil impallidì e scribacchiò ancora.
“Non lo sa nemmeno lui”.
Attina si agganciò alla divisa di Dietrich con la mano sana «Mi sembra che il tempo stia tornando indietro. Voglio vomitare».
«Bene», disse Tesla, come a concludere un ragionamento «Descartes, ascolta le mie parole. Non sei solo».
Strofinò le mani lungo il bozzolo, lasciando una lieve scia di sangue, e mosse un passo indietro.
«È stato tutto un incidente, va bene? Non hai fatto del male a nessuno – non alla gente di cui ti importa, per lo meno – e in ogni caso non è stata colpa tua. Devi avere un bel casino lì dentro, eh? Una ferita fisica era l’ultima cosa di cui avevi bisogno. Andrà tutto bene, devi solo-».
Un setto di Chroma sottile quanto una lancia prese forma dal bozzolo e trafisse la spalla di Tesla, ancorandosi poi al suolo.
A Tesla sfuggì un urlo, dolore misto a sorpresa, che fu seguito però da una risata.
«Va bene, va bene!», esclamò. La voce gli tremò, ma tornò salda nel giro di poche parole «Ti ho mentito, hai ragione. Non andrà tutto bene, okay? Ci saranno ovviamente conseguenze e io ti studierò e blablabla, ma andiamo, questo te l’ho già detto».
Con una mano afferrò il Chroma cristallizzato, e ve la strofinò sopra fin dove riusciva a spingersi allungando il braccio.
«Ah, Dio, Dei, quel che è, mi ero scordato quanto faccia male! Andiamo, Descartes, se continui così finirai col fare del male a quei due là fuori, no? È l’ultima cosa che vuoi. Non sei un animale – insomma, non lo sei più. Fai tacere l’istinto».
Il Chroma vibrò e si riempì di una ragnatela di piccole crepe.
«Bravo», disse Tesla «Ora mi senti, vero? Se riuscissi anche a non uccidermi, nel mentre-».
Tutto il Chroma si sgretolò nello stesso istante, ritornando a fiammelle e poi a scariche d’energia, e tornò vorticando a Descartes in volute armoniche e delicate come aliti di vento.
Dietrich si sentì sfiorare una guancia, e quando si accorse di stare piangendo aveva già le guance bagnate. Non c’era un motivo, però c’era al tempo stesso. C’era qualcosa, anche se non avrebbe saputo spiegarlo con maggiore precisione.
Tesla cadde a terra e si rialzò subito, tenendosi una mano premuta sulla spalla, e non appena il bozzolo si dissolse si avvicinò a Descartes, che era di nuovo in piedi al centro della stanza, le mani ancora premute sul viso.
«Dammi un cenno, dammi un cenno. Spero tu sia di nuovo in te, perché mi sono rimaste solo le opzioni catastrofiche e preferirei evitare».
«Des!», esclamò Dietrich. Si asciugò le guance e si affrettò a raggiungerlo, seguito a ruota da Attina.
Descartes scostò lentamente le mani ed aprì gli occhi – occhi normali, grazie agli Dei, occhi normali. Aveva l’aria sperduta di un bambino che vede il mondo per la prima volta.
«Che cos’ho fatto?», sussurrò, la voce rotta.
«Va tutto bene, tutto bene», esclamò allegro Tesla «Spero non ti offenderai se ti farò sedare, eh? Giusto per evitare altre brutte sorprese finché non siamo nei miei laboratori. È stata una cosa interessante però, sai? Mi è piaciuta. Molto utile. Poi insomma, capita che qualche vita debba essere sacrificata per la scienza. E l’avevo pure detto, avevo messo in conto minimo un morto o due. Tutto sommato poteva andare peggio, no? No? Non siete contenti?».
Dietrich lo fissò in silenzio, gli occhi sbarrati. Non era solo allegro, era esagitato.
«Come cazzo fa a prenderla con tutta questa leggerezza?», sibilò, e Tesla aggrottò la fronte, corrucciato.
«Vivo il lato positivo della situazione. E comunque farò finta di aver sentito i vostri ringraziamenti. Grazie, dottor Tesla, per averci salvati tutti! Prego, non c’è di che, è il mio dovere di cittadino di questo bellissimo paese allargato e di membro della comunità scientifica e anzi, se c’è qualcos’altro che posso fare per voi dite pure! Io vorrei una cioccolata calda, comincia a fare freddo. Non esagerate con la cannella, però, avete appestato l’aria! La cannella puzza di morte».
«… Dottor Tesla?», disse piano Dietrich.
Tesla fissò il soffitto in maniera intensa.
«O ho gli occhi chiusi e non me ne sono accorto, o non ci vedo più».
Dietrich abbassò lo sguardo – prima non l’aveva notato, ma c’era talmente tanto sangue spalmato a terra da poterci riverniciare una parete.
«Sì, temo sia la seconda», aggiunse Tesla, e un attimo dopo si afflosciò sul pavimento con un risolino.

*
Basil chiuse le cinghie della camicia di forza e mosse un passo indietro. Descartes inarcò le sopracciglia, sul viso un’espressione afflitta.
«Non è mia intenzione criticare il vostro operato», disse, accennando un sorriso debole «Ma mi sfugge l’utilità di tutto ciò. La distruggerei in un attimo, se volessi davvero ribellarmi».
“Noi lo sappiamo”, scrisse Basil nel suo blocchetto “Tutto il resto della gente no. Fa scena”.
Guardò l’orologio ed aggiunse: “Il sedativo dovrebbe aver già cominciato a fare effetto. Come ti senti?”.
«Spossato», rispose Descartes in un sospiro «Ho solo voglia di accasciarmi in un angolo e dormire».
Basil si picchiettò la matita sulle labbra, pensieroso.

Era ancora mattina presto, ma già si prospettava una magnifica giornata. Il cielo era terso, gli uccellini svolazzavano in giro, il sole entrava dalla finestra in maniera prepotente – e quella fu la prima cosa di cui Basil si occupò, non appena messo piede nella stanza d’ospedale. Tiro giù la tapparella del tutto, lasciando l’ambiente nella semioscurità.
Solo allora il dottor Tesla spostò il cuscino che stava usando per coprirsi la faccia.
«Oh, Base! Oh, quanto ti voglio bene. Non sai quante volte l’ho chiesto alle infermiere, e secondo te loro mi hanno considerato?».
“Hai chiesto in modo educato?”, gesticolò Basil, e Tesla tacque qualche istante.
«Tipo».
Basil scosse la testa “Non ti credo”.
«Giuro. Anche se temo non abbiano apprezzato quell’osservazione sulle manacce luride… Hai trovato i miei occhiali? Comincio ad avere una crisi d’astinenza».
“Ho quelli di riserva”, disse Basil. Poggiò gli occhiali da sole rotondi sul mobiletto accanto al letto ed osservò attentamente Tesla: era un po’ pallido, ma tutto sommato sembrava in forma.
Un ingombrantissimo tutore gli bloccava la spalla ferita, e pure le fasciature avevano un che di eccessivo. Qualche medico o infermiera premuroso si era pure preoccupato di medicargli le mani.
“Ho sistemato io tutti i dettagli. Von Leibniz e la bambina hanno preso il treno delle nove”, gesticolò Basil “Arriveranno a Maodanna alle quindici circa. Io prenderò il diretto governativo con Descartes fra un'ora e arriverò alle tredici, in modo da organizzare tutto. Ho già scritto un rapporto in triplice copia, lo consegnerò personalmente al Direttore del dipartimento e ne ho fatta una in più nel caso lo voglia anche il generale Flamell. Ho mandato un telegramma al nostro centro per definire i dettagli del trasporto dalla stazione ai laboratori, la spedizione dei macchinari è già organizzata e nel tempo che mi è avanzato ho finito di sistemare le ultime registrazioni. Quasi. Quando potrai raggiungermi?”.
«Sto disperatamente pensando ad una qualche critica da muoverti e odio quando non mi viene in mente niente», rise Tesla. Con un certo sforzo allungò una mano e prese gli occhiali, per poi metterseli sul naso.
«Ah, Base, senza di te non so come farei. Dovrei addirittura lavorare, sarebbe un incubo. Sto facendo del mio meglio per farmi cacciare – dimettere, intendevo dimettere, ma temo mi tratterrò qui ancora un paio di giorni. In fondo non è male, dai, il mio compagno di stanza è un simpatico affabulatore» ed indicò con un cenno del capo il letto accanto, dove un vecchietto dormiva con la bocca spalancata «E i pasti sono degni di un ristorante di gran classe, se paragonati a quello che prepari tu. Senza offesa, Base, hai altre qualità».
“Hai già deciso come organizzare il lavoro?”, gli chiese Basil, ignorando l’ultima affermazione. Si fissarono qualche istante negli occhi e Tesla gli rivolse un sorriso tutto denti.
“Non ne dubitavo”.
«Tu non capisci, Base! Ci sono così tante cose che vorrei fare che mi servirebbero come minimo quindici cloni di me stesso – e altrettanti tuoi, se mi conosco bene – e il tempo per pensare è così poco, e mi tocca pure utilizzarlo per riflettere su che panzane dovrò rifilare al Consiglio non appena mi convocherà, il che è solo questione di rimettere piede a Maodanna, se il mio istinto per i casini non mi tradisce. E se non mi lasciassero fare come mi pare, eh? Se affidassero la faccenda ad altri scienziati? Potrei piangere. Te lo giuro, se non mi lasciano campo libero piangerò tantissimo».
“Nel rapporto ho enfatizzato quanto il tuo intervento sia stato indispensabile, se può essere utile”, disse Basil, poi frugò nella tracolla di pelle che portava e ne estrasse alcuni fogli, che porse a Tesla assieme a una penna “Leggi e firma”.
L’aria corrucciata che Tesla aveva assunto si sciolse in una risata.
«Sei sempre così brutale. Non potrà mai funzionare fra noi, piuttosto mi prendo un piccione».
Basil alzò gli occhi al cielo e gli lasciò ricadere i fogli in grembo.

Nonostante l’ora c’era già un caos allucinante alla stazione centrale di Metera, e Attina sembrava fare tutto il possibile per rimanere indietro.
«Santi Dei, smettila di guardarti attorno», sbottò Dietrich afferrandole una spalla. La spostò dalla traiettoria di una coppia di uomini dall’aria poco raccomandabile e la tirò a sé.
Già doveva farle da fattorino, non aveva tutta questa gran voglia di fare anche il babysitter.
«Questo posto è enorme», ribatté Attina «Guarda il soffitto! Cosa sono quelle, tubature?».
«Ma che ne so. Tieni il passo, dai».
Il Vigilante che li scortava li accompagnò al binario. Controllò un paio di volte i biglietti, poi li porse a Dietrich e si batté un pugno sul petto non appena ebbe la mano libera.
«Signor von Leibniz, questo è il treno. È stato un piacere potervi essere d’aiuto. A rivederla».
«Grazie a lei», rispose Dietrich, eseguendo lo stesso gesto. Salirono sul treno e Attina si lanciò alla ricerca del loro scompartimento, esibendosi poi in urletti e gesti fin troppo gioiosi non appena lo raggiunse. Quando Dietrich entrò la trovò intenta a fissare fuori, e senza neanche una parola sistemò i bagagli sui ripiani e si lasciò crollare sul sedile, esausto.
Il treno fischiò e partì, avviandosi lento fuori dalla stazione; sferragliando avanzò lungo la periferia della città, in un susseguirsi di edifici bassi che sotto la luce dell’alba assumevano una tonalità aranciata e che lentamente scomparvero, lasciando il posto ad ampie distese di campi allagati.
Attina rimase a lungo incollata al finestrino, senza fiatare. Chissà a cosa stava pensando.
Era davvero indeciso se rivolgerle la parola, giusto per interrompere quel fastidioso silenzio – aveva bisogno di non pensare a niente e tenere la testa impegnata su altro, anche se gli si chiudevano gli occhi per il sonno. Pur di tenersi occupato aveva passato la notte a vagare per l’ospedale parlando con gente a caso, tutti quelli che gli capitavano a tiro, perché aveva una paura fottuta di tutto ciò che l’avrebbe assalito non appena avesse chiuso gli occhi.
«Senti, tu-»
«Sono ancora arrabbiata con Deschecca, eh», disse Attina, bloccando il suo tentativo di dialogo sul nascere «Ma Dei, tu mi fai proprio andare fuori dai gangheri. Ma come cavolo ragioni, si può sapere?».
«…eh?».
Attina sbuffò e si lasciò ricadere sul sedile, incrociando le braccia «Il fatto è che non capisco se fai apposta a ferire così la gente, oppure ti viene naturale. Hai avuto proprio un gran tatto con Deschecca, è da ieri che te lo volevo dire. Com’è che gli hai risposto? “Non è vero”?».
Dietrich abbassò lo sguardo e si passò una mano fra i capelli.
«Io lo so come hai fatto», sibilò Attina, e ogni parola le uscì intrisa di astio «Ho visto come stai facendo ora. Neghi. Non è possibile che tu non te ne sia mai accorto. Probabilmente hai sospettato qualcosa, ti sei spaventato e hai allontanato l’idea negandola così forte da convincerti. Non so come fosse il Deschecca originale, ma ci ho pensato tutto ieri e ho ben capito come sei tu. Codardo».
Dietrich aprì la bocca. Voleva ribattere qualcosa, ma non riusciva a venirgli niente che non suonasse in qualche modo infantile.
«Sei stato… cattivo», disse Attina, l’ultima parola quasi gliela sputò contro.
Cattivo, proprio…!
«Io… sono confuso, va bene? Non…» scosse la testa e si portò indietro i capelli con entrambe le mani.

Accompagnata Attina a Maodanna, dove l’aveva scaricata di nuovo nelle mani dell’assistente di Tesla – che doveva essere onnipresente, per averli preceduti pur essendo partito dopo – Dietrich prese il primo treno per la Latvnia. C’era una quantità infinita di cose da fare – in primis, negoziare col supervisore un permesso per rimanere un po’ a Maodanna a seguire la faccenda e vedere come sarebbe andata a finire.
Voleva parlare con quel falso Descartes in tranquillità, chiedergli scusa e affrontare il discorso di nuovo – l’idea che forse non avrebbe potuto averne l’occasione gli attraversò la mente più volte, ma si affrettò a scacciarla. Non poteva lasciare che finisse tutto così, cazzo, senza almeno…
Si sentiva così in colpa che avrebbe voluto vomitare.
Tirerò fuori Des e poi ci chiariremo, pensò più volte, ad ogni ondata di senso di colpa; più se lo ripeteva, però, più gli pareva di sentire un retrogusto amaro in quelle parole. La stessa sensazione che aveva provato quelle tre volte in croce in cui gli era venuto il vago dubbio che Des potesse avere una cotta per lui e l’aveva ricacciato giù con noncuranza, senza rifletterci troppo su.
Continuò a ripeterselo per tutto il viaggio, sia in treno che nell’auto di servizio; se lo ripeté fra una frase e l’altra, mentre faceva rapporto al supervisore Werner e gli consegnava la copia scritta; se lo ripeté a ogni scalino e a ogni passo verso la propria stanza.
Tirerò fuori Des e ci chiariremo.
Lasciò ricadere lo zaino e la sacca della lancia per terra e si sedette sul letto.
La metà camera di Des era nello stesso caos immondo di quando era partito. Qualcuno aveva cercato timidamente di rimettere a posto almeno le cose per terra, ma doveva essersi arreso dopo cinque minuti.
Dietrich la fissò in silenzio per un po’. Si ritrovò a pensare che sgomberarla sarebbe stata un’impresa, ma già a metà pensiero si diede dello stupido.
«Tirerò fuori Des», ripeté, questa volta ad alta voce.
Frugò nello zaino ed estrasse la sciarpa rossa. Allargò le braccia, stendendola per quasi tutta la sua lunghezza, poi se la appoggiò sulle ginocchia.
Solo allora sfilò quella grigia che portava al collo, rendendosi conto in quell’istante che da quando il falso Descartes era partito di testa non se l’era ancora cavata. Aveva bisogno di un bel lavaggio, come minimo; ancora qualche ora e sarebbe stata dritta da sola.
La soppesò, esaminò le estremità per trovare le iniziali AD, la distese e la appallottolò – poi la strinse fino a farsi sbiancare le nocche e vi sprofondò il viso.
La stanza di Des era un caos e lo sarebbe rimasto in eterno, e il libro a metà sul comodino sarebbe rimasto per sempre a metà, e pure quei vestiti gettati alla rinfusa sulla sedia e le scarpe sotto al letto e la carta da lettere sulla scrivania – perché non era cretino del tutto, e anche se la testa continuava a dirgli il contrario il corpo l’aveva capito benissimo, dopo quei tentativi di sincronizzazione, che di Descartes non era rimasta nemmeno un’eco, e capiva pure che quel falso Descartes era davvero confuso e di certo non aveva cattive intenzioni.
Una parte di lui lo capiva benissimo che Des era morto e non sarebbe tornato indietro in nessun modo, e odiava visceralmente quell’altra parte che invece, come al solito, si ostinava a negare l’evidenza e a sperarci.
Lo capiva benissimo che questa volta era andato tutto storto – e si sciolse in singhiozzi, la sciarpa grigia premuta sugli occhi.
   
 
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