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Autore: Fabi96    20/04/2015    3 recensioni
La saga di divergent, vista dalla prospettiva di una coppia ancora più coinvolta nella guerra tra le fazioni, una ragazza e un ragazzo uniti nel loro sentimento, separati dai loro valori e dalle loro scelte.
Parlo di Eric, racconto della sua visione di questa rivoluzione, delle due battaglie e delle sue rinunce. Perché anche lui ha rinunciato a qualcosa.
Parlo di una ragazza che cercherà di riportare la pace nella città disastrata di Chicago, mentre Tris e Quattro saranno al di fuori della barriera.
Racconto quella parte di storia che la Roth ci ha mostrato attraverso le telecamere del dipartimento.
Parlo di un amore non compreso, dai suoi stessi protagonisti, di una società distrutta dalla guerra e una generazione perduta.
Io racconterò del fiore di loto, che quando inizia a germogliare è sommerso dall'acqua putrida e impura, ferito da insetti e infastidito dai pesci; infine rinasce, e rimane il lottatore più forte, in una natura ostile.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eric, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tadam! Sto andando lenta, lo so. Ma giuro che lo sto facendo apposta, per aumentare la suspense. 
Comunque, sono troppo contenta delle vostre recensioni, perché mi avete convinta del capitolo che avevo scritto. Anche quando aspettavo i vostri commenti ero molto tentata di andare a cancellare quello che avevo appena pubblicato. Non mi piaceva, non mi convinceva. Ma poi, iniziando a scrivere questo, mi sono accorta che la storia non poteva andare avanti senza quel pezzo di puro strazio. Ci voleva un punto di rottura. A break point, alla Foggia inglese. 
E quindi ecco a voi la continuazione! In realtà volevo scriverne ancora un pezzettino, ma ero troppo ansiosa di pubblicare. 
Il prossimo capitolo sarà praticamente di pre-epilogo. Siamo quasi alla fine!! 
In conclusione, vi auguro buona lettura, ringrazio le tre migliori ragazze del mondo che si sono prese l'impegno puntualissimo di commentare ogni mio capitolo. Siete mitiche! 
E vi aspetto nelle recensioni: commentate, criticate, mandatemi a quel paese. Risponderò a tutto, sta volta.
Ma una cosa di sicuro non ve la dirò: il nome della bimba. Dovrete aspettare ancora un po'! 

 
 
Punto di rottura 
 
 
Le sue braccia la circondavano. Il petto le sfiorava la schiena ancora coperta dalla t-shirt zuppa di pioggia. Sentiva il suo respiro regolare soffiarle tra i propri capelli scompigliati e umidi. 
L'aveva tirata giù, sul pavimento, si era steso per terra e l'aveva stretta fra le sue braccia, lasciandole qualche bacio sul collo, sull'orecchio tra i capelli.
Come due amanti.
La stava coccolando, come farebbe una coppietta dopo aver fatto l'amore.
Lei invece stava solo aspettando che chiudesse gli occhi, che si addormentasse. Avrebbe abbassato la guardia. 
E lei lo avrebbe ammazzato.
Non le importava più di raggiungere gli alleanti. In quel momento voleva solo ammazzare Jack.
Ne sentiva il bisogno sin nelle viscere, le mani le prudevano, il suo respiro era accelerato, come dopo una maratona. Era arrabbiata, furiosa. E se nei giorni scorsi il senso di colpa l'aveva divorata, in quel momento non glie ne poteva importare di meno, e la sua coscienza era con lei: reclamavano ambedue vendetta per quell'azione.
Le accarezzò una guancia. 
Di nuovo. 
E di nuovo. 
E ogni volta Liz combatteva contro se stessa per non rabbrividire e mostrare il ribrezzo che si accendeva in lei per quel gesto. 
"Ti amo, e le cose finalmente si sistemeranno. Devi avere solo un po di pazienza e abituarti all'idea di non poter più fare ciò che vuoi." 
Le accarezzò il collo, la spalla, fino a scendere lungo la t-shirt nera, sfiorandole la curva dei seni arrivando al fianco ferito. Elise rabbrividì e sobbalzò a causa della fitta di dolore.
"Stai ancora sanguinando!" 
Jack osservò la propria mano macchiata di rosso scuro, del sangue di Liz.
"È ora di alzarsi, piccola." 
Si rialzò dal pavimento, aggiustandosi la maglietta, allacciandosi i pantaloni e afferrando la giacca dal pavimento.
Elise rabbrividì di nuovo al suono della zip che si chiudeva. Un conato di vomito la scosse. Ingoiò l'acido che le stava venendo su per la gola.
"Torno subito, vado a cercare qualche benda per la tua ferita." 
La guardò ancora per qualche secondo rivolgendole uno di quegli sguardi che avrebbe fatto sciogliere le gambe a qualsiasi ragazza della fazione. 
Ma anche quel l'ennesimo gesto la fece sentire sporca, lurida dentro. E fuori.
"Va bene." Sussurrò, continuando a stare distesa per terra.
"Grazie" continuò.
Jack uscì dalla stanza.
Elise si issò in piedi con molta, molta fatica. Si fece sfuggire alcuni gemiti di dolore e si avvicinò al tavolo dove sapeva poter trovare un po' di morfina. Se ne somministrò poca, ma abbastanza da attutire il dolore al fianco.
Abbastanza poca da essere cosciente e da raggiungere la finestra sfondata.
Recuperare la sacca sul tetto. E gettarsi sotto la pioggia, verso lo Spietato Generale, oltre il fiume. Verso aiuto.
 
 
 
 
"Doveva essere già arrivata! Il sole è sorto due ore fa! Dobbiamo muoverci! " Scoppiò Zeke.
"Non potete rischiare di essere visti a quest'ora del mattino, vi individuerebbero." Gli rispose Johanna per l'ennesima volta. Era appoggiata al tavolo della piccola cucina di quell'appartamento abbandonato, spoglio e decadente. Le pareti erano scrostate, ammuffite, e dal soffitto gocciolava dell'acqua: era stato messo un secchiello sul pavimento per limitare i danni, dovevano svuotarlo ogni dieci minuti. La notte prima erano entrati in quella stanza e avevano trovato il pavimento completamente allagato. 
Era venuto giù il mondo, altro che pioggia: il cielo si era sfogato e la natura si era presa una rivincita contro la città. 
Il rumore incessante della pioggia contro i vetri e le pareti aveva scandito nella testa di Johanna le ore per tutta la notte. Dopo la fuga immediata, il pericolo a cui erano appena scampati, la paura delle ultime ore, Marcus l'aveva avvisata immediatamente del breve contatto con la sede degli intrepidi dove tenevano reclusa Elise. E ora stava aspettando l'arrivo di sua figlia, ma ogni secondo in più che si aggiungeva a quella tortura la stava lentamente consumando dall'interno. Era sfinita, ferita, sporca e distrutta. Ma più di tutto delusa. 
Delusa dalla vita: aveva avuto la possibilità di salvare il ragazzo di sua figlia, la possibilità di liberarla. E ora tutto era stato spazzato via.
L'unica possibilità per lei e per Elise di riniziare  gli era stata portata via, rubata durante l'attacco degli esclusi, rapita dall'unica persona che fra tutti coloro che erano morti, forse era quella che se lo meritava di più. Di morire. Tra atroci sofferenze. 
"È di tua figlia che stiamo parlando!" Le urlò addosso l'intrepido, riportandola alla realtà e sottraendola dai suoi deprimenti pensieri.
"Non alzare la voce con lei ragazzo!" 
Marcus si era messo in mezzo tra i due, cercando di acquietare gli animi.
"Dovete mandare qualcuno a prenderla! Subito! È in pericolo ogni minuto in più che aspettiamo a decidere cosa fare!"
"Non prendo ordini da un ragazzino!" Gli urlò Marcus.
"Sei completamente pazzo vecchio! Chissene frega chi da o non dà ordini, io devo andare a recuperare Liz!" 
"Calmatevi!" Una voce fuoricampo distrasse i due litiganti, gli sguardi dei presenti nella stanza nel ritrovo degli alleanti si spostarono verso un gruppo di donne dai vestiti colorati e diversi tra loro: donne di fazioni diverse.
"Andremo noi a prenderla, un gruppo di donne passa più inosservato che uno di uomini. La riporteremo sana e salva." 
Erano quattro donne di mezza età, madri, mogli, sorelle. E si erano offerte di andare a recuperare un emerita sconosciuta per alcune di loro. Eppure si erano messe in gioco, si erano offerte volontarie. Zeke non poté non sentirsi in dovere di rispondere
"E io vi accompagnerò. Indosseremo vestiti meno vistosi per non attirare l'attenzione di qualche pattuglia in perlustrazione che potremmo incontrare." 
Il ragazzo si avviò verso la porta della stanza accanto dove sapeva poter trovare dei vestiti, facendo segno alle quattro donne di seguirlo.
Una mano lo afferrò per il braccio, stritolando glielo e costringendolo a fermarsi.
"Tu non vai da nessuna parte. Loro non si muoveranno da qui." Gli scandì a un soffio dal viso Marcus con fare minaccioso. Il gruppo di donne si immobilizzò. 
Era sempre stato un uomo ben piazzato per essere un rigido che si nutriva di cavolo e minestre, e aveva sempre dato un timore reverenziale alle persone intorno a lui.
"Le telecamere non mostrano movimento nel quartiere dello Spietato Generale. Lei non si è presentata. Quindi non permetterò a nessuno di mettere a rischio un intero gruppo dei nostri per un azione non certa. Sono stato chiaro?" L'ultima frase uscì fuori dalla sua bocca più come un ruggito che come una domanda.
Zeke rimase zitto, non rispose.
Fissò Marcus con sguardo letale e sinistro. Con odio puro.
"Potrebbe non essere riuscita a sorpassare il fiume. Ieri sera era in piena all'altezza di Cicero Avenue, ed era già esondato pochi chilometri prima di arrivare al lago, vicino ai nostri terreni. " 
Lo sguardo di tutti si concentrò dalla scena di tensione dell'uomo e del ragazzo sulla figura di Johanna che finalmente aveva ripreso a parlare.
"E in oltre i ponti sono controllati perennemente da gruppi di esclusi armati."  Lo sguardo di Johanna era preoccupato: aveva appena realizzato un possibile pericolo.
Zeke comprese subito i pensieri della donna, e senza che lei avesse il tempo di spiegarli, Zeke diede voce a quella possibilità.
"Può aver nuotato. C'è la possibilità che si sia buttata per raggiungere a nuoto la sponda opposta. Per raggiungerci da questa parte del fiume."
Marcus scosse la testa.
"Non lo avrebbe mai fatto. È pieno inverno, l'acqua è gelida. Non è una ragazza stupida." Senza mollare la presa intorno al braccio di Zeke, l'uomo si girò verso Johanna cercando il suo consenso.
Ma gli occhi della donna erano ormai deformati dal l'orrore, dalla paura.
"Lascialo." Sussurrò.
Marcus non fu sicuro di capire. "Cosa?" Chiese.
"Lascialo andare, deve andare ad aiutarla!" Disse con più enfasi, finalmente raddrizzandosi e abbandonando l'appoggio sicuro del piano del tavolo.
"Non è possibile, te l'ho detto nessuno..." 
"Ho detto che devi lasciarlo andare!" Urlò.
Marcus mollò la presa intorno al braccio del ragazzo immediatamente. 
"Ho. Detto. Di. No." Scandì.
"Nessuno si muoverà di qui." Disse, senza alzare la voce per rispondere a tono a Johanna.
"È tua figlia, dannazione! Ci vado io!" 
"Tu non ti muovi di qui!" 
"Non puoi controllare tutti! Hai fallito Marcus, fatti da parte! Gli alleanti non sono il tuo trampolino di lancio. Non ti risolleverai solo perché hai aiutato una città a uscire dalla fogna in cui l'hai portata! Rimarrai uno dei colpevoli. E mia figlia non sarà una delle tue ennesime vittime!" Gli urlò contro ormai senza più ritegno. Aveva perso le staffe. 
Tutti nella stanza non mossero un dito. Le donne che si erano proposte volontarie rimasero i disparte, ma rimasero lì, ad aspettare una decisione definitiva. Tutti gli alleanti sapevano che era la scelta giusta: liberare una capofazione era lo stimolo necessario per far comprendere alla città che esisteva ancora una possibilità di resistenza e di vittoria. 
"No." Ripeté Marcus, esprimendo la sua decisione finale. Le diede le spalle e si avviò verso la porta d'uscita.
 
 
"Fallo Zeke." Disse Johanna. 
Una padellata raggiunse la nuca di Marcus che non ebbe il tempo nemmeno di stupirsi e di grugnire per il dolore, che perse immediatamente i sensi e crollò sul pavimento umido della stanza.
"Se ristabiliremo le fazioni, voglio introdurre la padella antiaderente come nuova arma." 
Disse Zeke sorridendo come un cretino e girandosi la padella tra le mani senza far notare lo sforzo dei muscoli nel maneggiare l'oggetto pesante.
"Spero che tu lo abbia solo tramortito, o lo spiegherai te a Liz che suo padre è morto a causa di una padellata." 
"Ci vuole molto di più per uccidere un omone come lui Johanna. Tu e tua figlia avete una passione per gli uomini con la testa dura."
"Ora basta giocare. Andate a recuperarla." 
 
 
Le donne si muovevano avanti e indietro sulla riva del fiume, facendo attenzione a non inciampare nei detriti che il fiume la notte prima aveva disseminato a causa della tempesta.
Il fango non permetteva di camminare senza rischiare di scivolare ad ogni passo.
La donna più anziana, una candida, lo si poteva intuire dal vestito bianco, anche se indossava un paio di pantaloni neri da intrepidi, stava osservando la sponda opposta, più in alto rispetto alle altre. Avrà avuto cinquant'anni, capelli scuri, corporatura robusta. Per Zeke rimaneva comunque un emerita sconosciuta. 
L'unica che conosceva era l'intrepida che scrutava le acque verso il lago Michigan, era amica di sua madre da anni. Aveva tre figli.
Aveva...
Un altra, vestita di abiti che il ragazzo non riuscì a identificare con i colori di una fazione, forse una pacifica, si poteva intuire dai capelli lunghi e grigi raccolti in una crocchia disordinata, aveva l'acqua all'altezza delle ginocchia, ed era pochi metri più in là delle altre, cercando anche lei di individuare qualcosa al di là del fiume.
La nebbia non permetteva una visuale precisa e il cielo era ancora coperto da nuvoloni neri, anche se aveva smesso finalmente di piovere.
Zeke era al di sopra della riva, sulla strada, vicino alla macchina che avevano usato per arrivare al ponte più vicino allo Spietato Generale, pur rimanendo in allerta per una possibile visita non desiderata di esclusi in ricognizione. 
"Qua non c'è nulla. Potrebbe essere passata dalla foce del fiume, è meno largo il passaggio dell'acqua." disse la candida.
"O mio Dio..." Sussurrò la pacifica quando vide qualcosa galleggiare a più di dieci metri da lei.
"Aiutatemi!" E iniziò a correre, annaspando con le ginocchia per muoversi più velocemente. Le altre tre si gettarono in acqua, senza mostrare un minimo di brividi al contatto con il gelo del fiume. Muovevano le braccia per cercare di spostare la massa d'acqua e riuscire a correre.
 Alcune inciampavano, sprofondavano e poi si rialzavano per rimettersi a inseguire la candida.
Quando tutte le donne si ritrovarono intorno a quel viso, a quella macchia bianca che traspariva dal velo d'acqua, si affrettarono con mani tremanti ma delicate a sollevarla per le spalle.
La pacifica le accarezzò il volto, spostando i capelli rossi dal viso.
"Povera ragazza" sussurrava con voce incrinata, le lacrime agli occhi.
Sembrava morta, le braccia lasciate aperte, mosse dall'acqua, la testa che pendeva all'indietro appesantita dalla massa di capelli bagnati, la bocca aperta, inespressiva, come in cerca di ossigeno che in realtà non stava respirando.
Una donna cercò di portare un braccio al di sotto della schiena della ragazza per portare il braccio sulle proprie spalle e trasportarla fino a riva.
"Chi le ha fatto questo?" Sussurrò un altra, ma non era una domanda che richiedeva una risposta. Era più un espressione di disgusto alla vista di lividi sulle braccia della ragazza, sul collo, sulla vita scoperta dalla maglietta, sull'attaccatura dei capelli della nuca.
"Forza ragazza, sei forte. Riprenditi." Ripeteva l'intrepida accarezzandole il viso ripetutamente.
Zeke era entrato in acqua nel momento in cui aveva riconosciuto la massa scura che le donne tenevano tra le braccia a venti metri da lui.
Iniziò a correre.
"Portiamola via, ha bisogno di calore." Ripetè la candida.
Un colpo di tosse le paralizzò li dov'erano, lontano dalla riva del fiume, immerse nell'acqua gelida.
La ragazza che finalmente prendeva una boccata di puro ossigeno, come per la prima volta, come un bambino appena nato. Le mani di Liz afferrarono le braccia delle donne che la sostenevano, la testa era ancora riversa all'indietro. E respirava velocemente, profondamente, singhiozzando rumorosamente.
Bruciava, bruciava tutto: la gola, i polmoni! 
Cercò di ributtarsi in acqua andando contro la forza che le donne opposero al suo scatto. 
Perché la trattenevano. Stava andando a fuoco! Doveva togliere il dolore!
"Calmati bambina, ti prego!" 
Zeke finalmente le raggiunse e afferrò Liz per le spalle, costringendola a raddrizzarsi. Le prese il viso fra le mani.
"Liz basta, sono io. Siamo noi. Sei salva!" Le urlò, ma lei continuò a cercare di allontanarsi. Afferrò le braccia del ragazzo e ci conficcò le unghie.
"Lizzie ti prego, siamo noi! Siamo i buoni!" Gli urlò intrappolandola per le spalle e abbracciandola. 
Elise rabbrividì, cercò di scappare di nuovo con spasmi e scatti, ma senza successo. La parete di muscoli intorno a lei non glie lo permetteva. E alla fine si lasciò bruciare dal dolore. E sveni di nuovo. 
 
 
 
"Era fuori di se. Non riconosceva chi aveva attorno. Non ha parlato." 
Zeke stava guardando al di là del vetro, nella stanza dove Elise era stata reclusa per controllare il suo stato di salute.
Johanna gli era accanto, le braccia conserte.
"Nemmeno quando si è svegliata. Non ha detto una parola." Gli rispose. 
"È sotto shock." Concluse Zeke, incrociando le braccia davanti a lui.
"L'hanno distrutta." Concluse Johanna.
Una lacrima le solcò la guancia. Si sfregò subito il punto del viso che aveva bagnato.
"Segni di ustione intorno ai polsi." Disse Zeke, aspettandosi una spiegazione da parte della donna. Che non tardò ad arrivare. Lei aveva visto la cartella medica di Elise, sapeva cosa i dottori avevano trovato sul suo corpo.
"L'hanno torturata con l'elettroshock. Ma i medici pensano che le ferite risalgano a settimane fa. Presumo al periodo di Jeanine." 
Zeke si zittì. Come aveva fatto a non notarle prima?
"Lividi su tutto il corpo. Sul collo, sulle braccia. Sul bacino. Segni di..."
Johanna prese un profondo respiro. E dopo un intero minuto di silenzio espirò.
"Segni di..." Singhiozzò. Non c'è la faceva. Era troppo. Una madre non dovrebbe vedere queste cose. Una ragazza di vent'anni non dovrebbe provarle sulla propria pelle. In una società civilizzata non dovrebbero accadere.
"Violenza!" Sputò fuori.
Zeke la guardò per un momento confuso, poi realizzò. Collegò. E si prese il viso fra le mani.
"Mi ha contatto Cara. Quattro sta arrivando." Sussurrò con ancora la testa reclinata in avanti.
Johanna annuì, asciugandosi l'ennesima lacrima. Doveva continuare a tenere duro. 
Stava per finire tutto, se lo sentiva. Si girò verso Zeke e lo invitò con lo sguardo a riprendersi e ad agire. Nessuno doveva mollare, ormai erano a un passo dalla vittoria.
"Zeke vai da tua madre e prepara la gente alla possibilità di un ultima battaglia. Se Quattro si è deciso a rientrare da oltre la recinzione, vuol dire che avverranno dei cambiamenti. E, per la prima e ultima volta, sono ottimista."
Zeke si raddrizzò e quando incrociò lo sguardo risoluto della donna, si ricompose e fece per uscire dalla stanza adiacente a quella dove Elise avrebbe dovuto riposare, invece era seduta sul bordo del letto, e guardava nel vuoto davanti a lei, verso dove si trovavano loro.
"E ragazzo, un giuramento è un giuramento. Sei un intrepido, e anche se ormai le fazioni sono cadute, lo rimarrai sempre nel cuore. Hai giurato di non rivelare mai e poi mai la verità su Eric."
Zeke annuì.
"Ti chiedo di aggiungerci una cosa: la bambina non è mai esistita. Lei non deve saperne nulla. Venire a conoscenza che il suo compagno è fuggito chissà dove con il bambino che pensava di aver perso la farebbe crollare definitivamente. Anch'io terrò fede a questo giuramento. Saremo in due a portare questo peso."
Zeke annuì, suggellando quel patto. Quella menzogna. 
E poi uscì.
 
 
 
"Stai buono mostriciattolo, ce lo quasi fatta!" 
Era circa da mezz'ora che Eric cercava di accendere un fuoco. 
Aveva camminato per due giorni, la bambina aveva pianto per la maggior parte del tempo e si era dovuto fermare molte volte per farla mangiare, per riposare, ma per fortuna non erano stati inseguiti da nessuno. Aveva fatto attenzione a non lasciare tracce del loro passaggio.
Una scintilla fece rosseggiare la superficie del pezzo di legno e finalmente una fiammella iniziò a prendere vita.
Ma la bambina continua a piangere anche se il buio si era completamente diramato, sconfitto dalla luce rossa del focolare. 
"Ti prego. Non piangere più. Riposiamo per poche ore. Anche se tu non ne hai bisogno, dormi praticamente tutto il tempo, e poi piangi. E poi dormi. E poi ti rimetti a piangere." 
Iniziava a essere un perfetto imbecille, li a parlare con una neonata, praticamente a discutere da solo. La prese tra le braccia tirandola su dal giaciglio di coperte che aveva formato, cercò nello zaino le piccoli dosi di cibo della bambina.
Tasto un po' il fondo dello zaino, senza trovare nulla. Ci riprovò.
"Due settimane un cazzo!" Sbraitò. 
Finiti! Come cavolo era possibile che fossero già finite le scorte?! 
Abbassò lo sguardo sulla bambina. Gli occhietti erano chiusi. Si era addormentata. Per un po' sarebbe stato salvo dall'ira di quel mostriciattolo. Ma appena avesse capito che non c'era più cibo, glie l'avrebbe fatta pagare.
Una fitta allucinante gli percorse il petto. Le ferite erano ancora fresche.
"Va bene, facciamolo." 
Appoggiò il fagottino sulle coperte e si avvicinò di nuovo allo zaino in cerca di bende pulite.
Si tolse la maglietta e appoggiò alla schiena contro la fredda pietra di quella parete di rocce dove avevano trovato riparo per un po dalla desolazione della pianura. Avevano camminato per giorni, ma non erano ancora usciti da quella zona perennemente gialla, sabbiosa, terrosa e di rado verde. Come raramente avevano incontro una fonte d'acqua. 
Muoversi verso sud si sarebbe rivelata la scelta più sbagliata che Lui avesse mai fatto nella sua vita, se lo sentiva.
Le bende gocciolavano sangue, ne erano impregnate completamente. 
Si mise la maglietta tra i denti e con estrema delicatezza si sfasciò la benda attorno al torace, fino ad arrivare all'ultimo strato, in contatto con la ferita.
Morse la t-shirt per sopprimere le urla di dolore, ma non poté non farsi sfuggire qualche mugugno di fastidio. La buttò nel fuoco, per evitare di lasciare tracce del loro passaggio.
Prese il liquido che il dottore gli aveva lasciato per disinfettare e lo spruzzò sulla ferita. Non fu preparato al dolore che ne conseguì e si fece sfuggire un urlo, seguito da un imprecazione.
Riafferrò l'orlo della maglietta che gli era sfuggita dalla bocca e notò solo in quel momento come fosse zuppa di sangue. Non lo aveva notato prima perché era nera.
Si girò verso la bambina, che dormiva profondamene tra il calore delle coperte. Per fortuna non aveva fatto troppo freddo in quei giorni, ma la notte prima era stata una tortura. Pochi intrepidi avrebbero saputo combattere il freddo, più doloroso di un proiettile nella carne, doveva ammetterlo.
Prese le fasce pulite e si medicò con gesti veloci, grossolani e imprecisi, non riusciva da solo a far un buon lavoro, la spalla gli doleva troppo, per non parlare della gamba.
Appoggiò la testa al muro di roccia, e senza accorgersene crollò in un sonno profondo, confortato dal calore del fuoco e dal respiro della piccola che scandiva il tempo.
 
 
"Chi è questo?" Sussurrò.
"Non ne ho idea. Mai visti dei vestiti così. Guarda le sue braccia!" Gli rispose, avvicinandosi al corpo addormentato dell'uomo.
"C'è li ha anche sul collo, che senso!" 
"Smettila, e non toccarlo. O finiremo nei pasticci. Guarda cosa ho trovato." 
Non si allontanò, anzi si avvicinò ancora di più, piegandosi sulle ginocchia e accarezzando il viso del ragazzo con una mano, dal sopracciglio al piercing, fino a quello sul labbro. 
"Deve essere doloroso." Sussurrò a se stesso.
"Un bambino! Un neonato per la precisione. Ma guarda che carino!" 
Lo prese in braccio strappandolo dal calore delle coperte, la bimba si svegliò e fissò quegli occhi scuri con curiosità. Allungò le mani verso il viso di quello strano ragazzo che la teneva tra le braccia.
Il ragazzo si girò verso il suo compare.
"Guarda che carino! Possiamo tenerlo? Dai George! Possiamo, possiamo? Lo guarderò io, non dovrai occuparti di niente. Il mangiare, i bisognini, farò tutto io giuro! Ma lasciamelo tenere!" 
Lo supplicò facendogli gli occhioni dolci.
"Non puoi tenere un neonato come se fosse un cucciolo, alcune volte penso che ti manchi una rotella, fratellino. Dobbiamo portare il nostro sconosciuto davanti al capo." Disse afferrando il fagotto del bimbo in malo modo. 
La bimba, sentendosi in pericolo per lo scrollo ricevuto, iniziò a piangere, e poi a strillare.
"Falla star zitta!" Disse George.
"E come? Non c'è un interruttore!" 
Eric spalancò gli occhi, e quando gli si presentò davanti la scena, cercò di alzarsi con un colpo di reni, ma venne raggiunto da una bastonata sul ventre che lo costrinse a ritornare per terra, stavolta sdraiato completamente al suolo. Gli occhi gli si appannarono di nuovo, il fuoco si era consumato, e l'oscurità della notte non gli permetteva di capire cosa stava succedendo. 
Sentiva solamente la piccola strillare, e quello gli bastava per capire cosa stava succedendo. Erano stati attaccati. Cercò di rialzarsi, ma qualcuno gli si era seduto sulla schiena.
"Fratello, questo è un toro! Non so per quanto lo terrò fermo." Disse il fratello minore.
La vista di Eric si appannò di nuovo, era senza forze.
"Stai tranquillo, è ferito. Adesso perde i sensi." 
"Sta svenendo, per fortuna. Non c'è la facevo più! " 
E l'oscurità gli calò addosso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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