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Autore: _Pulse_    21/04/2015    5 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
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Buonasera! :)
A voi la seconda parte di questo capitolo ricco di feels. In questo incontreremo improbabili spasimanti, tanti fraintendimenti e un'investitura. Ma non solo. Essendo un altro capitolo ricco di avvenimenti vi lascio subito alla lettura, sperando che vi piaccia.
Grazie a tutti, come al solito, per il supporto. Vi lovvo tanto.
Alla prossima!

Vostra,


_Pulse_

 

 

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12. The tears of the Pendragons – Part II

 

Artù sentiva la testa scoppiargli. Aveva ricevuto troppe informazioni tutte insieme, senza avere il tempo di metabolizzarle singolarmente, e ora tutto il dolore, la gioia e la malinconia l’avevano prosciugato, lasciandolo con una voragine al posto del petto.
Aveva conosciuto suo figlio, aveva fatto in tempo ad amarlo e a sorridere di fronte al suo viso luminoso e pieno di vita e poi gli era stato strappato via, proprio come lui era stato strappato via dalla sua città, dalla sua vita, per doversene costruire una nuova con una perfetta sconosciuta.
Merlino aveva detto di sperare che Graalmir fosse venuto a conoscenza delle proprie nobili origini, che fosse andato orgoglioso del suo cognome, ma Artù pensava piuttosto che, data la tenera età, fossero bastati pochi anni per cancellare del tutto il ricordo di Camelot, di sua madre e di tutti coloro che gli avevano voluto bene. E probabilmente era stata la sua salvezza ricominciare da zero, senza sapere nulla del proprio passato. Lui, al contrario di Merlino, ne era sicuro, perché se davvero Alex era la sua ultima lontana discendente, allora non poteva essere diversamente: Graalmir aveva vissuto abbastanza da sposarsi ed avere dei figli, con un cognome diverso ma con sangue Pendragon nelle vene.
Mentre Merlino raccontava ciò che aveva dovuto passare, le sofferenze che aveva dovuto patire, Artù aveva più volte avuto la tentazione di rivelargli tutto, di dirgli che era vero che lui non c’entrava nulla, che tutte le morti a cui aveva dovuto assistere erano state orchestrate dai custodi della magia per costringerlo a reagire, ma non ne aveva trovato la forza. Non sapeva come Merlino l’avrebbe presa e lui, distrutto com’era da tutto ciò che aveva appreso, non sarebbe stato una buona spalla su cui piangere, la roccia in grado di sostenerlo. Doveva trovare il momento e il modo giusto con cui dirgli tutto quello che Freya gli aveva a sua volta detto e anche che la stessa Freya custodiva ancora Avalon. Poi avrebbero cercato di trovare una soluzione ragionevole per il problema “destino da compiere” che avevano per le mani.
Era tutto così grande e confuso e fuori dal tempo che non riusciva nemmeno a pensarci. L’unica cosa che poteva fare era affrontare un problema per volta, giorno dopo giorno, facendo del suo meglio per non aggravare la situazione.

 
«Artù, siete pronto?».
Il re di Camelot sobbalzò di fronte allo specchio quando, pettinandosi i capelli biondi, calcò troppo con la spazzola sul punto in cui l’agente Chandra gli aveva lasciato in ricordo un bel bernoccolo. Non poté fare a meno di realizzare – non senza vergogna – che nel giro di dieci giorni si era già fatto stendere due volte e da due donne, per di più. Aveva davvero bisogno di un po’ di allenamento, o persino Merlino, senza l’aiuto della magia, sarebbe stato in grado di metterlo K.O..
«ARTU’!».
Il re sospirò e si guardò un’ultima volta allo specchio, sistemandosi una ciocca di capelli biondi sulla fronte, prima di gridare che sì, stava scendendo.
Trovò Merlino già al volante della propria auto d’epoca, sulla strada sterrata di fronte casa, e Artù dovette chiudere a chiave la porta prima di raggiungerlo.
Il mago gli aveva proposto di accompagnarlo all’ospedale per una promessa che aveva fatto e per accontentare anche lui, che una volta aveva espresso il desiderio di voler conoscere i bambini. Artù aveva accettato, sperando di riuscire a distrarsi quel tanto che bastava ad alleviare quel maledetto mal di testa.
Il cielo era nuvoloso e il freddo non era eccessivo, permettendo loro di viaggiare anche a tetto scoperto. Trascorsero la maggior parte del tragitto in silenzio, Merlino guardando la strada di fronte a sé e Artù appoggiato con le braccia incrociate sulla portiera, la testa quasi fuori dall’abitacolo.
Ad un tratto l’odore salmastro del lago gli colpì il viso e il re, ripensando alla sera precedente, si ricordò del destriero metallico che l’agente di polizia gli aveva fatto lasciare per strada.
«Devo andare a recuperarlo, iniziava a piacermi».
«Che cosa?», domandò Merlino, facendogli capire che l’aveva detto ad alta voce.
«Il mezzo a pedali che ho usato per andare a caccia, quello che c’era nel fienile».
Il mago aggrottò la fronte, riflettendo. All’improvviso, l’illuminazione. «La bicicletta!», esclamò ridacchiando. «In che punto l’avete lasciata?».
«Non ricordo di preciso, era molto buio», mentì. Ricordava perfettamente dove la volante della polizia l’aveva costretto a fermarsi – una stradina secondaria poco lontana da Avalon – ma non voleva dirlo a Merlino perché temeva che potesse insospettirsi.
«Andremo a riprenderla più tardi», decise Merlino. «Mi pare di aver capito che Myra vi ha sequestrato anche il pugnale e la balestra. Cercherò di farmi ridare tutto nei prossimi giorni».
Artù si voltò a guardarlo, colpito dal fatto che avesse chiamato per nome l’agente Chandra. Era successo anche quella mattina, ma allora non ci aveva fatto troppo caso. Era piuttosto sicuro di non averla mai chiamata per nome e, come se non bastasse, il modo in cui Merlino lo pronunciava, con un misto di tenerezza e rimpianto, lo convinceva sempre di più che tra quei due ci fosse stato qualcosa.
«La conosci?», chiese a bruciapelo e il mago reagì come aveva previsto, irrigidendosi sul sedile ed evitando di guardarlo negli occhi.
«Chi, l’agente Chandra? Questa è una piccola cittadina, ci conosciamo tutti tra noi».
Artù arricciò al naso, per nulla convinto ed infastidito dal suo continuo glissare, come se non volesse raccontargli fasi della sua vita perché non avrebbe capito, ma non protestò, ricordandosi che anche lui gli stava celando un segreto ben più grande di una storia d’amore.
Dopo altri dieci minuti di viaggio Merlino parcheggiò l’auto nella piazzola di fronte all’ospedale e tirò su il tettuccio. Afferrò Artù per un braccio ancor prima che si muovesse per aprire la portiera e lo guardò intensamente negli occhi. Sapeva già cosa stava per dirgli: «Comportatevi come un uomo del Ventunesimo secolo, evitate di dare del voi e non fate nulla di strano», ed era già pronto a tappargli la bocca con un: «Stai zitto, Merlino», ma lo stregone lo sorprese ancora una volta, dicendo: «Siate voi stesso, solo per questa volta».
Artù sbatté più volte le palpebre, confuso. «Come hai detto, scusa?».
«L’effetto della mia magia svanirà presto, forse ha già iniziato a scomparire, perciò l’atmosfera sarà piuttosto pesante. I bambini hanno visto i miei disegni, vi riconosceranno subito: accontentateli, se potete. Distraeteli, fateli sorridere».
Il re di Camelot non riusciva a credere alle proprie orecchie. Davvero Merlino gli aveva appena chiesto di recitare il ruolo del principe, del re, ciò che era stato e che non era più? Non aveva un’idea precisa riguardo al significato dell’espressione “fenomeno da baraccone”, ma si sentiva comunque così, sfruttato e messo in mostra contro la sua volontà.
Avrebbe voluto rispondergli: «Scordatelo!», ma la tristezza che lesse nel profondo dei suoi occhi glielo impedì. Trattenendo la frustrazione, grugnì: «Va bene».
Fu piacevole, come scorgere il primo raggio di sole dopo una violenta tempesta, vedere il volto di Merlino illuminarsi di gioia e gratitudine. 
Artù non poté trattenere un sorriso mentre scendeva dall’auto e lo seguiva all’interno, perdendo presto il conto di quante persone lo salutassero affettuosamente, sorridendogli. 
Ovunque andasse, Merlino riusciva sempre a catturare la simpatia di chiunque lo incontrasse e Artù ne era tremendamente geloso, visto che per lui era sempre stato difficile affermare la propria identità in un ambiente che non era in grado di vedere nient’altro che il suo titolo regale. Merlino era stato il primo a farlo, seguito poi da Ginevra, e insieme avevano scalfito la dura corazza che aveva costruito intorno al cuore, facendogli capire il senso dell’umiltà, dell’essere se stessi e di fare ciò che riteneva giusto, imparando anche a ribellarsi e a lottare per i propri ideali. Gli ci erano voluti anni per rendersi conto di quanto Merlino contasse per lui, per ammetterlo apertamente, e nonostante sapesse quanto aveva fatto per lui sentiva che non sarebbe mai riuscito a ripagarlo del tutto.
Era ancora soprappensiero, quando rischiò di finire contro una ragazza con indosso una tuta blu piena di tasche. Aveva un bel viso, dalla pelle diafana punteggiata di efelidi, i capelli rosso sangue raccolti in una lunga treccia posata sulla spalla, una sfilza di orecchini – soprattutto cerchietti d’argento – e un brillantino sul naso.
«Ehi, sarai anche bello come un dio ma noi comuni mortali non siamo invisibili», lo rimbeccò con un pizzico di malizia negli occhi castani.
Artù non riuscì a reagire prontamente, colpito dal suo aspetto e dall’audacia che dimostrò passandosi la lingua sui denti mentre lo squadrava da capo a piedi, come se lo stesse valutando. Quindi gli sorrise, mostrando una fila di denti bianchissimi, ma prima che potesse dire qualcos’altro Merlino lo affiancò e lo prese per un braccio, stirando un sorriso alla ragazza.
«Ciao Cathleen, avremmo un po’ di fretta».
Lei arricciò le labbra, incrociando le braccia al petto. «Diavolo, in questo periodo non me ne va bene una. Posso almeno sapere il nome del tuo amico?».
«Artù», rispose schietto, già pronto a trascinarselo dietro. Il re non capiva perché Merlino risultasse così nervoso e schivo nei suoi confronti, ma nonostante la curiosità non glielo chiese: farlo di fronte a lei sarebbe stato alquanto sconveniente e avrebbe provocato l’ennesimo guaio.
«Artù e Merlino, fantastico!», esclamò esaltata, raggiungendoli con una corsetta e piazzandosi di fronte a Merlino, in modo da bloccargli la strada. Si era fatta improvvisamente seria, fissando gli occhi in quelli del mago. «Dimmi la verità, ricambierai mai i sentimenti di Alex?».
Merlino diventò rosso come un peperone ed iniziò a boccheggiare, in uno spettacolo tanto penoso che Artù si sentì in dovere di intervenire in suo soccorso: «Non sono affari che ti riguardano».
Cathleen si voltò rapidamente verso di lui, raggiante. «Quindi parli pure! Diventi più sexy ogni secondo che passa». Gli fece l’occhiolino, per poi concentrarsi di nuovo su Merlino, pregandolo: «Dimmi almeno se io ho qualche possibilità con lei!».
A quella domanda – alla quale Artù reagì domandandosi se si fosse sturato bene le orecchie quella mattina – Merlino rispose prontamente: «Non credo tu sia il suo tipo. Che le donne in generale lo siano, intendo».
«Oh. Che peccato». Era davvero delusa, glielo si leggeva in faccia, ma le passò presto.
Merlino l’aveva già trascinato oltre, quando la vide girarsi di scatto col sorriso di nuovo ad incurvarle le labbra rosse e quello sguardo malizioso che puntava proprio lui. Artù capì che prima o poi sarebbe tornata all’attacco e il pensiero lo agitò un po’, soprattutto perché quella ragazza era così diversa dagli standard a cui era abituato a Camelot che si sentiva un po’ disorientato ed intimorito.
Il mago lo portò di fronte a delle porte metalliche e premette un pulsante incassato nel muro, che si illuminò. Artù nell’attesa si schiarì la gola e chiese: «Chi era quella ragazza?».
«Cathleen», gli rispose sospirando, passandosi una mano sul volto. «Un paramedico eccezionale, una delle migliori a guidare le ambulanze, ma ha il piccolo difetto: è sempre in cerca di attenzioni».
«È lesbica?».
Le porte di metallo si aprirono con un ding, ma Merlino non parve accorgersene, con gli occhi fissi su di lui, scioccati ed indagatori. Artù capì di aver fatto una gaffe, usando un termine moderno che teoricamente non avrebbe dovuto conoscere, e ancor prima che Merlino potesse chiedergli dove l’avesse sentito si giustificò dicendo: «Passo un sacco di tempo davanti alla televisione».
«Già», mormorò il mago, entrando nell’ascensore ed invitando Artù a fare lo stesso.
Il re provò subito una sgradevole sensazione, che quando si chiusero le porte aumentò a dismisura, facendogli rizzare i capelli sulla nuca. Merlino aveva appena schiacciato un altro pulsante, il numero quattro, e il pavimento e le pareti e il soffitto che li circondavano, rinchiudendoli in un rettangolo abbastanza ampio ma comunque senza via d’uscita, iniziarono a salire verso l’alto.
«Merlino», lo chiamò con voce piatta, calmissima.
«Uhm?», rispose distrattamente, guardando i numeri sopra le porte metalliche.
«Fammi uscire da qui».
«Che cosa? Non mi dite che avete paura di…». Si interruppe e ogni traccia di scherno svanì dal suo volto, accartocciato in una smorfia di puro terrore. «Oh no, non può essere».
«Merlino…», ripeté, sentendo di star per perdere la calma: ancora pochi secondi e avrebbe iniziato a colpire le porte metalliche con qualsiasi cosa, persino con la propria testa, pur di uscire. Gli mancava l’aria.
«Artù, guardatemi. Guardatemi negli occhi». Merlino lo prese per le spalle ed incatenò i loro sguardi. «È solo un ascensore, un’invenzione moderna che sostituisce le scale. So che può fare un po’ paura, soprattutto se si fermasse tra un piano e l’altro e venisse a mancare la luce…».
«Questo dovrebbe aiutarmi?!», gridò, sentendo il panico crescere incontrollabile dentro di lui, tanto che si aggrappò alle braccia del mago con entrambe le mani, stringendo forte.
«No, certo che no. Sono uno sciocco, lo sapete che straparlo sempre nei momenti meno opportuni. Stavo dicendo… Molte persone soffrono di claustrofobia, ma io mi rifiuto di credere che voi siate una di queste: avete affrontato eserciti immortali, streghe, mostri di ogni genere, persino un drago!, senza mai tremare. Ero io quello fifone, ricordate? Spesso dicevo di sentire dei rumori ed erano solo le mie ginocchia…».
Riuscì a strappargli un sorriso e lo stava guardando con gratitudine, quando le porte metalliche si aprirono e mostrarono loro un ampio corridoio simile a quello da cui erano venuti e Alex, ferma proprio di fronte a loro, con una pila di cartelle tra le mani e gli occhiali da vista tra i capelli.
Li guardò piegando la testa di lato, senza sapere se ridere, provare compassione o ribrezzo, e alla fine scosse il capo, decidendo di non commentare. Si spostò di lato per permettere loro di uscire e per Artù fu un vero sollievo uscire da quella trappola per persone pigre, mentre Merlino tentava, senza successo, di spiegare che “non era come sembrava”. Solo in quel momento, riacquistato un minimo di lucidità, Artù realizzò che la loro posizione poteva risultare vagamente fraintendibile: più vicini del necessario, occhi negli occhi e aggrappati uno al corpo dell’altro… L’immaginazione di chiunque sarebbe stata stimolata.
«Ci vediamo più tardi?», domandò Merlino alla fine, quando ormai le porte si stavano chiudendo.
Videro Alex annuire giusto un secondo prima che sparisse dietro il metallo e poi si voltarono, incrociando subito lo sguardo di una donna appena uscita da una delle porte lungo il corridoio. Aveva i capelli disordinati e il volto privo di trucco era visibilmente stanco, gli occhi arrossati a causa delle lacrime e cerchiati per le poche ore di sonno. Quasi si mise a correre per raggiungerli e Merlino fece un passo avanti, poi gli gettò un’occhiata rassicurante e gli disse: «L’ultima porta sulla sinistra, chiedete di Abigail. Vi raggiungo tra poco».
Artù annuì con un cenno del capo e si allontanò, iniziando a percorrere il corridoio verso la stanza che il mago gli aveva indicato. Camminando, sbirciò dentro le camerette e vide moltissimi bambini, di tutte le età, molti dei quali li aveva già visti nelle foto appese in camera di Alex.
Stesi nei loro letti, addormentati o intenti a chiacchierare tra loro, a disegnare o a giocare con i telefonini e altri aggeggi elettronici, sembravano tutti quanti bambini normali, se non si faceva caso ai capelli radi o del tutto assenti, ai tubicini trasparenti che avevano infilati nelle braccia e all’immobilità a cui molti di loro erano costretti.
Da quello che sapeva, suo figlio Graalmir aveva sempre goduto di ottima salute, ma era sicuro che nel caso si fosse ammalato – febbre, raffreddore o un semplicissimo mal di pancia – si sarebbe preoccupato a morte, rimanendo al suo fianco giorno e notte fino a quando non l’avrebbe visto correre di nuovo in giro per il castello. Per questo non riusciva nemmeno ad immaginare lo strazio che dovevano provare i genitori di quelle povere creature, afflitte da malattie che presto o tardi gliele avrebbero portate via, inevitabilmente.
Giunse all’ultima porta sulla sinistra ed esitò un attimo sulla soglia prima di sporgere la testa all’interno. Incrociò subito lo sguardo di una ragazzina sui tredici anni, con i capelli castani tagliati alla maschietto e gli occhi scuri vigili e attenti. Vide una scintilla attraversarli e poi le sue labbra schiudersi dalla sorpresa, dei dettagli che gli fecero intuire di essere già stato riconosciuto.
«Ciao», la salutò stirando sorriso. C’era solo lei nella stanza, ma non poté fare a meno di chiedere: «Sei tu Abigail, vero?».
La ragazzina annuì con un cenno del capo, schiarendosi la gola e ricambiando il sorriso a sua volta. «E tu sei l’amico di Merlino, ho indovinato? Non vedevo l’ora di conoscerti».
Artù si avvicinò e le prese delicatamente una mano, piccola e pallida, per sfiorarne le nocche con le labbra, inchinandosi. 
«Lusingato. Il mio nome è Artù».
Abigail sorrise entusiasta ed imbarazzata allo stesso tempo, con le guance infiammate. Solo dopo una dozzina di secondi, con Artù in piedi accanto al suo letto, si rese conto dell’assenza di Merlino.
«Lui dov’è?», gli chiese, aggrottando le sopracciglia.
«Si è fermato a parlare con una donna. Minuta, capelli biondi…».
«La mamma di Steve, senza dubbio», dedusse sospirando tristemente. Si portò le dita alla bocca, per mangiucchiarsi le unghie già cortissime, e Artù, a disagio, si sedette accanto alla porta.
«Spero che tu faccia in tempo a conoscerlo», disse Abigail ad un tratto, rivolgendogli un sorriso dolce.
«Sono qui apposta», rispose, iniziando a capire che cosa Merlino aveva voluto dirgli in auto. Forse gli aveva chiesto di accompagnarlo anche per quello, per regalare a Steve un ultimo momento di gioia. E chi era lui per negarglielo?
Stava ancora riflettendo su quella possibilità, quando lo stregone bussò ed entrò nella camera senza attendere la risposta di Abigail. Sembrava invecchiato di colpo di almeno un altro paio d’anni, ma incredibilmente riuscì a sorridere salutando la ragazzina.
«Non c’è Mark?», le chiese.
«Credo stia ancora dormendo. Ho sentito dire che la chemio questa mattina è stata piuttosto dura».
«Capisco. Passeremo da lui più tardi. Abby, ti va di accompagnare Artù a fare un giro? Presentagli gli altri. Io cercherò Alex: voglio chiederle se possiamo far visita a Steve».
«Con piacere», disse gentilmente Abigail, scendendo dal letto per sedersi sulla sua sedia a rotelle, col trespolo della flebo stretto in una mano.
«Andate a spingerla», gli mormorò Merlino all’orecchio e Artù balzò in piedi, dandosi dello stupido perché non ci era arrivato da solo.
Afferrò i manici della sedia a rotelle e la spinse facilmente fuori dalla porta, ma Abigail strinse quasi subito il braccio del mago e lo invitò a porgerle l’orecchio per sussurrargli qualcosa.
Merlino ridacchiò, gettandogli un’occhiata, poi li salutò per dirigersi nella direzione opposta.
«Che cosa gli hai detto?», le chiese un Artù divorato dalla curiosità, quando rimasero soli.
La ragazzina sorrise furbetta. «È un segreto. Gira a destra».
Artù capì che in ogni caso non avrebbe ottenuto nulla e lasciò perdere, concentrandosi sulle indicazioni di Abigail e pregando perché Merlino e Alex si riappacificassero.

 

***

 

Alex aveva delle cartelle cliniche tra le mani quando l’aveva vista nei pressi dell’ascensore, perciò c’erano solo due posti in cui poteva essere andata: all’archivio o da una delle dottoresse che voleva vederle nuovamente per confrontare i dati con gli esiti degli ultimi esami. Tentò la sorte e scelse la seconda.
Per raggiungere le scale – dopo l’ultima esperienza non aveva molta voglia di usare l’ascensore – fu costretto a passare di nuovo di fronte alla stanza di Steve. Rivedere l’apprensione e il dolore negli occhi dei suoi genitori non fu piacevole, e non lo era stato affrontarli direttamente quando Paige, poco prima, gli era corsa incontro. Gli aveva chiesto che fine avesse fatto la sera precedente e perché avesse lasciato Steve da solo, e Merlino aveva risposto semplicemente che non era riuscito a reggere di fronte a quell’ingiustizia, alla crudeltà del destino, e che si era sentito male. La madre del bambino gli aveva creduto, ovviamente, e l’aveva abbracciato con delicatezza, dandogli leggere pacche sulla schiena.
Il mago non aveva mentito – aveva solo omesso alcuni dettagli – ma si era sentito comunque in colpa, oltre che inutile: avrebbe voluto fare di più, molto di più, ma sapeva che era impossibile. Aveva imparato a sue spese, nel più atroce dei modi, che la magia non dava mai nulla senza ricevere qualcos’altro in cambio. Come piaceva dire a Nimueh: “Una vita in cambio di un’altra vita, per ristabilire l’equilibrio nell’universo”.
Scese al terzo piano, dove si trovavano i laboratori, e per una volta ebbe fortuna. Vide Alex venirgli incontro a mani vuote, gli occhi attenti e fin troppo inquisitori per i suoi gusti.
«Che ci fai qui?», gli chiese subito, storcendo un po’ il naso e guardandolo da sopra le lenti degli occhiali.
«Ti cercavo. Ci sono novità su Steve?».
Alex sospirò – forse per la tristezza, forse semplicemente per la noia che ripeterlo per l’ennesima volta le provocava – ed iniziò a salire le scale con Merlino alle calcagna. «Le sue condizioni stanno lentamente ed inesorabilmente tornando quelle pre-miracolo».
Merlino l’aveva sempre saputo che la sua magia non sarebbe durata a lungo, ma la delusione fu comunque tanta e fece male come un pugno dritto nello stomaco.
«Io e Artù volevamo fargli visita, è possibile?».
«Dovrei chiedere il permesso alla dottoressa. Solo i suoi genitori sono autorizzati a stare con lui, al momento. A proposito, dove l’hai lasciato Artù?».
«Con Abby. Gli sta facendo fare un giro. Mi ha detto di tornare presto, prima che si innamori totalmente di lui».
«Oh Gesù», sussurrò e quello che vide di sfuggita sul suo volto fu il suo primo sorriso.
Sapeva che i motivi per sorridere non erano molti, soprattutto in quel momento, ma aveva comunque la sgradevole sensazione che stesse tenendo le distanze, che volesse allontanarsi da lui ad ogni parola. Ancora una volta Merlino si sentì impotente, come se lei fosse stata sabbia tra le sue dita e il vento gliela stesse portando via senza che lui potesse opporsi.
«Hai cinque minuti?», le chiese, cercando di starle dietro il più possibile.
«Veramente no. E se li avessi, non credo che questo sia il momento adatto per parlare».
«Sei arrabbiata con me, non è vero?».
Alex si fermò così all’improvviso che Merlino rischiò di finirle addosso. Era riuscito ad evitarlo, bloccandosi ad un soffio dal suo viso, e dovette arretrare di fronte all’occhiata tagliente che gli rivolse.
«Mi dispiace deluderti, ma non sei sempre al centro dei miei pensieri. E per cosa dovrei essere arrabbiata, comunque?».
«Per quello che ti ho detto questa mattina, suppongo. Non avrei dovuto, mi dispiace».
Alex sembrò soppesare le sue parole, gli occhi fissi sul suo viso come se dubitasse della sua sincerità, poi abbozzò un sorriso. «Non ce n’è bisogno, non mi sono offesa: so di avere qualche rotella fuori posto. Altrimenti non si spiegherebbe perché sono tua amica, eh».
«Giusto». Merlino tirò un sospiro di sollievo, percependo l’ostilità e la tensione scivolare via poco a poco.
«Sono davvero impegnata, però», gli disse, controllando il cercapersone appeso alla cintura che aveva appena iniziato a trillare. «Possiamo rimandare la chiacchierata?».
«Certo, io non vado da nessuna parte».
A quelle parole l’infermiera aggrottò la fronte, guardandolo di traverso. «Non hai il turno in caffetteria?».
Merlino scosse lievemente il capo. «Mi sono licenziato».
«Come? Quando?», quasi urlò, con gli occhi sgranati per la sorpresa.
«Un paio d’ore fa. Ho deciso di seguire Artù all’agriturismo, sempre se tuo padre e Abraham vogliano prendere anche me. Ma non gliel’ho ancora detto».
Il cercapersone di Alex trillò di nuovo e la sua insistenza fu l’unica cosa in grado di riscuoterla. Mentre si avviava, gettò a Merlino un’occhiata eloquente, traducibile in: “Ne parliamo dopo”.
Aveva quasi girato l’angolo, quando Merlino le urlò dietro: «Per quanto riguarda Steve?».
Alex si fermò e tirò fuori il cellulare da una delle tasche dell’uniforme azzurra, indicandoglielo. Merlino capì al volo che quello stava a significare: “Ti faccio sapere”. Le rivolse il pollice alzato e lei sparì.

 
Prima di tornare da Artù e Abigail, Merlino passò a prendere il suo libro di favole. L’armadietto che gli avevano concesso era nello spogliatoio maschile al piano terra, quello del pronto soccorso, perciò dovette fare un po’ di scale e nel frattempo sperò di non incontrare nuovamente Cathleen: quella volta non avrebbe ceduto fino a quando non avrebbe ottenuto il numero di cellulare di Artù.
Rabbrividendo solo al pensiero di quella stranissima coppia, entrò nello spogliatoio e si diresse direttamente verso il suo armadietto grigio, senza rendersi conto del ragazzo in piedi davanti alla fila opposta, al di là di un paio di panchine di legno.
«Ciao Merlino».
Il mago sobbalzò e si voltò, incrociando lo sguardo di Keith Ellis, un dottore del pronto soccorso che non gli era mai andato particolarmente a genio, forse perché era stato il ragazzo di Alex e l’aveva fatta soffrire come un cane tradendola più e più volte.
Si limitò ad accennare un sorriso, pescando il suo libro da tutto quello che col tempo aveva accumulato nell’armadietto.
«Come sta il tuo amico?», gli chiese ancora Keith. Probabilmente non aveva capito che con lui non voleva avere nulla a che fare.
«Quale amico?».
«Quello che è stato aggredito e che ho visitato, più di una settimana fa».
Solo allora Merlino realizzò che era stato proprio Keith a visitare Artù quando Alex l’aveva steso con una padellata, dopo che lui le aveva dato della strega e le aveva puntato un pugnale alla gola. Preoccupato com’era per le condizioni di salute del suo re, non solo fisiche ma anche psicologiche – gli aveva appena rivelato che Camelot non esisteva più, che tutte le persone a lui care erano morte e che quello era il Ventunesimo secolo – non si era minimamente reso conto che si era trovato di fronte all’uomo per cui Alex aveva versato così tante lacrime.
«Bene, grazie per l’interessamento», rispose freddamente.
«Interesse professionale».
Merlino chiuse l’armadietto con fin troppa forza, facendo vibrare persino il metallo, ma Keith non si arrese e tornò alla carica con la domanda meno appropriata che potesse fare. Lo faceva apposta o era semplicemente scemo?
«Ho sentito dire che Alex ha una cotta per te. È vero?».
«Anche se fosse, non ti riguarda».
«Ah no? Devo per caso ricordarti che volevo chiederle di sposarmi?».
«No, affatto», rispose astiosamente Merlino, guardandolo per la prima volta negli occhi. 
Sentiva la rabbia scorrergli nel sangue e insieme ad essa iniziava ad avvertire una sgradevole sensazione, come se tutto quell’odio stesse facendo cedere una delle tante barriere che aveva innalzato contro la magia, per tenerla congelata ed inoffensiva.
«E non l’hai fatto perché Alex ha scoperto che la tradivi», aggiunse, cercando di calmarsi. «Me lo ricordo bene».
«Sai, mi sono sempre chiesto come abbia fatto», disse, lanciandogli un’occhiata inquisitoria. «Avevo chiuso con Bess da due settimane ormai e fino al giorno prima della cena in cui le avrei fatto la proposta sono sicuro che non avesse mai avuto il minimo sospetto».
«Tutti commettono degli errori», rispose tranquillamente Merlino, con un sorrisino compiaciuto. Quindi, tornando serio, aggiunse: «Non ne commetterei altri, se fossi in te».
Keith assottigliò gli occhi, cercando di dimostrarsi il più calmo possibile nonostante l’ira lo stesse facendo sbuffare come un toro pronto alla carica. «Cos’è, una minaccia?».
Merlino sorrise nuovamente, dirigendosi verso la porta col libro sottobraccio. Prima di chiudersela alle spalle, esclamò: «Un semplice consiglio!».

 
Raggiunse Artù e Abigail nella sala comune, un grande ambiente rettangolare sulle cui pareti erano raffigurati i personaggi dei classici Disney.
Oltre ad un paio di grandi cesti trasparenti stracolmi di mattoncini lego, ad una pila di giochi di società e a diverse scatole piene di pennarelli, matite colorate e risme di fogli di carta bianchi, ad arredare quel grande spazio c’erano un paio di librerie stracolme di libri – dai romanzi ai libricini per i bambini più piccoli, – due piccoli flipper, un televisore circondato da un paio di poltrone e un divanetto e persino un modello non troppo vecchio di computer in un angolo.
Molto di quello che si vedeva in quella sala era stato donato dagli abitanti della cittadina, dai genitori dei bambini e ancora da donatori anonimi, tra cui spesso e volentieri Merlino. Quando si era trattato di qualche libro non c’erano stati problemi, ma quando aveva fatto portare il computer, i flipper e le poltrone reclinabili, allora sì che si era nascosto dietro l’anonimato. Era più sicuro così.
Artù e Abigail erano seduti intorno ad uno dei tanti tavolini bassi, il biondo con la schiena curva e le ginocchia incastrate a malapena sotto al ripiano, e stavano simulando una partita a scacchi. Con la pazienza infinita che solo lei possedeva, Abby cercava di spiegargli le regole base e le mosse di ogni pezzo e Artù annuiva attento, senza mai spostare gli occhi dalla scacchiera bianca e nera. Merlino lo aveva visto così concentrato solo ai consigli di guerra, di fronte ad una mappa. Si appuntò mentalmente di fargli provare Risiko: l’avrebbe adorato.
Il mago avvicinò uno sgabello colorato al tavolino e si sedette tra loro mentre Abigail spiegava: «Bisogna provare a prevedere le mosse dell’avversario ed usarle a proprio vantaggio, come ho fatto io in questo caso: io ho mosso un pedone e tu, mangiandolo col tuo, hai liberato la strada al mio alfiere che ora mangia la tua torre».
«Quindi tu hai… hai sacrificato un pedone per conquistare la mia torre».
«Esatto!», esclamò Abigail, felice che avesse capito il concetto, ma la sua espressione mutò radicalmente quando Artù la guardò in cagnesco.
«Come hai potuto? Sono sicuro che se avessi aspettato, se avessi pensato un po’ di più, avresti trovato un’altra soluzione! E invece l’hai mandato a morire per…».
Merlino gli tappò la bocca con la mano e rivolse un sorriso ai genitori con i loro bambini malati, alle infermiere e al tecnico del distributore automatico, mormorando tra i denti: «Okay, abbiamo capito il concetto. Ora calmati, stai spaventando tutti».
«Mi dispiace, non volevo…», provò a scusarsi Abigail, sulla difensiva, ma lo stregone le posò una mano sul braccio, teneramente.
«Non hai fatto nulla di sbagliato, è lui che è un po’… esuberante». Voltandosi verso Artù, gli scoccò un’occhiata di rimprovero e disse: «È solo un gioco, prendetelo così com’è».
«Questo gioco non mi piace», bofonchiò, facendo cadere il proprio re bianco. Di sicuro non sapeva che quella mossa era equivalente alla resa, altrimenti non l’avrebbe mai fatto.
Merlino non osò spiegarglielo e chiese: «Com’è andato il vostro giro?».
«Tranquillo», rispose Abigail. «Mark dormiva ancora, come pensavo, ma gli ho fatto conoscere Gabriel, Danilo e Jessica. Dovevi vedere le loro facce!». Li imitò, aprendo la bocca il più possibile e sgranando gli occhi in un’espressione esterrefatta. Quindi rise, spazzando via persino il broncio di Artù. «È così simile al re Artù dei tuoi disegni che i più piccoli l’hanno scambiato per quello vero. Poi però ho spiegato loro che l’hai solo usato come modello, ho fatto bene?».
Merlino si chiese perché non ci avesse pensato lui e sorrise, annuendo. «Benissimo. Grazie».
«Tu hai trovato Alex?», domandò Artù, mascherando non troppo il fatto che si preoccupasse dell’andamento della loro amicizia. Lo stregone lo trovò carino, ma strano.
«Sì», rispose giusto un momento prima che Artù, spazientito, gli ripetesse la domanda. «Ha detto che avrebbe chiesto alla dottoressa di Steve se potevamo fargli visita e che mi avrebbe mandato un SMS».
Artù inarcò le sopracciglia e sporse il viso verso il suo, in un silenzioso: «E poi?».
«Non ci siamo detti altro, aveva da fare».
«Scusa se mi faccio gli affari tuoi, ma che cos’altro avrebbe dovuto dirti?», chiese Abigail per la gioia di Artù, il quale rispose prontamente: «Hanno litigato, questa mattina. Ancora».
«Oh, lo sapevo che c’era qualcos’altro…».
«Qualcos’altro? Che vuoi dire?».
Abigail si morse il labbro nervosamente: non avrebbe dovuto dirlo ad alta voce.
«Abby?», la incalzò Merlino, gettandole un’occhiata penetrante.
«E va bene. Ma io non ti ho detto niente, okay? Questa mattina Alex mi ha chiamata per sapere come stava Steve, ma era giù di morale e distratta. Le ho chiesto se fossi tu la causa, ma mi ha liquidata in fretta».
«Perché devo essere sempre io la causa di tutto quello che le capita?», mormorò Merlino, passandosi stancamente una mano sulla fronte.
«Perché è innamorata di te, sciocco, e qualsiasi cosa tu faccia si ripercuote su di lei. Posso chiederti una cosa? È da molto che ho questa domanda, ma mi è sempre sembrato… inopportuno, ecco».
Il mago la guardò e cercò di farle capire che con Artù davanti, che non si perdeva una sola parola, sarebbe stato molto più che inopportuno, ma Abigail non colse i suoi segnali ed annuì mestamente, prendendosi le ginocchia tra le mani.
«Perché non vi mettete insieme? Siete fatti apposta l’uno per l’altra!».
Eccola, la domanda cruciale. Quante volte ci aveva riflettuto, rigirandosi tra le coperte in attesa di un sonno che non sarebbe mai arrivato? Quante volte aveva dovuto ripetere a se stesso che sarebbe stato un enorme sbaglio? Con lui Alex non sarebbe mai stata felice, mai.
Le mani di Abigail, estremamente piccole e pallide, strinsero forte la sua, riportandolo alla realtà. Incrociò i suoi occhi scuri, affascinanti quanto un pozzo senza fondo custode di mille e più desideri, e si sentì immediatamente avvolto da una sensazione di calore.
«Se non fai qualcosa, prima o poi cercherà qualcun altro per dimenticarti. Ma questo non la farà stare meglio, anzi».
Merlino, con le orecchie ben tese, aveva colto, nella sua voce preoccupata e nelle sue parole, diversi campanelli d’allarme. «Qualcun altro chi, per esempio?».
«Beh… Mark dice di aver visto il dottor Ellis gironzolare parecchio da queste parti, ultimamente. Non vorrei che stia provando a…».
Le orecchie gli erano diventate così rosse per la rabbia che Merlino ebbe per un attimo paura che gli schizzassero via dalla testa come razzi. Riuscì a calmarsi solo ripensando alla soddisfazione che aveva provato quando, poco prima, Keith gli aveva fatto capire che aveva intuito che era stato merito suo se la loro cena era saltata e non aveva potuto chiedere ad Alex di sposarlo. Grazie al suo intervento Alex non aveva commesso l’errore più grande della sua vita, e se Keith non avesse seguito il suo consiglio l’avrebbe fatto ancora e ancora. Alex non avrebbe mai più sofferto per colpa sua, poco ma sicuro.
«Merlino, ti senti bene?», gli chiese Abigail, chinandosi verso di lui.
«Benissimo. Abby, me lo faresti un favore? Tu e Mark dovrete tenere gli occhi aperti, d’ora in poi, e dovrete avvisarmi subito, se il dottor Ellis gironzola ancora da queste parti».
Abigail sorrise. «Certo, non c’è problema. Non mi è mai stato simpatico, quel tipo. La mia domanda però…».
«È troppo complicato da spiegare, Abby, sul serio».
La ragazzina si imbronciò e Artù, di fronte a lei, incrociò le braccia al petto, intervenendo stranamente in suo soccorso: «Merlino ha ragione, è complicato. E Alexandra non è una ragazza qualunque, merita il meglio».
Quell’ultima frase fece aggrottare la fronte sia ad Abigail che a Merlino. Quest’ultimo aprì la bocca per ribattere, ma la ragazzina fu più veloce: «Stai dicendo che Merlino non è abbastanza per lei?».
Artù parve accorgersi solo in quel momento dell’errore commesso e tentò di rimediare, balbettando: «No, non è questo che intendevo. È solo che… voglio che sia felice, tutto qui».
«E lo sarà, con Merlino. Dico bene?». Abigail posò gli occhi sullo stregone, ma lui continuò a fissare Artù, cercando di capire che cosa gli passasse per la testa, fino a quando la ragazzina non gli colpì il braccio con un manrovescio, ripetendo perentoria: «Dico bene?».
«Ehm… sì, farò tutto il possibile».
C’era qualcosa che Artù gli stava nascondendo, ne era più che sicuro, e l’idea che stava prendendo forma nella sua mente non gli piaceva per niente. Riuscì a distrarsi solo grazie a Mark.
Con una bandana da motociclista rossa sulla testa, entrò nella sala comune quasi con irruenza, spingendo le porte con entrambe le mani e dando vigorose spinte alle ruote della propria carrozzina. Ogni volta che si riprendeva da una seduta di chemioterapia si dimostrava irascibile, scontroso e pieno di pungente sarcasmo, come se al posto di medicine assumesse veleno, e l’unica in grado di tenergli testa in quei momenti era Alex, la quale non se lo faceva ripetere due volte e gli rispondeva per le rime, facendolo sorridere.
«Ho scommesso con Danilo che non rimarrò a bocca aperta di fronte a questo Artù e non vedo l’ora di avere tutti i suoi dessert del mese per abbuffarmi come un –». Mark si interruppe, incapace di muovere di un solo millimetro la mandibola che gli era quasi arrivata alle ginocchia.
Merlino ed Abigail si scambiarono un’occhiata e scoppiarono a ridere.

 

***

 

Alex si sentiva già esausta, con tutto quel correre su e giù, e non vedeva l’ora di sedersi accanto a Steve come aveva fatto fino a quando la dottoressa non le aveva detto con ben poca grazia di “alzare il culo” e fare il suo lavoro.
Le sue condizioni erano peggiorate, e in fretta. Tanto in fretta che si stava già preparando a dirgli addio per la seconda volta, certa che non ci sarebbe stato un altro miracolo. Merlino avrebbe potuto usare di nuovo la magia, ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Lo sapeva punto e basta.
Trovando l’ascensore vuoto e con le porte già aperte si infilò dentro, quindi tirò fuori il cellulare e scrisse a Merlino il famoso SMS. Aveva dovuto sudare meno del previsto per aver l’autorizzazione da parte della dottoressa e nonostante avrebbe preferito non saperlo, quella volta conosceva anche il perché: non c’era più nulla di concreto che potessero fare, a parte rendergli più facile il trapasso in ogni modo possibile, incluse le favole che tanto amava. Steve aveva purtroppo raggiunto la linea dei desideri, oltre la quale tutto ciò che voleva diventava realtà.
Quando arrivò di fronte alla stanza del bambino, di nuovo pallido e solo semi-cosciente a causa del forte quantitativo di antidolorifici, Merlino e Artù non c’erano ancora. Mentre li aspettava guardò Paige e suo marito accarezzargli a turno le mani, le braccia, le guance, i capelli, il mento, con estrema delicatezza e allo stesso tempo la voglia straziante di stringerlo forte, di aggrapparsi al suo esile corpicino in modo che nessuno potesse portarglielo via.
Alex si ritrovò a pensare alla forza dei genitori, al coraggio che ci voleva per decidere di diventarlo consapevolmente. Dopo aver visto il loro dolore e quello di altre mamme e di altri papà, non era così sicura di poter essere altrettanto all’altezza delle aspettative: avrebbe continuamente temuto di sopravvivere anche lei ai propri figli e questo pensiero col tempo l’avrebbe logorata.
La verità era che bisognava essere delle fottute rocce per lasciarli andare per la loro strada, per lasciarli vivere.
«Ehi!».
Alex si voltò verso la voce di Merlino, che spingeva la carrozzina di Mark mentre Artù, al suo fianco, spingeva quella di Abigail. Si sentì stranamente sollevata quando incrociò i suoi occhi azzurri, limpidi come il cielo, e il suo sorriso; finalmente libera dal senso di oppressione che quei pensieri le avevano lasciato addosso.
«Ehi», rispose ricambiando il sorriso.
«Ma tu lo sapevi che questo tipo è identico a re Artù?!», urlò Mark, piuttosto scosso, indicando con il pollice l’Artù che lei aveva ripescato dal lago.
«Io direi piuttosto che il re Artù disegnato da Merlino è identico a lui», rispose, inarcando un sopracciglio. «Di regale e cavalleresco questo qui non ha proprio niente, te l’assicuro».
Artù venne scosso da un fremito di irritazione e aprì la bocca per difendere il proprio orgoglio, ma l’infermiera gli tirò un pugnetto sulla spalla, facendogli l’occhiolino, mentre Abigail sospirava sognante e mormorava, abbastanza ad alta voce perché tutti la sentissero: «Niente a parte l’aspetto».
Mark strinse i pugni sui braccioli della sedia e pestò i piedi, ora furente più che mai. «Avresti dovuto dirmelo!», strepitò con la voce che per lo sforzo gli era salita di parecchie ottave. «Ora dovrò dare a Danilo, per un mese – un mese! – tutti i miei dessert!».
Alex lo guardò per una dozzina di secondi, mostrandosi infinitamente dispiaciuta. Quindi gli posò una mano sulla spalla e con tono sofferto disse: «Mi dispiace molto per la tua perdita».
Tornata in posizione eretta, indicò con un cenno del capo l’interno della stanza e spiegò: «Potrete entrare solo con il consenso dei genitori, ma non avete un limite di tempo. Qualsiasi cosa abbiate in mente… fatelo sorridere, mi raccomando».
«Sarà fatto», le promise Merlino, annuendo solennemente.
Aprì la porta ed entrò per primo, da solo, per chiedere a Paige e a suo marito il permesso di entrare. La donna annuì abbozzando un sorriso, asciugandosi rapidamente le lacrime con i palmi delle mani, e si voltò per indicare a tutti di entrare.
«Abbiamo proprio bisogno di un po’ di compagnia», disse cercando di apparire entusiasta dietro il dolore e la stanchezza.
Alex sorrise incrociando gli occhi di Paige, ma si ritrasse e si apprestò a chiudere la porta quando anche Artù e Abigail furono nella piccola stanza. Merlino la bloccò appena in tempo e si sporse verso di lei in modo così fulmineo che non riuscì a reagire in alcun modo: le posò un bacio sulla guancia, vicinissimo all’angolo delle labbra, e le sussurrò all’orecchio: «Grazie», per poi guardarla negli occhi e sistemarle una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio sinistro.
Ferma immobile come una statua lo guardò scostarsi sorridendo e rientrare nella stanza, chiudendosi poi delicatamente la porta alle spalle.

 

***

 

Non appena si sedette di fianco a Steve – con gli occhi chiusi e il respiro irregolare nonostante i tubicini che gli iniettavano ossigeno direttamente nel naso – e gli prese una manina tra le sue, fu in grado di stabilire precisamente quanto tempo aveva prima che l’effetto della sua magia svanisse del tutto: pochissimo, molto meno di quello che si aspettava. Era quasi impazzito a causa del dolore e per cosa? Un solo giorno in più?
Fu come ricevere un colpo in testa, tanto forte da lasciarlo stordito e senza parole per una dozzina di secondi, e fu solo grazie ad Artù, il quale gli posò una mano sulla spalla, che si riprese.
Cercò di sorridere, accarezzando il dorso della mano di Steve con il pollice. «Ciao, piccolo».
Steve aprì gli occhi lentamente, a fatica, e Merlino sentì il cuore stretto in una morsa rendendosi conto di quanto già fossero opachi e lontani. Ciononostante incurvò le labbra in un sorriso, chiamandolo con un fil di voce.
«C’è qui una persona che vorrebbe conoscerti», disse ancora, prendendo Artù per un braccio ed avvicinandolo a sé, nel campo visivo del bambino.
Tutti, Paige per prima, si lasciarono scappare una risata di gioia in grado di soffocare le lacrime quando Steve lo riconobbe e il suo volto si illuminò, eccitato ed incredulo, di nuovo vivo.
«Re Artù», esclamò.
«È un vero onore per me fare la tua conoscenza», disse Artù, chinandosi per posargli una mano sul capo e sorridergli teneramente. 
Forse era stata solo una sua impressione, ma Merlino avrebbe giurato di aver visto un luccichio nei suoi occhi, come se fossero velati di lacrime.
«Che cosa ci fai qui?», gli chiese ancora il bambino, incantato.
«Sono venuto per te. Non ti lasceremo solo, giovanotto».
Steve sorrise beato, ma era chiaro come il sole che anche solo tenere gli occhi aperti gli costava un’enorme fatica. Così Merlino decise di andare subito al sodo, aprendo sulle ginocchia il suo libro di favole.
«Che ne dici di una favola, Steve? Quale vuoi sentire?».
Il bambino socchiuse gli occhi e soffiò: «Una nuova».
Merlino, che aveva già  iniziato a sfogliare le pagine alla ricerca della sua storia preferita, rimase parecchio colpito dalle sue parole e per un attimo non seppe cosa rispondere. Se c’era un bambino meritevole di una storia nuova, quello era proprio Steve. Ma quale? Tutte le favole che aveva scelto e opportunamente riscritto, riadattandole per il suo giovane pubblico, avevano una morale e soprattutto il lieto fine. Era difficile trovarne un’altra con le stesse caratteristiche, in quel momento.
Poi, alzando gli occhi verso Abigail e Mark e scorgendo sui loro volti la speranza e l’emozione, ricordò quando anche lui aveva avuto la loro stessa identica espressione. Grazie a loro, la storia si delineò perfettamente nella sua mente.
Chiuse il libro di scatto e si voltò verso Steve, sorridendo. «Vi ho mai raccontato della nascita di Aithusa?».
Artù, ancora al suo fianco, corrugò la fronte. «Chi è Aithusa?».
Merlino si morsicò la guancia, pregando perché quella fosse l’ultima volta che Artù apriva bocca, ed incrociò lo sguardo di Abigail mentre rispondeva con voce chiara e precisa, da prima della classe: «Il drago albino di Morgana».
E poi quello di Mark, con gli occhi sgranati per la sorpresa. «Io pensavo che fosse come Kilgharrah: un drago sempre esistito».
Lo stregone ridacchiò. «Kilgharrah era già vecchio quando ha incontrato Merlino per la prima volta, ma suppongo che anche lui sia nato e sia stato un cucciolo, solo che non se ne conoscono i dettagli. Per quanto riguarda Aithusa, invece…».

 
Come aveva sperato, Artù non l’aveva più interrotto. Era stato attento quanto Abigail, Mark, Alex – che li aveva raggiunti quasi a metà – e i genitori di Steve, e Merlino aveva più volte sentito il suo sguardo bruciargli tra le scapole.
Aveva raccontato quasi tutto ciò che era successo davvero: di come Julius Borden, anche grazie all’ingenuità del giovane Merlino, aveva riunito le tre parti del Triskelion, l’antica reliquia necessaria per aprire la tomba di Ashkanar in cui era custodito l’uovo di drago; del lungo tragitto che Artù, i Cavalieri e Merlino avevano dovuto percorrere prima di trovarsi di fronte all’imponente torre contenente il mausoleo, affrontando zuppe troppo salate o avvelenate ed ingannevoli tracce di cervi; dell’incontro di Merlino con i druidi, i quali lo avevano avvisato dei pericoli della tomba, e di come Artù avesse salvato lui e l’uovo, mettendo fuori gioco Julius e portando fuori il suo servitore prima che la torre si sgretolasse su di loro.
Come d’abitudine aveva modificato il finale, dipingendo Artù come il re buono e compassionevole che in quel caso non era riuscito a distruggere l’uovo di quella creatura ancora innocente e che aveva deciso di affidarlo a Merlino perché lo tenesse al sicuro, e il giovane stregone come il solito imbranato e disubbidiente che, ricordando la promessa fatta al Grande Drago Kilgharrah, aveva fatto nascere di nascosto il cucciolo di drago bianco – segno di prosperità per Albione.
Tutto sommato poteva affermare che era riuscito a trovare il giusto lieto fine per la favola di Steve.
Merlino era certo che il re gli avrebbe posto mille domande una volta fuori da quella stanza, ma per una volta non ne era preoccupato: ciò che aveva fatto per quel piccolo drago lo avrebbe rifatto ancora e ancora, senza pentirsene mai. E mai si sarebbe perdonato per averlo perso di vista, permettendogli così di avvicinarsi a Morgana e di subire le atrocità che l’avevano reso triste e malato.
Steve si era addormentato, sfinito, ma gli angoli delle sue labbra erano sollevati come se avesse sentito tutta la storia, sognandola magari. Merlino gli accarezzò dolcemente la fronte e scambiando uno sguardo con Alex si alzò, dirigendosi subito verso Abigail e Mark.
«Sarà meglio lasciarlo un po’ solo adesso, torneremo più tardi».
Quindi gettò un’occhiata anche ai suoi genitori, i quali gli chiesero di rimanere. Non appena Artù e i due ragazzini furono fuori dalla stanza, Paige si aggrappò ancora una volta alle sue spalle, riprendendo a piangere.
«Una storia bellissima, grazie».
«È stato un piacere», mormorò in risposta, riuscendo a percepire il suo dolore nelle dita che stringevano forte la sua felpa, nella sua schiena che tremava sotto le proprie mani.
In corridoio, incontrò subito lo sguardo serio e penetrante di Artù, ereditato senza ombra di dubbio da suo padre Uther. Accanto a lui, Mark e Abigail fecero a gara per raggiungerlo per primi, sommergendolo di domande.
Mark: «Perché Merlino l’ha lasciato libero? Avrebbe potuto crescerlo e addestrarlo per i combattimenti aerei!».
Abigail: «Kilgharrah pensava di essere l’ultimo drago rimasto, possibile che nonostante tutte le sue capacità non sia mai riuscito a recuperarlo?».
Mark: «Mi spieghi come mai Merlino ha scelto un nome così strano? Nessy non andava bene?».
Abigail: «Ma come ha fatto Aithusa a diventare compagna di Morgana? Che cos’è successo?».
Ad un tratto Merlino posò gli indici sulle loro labbra, azzittendoli, e sospirò sollevato. Poi abbozzò un sorriso, dicendo: «Risponderò a tutte le vostre domande, prometto, ma non oggi. Ora andate».
I due ragazzini, visibilmente delusi, fecero dietro-front e si allontanarono lungo il corridoio, scambiandosi ancora dubbi ed opinioni ed eccitandosi al pensiero di essere stati gli unici del loro gruppo, insieme a Steve, ad aver ascoltato una nuova storia di Merlino.
«Perché non l’hai mai raccontata prima?», gli domandò Alex, attirando la sua attenzione.
Merlino scrollò le spalle. «Non pensavo avrebbe avuto tanto successo».
«Beh, per quanto mi riguarda, è la mia preferita. Dopo quella in cui Artù si è ritrovato con le orecchie d’asino, ovviamente».
Lo stregone e Alex si scambiarono un’occhiata complice, mentre Artù incrociava le braccia al petto, oltraggiato.
«Sono solo storie», bofonchiò.
«Giusto», concordò l’infermiera, guardando Merlino intensamente negli occhi. «Immagino le risate di tutti, se fosse successo veramente!».
Il mago si sentì percorso da un brivido di freddo – la sensazione che ormai Alex sapesse – tanto paralizzante che non riuscì ad interrompere il contatto visivo. Solo quando gli passò accanto per superarlo si sentì libero da quella stretta micidiale.
«Vado a vedere se la dottoressa ha di nuovo bisogno di me, ci vediamo dopo».
«Ciao Alex», la salutò Artù, per poi afferrarlo per il braccio e trascinarlo nel bagno lì accanto, dove lo trucidò nuovamente con lo sguardo alla Uther Pendragon.
«Siete arrabbiato perché ho schiuso l’uovo di drago e vi ho mentito e l’ho fatto moltissime volte, lo so. So anche che volete sapere cosa significhi esattamente “moltissime”, ma non credo che ora ques–».
«No», lo interruppe Artù, sollevando una mano.
Lo stregone corrugò la fronte e deglutì. «No?».
«No, Merlino. Voglio sapere se hai modificato tutte le tue storie a mio favore, facendomi fare sempre la parte del giusto, rendendomi meglio di ciò che sono, e perché».
Si scambiarono uno sguardo intenso, lungo svariati secondi, e alla fine Merlino sospirò e sorridendo mesto rispose: «Sì, ho cambiato tutte le mie storie».
«Perché?».
«Perché non volevo dare un’idea sbagliata ai bambini. Io non sono un eroe, non lo sono mai stato».
Artù chinò il capo, rimasto all’improvviso a corto di parole, e quando finalmente le trovò le pronunciò a bassa voce: «Hai cambiato tutte le tue storie eccetto quella delle orecchie d’asino».
«Quella fa ridere sempre tutti», si giustificò Merlino, prima che Artù provasse a tirargli un calcio nel sedere.

 

***

 

Alex non era pronta, se doveva essere totalmente sincera con se stessa, ma continuare a rimandare era inutile. Inoltre, odiava avere questioni in sospeso.
Seduta al piccolo tavolino nella stanza relax degli infermieri, tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrisse un breve SMS a Merlino perché la raggiungesse. Trascorse quasi cinque minuti cercando di non pensare a niente, senza prepararsi alcun discorso, e dicendosi che qualsiasi cosa Merlino avesse detto avrebbe reagito da adulta, uscendo da quella stanza tutta intera o almeno come vi era entrata.
Quando sentì due veloci colpi alla porta, sobbalzò leggermente e levò di scatto lo sguardo per incrociare il suo.
«Artù ti ha concesso cinque minuti?», gli chiese, sogghignando.
«Sì, ha detto che sarebbe andato alla sala comune. Tu sei in pausa?».
Alex sospirò, passandosi una mano tra i capelli sciolti. «Una cosa del genere. Vieni, siediti».
Merlino la raggiunse al tavolo e si sedette accanto a lei, facendola sentire in imbarazzo come nessun’altro ne era in grado.
Per rompere il ghiaccio e al contempo cercare di andare subito al sodo 
prima che la chiamassero e dovessero rimandare per l’ennesima volta – disse: «Volevi parlarmi?».
«Sì, io…». Merlino esitò, mordendosi il labbro inferiore con fare così incurante da non rendersi nemmeno conto di quanto in realtà fosse sexy. «Ho incontrato Cathleen, prima».
Alex aggrottò la fronte. Questo proprio non se l’aspettava. «La conosci?».
«Non c’è nessuno che non la conosca, visto che, beh, non c’è nessuno con cui non ci abbia provato almeno una volta. Mi ha chiesto se avesse qualche possibilità con te».
«Con me nel senso… Oh, capperi».
Merlino rise, per poi rassicurarla: «Le ho risposto che non è il tuo tipo, perciò dovresti essere a posto».
«Oddio, ci mancava solo lei», esclamò, sorridendo nervosamente e lasciando gli occhiali sul tavolo per iniziare a girarsi una ciocca di capelli tra le dita.
«Perché, hai qualche altro pretendente?».
Alex sentì all’improvviso la gola arsa, ripensando alle avances di Keith, e pensò che magari Merlino aveva sentito qualche rumor in proposito. In quel caso, se davvero era intenzionato a capire se il suo ex fosse tornato alla carica, c’era solo un perché. Poteva essere solo curioso, o preoccupato per lei, ma il suo cuore batteva forte sperando che in realtà fosse geloso.
Quindi si fece coraggio e sorridendo rispose: «Già, con tutto quello che è successo mi è passato di mente. Keith mi ha chiesto di bere una cosa con lui, ma non accadrà mai».
«Ah, lo spero proprio! Dopo quello che ti ha fatto, ha avuto proprio una bella faccia tosta. Piuttosto che vederti di nuovo con lui, ti darei la mia benedizione persino con Artù».
«Artù?!», urlò, gli occhi sgranati per l’incredulità. «Ma come ti è venuto in mente? Finiremmo per ucciderci a vicenda!».
«Questo è vero. Comunque meglio morta che con Keith».
Alex accennò un sorriso, venato d’amarezza perché Merlino non si era nemmeno azzardato a proporsi come suo pretendente. Forse doveva accettare il fatto che la considerasse solo un’amica, la sua migliore amica, e volesse soltanto il suo bene, ma ogni volta che ci provava le tornava alla mente il bacio che le aveva dato nel bagno della caffetteria della signora Begum.

A proposito della signora Begum… «Okay, basta parlare di ex e assurdi spasimanti. Spiegami perché ti sei licenziato così, di punto in bianco».
«Non è stata una decisione presa a cuor leggero», ammise Merlino, guardandosi le mani unite sopra la superficie del tavolino. «Nonostante il caratteraccio della signora Begum, mi piaceva la caffetteria. E anche lei mi è sembrata dispiaciuta, in fondo in fondo. Molto in fondo. Ma non potevo lasciare Artù da solo, non dopo essere stati separati per così tanto tempo. Così le ho telefonato e le ho spiegato la situazione. Nei prossimi giorni andrò alla caffetteria per ufficializzare la cosa».
Ancora una volta, Alex fu colpita dall’affetto che Merlino nutriva per Artù. Aveva come la sensazione che si sarebbe gettato nelle fiamme per lui, e che avrebbe volontariamente sacrificato la propria vita in cambio della sua.
«Ho capito. Ne parlerò con mio padre, ma penso che non ci saranno problemi».
«Grazie, Alex. Per lui è importante rendersi utile, mettersi al servizio dei più deboli ed indifesi…».
«Ah, i bambini con cui avrà a che fare non sono né deboli né indifesi, questo te lo posso garantire. È probabile che dopo un paio di settimane avrà già perso tutto l’entusiasmo».
«Estremamente probabile, ma finché sarà felice lo sarò anch’io».
Si scambiarono un’occhiata, sorridendo, ma quando il silenzio divenne troppo pesante entrambi guardarono la superficie del tavolino, luogo di lunghissime e tesissime partite a carte durante le notti più tranquille.
Ad un tratto Alex ne ebbe abbastanza e ripescando il suo coraggio disse: «Tutto qui? Mi sembrava che mi dovessi dire qualcosa di più importante, prima».
«In realtà…». Merlino sospirò ed abbandonò la schiena contro lo schienale, come se il peso di tutte le parole non dette tra loro fosse diventato alla fine troppo gravoso per poterlo sorreggere. «Non abbiamo più avuto modo di parlare di quello che ha detto Artù e di quello che è successo alla caffetteria».
«Sì, hai ragione. Credo sia tempo».
Alex respirò piano, ma profondamente, e ad occhi socchiusi si preparò ad aprire come a chiudere completamente il proprio cuore.
«Credo che Artù abbia frainteso i miei sentimenti nei tuoi confronti, Alex. Gli ho parlato molto di te, ma non ho mai specificato che il mio amore per te è come quello che prova un fratello per la propria sorella. Sei la mia migliore amica, al pari di Artù sei ciò che di più importante e bello ci sia nella mia vita, e non voglio perderti per nessun motivo. E lo so che ti faccio soffrire e che a volte mi comporto come uno stupido, mi dispiace davvero tanto».
«Se tutto quello che hai detto è vero», balbettò Alex, sentendo le lacrime affluirle agli occhi inarrestabili, a dispetto della reazione da adulta che si era ripromessa di avere. «Se è vero, allora che significato ha quel bacio?».
«Suppongo volessi… provare. Mi sei sempre piaciuta, Alex, ma fino ad allora non sapevo con chiarezza in che modo. Ora lo so, ora mi rendo conto che diamo il nostro meglio come amici».
«Quindi il problema sono io? Cos’è, bacio male per caso?».
Iniziava a sentire la rabbia bruciarle nelle vene, una rabbia insensata eppure dolorosa quanto la delusione e la tristezza che quelle parole le avevano piantato nel cuore.
«No, certo che no», rispose Merlino, tranquillo come non l’aveva mai visto e con gli occhi azzurri così dolci e saggi da farle venire i brividi. «Al contrario, il problema sono proprio io. Tu meriti il meglio, Alex, e io non sono abbastanza per te».
Alex non ne poteva più delle sue frasi fatte, delle sue bugie e delle sue stronzate. Stava per urlargli contro, furiosa e dilaniata, quando si ricordò – appena in tempo – che aveva un’ultima occasione per dimostrarsi matura. Si alzò in modo composto e dall’alto incrociò il suo sguardo, cercando di dimostrarsi fiera e per nulla ferita, aprendo completamente il cuore anziché chiuderlo come la spingeva a fare la sua ragione resa cieca dal dolore.
«Sì, forse è vero che tu non sei abbastanza: non sei abbastanza bello, non sei abbastanza bravo negli sport, non credi abbastanza in te stesso, ma non puoi dire che non sei abbastanza per me perché non sei abbastanza onnisciente per farlo. A volte mi chiedo perché mi sia affezionata in questo modo a te, mi chiedo perché il colpo di fulmine non mi sia capitato con qualcun altro, uno qualsiasi, e vorrei far finta che tu non sia così importante, ma la verità è che è tutto inutile». Tirò su col naso, rumorosamente. Le lacrime alla fine abbatterono ogni sua barriera, scorrendole lungo le guance, e si sentì così piccola e stupida che pensò che non avrebbe mai potuto dimostrarsi adulta e matura perché dopotutto non lo era: ragionava col cuore, più che con la testa, e non è così che avrebbero dovuto comportarsi gli adulti. Merlino era un adulto, nonostante la faccia da ragazzino, così impassibile di fronte alla sua dichiarazione d’amore. O forse no.
Immobile, senza più le forze per scappare o reagire in qualsiasi modo, lo guardò alzarsi e andarle incontro. Le posò le mani sulle guance e le passò i pollici sotto gli occhi, spazzando via lacrime e mascara nero, poi la strinse forte a sé, puntando il mento sopra la sua testa.
«Non andrà a finire bene», sussurrò e Alex rischiò di non sentirlo, col viso premuto contro il suo petto magro e il cuore che le rimbombava nelle orecchie. «Prendi il libro più triste che tu abbia mai letto, uniscilo al film più triste che tu abbia mai visto e eleva tutto alla seconda».
Dato che i libri e i film tristi erano il suo pane quotidiano, non fu affatto difficile per Alex capire quanto quella situazione agli occhi di Merlino sembrasse tragica.
«È così tanto sbagliato volerti bene?», gli chiese, ormai senza più vergogna.
«Fallo, più forte che puoi, ma fallo lontano da me».
Il cuore le si fermò, letteralmente, per diversi secondi. Poi Alex scostò il viso quanto bastava per incrociare i suoi occhi, ora specchio della sua anima spezzata.
«Tutti quelli che amavo sono morti», confessò Merlino, guardando il soffitto forse per non piangere. «Non voglio aggiungere il tuo nome alla lista».
«Fottiti, Merlino. Sono troppo giovane e simpatica per morire».
Il moro abbassò finalmente gli occhi, spalancati per la sua risposta. Troppo audace e sfrontata? Troppo ironica in un momento così carico di sentimentalismo? Se c’era una cosa di cui Alex non aveva paura era proprio la morte, perciò sì, che si fottesse pure l’angelo con la falce.
«Che c’è?», gli chiese, stirando persino un sorriso.
«È per caso una delle tue citazioni che io non colgo?».
Solo in quel momento Alex pensò a Dean Winchester alle prese con la Morte, e dovette ammettere che probabilmente gli sceneggiatori di Supernatural l’avevano un po’ traviata.
«Sono piuttosto sicura non abbiano usato le stesse parole, ma in ogni caso non è stato volontario».
Merlino sorrise a sua volta, tenendola ancora tra le braccia. «Il mondo senza di te sarebbe un posto freddo e meno nerd».
La rabbia e il dolore erano improvvisamente scomparsi e Alex aveva come il sospetto che fosse perché Merlino si era mostrato finalmente per ciò che era: un ragazzo spaventato, spaventato dai suoi stessi segreti, dai fantasmi del suo passato. E a questo punto non le importava più come, tutto ciò che voleva era stargli vicino. Come fidanzata sarebbe stato meglio, ma…
«Cosa proponi di fare?», gli chiese, percorrendo con le mani le sue braccia e percependo il brivido che scosse il mago come se fosse proprio. Lo guardò in viso leggendovi desiderio e vergogna legato ad esso e lei stessa, per aiutarlo a tornare in sé, si scostò sciogliendo l’abbraccio.
Merlino tornò a respirare regolarmente e guardò altrove, forse troppo imbarazzato e preoccupato che potesse penetrare di nuovo nei suoi illeciti pensieri.
«Vorrei che non ne parlassimo più, che ci comportassimo come se non fosse mai successo niente in quel bagno».
Alex avrebbe conservato gelosamente quel ricordo, non l’avrebbe mai abbandonato, ma per farlo contento annuì. «Va bene».
«Va bene?», ripeté, sospettoso.
«Vuoi che firmi un accordo col sangue?».
Merlino negò col capo, mordendosi un sorriso. «Grazie, Alex».
L’infermiera sbuffò. «Okay, siamo stati fin troppo melensi, finiamola qui».
«Peccato, iniziava a piacermi l’Alex Piagnucolona Bisognosa d’Affetto».
Stava per tirargli un pugno sul braccio, senza trattenersi quella volta, quando Paige, accompagnata da una delle colleghe di Alex, bussò alla porta e sorrise incrociando lo sguardo di Merlino.
«Eccoti qui, finalmente. Posso rubartelo per un attimo?».
«Tutto tuo», esclamò Alex sorridendo, lasciandoli soli.
Merlino aveva detto che Artù sarebbe andato alla sala comune e decise di raggiungerlo. Mentre camminava lungo i corridoi, facendo del proprio meglio per celare i segni delle lacrime e mandando via il timore di essersi messa a nudo un po’ troppo, dimostrandosi così vulnerabile, ripensò a quello che Merlino le aveva detto.
Ci aveva provato, aveva fatto un ultimo tentativo prima di cedere, dicendo che ciò che provava per lei era solo amore fraterno. Era l’ennesima balla, ne era sicura, ma non era più arrabbiata con lui: c’era un motivo se continuava a comportarsi in quel modo, a non voler legami affettivi troppo forti, ed iniziava ad intuire quale fosse. Aveva detto che tutte le persone che amava erano morte e nonostante Merlino pensasse chiaramente che la colpa fosse sua, Alex non gli avrebbe mai permesso di credere che anche lei avrebbe fatto quella fine. Non ora che finalmente si stava avvicinando alla verità, sempre più chiara di fronte ai suoi occhi.
Trovò Artù proprio nella sala comune. Aveva portato una seggiola per bambini di fronte ad una delle pareti e fissava il muro con aria assente, la mente lontanissima nel tempo e nello spazio. Assorto com’era nei suoi ricordi, non si accorse nemmeno di Alex alle sue spalle, anche lei con gli occhi fissi su quei due famosissimi personaggi Disney.
Guardando l’immagine di quel Merlino vecchio, con la barba bianca lunghissima, il vestito blu e il cappello a punta, si chiese se al vero Merlino piacesse quella versione di sé o se si fosse mai sentito offeso. Si domandò inoltre cosa ci fosse di vero nei miti e nelle leggende riguardanti Camelot, Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda, rabbrividendo al solo pensiero che forse, un giorno, avrebbe potuto parlarne apertamente con i diretti interessati, coloro che avevano vissuto quell’epoca e chissà come e chissà  perché erano tornati nel Ventunesimo secolo.
«A che pensi?», gli domandò finalmente. 
Artù trasalì e si voltò di scatto, guardandola con un pizzico di irritazione nello sguardo.
«Da quanto tempo sei qui?».
«Un po’. Allora, c’è qualcosa che vuoi chiedermi?».
La fronte di Artù si increspò di rughe di sospetto e Alex trattenne un sorriso compiaciuto. Chissà  per quanto tempo avrebbero continuato a mentirle per tenere nascosto il loro segreto, chissà le loro facce quando si sarebbero resi conto che aveva già capito tutto quanto!
«Hai mai visto questo cartone animato?», gli chiese, inginocchiandosi al suo fianco ed indicando col capo le figure dipinte sulla parete. Artù si limitò negare, mordendosi le labbra.
«Te lo farò vedere, allora. Ci dovrebbe essere la cassetta, qui da qualche parte. Ma li hai riconosciuti, no? Sono famosissimi!».
«Ho riconosciuto quella», disse, indicando la spada conficcata nella roccia.
«La magica Excalibur, uh?».
Artù aprì la bocca, ma i suoi occhi si velarono ancora una volta, lasciando in sospeso qualsiasi cosa avesse voluto dire.
Alex gli circondò le spalle con un braccio e gli sorrise, posando una tempia contro la sua. «Questo cartone l’ho guardato un sacco di volte, quand’ero piccola. Penso fosse uno dei miei preferiti, dopo Hercules e Anastasia. Era bello poter credere che anche un ragazzino orfano e mingherlino, senza particolari doti né sangue blu, potesse diventare tanto importante».
Artù la guardò negli occhi per quella che sembrò un’infinità, poi si voltò di nuovo verso la parete e mormorò: «Non è andata così».
«Probabilmente, ma tutti hanno bisogno di sperare in qualcosa».
«E tu che in che cosa speri?».
Alex scrollò le spalle, facendo una pernacchia sospirando. «In una cura per il cancro? Non lo so. Io so solo di essere fortunata: sto bene, ho un lavoro che mi piace, un tetto sulla testa, mio padre e dei buoni amici. Un po’ strani, sì, ma buoni». Sorrise, scorgendo con la coda dell’occhio l’espressione stupita, quasi imbarazzata, di Artù. Aveva capito che stava parlando di lui e Merlino. «Spero che tutto questo non cambi mai, ecco. Tu, c’è qualcosa in particolare in cui speri?».
Artù chinò il capo fino a prenderselo tra le mani, le spalle scosse da un lieve tremore che fece sobbalzare Alex. Artù era stato travolto dall’emozione e se lo conosceva bene – e sentiva che era così – sapeva che non avrebbe voluto la sua compassione né pacche sulle spalle, ma solo solitudine. Ciononostante non riuscì a lasciarlo lì, seduto su quella sedia troppo piccola e con il suo piccolo sosia dipinto sul muro.
«Vuoi sapere davvero che cosa spero?», le chiese con un fil di voce, in cui c’era sia risentimento che dolore.
Alex deglutì e lasciò che le ginocchia toccassero il pavimento, così che potesse strisciarle fino a trovarsi di fronte a lui. Gli posò le mani tra i capelli biondi, rendendosi conto in una frazione di secondo che erano biondi tali e quali ai suoi, e li accarezzò piano, incerta.
«Prometto che questa volta non ti prenderò in giro», disse, nel vano tentativo di stemperare la tensione.
Artù sollevò la testa e i suoi occhi, blu come il mare e lucidi di lacrime, fissarono i suoi con tanta intensità che Alex ebbe voglia di piangere ancora, solo per tenergli compagnia e dirgli: «Vedi, non sei solo». Si sentiva così vicina a lui certe volte, così complice e simile a lui, e davvero non se ne capacitava. Era un sentimento che la lasciava stordita, ammutolita. Come poteva essersi affezionata a quell’imbecille in così poco tempo, sentendosi così responsabile per lui e allo stesso tempo così inadeguata al suo fianco, come se non fosse alla sua altezza?
«Ogni mattina spero di svegliarmi e di essere a casa, con la mia famiglia. Spero che tutto questo sia solo un brutto sogno».
Alex non l’aveva mai visto così fragile, pronto a rompersi in mille pezzi davanti a lei, e ricordò che giusto poco prima aveva visto la stessa fragilità negli occhi di Merlino. Che quella fosse anche la speranza di Merlino? Quanto avevano dovuto perdere e soffrire prima di ritrovarsi, cambiati dalla sofferenza e dal mondo che, nonostante tutto, aveva continuato a girare incurante?
All’improvviso ricordò la battuta che aveva fatto qualche giorno prima, di ritorno dall’agriturismo della famiglia Morris: «Ah già, dimenticavo… Il tuo cuore apparterrà a Ginevra per l’eternità». Solo ora si rendeva perfettamente conto di aver aperto una ferita con quella stupida presa in giro.
Alex non ci pensò su troppo, sicura che se l’avesse fatto non ne avrebbe più avuto il coraggio, e gli gettò le braccia al collo. Lo sentì irrigidirsi e poi, lentamente, rilassare le spalle e abbandonarsi contro di lei, la fronte contro la sua spalla sinistra. Le sue braccia forti la circondarono con delicatezza, come per paura di farle male oppure perché erano secoli che non abbracciava qualcuno, e Alex sentì un piacevole calore lambirle il cuore, facendola sentire al posto giusto, sicura e protetta come si sentiva da piccola tra le braccia di suo padre.
«Quando mia madre è morta, anche io speravo sempre di svegliarmi e di trovarla in cucina, intenta a prepararmi la colazione. Ad un certo punto però mi sono ricordata che quando facevo un incubo e andavo a rannicchiarmi al suo fianco, da bambina, mi diceva che spetta a noi trasformare gli incubi in bei sogni. Mi diceva di chiudere gli occhi, di rientrare nell’incubo e di affrontare qualsiasi cosa mi facesse paura, in modo che non tornasse più a disturbarmi. Avevo paura di non farcela senza di lei, di essere un totale fallimento, così mi sono impegnata al massimo per raggiungere i miei obiettivi e lo sto tutt’ora facendo, giorno dopo giorno. Sto cercando di trasformare l’incubo in un bel sogno e spero che sia fiera di me, ovunque lei sia. Credo che dovresti farlo anche tu».
Artù la guardò negli occhi e ancora una volta Alex provò quella sensazione di familiarità che le risultava così strana. Le sembrava di conoscerlo da una vita, di amarlo e di odiarlo da un’eternità, tanto da chiedersi se la pazzia non la stesse soggiogando del tutto.
«Alexandra Greenwood», pronunciò il suo nome in tono quasi solenne, facendola sussultare. «Merlino aveva ragione: sei davvero una ragazza di buon cuore».
«Ah sì? Lo sai che si dice delle persone di buon cuore?».
Artù si accigliò. «No. Che cosa?».
«Che pur di rendere felici gli altri sacrificano tutto e ottengono ben poco in cambio. E che sono bersagli facili per chi il cuore non ce l’ha e raramente c’è un lieto fine ad attenderli».
«Sono d’accordo», mormorò Artù, guardando l’immagine di quel Merlino vecchio e un po’ pazzo dipinta sul muro.
«Artù!», gridò il loro Merlino, venendo subito fulminato dalle infermiere che erano di turno in sala comune.
Lui ed Alex si scambiarono un’occhiata, sorridendo sghembi, e guardarono il moro raggiungerli di corsa, chiedendo silenziosamente scusa con le mani unite a mo’ di preghiera.
«Che cos’è successo?», domandò Artù, alzandosi in piedi.
«Si tratta di Steve», spiegò, col fiato corto.
Anche Alex allora si sollevò, preoccupata. «È ancora stabile, vero?».
«Sì, ma sua madre… Paige mi ha chiesto un favore e solo Artù può farlo».
«Fare che cosa? Merlino, spiegati!».
Il moro prese un respiro profondo e tutto d’un fiato disse: «Steve ha chiesto di diventare un Cavaliere della Tavola Rotonda».
Artù sgranò gli occhi e Alex rimase a bocca aperta.

 

***

 

«Lo so che è assurdo, ma da quello che ho potuto capire Steve ha sempre preso molto sul serio le tue storie. Crede persino che il tuo amico sia davvero Re Artù… Incredibile, vero? La dottoressa però ci ha appena detto che queste potrebbero essere le sue ultime ore di veglia, poi il dolore sarà così intenso che dovranno somministrargli un quantitativo di farmaci che gli impediranno di restare sveglio e…».
A quel punto la madre di Steve era scoppiata in lacrime, sorretta dal corpo di suo marito, e Merlino le aveva preso le mani tra le sue, promettendole che in un modo o nell’altro avrebbero esaudito l’ultimo desiderio di Steve: l’avrebbero reso un Cavaliere di Camelot.
Mentre raccontava tutto questo ai due amici, non riusciva a togliersi dalla testa ciò che aveva visto non appena si era affacciato alla sala comune: Alex inginocchiata davanti ad Artù, i loro visi più vicini del necessario e i loro sguardi incatenati, come se avessero appena condiviso qualcosa di unico ed irripetibile, in grado di legarli con un filo invisibile ed indistruttibile.
Quando aveva parlato con Alex e aveva fatto quell’uscita su Artù aveva capito che almeno da parte sua non c’era alcun interesse verso di lui, ma la gelosia di fronte a quella scena l’aveva colpito come una freccia avvelenata, facendogli pensare che se Artù era davvero interessato a lei avrebbe fatto di tutto per averla e ce l’avrebbe fatta, come era successo con Ginevra. Poi la ragione era tornata a prevalere nel suo cervello, facendogli realizzare che Artù non si sarebbe mai permesso di mettersi tra lei e Merlino, non sapendo quanto in realtà il mago fosse affezionato a lei. Più di una volta l’aveva spronato ad avvicinarsi ad Alex, ma nell’ultimo periodo, specialmente poco tempo prima, di fronte ad Abigail, gli aveva dato modo di pensare che fosse particolarmente attento a tutto ciò che la riguardava. Un po’ troppo per i suoi gusti, iniziando a risultare persino sospetto ai suoi occhi.
Il re lo prese per il braccio e bruscamente lo allontanò da Alex, parlandogli piano e allo stesso tempo in tono concitato all’orecchio: «Ti rendi conto che un’investitura è una cosa seria, Merlino?».
«E l’ultimo desiderio di un bambino non lo è?», rispose, fulminandolo con lo sguardo.
Artù boccheggiò per un istante, poi respirò profondamente facendo sibilare l’aria tra i denti. «Anche se fossi disposto a farlo, non ho gli abiti adatti né tantomeno la mia spada!».
«Di questo me ne occuperò io», esclamò con un sorriso a trentadue denti. «Allora, lo farete?».
Il re fu costretto a cedere, dondolando il capo su e giù senza molta convinzione. Merlino provò ad abbracciarlo, senza ovviamente riuscirci, quindi lo spinse fuori dalla sala comune: «Voi ed Alex iniziate ad andare, io vi raggiungo tra poco con tutto il necessario».
Si voltò e rischiò di sbattere proprio contro l’infermiera. Le sorrise imbarazzato, sentendosi non proprio a suo agio dopo le loro confessioni, ma fu sollevato nel notare che lei si sentiva proprio come lui. Non a caso abbassò gli occhi e si spostò senza dire nulla, seguendo Artù lungo il corridoio.
 

***

 

Artù non avrebbe mai immaginato che Alex potesse essere così di conforto, soprattutto tenendo conto che erano lontani parenti e lui non era mai stato bravo in questo. Poteva incitare milioni di soldati a lottare per Camelot, convincerli che morire sarebbe stato un grande onore, ma dopo, a battaglia finita, vinta o persa, non era mai riuscito a guardare le famiglie di quei soldati che per lui, per il suo regno, avevano dato la vita. Non avrebbe retto di fronte al loro dolore, così come pensava che non avrebbe retto di fronte ai genitori di Steve se si fosse prestato a fare quella pazzia.
Un tempo l’investitura era una delle cerimonie più sacre e lui stesso, quando aveva nominato Cavalieri diversi uomini che non avevano tutti i requisiti necessari ad esserlo – la nobiltà, in particolare – si era sentito vagamente in colpa. Col tempo aveva capito di aver fatto la scelta giusta, perché quegli stessi uomini si erano mostrati i più valorosi, coraggiosi e – caratteristica più importante – nobili di cuore che Camelot avesse mai avuto.
Ora, davanti a quel bambino che presto li avrebbe lasciati e che in qualche modo chiedeva di sentirsi importante, Artù pensava che non ce l’avrebbe fatta. Mentire di fronte al dolore era una specialità di Merlino, ma era consapevole che quella responsabilità toccava a lui e che non poteva tirarsi indietro: se suo figlio, in punto di morte, avesse avuto lo stesso desiderio, non l’avrebbe forse accontentato?
«Andrà bene, vedrai», disse Alex come se avesse seguito per filo e per segno tutti i suoi pensieri. Sorrideva incoraggiante e gli dava lieve pacche sull’avambraccio. «Merlino è un vulcano di idee, quando si mette d’impegno».
Artù avrebbe voluto ridere, perché per un attimo aveva pensato che Alex pensasse che lui fosse all’altezza della situazione, ma ovviamente non era…
«E poi tu hai proprio l’aspetto e il portamento di un re, sarai credibilissimo».
Costretto a rimangiarsi tutto in tempo record, le sorrise gentilmente. «Grazie, Lady Alex».
«Lo vedi? Ti viene naturale!».
Artù chinò il capo, fissandosi le scarpe da ginnastica – quanto gli avrebbero fatto comodo a Camelot! – fino a quando non trovò il coraggio di dire, a bassa voce: «Vale anche per prima. Non eri costretta a starmi a sentire, io… Non sono molto in me, credo».
«Strano», mormorò Alex, stringendosi le braccia al petto con un’espressione corrucciata sul volto. «Perché non mi sei mai sembrato tanto sincero».
«Può darsi che lo fossi, ma tu non eri obbligata a… Mi dispiace molto per tua madre». Finalmente era riuscito a dirlo. Alex si era confidata con lui dopo nemmeno dieci giorni, senza neanche sapere chi fosse veramente, e gli faceva specie pensare che con Merlino le ci erano voluti ben quattro anni. Che il loro legame fosse così forte, come aveva detto Freya?
«E sono sicuro che se fosse qui, sarebbe orgogliosa di te. Sei tutt’altro che un fallimento, credimi».
Quella volta fu Alex a sfuggire al suo sguardo e fu aiutata anche da Merlino, il quale girò l’angolo e corse verso di loro con quella sua andatura un po’ sbilenca, come se ad ogni passo rischiasse di cadere. Con la coda dell’occhio notò Artù sorridere sghembo guardandolo e si chiese se era sempre stato così: il principe bravo con le armi, viziato e sbruffone e il servitore impacciato e pronto a correre di qua e di là per lui, causando un guaio dopo l’altro. Riusciva ad immaginarseli così bene che non si accorse nemmeno che Merlino li aveva ormai raggiunti e le stava parlando.
Solo quando le schioccò le dita ad un palmo dal naso tornò alla realtà. «Che cosa?».
«Bentornata», la salutò con un sorriso divertito. «Pensi di poter recuperare un cuscino?».
Alex corrugò la fronte, non capendo a che cosa mai potesse servirgli un cuscino. Merlino non le diede il tempo di parlare e sventolando una mano aggiunse: «Ti aspettiamo qui».
L’infermiera annuì sistemandosi gli occhiali sul setto nasale e corse allo ripostiglio più vicino, dove trovò una collega intenta a rifornire il proprio carrello con lenzuola e federe pulite. Le rivolse un rapido sorriso ed afferrò un cuscino, poi tornò di corsa da Merlino ed Artù, trepidante ed emozionata come quando al liceo tutto il gruppo di teatro, unanime, aveva votato perché lei avesse la parte da protagonista nella recita di fine anno. Solo che quella volta c’era ben altro in ballo e molto probabilmente nulla di quello che avrebbe visto sarebbe stato pura finzione. A partire dai costumi.
«Fate attenzione, l’ho appena ritirato dalla lavanderia», esclamò Merlino più che preoccupato, mentre Artù finiva di allacciarsi il lungo mantello rosso con il grande drago dorato cucito su un lato.
«Non l’hai lavato tu? Ecco perché è più profumato e morbido del solito».
«Molto divertente», rispose Merlino con una smorfia sul volto. In quel momento si accorse di Alex a qualche metro da loro e il suo volto si illuminò quando vide il cuscino che teneva tra le mani.
«Quello andrà benissimo, grazie!», esclamò, ma Alex non fu in grado né di rispondere né di smettere di guardare Artù, tutt’altra persona – o meglio, veramente se stesso – avvolto in quelle onde di fuoco liquido. Provò ad aggiungergli con la mente l’armatura che gli aveva visto addosso quando l’aveva tirato fuori dal lago e la corona e sentì il proprio cuore saltare un battito.
«Ehm…». Merlino tossicchiò e Alex abbassò gli occhi sul cuscino che teneva ancora stretto tra le mani, tanto forte che il moro non era riuscito a strapparglielo via.
Mollò di scatto la presa e Merlino barcollò all’indietro, ma non cadde.
«Scusa», esclamò Alex portandosi una mano alla bocca, rossa come quel dannato mantello. «Non volevo, io… Quello è lo stesso mantello che indossava quando… sì, beh, al lago. Non è così?».
«Sì, è proprio quello», rispose Merlino con un tono leggermente diffidente, guardando Alex e Artù come se stesse assistendo ad una partita di ping-pong truccata, cercando di intuire chi dei due stesse imbrogliando e perché.
«Stavo pensando che la lavanderia ha fatto proprio un ottimo lavoro», disse, facendo del suo meglio per risultare convincente. «Dove hai detto che sei andato?».
Merlino scosse il capo con convinzione e Alex capì di essersi salvata in corner quando esclamò: «Non è questo il momento», per poi dirigersi verso le poltroncine a muro su cui aveva lasciato una spada giocattolo e una corona gonfiabile, sicuramente sgraffignate di nascosto dalla sala comune.
«Io quella non la metto», affermò con decisione Artù, indicando la corona di plastica.
«Quanto sei difficile», borbottò Merlino, roteando gli occhi.
Quindi posò la spada sul cuscino con fare quasi solenne e lo sollevò, pronto ad entrare nella camera di Steve. Artù però lo fermò stendendo il braccio di fronte al suo petto magro, su cui sbatté senza troppi complimenti, togliendogli per un attimo il fiato. Prese la spada con una mano e la esaminò per diversi, lunghissimi secondi.
«Mi stai prendendo in giro?», gli chiese poi, guardando Merlino quasi con ira. Alex non poteva dargli torto, visto che quella era chiaramente la versione giocattolo di una katana, una spada per samurai giapponesi: a lama curva, sottile e con taglio singolo. Ben diversa da Excalibur o da qualsiasi arma i Cavalieri della Tavola Rotonda avessero mai visto.
«Questa era l’unica che c’era e ce la faremo bastare!», decretò Merlino con tono da non ammettere repliche, guardando Artù negli occhi con così tanta determinazione che questo ebbe la forte tentazione di infilzargli la finta katana in un occhio.
«Andrà alla grande!», urlò Alex saltando all’improvviso in mezzo a loro, con entrambi i pollici alzati e un sorriso teso sulle labbra.

 

***

 

Il tempo si fermò e il silenzio inghiottì ogni suono quando Merlino porse ad Artù il cuscino con sopra la spada. Il re l’afferrò ed incrociò gli occhi azzurri di Steve, seduto sul letto grazie al sostegno di Alex e sua madre.
«Con i poteri a me conferiti da mio padre, io, Artù Pendragon, tuo re, ti nomino Sir Steve, Cavaliere di Camelot», disse con il tono di voce solenne e serio consono alla cerimonia, mentre con lentezza calcolata posava il piatto della spada sulle spalle del piccolo Steve.
Dopo averla restituita a Merlino, si sedette al suo fianco e gli sollevò il mento con delicatezza perché i loro sguardi si fondessero nuovamente. E con una mano posata sul suo capo, tra i suoi capelli biondi, concluse: «Quando combatterai, dovrai farlo con orgoglio, sapendo che ora appartieni al più nobile esercito che il mondo abbia mai conosciuto. E di fronte alla morte non dovrai temere, perché il tuo animo continuerà a vivere nel cuore dei tuoi compagni. Ci darà forza quando non ne avremo abbastanza per rialzarci, ci darà speranza quando tutto sembrerà perduto e sarà la luce che rischiarerà l’ora più buia».
Quindi fece segno ad Alex e a Paige che potevano farlo sdraiare nuovamente. Artù però non si allontanò, anzi: quando finirono di rimboccargli le coperte si slacciò il lungo mantello rosso con lo stemma dei Pendragon e glielo adagiò sopra, posandogli un bacio sulla fronte prima di risollevarsi e rimanere lì al suo fianco ad osservare il sorriso che per l’ultima volta avrebbe illuminato il suo viso dolce ed innocente.
Merlino chinò il capo in segno di rispetto e quando lo rialzò, quasi un minuto dopo, notò che ancora una volta il tempo si era fermato, pietrificando tutte le persone presenti nella stanza: Alex e il padre di Steve, ai lati di una Paige devastata; Artù accanto al lettino del bimbo; la dottoressa in camice bianco che, in un angolo, aveva insistito per vedere il compimento dell’ultimo desiderio di Steve.
Fu solo per caso che Merlino si voltò e vide, oltre il vetro trasparente, Mark, Abigail, Danilo, Jessica, Gabriel, gran parte degli infermieri del reparto e persino Cathleen con un paio di suoi colleghi paramedici. Tutti con le lacrime agli occhi, tutti in lutto, ma anche loro immobili come statue.
Merlino si girò nuovamente verso Steve e il suo stesso sguardo gli sfuggì per posarsi su Alex, la quale lo stava guardando sgomenta, facendogli capire che se solo ne avesse avute le forze si sarebbe allontanata da Paige e si sarebbe gettata tra le sue braccia per scoppiare a piangere come una bambina. Merlino annuì debolmente, segno che aveva capito tutto e che era come se fosse lì, stretto a lei. Alex provò a rivolgergli un minuscolo sorriso, ma non ci riuscì e una lacrima solitaria, lucente come un diamante, le cadde sulla guancia destra.

   
 
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