Capitolo 19
Prigioniera di te
“Aspettava e la sua piccola mente impazzita
d’amore andava alla deriva come una barca senza remi. Fantasie insensate e
verità sconcertanti i flutti che la sbatacchiavano nella nebbia della
sprovvedutezza e contro gli scogli della disperazione”.
Oriana Fallaci
Lucia Bosè
Berlino ovest, 9
novembre 1950
Nadine sedeva
sul letto, con le braccia incrociate sulle ginocchia avvolte dalle coperte e lo
sguardo fisso nel vuoto della solitudine e dell’incertezza. Le dita della mano
sinistra giocherellavano con la fede nuziale e la sua mente andava alla ricerca
di ricordi per ritrovare l’uomo che aveva sposato. Quel Werner che aveva
lasciato, incattivito e sprezzante, non era lo stesso che, commosso e
innamorato, le aveva giurato amore eterno dinanzi a Dio; quel Werner che le
aveva rinfacciato, in modo crudele e mortificante, la sua rinuncia ad essere
biologicamente padre non era lo stesso che, pieno di entusiasmo e trepidazione,
aveva firmato i documenti per l’adozione. La luce del sole che entrava
prepotentemente dalle persiane della finestra la esortava ad alzarsi ma il suo
corpo si rifiutava, schiacciato dal peso della malinconia. Le mancava la sua
casa, il suo letto, il tepore di un corpo che le dormiva accanto, la protezione
di due braccia che la stringevano nelle notti di paura quando gli incubi del
suo passato ritornavano a tormentarla bruciando nelle cicatrici della sua pelle
… le mancava suo marito, i suoi baci, le sue carezze, ciò che lui era sempre
stato prima dell’irreparabile dramma della verità. Nadine amava ancora l’uomo
che aveva sposato, quel marito perfetto e padre esemplare con cui aveva
condiviso gli anni più belli della sua vita, l’uomo dolce, sincero, forte,
sensibile, amorevole che l’aveva salvata e che ogni giorno tentava di
proteggerla dai fantasmi di Ravensbrück e si sentiva legata, imprigionata ad un malinconico
ricordo che altro non era che un crudele inganno di Werner. Quel Werner che lei
continuava ad amare, in realtà, non esisteva e mai era esistito.
“Buongiorno, Nadine!”
esclamò Edith, con in volto un’espressione radiosa e una tazzina fumante tra le
mani “Ti ho portato un buon caffè!” “Sei sempre tanto cara, Edith ma adesso non
ne ho voglia.” rispose Nadine e sospirò tristemente, poggiando il mento sulle
braccia. “Cosa?! Cosa?! Nadine che rifiuta il caffè?! …” la giovane mise la
tazzina sul comodino e continuò con fare scherzoso “… Esci, esci da questo
corpo! Tu non sei la mia cugina! Nadine non rifiuterebbe mai e poi mai un
caffè!” Edith riuscì a strapparle un sorriso che però subito svanì. Anche la
ragazza tornò seria e, sospirando profondamente, sedette sulla sedia accanto a
lei. “Per quanto tempo ancora durerà questa tortura? … È già passato un mese …
Non sei stanca del male che stai facendo a te stessa e a tuo figlio? … Quel
piccolino piange sempre perché gli manca il suo papà.” Nadine non rispose e la
guardò con un’aria di sufficienza che indispettì Edith. “Io invece sono stanca
e non voglio più appoggiarti in questa pazzia!” “Dimmi, dimmi allora cosa
dovrei fare adesso?!” la donna alzò la voce in un atteggiamento auto-difensivo
“Chiudere gli occhi e far finta che non sia successo niente?!” “No, al
contrario … Devi permettere a Werner d’incontrarti e chiarire la vostra
situazione … Fallo almeno per il tuo bambino.” Parlava la giovane Edith con la
maturità e la forza di chi era stata costretta a crescere e diventare donna
prima del tempo, madre di se stessa, suo unico appoggio e riferimento, ma la
sua determinazione non convinse Nadine che ribatté: “Ma non hai ancora capito?!
Per Werner non siamo altro che un peso! L’ha detto lui stesso!” “E tu invece? …
Cos’hai detto nella rabbia? … Non pensi che anche lui abbia sofferto? … Io sono
tua cugina ma in questo caso non posso stare dalla tua parte, mi dispiace!”
Nadine capì di essere sola, sola con il proprio dolore, sola con un cuore
ferito e diviso a metà: da una parte l’amore che, con la sua incoscienza, la
spingeva verso un perdono e dall’altra il rancore che, forte e inflessibile, la
condannava alla tristezza e alla disperazione di una netta separazione. Nessuno
avrebbe potuto aiutarla, consolarla, rialzarla da quel letto bagnato di
lacrime, speranze infrante e certezze svanite. “Io sto dalla parte di Andrej e
non accetto che tu l’abbia separato da suo padre!” aggiunse la ragazza e Nadine
esplose in un pianto convulso. “Rivoglio il mio Werner …” sussurrò tra i
frenetici singhiozzi, aggrappandosi alle spalle di Edith “… Voglio tornare ad
amarlo come una volta … Rivoglio la mia famiglia.” “Sì, Nadine … Ritorna
all’amore … Metti da parte l’orgoglio e dagli un’altra possibilità … Entrambi
avete già sofferto abbastanza nella vita.” affermò la giovane con le lacrime
agli occhi, stringendola in un fortissimo abbraccio. Ma Nadine non frenò il suo
pianto e disse: “No, non ce la faccio … Sono troppo disperata, Edith … Come
devo fare?” “Ferma il ricordo più bello del vostro amore e ricomincia da lì.”
Città di
Fürstenberg/Havel
Lo specchio rifletteva
ciò che era rimasto di lei: il viso pallido e dimagrito di una donna ormai allo
stremo, tormentata da un amore crudele dal quale non riusciva a liberarsi. I
segni del viso rispecchiavano le ferite dell’anima. Era stanca Engel, stanca di
combattere, stanca di soffrire, stanca di essere sempre la seconda scelta di
suo marito ma non riusciva a lasciarlo. Kurt era tornato da lei dopo il rifiuto
di Nadine. Engel amava ancora suo marito, lo aveva sempre amato nonostante
vedesse nei suoi occhi l’ombra di un’altra donna, da lui tanto desiderata e mai
dimenticata e si tormentava domandandosi perché avesse scelto di vivere questa
dolorosa umiliazione. Per Kurt aveva rinunciato alla sua dignità di donna. Da
un mese aveva smesso di parlargli, di dormire insieme a lui, di cedere alle sue
ingannevoli carezze per chiudersi in un silenzio forzato, carico
d’inquietudine. La vita di Engel era stata un susseguirsi di lotte e abbandoni
che aveva sempre affrontato indossando una corazza di forza e coraggio, adesso
scivolata via. Lo specchio rifletteva tutta la sua fragilità di donna, tutte le
sue paure e le sue insicurezze. Engel si sentiva sola, non amata, delusa da un
uomo che avrebbe dovuto essere per lei un rifugio, la realizzazione dei suoi
sogni, il compimento della sua felicità. Ma quanto più Kurt la faceva soffrire,
tanto più Engel non riusciva a separarsi da lui e si ostinava ad amarlo. Lo
specchio rifletteva l’immagine della donna che non avrebbe mai voluto essere,
sottomessa ad un rapporto che le impediva di vivere da sposa desiderata e da
madre serena. E un dubbio iniziava a tormentare la sua mente, ormai troppo
ingarbugliata: continuava ad amare suo marito per amore o soltanto per tenersi
assicurata quella vana sicurezza affettiva che lui poteva offrirle?
Lago
di Schlachtensee, 10 novembre 1950
La strada dei ricordi, lunga cinque anni, l’aveva
condotta sulla riva del lago Schlachtensee, lì dove la sua nuova vita era
cominciata. Nadine si strinse nel suo cappotto rosso e incrociò le braccia per
ripararsi dall’aria fredda e pungente del mattino. Una morsa le attanagliò lo
stomaco, il cuore, la gola mentre i suoi occhi, stanchi e gonfi per l’ennesima
notte trascorsa insonne e in lacrime, si fermarono a guardare un’alta conifera.
Nadine si rivide venticinquenne, seduta all’ombra di quell’albero, tra le
braccia calde e forti di Werner, con il cuore traboccante di gioia e speranze,
di sogni e libertà … con il cuore traboccante d’amore. Quel tempo era ormai
passato e non sarebbe mai più tornato. Le lacrime scivolarono veloci sul suo
viso, poi da dietro due braccia la strinsero e un sussulto uscì dalle sue
labbra.
Eppure c’è stato
un tempo in cui le stelle
si potevano
vedere
un tempo ingenuo
in cui
guardando
l’orizzonte
oltre il nero
della notte
si poteva ancora
sognare
di vedere la
speranza volare
e specchiarsi
nei pozzi e non avere più sete.
Fiorella Mannoia