Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: AlsoSprachVelociraptor    12/06/2015    2 recensioni
!!!*ATTENZIONE!* STORIA RISCRITTA E RIPUBBLICATA SU QUESTO PROFILO. NON LEGGETE QUESTA!! LEGGETE LA NUOVA VERSIONE!! (QUESTA VERSIONE è DATATA ED è QUI SOLO PER RICORDO)
Anno 2016. Shizuka Higashikata, la bambina invisibile, è cresciuta e vive una vita tranquilla con i suoi genitori Josuke e Okuyasu nella cittadina di Morioh, e nulla sembra poter andare storto nella sua monotona e quasi noiosa esistenza. Ma quattro anni dopo la sconfitta di Padre Pucci un nuovo, antico pericolo torna a disturbare la quiete della stirpe dei Joestar e dell'intero mondo, portandoli all'altro capo della Terra, nella sperduta cittadina italiana di La Bassa. Tra vecchie conoscenze e nuovi alleati, toccherà proprio a Shizuka debellare la minaccia che incombe sull'umanità. O almeno così crede.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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La sveglia a casa Higashikata suonava alle 5:00.
Il primo a svegliarsi era, controvoglia, Josuke. Aveva sempre amato dormire ed aveva sempre avuto una grande difficoltà a svegliarsi presto, ma se voleva portare a casa il pane, doveva sacrificarsi e alzarsi quando ancora prima che sorga il sole.
Come tutte le mattine la prima cosa che fece fu bere un caffè, amaro quasi quanto il suo umore appena sveglio. Prese quest’abitudine nel suo soggiorno in America. Da quando tornò a Morioh, e la caffetteria italiana all’angolo fu lontana milioni di chilometri, faceva portare il caffè macinato direttamente dall’Italia grazie agli agganci di Tonio. Gli piaceva berlo con l’atteggiamento di quel personaggio strano della televisione di quasi dieci anni prima, rude e volgare. Nell’appartamento di suo padre negli Stati Uniti riusciva solo a vedere la televisione del Regno Unito, per colpa del vecchio bastardo e la sua nostalgia di casa. Anche definirlo “vecchio bastardo” lo faceva sentire più vicino a quel personaggio, di cui nemmeno ricordava il nome, ma era stato così d’ispirazione per lui.
Dopodiché passava più di un’ora in bagno, a prepararsi per la lunga giornata: creme idratanti, maschere per il viso; infine si tagliava la barba. Gli piaceva comunque lasciarne un lieve strato sul viso, andava di moda e tutto ciò che era alla moda, lui l’aveva. Infine, dopo essersi ingellato i capelli avere creato un bell’effetto finto spettinato con manate e manate di gel, prese i piercing che lasciava ogni notte sul lavabo, due all’orecchio destro e uno sulla lingua. Sorrise ripensando a quando se li fece per la prima volta, una dozzina d’anni prima. Sua madre rimase impietrita e un po’ inquietata, soprattutto da quello sulla lingua. Diceva che gli dava un’aria da poco di buono, assieme al braccio sinistro completamente ricoperto da tatuaggi.
Una volta finita la solita routine di bellezza mattutina, toccava ai vestiti.
Josuke aveva sempre adorato vestirsi bene e alla moda, ma sempre in maniera stravagante, così che non potesse rimanere inosservato. Jeans attillati con un bel risvoltino, converse basse azzurre e rosa, e una t-shirt aderente dai colori sgargianti. Anche quel giorno, all’ospedale, avrebbe fatto un figurone. 
Nel frattempo, durante la routine mattutina di Josuke, anche Okuyasu si destava dal suo non-così-lungo torpore. Verso le 6:00 la sua sveglia suonò come tutte le mattine e si alzò con velocità. Prese al volo gli spessi occhiali da vista e un elastico per legarsi i capelli dal comodino. Si era fatto crescere i capelli, l’aveva fatto principalmente per poter replicare la treccia che portava suo fratello, ma dopo qualche anno la trovò una tradizione inutile nonché dolorosa da ricordare, e dunque ora una semplice coda di cavallo o uno chignon bastavano. E Josuke diceva che gli dava un tocco in più, e Okuyasu si fidava di Josuke ciecamente, con tutto il suo cuore.
Scese in cucina e iniziò a preparare la colazione per sua figlia, che si sarebbe svegliata tra poco, ed un veloce spuntino per suo marito, che presto sarebbe andato a lavoro.
La sveglia di Shizuka era l’ultima a suonare, alle 6:30. Scese pigramente le scale, abbandonandosi sulla sedia in cucina dove suo padre Okuyasu le aveva sistemato la colazione, una bella scodella di latte e cereali. Aveva 17 anni, ma era comunque una bambina per i suoi genitori. E lei adorava quella colazione, dunque non vedeva un motivo per cambiarla. Mangiò con calma, mentre suo padre Josuke camminava avanti e indietro per la cucina, agitato.
-Allora Oku- iniziò Josuke, torturandosi le mani e rigirandosi qualche anello alle sue dita. –io finisco il turno alle due. Vado al supermercato e- e magari prendo qualcosa da bere? Tipo… tipo roba americana? Dici che bevono roba americana? O forse preferiscono il sakè? Potrei prendere quello tipico di Morioh.-
-JoJo, calmati, per favore siediti e non farti venire un esaurimento.-
-Cosa prendo?-
-Appena Shizu va a scuola vado al supermercato e vedrò di prendere qualcosa io-
-E cosa prendi? E se non piace loro? E se vogliono altro?-
-JoJo! Basta!- sbottò alla fine Okuyasu, irritato dal comportamento del marito.
-Berranno quello che prendo e stop! Va’ a lavorare, che sennò arrivi in ritardo- gli disse, dandogli una leggera spinta sulla spalla. Josuke sospirò e annuì, piegandosi un po’ per dare un leggero e veloce bacio di saluto a Okuyasu. Prese una giacca dall’appendiabiti e si chinò sulla sedia di Shizuka, tirandole con forza una guancia. Lei borbottò infastidita e scacciò la sua mano, provocando una grassa risata da parte del padre. Lo odiava quando faceva così. Dunque lo odiava spesso.
Shizuka è un po’ turbata dal fatto che suo padre, che avrebbe presto fatto trentatrè anni il venti giugno, si vestisse come un adolescente. Certo, sempre meglio che la perenne tuta da ginnastica e canottiera vecchia di anni del suo altro padre.
Sospirò, mettendosi la divisa scolastica della scuola superiore Budo-Ga Oka, appositamente modificata dai suoi genitori.
Aveva scritto sulla manica destra il suo nome in kanji (che ancora non riusciva a scrivere a memoria, francamente. Erano nove anni che abitava in Giappone, e ancora non aveva imparato tutta quell’alfabeto troppo complicato per lei), e qualche spilla qua e là che era appartenuta ai suoi genitori quando ancora andavano a quella scuola.
Salutò suo padre ed uscì di casa, andando alla fermata dell’autobus che l’avrebbe portata a scuola per un’altra noiosa lezione.
Quella giornata sarebbe stata lunga e dura, e Shizuka se lo sentiva. Tutti, nella famiglia Higashikata, sapevano che quel giorno qualcosa sarebbe radicalmente cambiato nelle loro vite.
 
Josuke camminava velocemente per i corridoi dell’ospedale, schivando i pazienti, le infermiere e i colleghi che vagavano con frenesia da una sala all’altra. La cosa più divertente era poter osservare tutti dall’alto in basso, in tutti i sensi del termine.
Era il più giovane dottore ad essere diventato primario di un reparto importante come quello di traumatologia, l’unico ad aver frequentato la Harvard Medical School ed esserne uscito con 30 e lode e, soprattutto, l’unico in tutto l’ospedale a superare il metro e settantacinque. Non era raro che lo scambiassero per uno straniero, con quei tratti fortemente occidentali, la pelle bianca, l’altezza inconcepibile per gli standard asiatici, capelli castani e occhi azzurri tipicamente europei. Non lo sopportava, in effetti, essere trattato così, essere chiamato hafu, essere schernito e anche temuto. Non gli piaceva affatto essere accostato a quel padre che veniva da lontano e che non conobbe fino all’adolescenza. Vecchio bastardo.
E, ora, tutta quella famiglia di sconosciuti era venuta a portare notizie. E lui non era pronto.
Si fermò davanti allo studio di psicoanalisi e bussò qualche volta, per poi aprire la porta. –Ehi Koichi- lo chiamò Josuke, sporgendo e abbassandosi lievemente per non rovinare la curatissima capigliatura e per non sbattere la fronte contro lo stipite, come purtroppo spesso succedeva.
L’uomo dentro la sala, seduto alla sua scrivania sobbalzò.
-Josuke! Non ti avevo sentito. Entra pure! C’è qualcosa che devi dirmi?-
Koichi era cresciuto a sua volta, se così si poteva dire. Ormai superava il metro e settanta, anche se non arrivava al metro e settantacinque di sua moglie Yukako.
Era comunque un uomo, elegante e dai tratti ancora leggermente infantili, grandi occhi azzurro scuro e i suoi soliti, stravaganti capelli biondo cenere tagliati il più corto possibile, tutti sparati all’insù. Non che contasse molto, data la velocità con cui i suoi capelli ormai crescevano da quell’estate del 1999.
Entrò nello studio, chiudendosi piano la porta alle spalle e sedendosi sulla piccola sedia di fronte all’amico. A malapena entrava nella sedia, i suoi fianchi erano troppo larghi per i braccioli della sedia e le sue gambe troppo lunghe per stare in una posizione comoda. Ma la faccenda era seria e anche se già iniziava a sentire le anche dolorare, avrebbe resistito. –…è per Jotaro.- mormorò Josuke.
-Oh, c’è qualche problema?-
-Io e Oku ne abbiamo discusso, ieri sera. L’ultima volta che ci ha chiamato era per la faccenda di Pucci. Io… Koichi, ho paura.-
Lui non disse niente. Appoggiò il mento alla mano e ascoltò l’amico, annuendo.
-Jotaro, nove anni fa, mi chiese se volevo unirmi alla Fondazione Speedwagon.
Mi ero appena sposato, ed avevo ottenuto l’affidamento di Shizuka. Mi stavo trasferendo a Morioh, mi avevano appena accettato all’ospedale, avevamo appena ristrutturato la casa di Oku… stavo creando la mia vita perfetta. Non volevo guai… io voglio solo una vita tranquilla. Vivere una vita felice con la mia famiglia.-
Koichi sospirò. –Ti capisco. Nemmeno io voglio che Yukako e i miei piccoli Manami e Tamotsu corrano dei rischi. Ma questo è il nostro destino, Josuke.-
Josuke poteva sentire il groppo in gola che iniziava a salire e gli occhi pizzicare. Non voleva quella vita. Non voleva che suo marito e sua figlia l’avessero. Ma Koichi aveva ragione, Koichi ha sempre ragione, non potevano evitarla. Cercò di cambiare argomento, di evitare quelle lacrime che gli stavano annebbiando la vista.
-Sai di cosa vuole parlarmi oggi Jotaro?-
-Mi dispiace, ma non mi ha detto niente.-
Annuì e si alzò di scatto dalla sedia troppo piccola, staccando a forza i braccioli che si erano infossati nei suoi fianchi.
–Lo sai che anche Tamane, la neurologa e primaria, ti vuole sentire? Ieri ha chiamato me in riunione e tu non ti sei presentato. Si è arrabbiata parecchio.- cercò di continuare Koichi. 
Josuke sbuffò, appoggiandosi alla parete con le sue larghe spalle. –Ancora per la storia del tipo che ho preso a pugni? L’ho guarito con Crazy D.-
-Ma non puoi picchiare la gente e guarirla col tuo stand così, magicamente!-
Josuke roteò gli occhi, scalciando l’aria. Si mise le mani in tasca e cercò di guardare in cagnesco Koichi, con quell’espressione sprezzante di quel personaggio di quella serie idiota inglese che credeva di aver dimenticato. Perché ci stava pensando così tanto, quel giorno? –Che si fotta, il tizio e pure Tamane.- borbottò. Oh sì, Josuke voleva essere proprio così.
-Che saremo nei casini sia io, sia tu, se Tamane si accorge di qualcosa di strano!-
Koichi tentava di far ragionare in tutti i modi Josuke, ma non c’era possibilità. L’uomo sbuffò, girò i tacchi e con un calcio aprì la porta, rifiondandosi nel traffico dei corridoi, non senza aver salutato il suo miglior amico con un sonoro dito medio.
Josuke tornò a camminare per i tristi e candidi corridoi dell’ospedale, aggiustandosi il camice e mordendosi forte il labbro inferiore, pensieroso e preoccupato.
-Ah! Josuke! Aspetta!-
Koichi lo richiamò dal suo studio, sporgendo dalla porta. Josuke si girò, sorpreso.
-…intendi davvero andare in giro vestito così? In un ospedale??-
Allora il castano lo guardò e ammiccò giocoso.
–Almeno è una buona vista! Ammettilo che, in questo posto così triste e noioso, sono come un raggio di sole!- e se ne tornò a camminare per la sua strada ancheggiando un po’, più sollevato di prima.
 
Sull’autobus, Shizuka sedeva sempre da sola, nella parte anteriore del pullman. Non aveva amici particolarmente vicini a lei, più che altro erano tutti conoscenti con cui raramente scambiava qualche parola. Non era una ragazzina chiacchierona, e odiava essere osservata e ricevere troppe attenzioni.
A scuola era lo stesso. Non alzava mai la mano per intervenire, e a malapena rispondeva alle domande dei professori, e quando rispondeva era un macello: era tremendamente timida e nervosa, e riusciva solo a far uscire parole mozzate e balbettii incomprensibili. I professori ridevano.
–Come fai ad essere la figlia di Higashikata e Nijimura? Erano sempre così chiacchieroni e sicuri di sé, quei due!-
Shizuka non sapeva che rispondere. Annuiva abbassando la testa, e pensando che non sarebbe mai stata così intraprendente e coraggiosa come i suoi papà.
Frequentava la classe terza, che presto avrebbe finito. Shizuka non vedeva l’ora che le vacanze arrivassero, e che non dovesse più svegliarsi tutte le mattine alle sei e mezza di mattina e studiare tutti i giorni e, soprattutto, dover frequentare quelle persone. Gli idioti, come li chiamava con le sue due amiche, che frequentavano classi diverse dalla sua. Quegli studenti che la sfottevano per il fatto che avesse due padri, il suo modo di parlare con quel forte accento inglese, per quei codini tanto infantili, per la sua silenziosità. Però Shizuka non aveva voglia di spiegare cosa volessero dire per lei, queste piccole prese in giro che la colpivano veramente molto nel profondo. Josuke e Okuyasu erano state le prime persone a prenderla veramente sul serio, quando lei ancora abitava negli Stati Uniti con i suoi anziani nonni Joseph e Suzie, nel loro grande e silenzioso appartamento.
Era molto piccola quando Josuke e Okuyasu si trasferirono nell’appartamento sopra quello dei suoi nonni. Joseph e Suzie erano troppo vecchi per occuparsi di una bambina così piccola, e troppo stanchi per dedicarle attenzioni.
Con quei due però le cose cambiarono. Erano una coppia giovane, ragazzini spensierati e innamorati alla follia. La piccola Shizuka fu, per loro, una benedizione, e per la bimba loro due furono la salvezza. Giocavano con lei, le facevano il solletico e gli scherzetti, la portavano allo zoo e a mangiare il gelato e al parco a dondolarla sull’altalena. Ricordava particolarmente quando Josuke la faceva sedere sulle proprie cosce, tra un momento di studio e l’altro, e assieme guardavano la televisione. Più di tutti, quell’orribile serie con quel tipo brutto e cattivo, che suo padre sembrava adorare alla follia. Era una bambina felice, tranquilla e, eccezionalmente, da quando fu adottata dai Joestar, completamente visibile. Per la prima volta nella sua breve vita, era apprezzata e amata, anzi, adorata.
Per questo motivo, lei non poteva accettare che qualche stupido ragazzino prendesse in giro gli uomini che l’hanno salvata da una triste e inutile esistenza. Non era giusto, non era giusto che li chiamassero con quelle espressioni così dispregiative, che li vedessero con tale disgusto degli uomini così meravigliosi.
Ogni tanto si vendicava, usando Achtung Baby e facendogli del male. Non era particolarmente violenta o testa calda come i suoi, ma non era di sicuro tanto sottomessa da farsi mettere i piedi in testa da chiunque. Poteva sopportare, ma il limite arrivava sempre. E chi faceva traboccare il vaso la pagava cara, chiunque esso fosse. Shizuka, in questo ultimo periodo, era molto stressata e stanca, sentiva di essere sul limite e che una qualsiasi cosa l’avrebbe fatta scoppiare. Ma tentava di non pensarci.
Le ore trascorsero veloci a scuola, e lei non rimase quasi mai attenta. Era preoccupata per quel giorno. Sarebbero arrivati i parenti, e lei ne aveva il timore. Ne era spaventata soprattutto per il fatto che, dopo anni e anni, avrebbe rivisto suo nonno.
 
Quando tutti i componenti della sua famiglia se ne andarono di casa, Okuyasu tirò un forte sospiro. La giornata doveva ancora iniziare ma lui era già stanco morto.
Prese un ombrello al volo e si diresse verso il supermercato.
Le giornate di febbraio a Morioh erano piovose e grigie, e non aveva affatto voglia di rimanere sotto uno dei tanti acquazzoni che colpivano la città di tanto in tanto.
Fece tutta la strada a piedi, perché Josuke l’altro giorno fece un’osservazione sui chili presi da Okuyasu negli anni di matrimonio. Gli afferrò un rotolo di ciccia e ridacchiò.
Okuyasu era un tipo abbastanza permaloso e, a dirla tutta, non aveva ancora del tutto perdonato il marito per quell’affronto. Non poteva permettersi di andare in palestra tutte le settimane come Josuke, dato che doveva fare tutto lui in casa. Non ne aveva il tempo materiale, e non ne avrebbe nemmeno avute le forze. Già doveva occuparsi della casa, della bambina, e ora anche dei parenti. Non ce la poteva proprio fare.
Okuyasu, quando lui e Josuke abitavano negli Stati Uniti e suo marito (allora solo fidanzato) andava all’università, si dava un bel da fare a lavoro: faceva lavoretti come il commesso o il fattorino, e prendeva quel tanto che bastava a Josuke per pagarsi gli studi, spese già abbastanza abbassate dalla sostanziosa borsa di studio che era riuscito a prendere grazie alle sue doti e agli aiuti del cognato Joseph.
Una volta tornati a Morioh, preferì non lavorare: c’era già Josuke che prendeva un bello stipendio in quanto dottore, e Okuyasu preferì rimanere a casa a fare il casalingo. Non pensava fosse degradante o inutile, anzi.
Chi farebbe da mangiare? Chi laverebbe i vestiti sporchi? Josuke non era capace di fare una qualsiasi faccenda domestica che non fosse farsi un panino o un caffè, e Shizuka era ancora piccola per occuparsi di certe cose. O , più probabilmente, era solo pigra e viziata come suo padre Josuke.
Passò tra i corridoi del supermercato prestando poca attenzione alla mercanzia, buttando nel carrello gli ingredienti per la cena che avrebbe preparato quella sera, per poi fermarsi al banco dei dolci e prendere una torta. Era una giornata speciale e doveva prendere qualcosa di speciale. Okuyasu non era meno spaventato di suo marito per l’improvvisa visita dei parenti, che usualmente portano rogne con loro, ma lo dimostrava decisamente meno, forse per la sua natura ottimista, forse per il fatto che era sempre un po’ più iperattivo del calmo e colletto Josuke.
Tornando a casa con le pesanti borse della spesa in mano, notò delle auto parcheggiate davanti a casa sua e delle persone in attesa. Okuyasu deglutì forte e iniziò a innervosirsi: erano già arrivati.
Jotaro lo aspettava davanti a casa con un’espressione spazientita, mentre continuava a guardare l’orologio con fretta, il cappello blu calato sul viso. Alzò lo sguardo e lo vide.
-Okuyasu.- lo incitò Jotaro. La sua voce gli dette i brividi, era decisamente turbato e infastidito. –J-Jotaro! Ciao! Quanto tempo..eh?- cercò di sdrammatizzare.
Dall’automobile di Jotaro scesero Jolyne e Emporio, che lo guardarono di sghembo.
Fece il sorriso più tirato e finto che avesse mai fatto, mentre si avvicinava alla famiglia di suo marito, coi muscoli rigidi e i gomiti che gli facevano male per colpa dei tanti ingredienti che aveva preso al supermercato.
Notò che in auto era rimasta un’altra persona, curva su sé stessa. Deglutì forte.
Era il padre di Josuke.
Sapeva sarebbe venuto anche lui, ma ritrovarselo davanti dopo così tanti anni era tutt’altra cosa.
L’ultima volta che si erano visti è stato dopo il loro matrimonio, quando lui e Josuke presero in braccio Shizuka e se ne andarono da New York, per sempre.
Joseph ci teneva a Shizuka, e loro due gliel’avevano portata via. Certo, era per una causa buona, la bambina stava decisamente meglio con loro che con un anziano vedovo chiuso in una casa di riposo, ma Okuyasu ancora lo vedeva come un affronto di Josuke verso il suo vecchio e indifeso padre, una vendetta che sperava di prendersi da quando era nato. Lasciato allo sbaraglio in un mondo che non lo voleva, con una madre troppo giovane e il peso di averle rovinato la vita sulle spalle. Di essere di troppo, un errore a cui ormai non si poteva più rimediare.
Okuyasu si sentiva il complice di questa vendetta di Josuke, e non poteva fare a meno di sentirsi davvero molto in colpa.
Si offrì di aiutare l’anziano Joseph a scendere dalla macchina, ma lui gli rivolse uno sguardo strano. Okuyasu non capì che espressione era, ma aveva un grande timore che fosse di r
abbia. Rimase imbambolato davanti all’auto, la portella tra le mani e le borse della spesa per terra, mentre il suocero scendeva a fatica e i Kujo lo guardavano con disinteresse.
Quella giornata sarebbe stata molto lunga e difficile.


Come home, practically all is nearly forgiven
Right thoughts, right words, right action!
Almost everything could be forgotten
Right thoughts, right words, right action!
Right Action, Franz Ferdinand (Right Thoughts, Right Words, Right Action, 2013)
 
 
Note dell’autrice
Ed eccoci col terzo capitolo, l’ultimo di introduzione! Jotaro e gli altri sono arrivati alla casa degli Higashikata, e il mistero della loro visita a Morioh verrà spiegata!
(Sì, lo ammetto. Mi sono divertita molto a scrivere di Josuke che si incastra nella sedia di Koichi.)
Ci vediamo al prossimo capitolo!
Ho aggiunto un particolare molto importante nell'ultima revisione, di cui mi ero completamente dimenticata nella prima scrittura: la serie TV preferita di Josuke! Riuscite a indovinare di che serie si tratta? Se la risposta è "no", lo scoprirete più avanti!
...molto più avanti. Almeno tra venti capitoli. Ops.. ciao a tutti!

 
   
 
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