Storie originali > Noir
Segui la storia  |       
Autore: Niglia    25/06/2015    6 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
cover



10
For the Dead Travel Fast
kjòhgfyd














Denn die Todten reiten schnell.[1]


La notte era statica. Il paesaggio autunnale giaceva pietrificato in una sorta di strana atmosfera onirica, e se un’anima romantica ne fosse stata testimone avrebbe di certo affermato che sullo scenario pareva essere stato gettato un incantesimo. Le foglie degli alberi già brillavano dalle goccioline di brina, e di tanto in tanto se si tendeva l’orecchio si poteva udire il tubare di qualche civetta solitaria; lo scricchiolio di rametti nel sottobosco indicava che altri animali notturni erano sgusciati fuori dalle loro tane per la caccia, ma la fitta nebbia che si innalzava dal terreno e lì aleggiava alla stregua di un fantasma ne celava le impronte. Tra le enormi nuvole nere spuntava ogni tanto un raggio di luna a rischiarare il sentiero e far luccicare la foschia, ma non c’era abbastanza vento per trascinare via le nubi e permettere all’astro di risplendere in pace in un cielo altrimenti terso e stellato.
Poeti e pittori avrebbero venduto l’anima al diavolo per poter essere capaci di imprimere una simile notte su tela o su carta; Emma, per sua sfortuna, non aveva il tempo né lo spirito di ammirarla. La sua mente era occupata da un unico desiderio – lasciarsi il più presto possibile il castello e i suoi abitanti e gli incubi terribili che le aveva causato alle spalle.
Le sue orecchie erano colme del proprio ansimare angosciato, e sorde ai rumori pacifici della natura. Un filo di sudore le colò lungo il collo giù nell’incavo tra i seni, gelandosi a contatto con l’aria notturna e facendole rimpiangere di non aver indossato qualcosa di più inappropriato per una fuga in mezzo ai boschi. Si domandò se aveva già superato i confini di Pemberley o se era ancora all’interno della tenuta: non aveva idea di cosa utilizzare come punto di riferimento, perché per quel poco che poteva ricordare non c’era alcuna recinzione che segnava la proprietà, e i terreni incolti e inospitali si limitavano ad allargarsi come una macchia d’olio per tutto il circondario fino a fondersi naturalmente con il resto della brughiera.
Il cavallo aveva rallentato, sbuffando e arrancando attraverso la bassa e fitta vegetazione e sbattendo con furia gli zoccoli sul terreno probabilmente per scacciare eventuali animali striscianti. Emma faceva del suo meglio per mormorargli rassicurazioni con voce pacata all’orecchio e tenere lontani i rami graffianti perlomeno dal suo muso, ma il destriero si stava facendo sempre più irrequieto e incontenibile. Se ci fosse stata un’altra soluzione l’avrebbe lasciato libero e avrebbe proseguito a piedi, ma anche se non udiva più alcun rumore dietro di sé sapeva di essere ancora inseguita, e non poteva permettersi di perdere anche il più piccolo vantaggio.
Il pensiero di non sapere nemmeno il nome dell’animale che stava cercando di portarla in salvo risvegliò il senso di colpa – e un sussurro nella sua mente le insinuò l’idea che potesse essere un cattivo presagio.
Scuotendo la testa e premendo i talloni contro i fianchi del cavallo, Emma scacciò quei pensieri.
Non c’era tempo, non c’era tempo – lui la stava raggiungendo.
Sì, se lo sentiva nelle ossa, anche se era passato parecchio tempo da quando aveva udito lo sbuffare di un secondo cavallo alle sue spalle – come se il suo inseguitore si fosse dissolto nel nulla a un certo punto durante la corsa. Poiché dubitava che Adam, poiché chi altri avrebbe potuto essere, si sarebbe rassegnato così in fretta a riacciuffarla dopo tutti gli sforzi che aveva fatto per entrare nelle sue grazie, Emma aveva evitato di spingere il proprio cavallo a un’andatura più pacata; ma l’assenza di rumori dietro di sé invece di rasserenarla le incuteva un maggior terrore, visto che egli conosceva di certo il territorio meglio di lei e poteva saltarle addosso da un momento all’altro, sbucando da chissà quale cespuglio e stanandole ogni via di fuga.
Venne strappata dalla sue riflessioni da un brusco avvallamento del terreno: il cavallo scivolò sopra sassi ricoperti da un sottile strato di muschio e ondeggiò violentemente prima di sterzare verso destra e lanciarsi in avanti con un salto invidiabile, portando via il fiato alla fanciulla e ottenendo un rauco grido da parte sua che si perse nel bosco. Emma cercò di tirare le redini, ma l’animale era ormai al di là del suo controllo: con quell’ultimo movimento si erano spinti fuori dalla vegetazione ed entro un’enorme radura ricoperta da una fitta nebbia, e il terrore di essere in una posizione scoperta e facilmente individuabile le impedì di rendersi conto di ciò che si trovava al di sotto della caligine.
Se ne accorse soltanto quando gli zoccoli del cavallo aggredirono la superficie dell’acqua con furia, e il suo nitrito spaventato e sorpreso trafisse l’aria come un fulmine.
Come per magia, il tempo parve fermarsi: tutto ciò che seguì Emma lo registrò con estrema accuratezza, come fosse un occhio esterno che assisteva a qualcosa che non stava accadendo a lei in prima persona. L’animale si ritrovò immerso nel lago con tutte le zampe, inzuppandole gli abiti in un battito di ciglia lasciando che l’aria e l’acqua gelida glieli ghiacciasse addosso; le sue mani, a loro volta bagnate, persero la presa sulle redini e tentarono inutilmente di aggrapparsi alla criniera o al collo del destriero, ma questi, ormai del tutto terrorizzato dalla brusca caduta nel lago, si inarcò ferocemente cercando di indietreggiare per tornare sulla riva, e a furia di impennarsi e agitarsi disarcionò la giovane facendola precipitare nell’acqua.
In un turbinio di gonne, alghe e zoccoli, Emma si ritrovò ad osservare inerme e con panico crescente le acque nere e immote che si richiudevano sopra di lei.
Obbedendo a un istinto antico come il mondo e rifiutando ogni raziocinio, Emma spalancò la bocca per urlare in cerca di aiuto, ma così facendo inghiottì spaventose boccate d’acqua che la soffocarono e le straziarono i polmoni, facendole perdere ogni contatto con la realtà. La mente sempre più annebbiata, gli occhi testardamente serrati come se ciò potesse impedire ad altra acqua di invaderle il corpo, la ragazza annaspò cercando di risalire a galla, combattendo con l’ingombro degli abiti che le pesavano addosso come pietre e che la trascinavano a fondo malgrado i suoi sforzi serrati. I capelli le ondeggiavano intorno alla faccia, ricoprendole il viso e impedendole di vedere alcunché, i piedi sgambettavano grevi in cerca del fondo del lago ma senza riuscire a trovare una superficie solida per potersi dare la spinta e riemergere.
I nitriti laceranti del cavallo continuarono a risuonare come grida d’allarme nella notte silenziosa, diffondendosi con un’eco terribile sulla superficie del lago. Emma lo udì attutito e lontano attraverso l’acqua, come in un sogno, e il pensiero di venire abbandonata anche dall’animale la riempì di angoscia.
Presto, però, il liquido gelido l’avvolse in un abbraccio amorevole, trascinandola inesorabile verso l’alveo del lago scuro e nero come pece e privandola di ogni capacità cognitiva. Emma chiuse gli occhi e smise di lottare, lasciandosi trascinare a fondo con la medesima rassegnazione di una nave inabissata: non era, dopotutto, una sensazione spiacevole – se avesse dovuto descriverla con semplici vocaboli avrebbe detto che era come essere tornate all’interno del grembo materno, in quel limbo sospeso tra la vita e la morte dove sembra che nessuna minaccia esterna possa mai giungere a turbare la propria esistenza.
I polmoni bruciavano, bramosi di ossigeno, e il peso dell’acqua le comprimeva il petto con una forza impensata; ma quei dolori erano secondari, non le appartenevano – sì, sapeva che quel corpo fatto di carne e sangue stava soffrendo e pativa le pene dell’affogamento, ma lei non provava alcun dolore: tutto era alleviato dalla consapevolezza che ormai non avrebbe dovuto resistere oltre. Decise tuttavia che non sarebbe morta con gli occhi chiusi – voleva portare con sé un’ultima immagine, un ultimo ricordo, e catturare magari i raggi della luna penetrare nell’acqua quasi a volerla raggiungere.
Ma quando sollevò le palpebre non vide che il buio tutto intorno a lei, una densa oscurità priva di qualsiasi granello di luce, e se avesse potuto avrebbe strillato. E nello stesso momento qualcosa le afferrò bruscamente le braccia, e poi la vita, stringendola fino a privarla del poco fiato che le era rimasto – e che lei inconsciamente aveva conservato con parsimonia – per poi trascinarla a fatica verso su, verso chissà dove, con una violenza tale che quasi Emma avrebbe voluto divincolarsi, preferendo lasciarsi affogare. Non comprese in che modo ebbe raggiunto la superficie e l’aria gelida della notte che il suo corpo accolse con esultanza; ogni cosa era confusa, e lei era ancora in quel limbo dove il dolore si alterna al freddo che le aveva raggiunto le ossa, ghiacciandola così profondamente che Emma non poté fare a meno di chiedersi come faceva a non essere morta, oppure, se quella era la morte, che cosa aveva fatto per meritarsi un simile tormento.
Si lasciò prendere e spostare come un burattino senza fili e senza volontà; forse venne distesa, i bottoni del cappotto strappati – se ne rese vagamente conto perché il vento notturno le gelò il petto, facendola tremare – e poi venne voltata su un fianco, e qualcosa inizio a premere e massaggiarle la schiena con una ferocia disperata: fu un’esperienza terribile, come se l’interno del suo corpo venisse riversato all’esterno, e la gola le bruciava e gridava pietà eppure la pressione continuava, obbligandola a rigurgitare fino all’ultima goccia d’acqua che aveva ingerito.
Lo shock fu tale che svenne subito dopo, stremata e infreddolita.


ljhkgjfh


Emma riprese i sensi nel salottino della notte prima, semidistesa su una poltrona trascinata di fronte al camino acceso. La luce delle fiamme fu così improvvisa, dopo l’oscurità, che dovette stringere gli occhi e distogliere lo sguardo; stava ancora tremando, benché fosse avvolta da una coperta pesante, e la testa le girava così vorticosamente da farle venire la nausea.
Maledizione, imprecò in silenzio, serrando le palpebre. Sono di nuovo nel castello.
Aveva appena finito di formulare quel pensiero quando udì una porta aprirsi e richiudersi con un tonfo, e dei passi pesanti avanzare all’interno della stanza fino a fermarsi a breve distanza da lei. D’istinto sollevò lo sguardo appannato sulla ben nota presenza, notando vari piccoli dettagli come i suoi vestiti ancora bagnati e stropicciati, macchiati di fango ed erba, e i capelli corvini che gli ricadevano in ciocche umide ai lati della maschera; sembrava che fosse finito nel lago anche lui, pensò distratta, riportando l’attenzione sul fuoco.
L’uomo sbuffò, per nulla contento di venire ignorato. «Siete sveglia», sbottò, con quella voce attutita che stava ormai imparando a conoscere bene. A giudicare dal tono, egli doveva essere ben oltre la soglia della semplice arrabbiatura: Emma trovò quasi strano che non l’avesse caricata di peso su una spalla e gettata in qualche segreta, per punirla.
Poiché lei non rispondeva, Adam continuò, sempre più iroso e con la voce che s’ingrossava minacciosa parola dopo parola. «Ah, non parlate? Mi tenete il broncio? Come se aveste ragione a trattarmi così… Vi ho salvato la vita, rammentate? ...per la seconda volta! Forse avreste preferito annegare nel lago? Gran bella fine, avreste fatto! E per cosa? …per cosa! Per la soddisfazione di farmi un torto!»
«Non tutto ruota intorno a voi, signore», ribatté allora Emma ignorando la gola che le doleva, senza neppure alzare lo sguardo. «Ma se siete così arrabbiato, perché non mi lasciate andare? Che cosa sperate di ottenere, obbligandomi a tenervi compagnia?»
«Dannazione a voi! Vi ho già spiegato le mie… Mi avete dato la vostra parola che non avreste cercato di fuggire! Valgono così poco le vostre promesse, milady? Cosa devo fare per essere sicuro che rispettiate la vostra parte dell’accordo? Legarvi, forse?»
Emma dovette resistere al maleducato impulso di roteare gli occhi. «Non potete biasimarmi se ho colto al volo l’opportunità di andarmene. Di certo avrete capito che mi state trattenendo qui contro la mia volontà, voglio sperare?» Domandò sarcastica, odiando la propria voce roca.
«Siete mia ospite», sibilò lui furioso. «E avete dei doveri verso di me, come li ho io verso di voi!»
«Questo è certamente discutibile, ma siete libero di credere pure ciò che più vi aggrada.»
«Siete una donna impossibile!» Ruggì Adam, sbattendo un pugno con forza sul bracciolo in legno della poltrona in cui era rannicchiata e facendola suo malgrado sussultare. «Forse che vi ho fatto mancare qualcosa? Vi ho trattato male, io? Non mi pare! Potrò non essere un uomo di mondo, signora, ma di sicuro sono un gentiluomo; eppure voi riuscite nella difficile impresa di mettere a dura prova la mia pazienza!»
«Parlate come se io vi avessi imposto la mia presenza», sibilò Emma, incredula. Si voltò verso di lui, lasciando la propria rabbia libera di manifestarsi, e continuò. «Siete voi che mi avete voluto qui, e adesso vi comportate come se mi doveste tollerare a malincuore! Che diritto avete di arrabbiarvi? Da ciò che mi avete detto, neanche volevate ospiti nel castello!»
«Ma ora siete qui, e non morirete mentre siete sotto la mia responsabilità! Né proverete a scappare una seconda volta», aggiunse con fare minaccioso. «Di questo me ne assicurerò personalmente. Dio, ma avete almeno riflettuto prima di attuare questa vostra fuga? Scappare di notte, da sola, in mezzo alla brughiera, e impropriamente vestita! Nel migliore dei casi sareste morta di freddo, e nel peggiore… Non sapete che ci sono ladri e briganti in queste terre? Animali selvaggi? Anche se i terreni circostanti appartengono a Pemberley, non sono recintati; chiunque vi avrebbe potuto catturare, e vi assicuro, milady, che esistono persone ben peggiori di me!»
Emma continuò a tenere ostinatamente gli occhi chiusi, stringendosi la coperta addosso e tremando ancora leggermente. Non aveva bisogno che quell’uomo le facesse la predica, pensò infastidita, sapeva benissimo che la sua fuga non era stata pianificata a dovere ed era stata più che altro uno sparo nel buio; ma aveva dovuto tentare, perché una simile occasione non sarebbe ricapitata una seconda volta – poco importava che le circostanze fossero poco favorevoli per la sua riuscita.
Doveva ammettere, tuttavia, che l’idea di finire in pasto a lupi o delinquenti era agghiacciante.
Si domandò poi se fosse un destino preferibile al rimanere al castello con quell’uomo…
Il suo silenzio dovette protrarsi troppo a lungo per i gusti del padrone, poiché Adam perse la pazienza. «Diamine, parlatemi almeno!»
In un impeto d’ira le afferrò le mani, ed Emma spostò gli occhi su di lui con aria sorpresa e spaventata insieme: era la prima volta che la toccava – perlomeno mentre lei era cosciente, pensò con un brivido – e in più l’assenza di guanti e il fatto di sentire la consistenza della sua carne sotto il palmo le fece realizzare con un lampo di lucidità il rischio che aveva corso. Aveva rischiato di morire, per l’amor di Dio, e tutto perché non era stata capace di aspettare il momento giusto e avere il sangue freddo di ideare un piano migliore… Cosa sarebbe successo a suo padre se fosse morta anche lei? Gli occhi le si inondarono di lacrime al pensiero di infliggergli un simile colpo e distolse lo sguardo, senza tuttavia fare cenno di volersi liberare dalla stretta dell’uomo.
«Non so cosa dirvi», fu la sua laconica risposta, mormorata con un debole autocontrollo.
Ma Adam non l’ascoltava più; nel toccare la sua pelle si era irrigidito, sinceramente sconcertato dal fatto che lei glielo avesse lasciato fare, e allo stesso tempo preoccupato dalla sua temperatura corporea. La giovane scottava come un carbone ardente, stava chiaramente male, eppure non aveva detto una sola parola al riguardo.
«Dio mio, state bruciando», sussurrò, la voce improvvisamente ingentilita. In un attimo il suo tocco si fece da minaccioso a gentile, e una mano si sollevò per sfiorarle delicatamente anche la fronte e le guance. «Avete la febbre, e io qua a urlarvi addosso… Perché non avete detto niente? Sciocca ragazza… venite con me, è meglio che vi mettiate a letto. Riuscite ad alzarvi? …a camminare?»
Emma lo fissò per un lungo istante con sguardo perso, come se non comprendesse ciò che le stava chiedendo; infine batté le palpebre e si guardò intorno, afferrò i braccioli della poltrona e si alzò lentamente, sforzandosi di recuperare l’equilibrio e il controllo sul proprio corpo. Ma quest’ultimo era così provato e indebolito dalla sua recente avventura che non riuscì a reggerla in piedi, ed Emma si accasciò sulle proprie gambe tremanti come un bamboccio privo di fili; le braccia di Adam l’afferrarono prima che potesse crollare per terra, e d’istinto lei vi si aggrappò apprezzando il calore che proveniva da un altro essere umano – poco importava che si trattasse dell’uomo che la teneva prigioniera.
«Non importa, vi porterò io», decise Adam bruscamente, prendendola con un’insolita gentilezza tra le braccia a mo’ di sposa, e cullandola, quasi, mentre se la stringeva al petto. «Reggetevi a me. Ecco… così», la incoraggiò, quando Emma sollevò d’istinto un braccio dietro il suo collo per non scivolare; egli parve irrigidire leggermente al tocco inaspettato, ma lady Moore era troppo stanca per farci caso.
Uscirono dal salotto senza che fosse pronunciata un’altra parola, e probabilmente durante il tragitto lei dovette cedere alla stanchezza, cullata dal movimento e dal tiepido calore di un corpo contro di sé, perché quando riaprì gli occhi si ritrovò di nuovo nella camera da letto che aveva lasciato poche ore prima in compagnia di Noah.
Emma aveva creduto che nulla avrebbe più potuto sorprenderla, ormai, ma dovette ricredersi nel momento in cui varcò nuovamente la soglia della stanza che Adam le aveva assegnato – e nella quale credeva di non dover più mettere piede – per trovare ad attenderli una pallida e nervosa Mrs. Duncan. La donna, malgrado si stesse torcendo le mani e sembrasse preda di chissà quale malessere, non parve particolarmente scioccata alla vista della sua padrona tra le braccia di uno sconosciuto mascherato; anzi, se il pensiero non le fosse sembrato ridicolo, Emma avrebbe quasi potuto giurare che le era parsa sollevata nel vederla con lui…
Adam la depose gentilmente per terra, rimanendole accanto con un braccio intorno alla vita per reggerla qualora dovesse perdere l’equilibrio, e la rilasciò solo per affidarla alle braccia della governante, che in quel momento apparivano ancor meno invitanti di quelle dell’uomo. Tuttavia Emma non si oppose, poiché era davvero troppo stanca e confusa per poter intavolare una discussione e sperare di uscirne vincitrice; così si lasciò condurre senza protestare nella piccola stanza da bagno adiacente alla camera, e quando la porta si richiuse dietro le due donne, oscurandole alla vista dell’uomo, Emma sentì le proprie spalle rilassarsi appena.
Neppure Mrs. Duncan pareva aver molta voglia di parlare. Probabilmente temeva che Adam potesse sentirla – Emma si domandò se quella reticenza fosse dovuta al fatto che fosse stata lei ad istruire il figlio, Noah, affinché l’aiutasse a lasciare il castello – e non voleva aumentare l’ira del suo padrone; giacché ormai non aveva alcun dubbio al riguardo, lady Moore non era, ai suoi occhi, più padrona di lei di Pemberley.
Sempre senza dire una sola parola, la governante aiutò Emma a spogliarsi e a entrare nella vasca, già precedentemente riempita con acqua calda; gentilmente le versò sui capelli dell’acqua tiepida, per poi prendere a pettinarglieli e a liberarli ciocca per ciocca da ogni traccia di fango e putridume raccolta nel lago. Passò poi a strofinarle la schiena e ripulire quasi con affetto materno i graffi e le ferite che si era procurata durante la cavalcata, trattenendo il fiato quando notò quelli più gravi che avevano iniziato a sanguinare a contatto con l’acqua calda. Durante l’intero procedimento la giovane ereditiera rimase in silenzio, troppo stanca per provare disagio o imbarazzo ad essere accudita come una bambina da una donna per cui non nutriva al momento troppa stima, la mente troppo impegnata a combattere la febbre e le riflessioni tormentose riguardo la sua più che sfortunata situazione per articolare un solo pensiero.
L’unica cosa per cui avrebbe potuto ringraziare Mrs. Duncan fu l’assenza di vuote rassicurazioni che non avrebbero avuto altro risultato se non quello di renderla ridicola; avrebbe dovuto domandarle se fosse stato il figlio a dirle della sua fuga, o se la donna l’avesse scoperto da sola e fosse poi andata ad avvisare Adam – il che portava ad altre mille domande, la prima delle quali riguardava il genere di rapporto che legava l’anziana governante di Pemberley Manor al misterioso uomo mascherato che si spacciava come suo proprietario. Ma saziare una curiosità avrebbe portato inevitabilmente a volerne saziare delle altre, e in quel momento Emma non era assolutamente pronta a scoperchiare quella scatola di Pandora.
Così lasciò perdere, sforzandosi di non crollare addormentata nella vasca da bagno e dimostrare di essere ancora più debole di quanto non avesse già dimostrato.
Quando Mrs. Duncan la riaccompagnò nella stanza, un braccio intorno alla vita per tenerla in piedi, Emma notò che l’uomo aveva fatto del suo meglio per rendere l’ambiente il più confortevole possibile: i cuscini del letto apparivano sprimacciati, le coperte divelte ordinatamente da un lato in attesa che lei vi trovasse rifugio, alcune candele scacciavano il buio insieme al camino, che era stato appena acceso. Il responsabile di tutto ciò attendeva in piedi come una sentinella a lato del talamo, le braccia dietro la schiena e, come al solito, un’aria resa imperscrutabile dalla maschera.
Emma si divincolò debolmente dalla gentile stretta della signora Duncan e si sforzò di raggiungere il tanto desiderato letto da sola, sulle sue gambe tremanti, ma con schiena dritta e sguardo deciso – o perlomeno questa era l’impressione che avrebbe voluto dare, anche se dubitava che i suoi occhi resi lucidi dalla febbre potessero impressionare qualcuno. Si sedette dunque sul bordo del materasso e sospirò, lasciandosi finalmente catturare dalla spossatezza e infilandosi con gratitudine sotto le trapunte.
Avrebbe voluto solo chiudere gli occhi e consegnarsi all’oblio, ma avrebbe dovuto immaginare che il suo carceriere era ben lontano da lasciar cadere così la questione.
«Avevate dato la vostra parola che mi avreste concesso sette giorni, milady, e alla prima occasione voltate le spalle e cercate di fuggire», affermò lui quindi piuttosto freddamente, osservando con affettata noncuranza Mrs. Duncan che tamponava la fronte di Emma con un panno bagnato e che le rimboccava le coperte per cercare di farle smettere di tremare. Quando fu deciso che la cerimonia fosse conclusa egli congedò la governante con un secco cenno del capo, e la donna sparì dalla sua vista talmente in fretta che si sarebbe detto fosse fatta di aria.
Emma attese finché la porta non si richiuse dietro di lei prima di rispondere. «Mi sembra di ricordare di non aver mai acconsentito a quella ridicola messinscena», fu la sua gelida replica.
L’uomo la fissò come se si fosse solo allora reso conto che, in effetti, nessun accordo era stato sancito tra i due, e che egli stesso aveva ammesso che la sua risposta non importava, e che si sarebbe fatto ciò che aveva deciso lui in ogni caso.
«Ad ogni modo», ribatté, decidendo suo malgrado che per il momento le avrebbe concesso quella piccola vittoria. «Come vi ho già detto è stato a dir poco sconsiderato da parte vostra uscire dal castello nel cuore della notte, considerando la vostra scarsa conoscenza del territorio e di ciò che vi sarebbe potuto capitare, e vi sarei grato se in futuro vi asteneste dal rifare una cosa del genere.»
E all’improvviso l’entità di ciò che era accaduto tornò a crollarle addosso con la violenza di una valanga, mettendo a tacere qualsiasi cosa avrebbe voluto dire all’uomo che le stava di fronte con le braccia incrociate e l’aria di chi è appena stato tradito. La sua mente cercò di ribellarsi a ciò che l’evidenza le aveva messo davanti, ma non ottenne risultati: invece, un debole pallore le portò via quel poco di sangue che le era affluito in viso, ed Emma si ritrovò a sgranare gli occhi e a boccheggiare priva di fiato in cerca di qualcosa da dire.
Buon Dio, mormorò silenziosamente come un mantra, sentendosi tremare. Buon Dio, era quasi morta!
Sarebbe bastato per Adam arrivare pochi secondi più tardi, e sarebbe stato impossibile riportarla a galla e riuscire persino a svuotarle i polmoni dall’acqua del lago… Era arrivata a un soffio da una dipartita sciocca e priva di senso, ed era grazie ad Adam se… grazie ad Adam
I suoi occhi d’un tratto ricolmi di lacrime si sollevarono sul padrone, ma lo shock di ciò che aveva appena realizzato le impedì di notare il suo improvviso irrigidirsi e la preoccupazione malcelata nel suo sguardo.
«Mi avete salvato la vita», sussurrò scioccata, stringendo le dita intorno alla coperta che l’avvolgeva alla ricerca di un oggetto tangibile che l’aiutasse a non perdere il contatto con la realtà. «Se non fosse stato per voi, io… io…» Non riuscì a completare quel pensiero, ma non distolse gli occhi da lui. «Vi ringrazio», concluse miseramente a mezza voce, sperando ch’egli cogliesse la sincerità delle sue parole e le perdonasse la mancanza di eloquenza.
Adam parve preso alla sprovvista: evidentemente non si aspettava che il suo gesto venisse riconosciuto, e di sicuro non si aspettava da lei alcuna forma di gratitudine. «Non serve che mi ringraziate», fu dunque tutto ciò che riuscì a rispondere. «Ho fatto solo il mio dovere.»
C’era qualcosa, nel suo tono di voce… Emma non riuscì a definire esattamente cosa… che le provocò una debole fitta nel petto e che le fece provare un misto di senso di colpa e svogliata gratitudine nei confronti di quell’uomo che prima l’aveva rapita, poi l’aveva trattata come ospite, poi l’aveva sgridata amaramente per il suo tentativo di fuga e infine era apparso sinceramente provato dal pericolo che lei aveva corso, e fu l’insieme di tutto questo che la costrinse suo malgrado ad addolcire lo sguardo e accennare un debole sorriso.
Egli impietrì e non fu capace di aggiungere altro: quel sorriso lo aveva disarmato. Rimase al suo fianco finché lei non si fu addormentata, e solo allora osò volgerle le spalle e andarsene; chiuse a chiave la porta della stanza più per abitudine che precauzione – dove sarebbe potuta andare in quelle condizioni, anche volendo? – e rilasciò un sospiro che non si era accorto di aver trattenuto fino a quell’istante. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, accorgendosi non senza una buona dose di sconcerto di star tremando, e fu costretto ad ammettere, perlomeno a sé stesso, di essere stato terrorizzato all’idea di perderla.
Non sapeva ancora bene a che cosa fosse dovuta quella sensazione, ma decise che la serata era stata già fin troppo movimentata per aggiungerci anche una scomoda analisi di sensazioni e sentimenti. Inoltre l’alba iniziava ad approcciarsi, e lui non chiudeva occhio da quasi due giorni – e se continuava così, prima o poi sarebbe crollato sfinito ed esausto, e ciò avrebbe lasciato via libera all’altro
No, non poteva permetterlo. Non ora.
Adam si lasciò rapidamente alle spalle la camera da letto, attraversando il lungo corridoio con lunghe falcate come se desiderasse mettere più distanza possibile tra sé e la fanciulla, prima che perdesse del tutto il controllo. La tentazione di tornare da lei e usare le maniere forti fino a spingerla a giurare su quanto di più sacro ci fosse al mondo che non avrebbe più messo piede fuori dal maniero senza la sua approvazione era troppo forte da ignorare, soprattutto sentiva che non proveniva da lui, e per questo motivo accelerò ulteriormente il passo.
Era stato a un tanto così dal crollare, quando Mrs. Duncan l’aveva avvertito dell’improvvisa fuga di lady Emma; non riusciva a crederci, dopo tutte le promesse era scappata lo stesso?
Faust era stato pressoché incontenibile; tuttora lo sentiva aggirarsi come una belva in gabbia entro i confini della sua mente, lo udiva tremare di una rabbia cieca e furente e la sua presenza era come un tremore minaccioso appena sotto la pelle che prometteva di esplodere da un momento all’altro. Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo per impedirgli di prendere il sopravvento – non osava immaginare che cosa avrebbe potuto fare alla ragazza una volta riagguantata, se gli avesse ceduto – e soltanto la consapevolezza che fosse ancora troppo presto per far conoscere a Emma l’orrenda furia del suo mostro era riuscito a mantenerlo in sé.
Ma anche se costretto entro le mura della psiche che condividevano, Faust poteva pur sempre far udire la sua voce, i suoi pensieri, la sua collera. E Adam ne aveva avuto paura, non per la prima volta, poiché ciò che gli stava sussurrando era talmente terribile che dubitava di poter tornare a guardare Emma negli occhi senza che certe immagini gli offuscassero la vista, tentandolo con promesse inesaudibili.
Era stato terribilmente difficile contenere la furia di Faust e procedere poi a racimolare sufficiente presenza di spirito per preparare un cavallo e lanciarsi all’inseguimento della ragazza; e quando infine l’aveva fatto, i suoi pensieri e quelli del mostro avevano coinciso miracolosamente fondendosi in un’unica preoccupazione: trovare Emma e riportarla a Pemberley.
E adesso che l’hai riportata a casa, che cosa conti di fare?
Adam quasi inciampò sui suoi stessi passi quando udì il sibilo feroce del mostro rimbombare all’improvviso nella sua testa.
(Nulla), ribatté a sua volta, stringendo con furia le mani a pugno. (È mia ospite. E verrà trattata come tale!)
Sei così debole, si prese gioco di lui Faust, con il suo odioso tono mellifluo. Ti fai trattare come il più insulso degli insetti. Sei un disonore per il nome che porti!
(Che cosa vorresti fare? Punirla, forse? E questo non sarebbe un disonore?)
Non hai mai trovato disonore in ciò che abbiamo fatto in passato.
Se avesse potuto, Adam avrebbe ringhiato.
(Non osare riversare su di me la responsabilità delle tue azioni! Io non avevo alcuna voce in capitolo, lo sai benissimo!)
Mi fai così pena, mio povero Adam. Dopo tutto questo tempo non hai ancora capito nulla…
Preferì non rispondergli; non era in vena di discutere con quella voce odiosa che non lo lasciava in pace neppure nell’incoscienza. E poi, che cosa avrebbe potuto replicare? Per sua sfortuna, e non lo avrebbe mai ammesso neanche nelle profondità della sua psiche, Faust aveva ragione: c’erano cose, nel suo passato, che avrebbero sconvolto la più abietta delle anime, e non osava immaginare come avrebbe potuto reagire una come Emma se ne avesse avuto anche solo un assaggio. Ma di una cosa era sicuro, avrebbe impedito a Faust di farle del male anche se gli fosse costata la sua stessa sanità…
Esausto e miserabile, Adam trovò rifugio in una vecchia stanza abbandonata. Strappò con furia il lenzuolo impolverato che ricopriva un letto scricchiolante che non veniva utilizzato da decenni e crollandovi sopra a peso morto, consegnandosi misericordiosamente all’oblio e seppellendo nel sonno le minacce di Faust e tutto lo sfinimento che aveva accumulato negli ultimi due giorni.


lljkhjgfd


La camera da letto nella quale era confinata non le dava alcun tipo di sfogo. Si sentiva troppo stanca per alzarsi e curiosare tra i vari oggetti che la circondavano – senza contare che non si trovava particolarmente a suo agio adesso che aveva la certezza di trovarsi nella stanza del suo carceriere, i ritratti che aveva fatto di lei erano artisticamente piacevoli ma la loro presenza la inquietava – e sentiva la mancanza della finestra della sua camera, dalla quale poteva ammirare il paesaggio esterno senza neppure lasciare l’alcova.
Emma sospirò, posandosi il dorso della mano sulla fronte e gemendo nel trovarla ancora rovente. Non poteva che biasimare sé stessa per quella situazione – se solo non fosse stata tanto sciocca da attraversare il bosco nel cuore della notte, e se non avesse costretto il cavallo fuori dal sentiero, spingendolo nel lago… Forse adesso sarebbe stata salva a casa di sir Carlisle, e non sarebbe stata stordita dalla febbre. Come se non bastasse, era terribilmente preoccupata per miss Radcliffe: la povera donna adesso era interamente sotto le cure della governante di Pemberley, e visto come Mrs. Duncan era parsa a conoscenza di parecchie cose, la notte prima, Emma dubitava che fosse una persona a cui affidare la vita della donna che l’aveva cresciuta.
D’altra parte, cosa poteva fare? Era prigioniera in quella stanza di cui solo Adam possedeva le chiavi, e l’infreddatura la costringeva a letto – aveva provato ad alzarsi, certo, ma una forte ondata di nausea e un feroce pulsare alle tempie le avevano fatto cambiare rapidamente idea, costringendola a rintanarsi sotto le coltri. Aveva potuto abbandonare il letto soltanto quando la governante arrivò a portarle la colazione e il pranzo – malgrado i sentimenti contrastanti che provava nei confronti di Mrs. Duncan, Emma si ritrovò grata per la familiare presenza di un altro essere di genere femminile al suo fianco.
La donna si era ostinata a non voler parlare, e le sue visite nella stanza si riducevano a mormorii di parole di incoraggiamento e di vane assicurazioni che nulla le avrebbe fatto del male. Come se avesse potuto fidarsi!
Immersa com’era nel silenzio, Emma si ritrovò a considerare che, se solo l’approccio di Adam fosse stato differente – se, tanto per cominciare, avesse palesato sin da subito la sua presenza, e se le avesse chiesto gentilmente e non tramite minacce e imposizioni di essergli amica – probabilmente non si sarebbe sentita in dovere di ribellarsi per principio, né avrebbe cercato di fuggire. Difatti, malgrado la sua tenacia nel volerla privare della vista del suo aspetto, Adam sembrava una persona intelligente, un gentiluomo – quando non tentava di tiranneggiare sulla sua vita – un uomo di cultura con cui intrattenere una conversazione non pareva difficile né spiacevole; ma tutti questi tratti evaporavano nel nulla davanti al comportamento che egli aveva scelto di sfoderare nel trattare con lei, e che la facevano sentire né più né meno che una prigioniera privata del libero arbitrio. E, dovendo essere onesta, Emma era stanca di avere uomini intorno che si arrogavano il diritto di decidere per lei.
Con uno sbuffo assai poco signorile, si domandò fino a quando egli aveva intenzione di portare avanti quella farsa, e se il fatto di avere tra le mani una giovane donna influenzata e con i nervi a fior di pelle sarebbe servito a far rinsavire il padrone del castello – quanto la irritava riconoscergli quel titolo – e a fargli realizzare che non era in suo potere trattenerla a lungo rinchiusa tra quelle quattro mura.
Come se non tutto ciò non fosse di per sé abbastanza, gli incubi continuavano a tenerla sveglia per tutta la notte. Ogni volta che riusciva faticosamente a chiudere gli occhi, immagini terribili di figure spettrali insanguinate e fiamme e scuri abissi la tormentavano fino a farla risvegliare in lacrime, con la testa che le pulsava dalla febbre e dalle visioni, lasciandole addosso un’orribile sensazione di sventura. Erano trascorsi tre giorni dalla fatidica notte in cui aveva visto quelle creature aggirarsi per il castello – o perlomeno così credeva: di recente aveva perso la cognizione del tempo – e ancora non aveva la più pallida idea di chi o che cosa fossero, e soprattutto che cosa volessero da lei.
Fantasmi, le sussurrava debolmente una voce all’interno della sua testa. Ma la sola idea era talmente ridicola che preferiva fingere di non udirla, preferendo accantonarla in favore di ipotesi più razionali; non era più una bambina che teneva una candela accesa accanto al letto per timore del buio, per l’amor di Dio!
L’unica volta in cui aveva racimolato sufficiente coraggio per chiedere spiegazioni ad Adam, durante la loro prima e unica cena, egli si era rifiutato di fornirle anche la più piccola spiegazione, la qual cosa non contribuiva certo a migliorare l’opinione che aveva di lui. Che senso aveva tenerla all’oscuro, farla vivere nel terrore, se egli era davvero sincero quando diceva di non volerle alcun male, e che anzi sperava di avere la sua amicizia?
Emma aveva paura, ma a questo punto non sapeva più di cosa.
Al suo sempre più crescente senso di timore, si aggiungeva inesorabile tutto il peso dell’irrequietudine: non era abituata a rimanere a lungo senza impiegare il suo tempo in qualcosa di utile e costruttivo, e limitarsi a giacere a letto oziando dalla mattina alla sera – pur ammettendo che la febbre avrebbe potuto giustificare tranquillamente il suo riposo – iniziava a darle sui nervi. Per questo motivo accolse con qualcosa simile a sollievo l’arrivo di Adam nell’ormai sua stanza da letto, grata della distrazione ch’egli portava alle sue turbolente riflessioni.
Sollevò lo sguardo su di lui quando il suo volto mascherato apparve sulla soglia della porta, ma fu ciò che teneva tra le braccia che attirò la sua attenzione strappandole un verso sorpreso e un’espressione di quieta ammirazione. Il guaito dell’animale la fece sorridere subito, e d’istinto allungò le braccia verso di lui: nel vederlo, Emma non aveva potuto fare a meno di provare un’imbarazzante senso di colpa: come aveva fatto a dimenticarsi del suo adorato Aramis?
Senza dire una sola parola Adam attraversò la camera e si fermò accanto al letto, chinandosi per deporle il cagnolino in grembo.
«Ho pensato che potesse farvi piacere, avere il vostro amico», fece a mezza voce, osservandola mentre era tutta intenta a coccolare Aramis, che ansimava e scodinzolava felice, strofinandole il muso contro le mani e il ventre.
«Sì, io… ah… grazie», mormorò, sollevando appena lo sguardo per incontrare il suo. Adesso era perplessa: se si trovava in quelle condizioni, febbricitante e costretta a letto, la colpa era da far ricadere unicamente su di lui… Eppure ecco che lo ringraziava per la seconda volta, ecco che lo lasciava restare nella stanza insieme a lei a prender parte a un momento di intimità che non credeva di dover condividere.
Mentre coccolava il suo cucciolo, che palesemente aveva sentito la sua mancanza, notò con la coda dell’occhio Adam che spostava alcuni mobili, tra cui una sedia e un tavolino da gioco portato da chissà quale altra stanza, proprio vicino al suo letto. A questo punto si voltò per osservarlo deliberatamente, guardandolo mentre si sedeva in modo da esserle di fronte e inarcando un sopracciglio all’inattesa vicinanza.
L’uomo ricambiò allora il suo sguardo, e il modo in cui i suoi occhi chiari luccicarono attraverso i buchi della maschera le fece sospettare che le stesse sorridendo.
«Sapete giocare a scacchi?» Domandò gentilmente, come se fosse una cosa del tutto normale da chiederle in quel frangente.
«Mi piace pensare di sì, signore», rispose cauta, cercando di capire a cosa doveva l’improvvisa curiosità.
Egli si limitò ad annuire, e da dietro la schiena tirò fuori una scacchiera e un sacchetto di velluto contenente, a giudicare dal rumore, le pedine del gioco. Prese a disporli sul tavolino con precisione e, senza quasi rendersene conto, l’ombra di un sorriso apparve sul viso di Emma.
«Se vi avessi detto che non ne ero capace, che cosa avreste tirato fuori?» Gli chiese con appena l’accenno di un tono scherzoso.
Sorpreso ma intimamente compiaciuto dal tono della sua voce, egli le rispose in eguale maniera. «Sempre una scacchiera, milady: non ho ancora imparato trucchi di prestigio. E ad ogni modo vi avrei insegnato a giocare, perché sarebbe stata una lacuna imperdonabile da parte vostra.»
Emma confermò con un lieve cenno del capo e un ancor più debole sorriso la verità della sua affermazione, e rimase ad osservare in silenzio mentre l’uomo finiva di sistemare con cura le pedine sul campo da gioco.
Parlò solo per domandarle quale colore preferisse. «I bianchi», rispose subito lei. «Hanno il privilegio di muovere per primi.»
La maschera celò ancora l’ennesimo breve sorriso che apparve sul volto di Adam.
Emma non si era accorta di quanto desiderasse una qualsiasi forma di intrattenimento fin quando non iniziò a muovere un pedone dopo l’altro, studiando attentamente l’andamento del gioco come suo padre le aveva insegnato sin da quando era stata abbastanza grande da poter stare seduta composta su una sedia. Aramis, riconoscendo la concentrazione della sua padrona poiché diverse volte in passato aveva assistito a simili passatempi, rimase quieto al suo fianco, raggomitolato sopra la coperta e sonnecchiando tranquillo.
Quando si trattava degli scacchi, sapeva di essere feroce; e quello svago capitava proprio in un momento in cui aveva decisamente bisogno di sfogare in qualche modo tutta la tensione accumulata. E Adam, seppure in silenzio e senza quasi respirare, era un degno avversario ben capace di sostenere la sua sfida; per cui decise di liberare la mente da qualsiasi altro pensiero, e di occuparla unicamente nella ricerca di strategie di vittoria.
All’improvviso, però, il suo avversario dovette decidere che il silenzio era durato abbastanza.
«So di avervi spaventato», esordì in un mormorio.
Emma sollevò lo sguardo dalla scacchiera, sorpresa, posandolo su quella maschera bianca che ormai pareva essere espressiva quanto un volto vero. O forse era solo lei che aveva imparato a conoscere ogni sfumatura della sua voce tanto da poter chiaramente decifrare i suoi sentimenti… Decise di ignorare quell’inutile riflessione, e osservò di sbieco il suo anfitrione in attesa che proseguisse con il suo discorso.
Così egli fece, modulando magistralmente la voce come si fa con la creta. «Sì, anche se forse non ci credete. Lo so. Non avreste provato a fuggire nel cuore della notte, altrimenti, senza neppure soffermarvi a riflettere su ciò che stavate facendo», chiarì, con quella che le parve una sorta di amara dolcezza. «Mi rincresce avervi ispirato un terrore tale da farvi ritenere che perdervi nella brughiera al gelo e senza idea di dove andare fosse un destino preferibile al rimanere in mia compagnia un minuto di più. So di meritare il vostro astio e probabilmente persino la vostra diffidenza, poiché non vi ho dato modo di fidarvi di me… E per questo motivo vi porgo le mie più sincere scuse.»
Se c’era qualcosa che Emma non si sarebbe aspettata di ricevere, era una richiesta di perdono; e il tono sinceramente contrito con cui gliela aveva offerta non faceva che aggravare la sua incredulità. Che cosa avrebbe dovuto rispondere? Si aspettava che scrollasse le spalle e respingesse le sue parole con un gesto della mano, fingendo che non fossero necessarie? O forse doveva limitarsi a chinare il capo, accettarle e continuare a comportarsi come se l’uomo fosse innocente e lei non fosse la vittima della situazione?
Emma poteva apprezzare il gesto – non vi avvertiva alcuna malizia, in fondo – ma non aveva idea di che farsene. Aveva l’acuta sensazione, ormai era anzi quasi una certezza, che il padrone stesse cercando di accattivarsela in tutti i modi possibili, cercando di giungere con le buone maniere ove le minacce non avevano sortito il loro effetto, e la giovane temeva di poter dire o fare qualcosa che rassicurasse Adam di esservi riuscito. Non voleva che egli si trovasse eccessivamente a suo agio in sua compagnia, ma d’altro canto le pareva poco gentile non riconoscere i suoi sforzi e ammettere che il suo modo di comportarsi improvvisamente amichevole e affettuoso aveva buone possibilità di riuscire nel suo intento.
Come le accadeva spesso quando si trovava in situazioni particolari per la prima volta, Emma volse i propri pensieri a miss Radcliffe, e si domandò mestamente che cosa la sua istitutrice avrebbe avuto da dire al riguardo. Probabilmente le sarebbe venuta una crisi di nervi al suo posto, e l’avrebbe supplicata di non comportarsi in maniere che potessero danneggiare la sua reputazione – benché ci fosse poco che potesse fare a proposito, dato che si trovava alla mercé di un uomo che non conosceva, in camicia da notte e senza alcuno chaperon; detto ciò, era possibile che neppure la donna, nella sua saggezza, avrebbe potuto consigliarla sulla condotta migliore da adottare.
La decisione spettava dunque unicamente a lei, e sotto questo peso ella prese un profondo respiro.
«Se vinco», esordì dopo un silenzio tanto lungo da far credere che non ci sarebbe stata alcuna replica alla confessione di Adam. «Se vi batto a scacchi, mi lascerete nuovamente libera di gironzolare per il castello?»
L’uomo la osservò con aria sorpresa e vagamente perplessa, cercando un collegamento con ciò che le aveva detto e con la risposta che aveva ottenuto; ed era probabile che alla fine dovette trovarlo, perché i suoi occhi assunsero una sfumatura divertita poco prima ch’egli annuisse sorridendo. «Naturalmente, milady. Avete la mia parola.»
«Bene», fu tutto ciò che la giovane disse, e da quel momento in poi la partita proseguì nel più assoluto silenzio.
Quando infine Emma fece scacco matto, neanche un’ora dopo, Adam accettò la sconfitta con un elegante cenno del capo. Ma per qualche strana ragione la vittoria non fu troppo soddisfacente – aveva la strana sensazione che lui gliel’avesse concessa soltanto per farsi perdonare.


hjkgfjdhs


C’era qualcosa che non riusciva a togliersi dalla mente da diverse settimane, ormai, e vista la nuova direzione che stava prendendo la sua relazione con Adam – benché tale definizione suonasse strana se riferita a loro – Emma aveva deciso che valeva la pena introdurre il discorso e vedere cosa avrebbe potuto ricavarci.
Si trovavano nella biblioteca; quella mattina Emma si era svegliata senza tremori né febbre, e dopo un rapido controllo di Mrs. Duncan e la conferma da parte sua che l’influenza era passata, aveva chiesto al suo ospite se le era possibile uscire finalmente da quella camera da letto, come da promessa, ed egli aveva sorprendentemente acconsentito proponendole di prendere il tè nella biblioteca.
Ritrovarsi nuovamente in quell’ambiente accogliente e familiare ebbe su di Emma un ottimo effetto: vedere la luce entrare dalle immense vetrate, inspirare il profumo dei libri e dei fiori freschi che la governante aveva preso a disporre nella stanza per sua disposizione, persino sedere per terra di fronte al camino con Aramis accucciato ai suoi piedi servì a calmarla e a metterla a suo agio come non lo era stata da giorni. E stranamente non era disturbata dal fatto che stavolta Adam si trovasse in quello che lei aveva iniziato a considerare il suo piccolo angolo privato del castello – benché trovasse inevitabile rimanere all’erta vicino a lui, vederlo seduto su una poltrona a pochi passi da lei era in un certo qual modo rassicurante.
Così, cullata dall’atmosfera pacifica del momento, Emma decise di indulgere nella propria curiosità.
«Se permettete, c’è qualcosa che vorrei chiedervi», esordì, continuando ad accarezzare il morbido capo del suo cucciolo con fare distratto. Prese nota di avere l’attenzione dell’uomo sotto forma di un lieve cenno d’assenso, e decise di proseguire prima di perdere il coraggio. «Riguarda un diario che ho trovato settimane fa, mentre curiosavo per il castello… Nell’ala Ovest, per la precisione.»
Con la coda dell’occhio notò il lieve irrigidirsi del suo compagno, ma poiché egli non diede mostra di voler interromperla – forse anche lui peccava di curiosità, in fondo – Emma andò avanti. «Era di un certo dottore, un tale Murray, mi pare… E volevo chiedervi per quale motivo fosse in vostro possesso, visto che non mi risulta che ci fosse alcun Murray recente nell’albero genealogico dei Rochester o dei Pemberley. Ho trovato i registri alcune settimane fa», spiegò quando lo vide piegare appena il capo di lato con aria interrogativa. «E ho scoperto anche che il titolo dei Rochester risale all’epoca di Enrico VI, e non ci sono Murray per generazioni. Ad ogni modo, da quanto ho potuto leggere chiunque abbia scritto quel folle diario non pareva essere imparentato con alcuna famiglia nobile, o avrebbe di certo lasciato il suo stemma o il suo titolo da qualche parte tra le pagine. Insomma, ho trovato curioso che quelle memorie fossero nel castello senza che ci fosse nessun legame apparente con i precedenti proprietari; voi avete idea di chi si tratti?»
Adam non le disse che non avrebbe dovuto leggere quel diario in primo luogo e che avrebbe dovuto evitare di ficcare il naso in faccende che non la riguardavano, per il semplice motivo che stava cercando di comportarsi in maniera decente e degna di un qualsiasi altro gentiluomo dell’alta società. Dopotutto, poteva ben capire che la giovane doveva essersi annoiata parecchio per essersi ritrovata a vagare per l’Ala Ovest senza conoscere il luogo e rischiando dunque di perdersi nella stessa casa in cui ora abitava; e d’altronde che male poteva esserci se saziava la sua curiosità al riguardo? Non c’era bisogno di rivelarle grossi segreti – avrebbe potuto parlare del dottor Murray senza far trasparire nulla più che una semplice e frammentaria conoscenza.
Decisione presa, raccolse le idee e le rispose.
«Per quel poco che so, il dottor Murray era un amico del conte di Rochester», iniziò a mezza voce Adam, scegliendo con cura le parole. «Benché discendesse da una famiglia ricca e rispettata, non godeva di una fama altrettanto gentile, e per lo più conduceva una vita solitaria e appartata, ostracizzato dalla società londinese. Per via di alcune sue discutibili ricerche, i suoi stessi colleghi iniziarono a considerarlo un pazzo, un folle visionario… Un eretico, addirittura. Non so tramite quale connessione avesse sviluppato un’amicizia con il conte, e non conosco neanche la vera natura di questo rapporto, ma a quanto pare rimasero in contatto fino alla morte di entrambi. Se avete letto attentamente il diario, di certo converrete che il dottore era incapace di ragionare in modo coerente.»
«Certe riflessioni erano molto elusive», mormorò Emma con delicatezza. «Ma mancano diverse pagine, e forse ho perso qualche collegamento nell’intero discorso. Narrava anche di particolari esperimenti sugli esseri umani, credete sia possibile che li abbia fatti davvero o si trattava solo di semplici vaneggiamenti?»
«Ritenete impossibile che li abbia compiuti, milady? Rimarreste scioccata nello scoprire di che genere di barbarie è capace l’essere umano», replicò egli a mezza voce, il viso rivolto verso le fiamme del camino. Nel suo tono vi era qualcosa che la costrinse a sollevare lo sguardo su di lui, ma con quella maledetta maschera era impossibile comprendere davvero che cosa gli passasse per la testa. Eppure non osava domandargli di levarla, memore del loro primo incontro e della veemenza con cui l’aveva avvertita al riguardo; e, per rispetto di quella strana quiete che si era venuta a formare tra loro, Emma aveva deciso di lasciar perdere.
«Trovo solo strano che un uomo di scienza come egli si definiva potesse ricorrere a biechi mezzi per l’unico scopo di saziare qualche dubbio filosofico», fu la sua prudente risposta. «Insomma, stiamo parlando di qualcosa avvenuta poco più di dieci anni fa a Londra, per l’amor del cielo, una città i cui abitanti vantano un certo grado di civilizzazione. Pensare che qualcuno possa aver trattato un altro essere umano alla stregua di una cavia da laboratorio… Non so, è terrificante.»
«Mh. Terrificante, invero.» La voce di Adam fu un sussurro a malapena udibile al di sopra del crepitio delle fiamme del camino. «Ma forse il dottore si nascondeva dietro una maschera di modernità e progresso con la speranza che il marcio del suo animo rimanesse ben lontana dalla luce… Avete mai letto Il ritratto di Dorian Gray, milady?» Emma fece un breve cenno di diniego del capo: suo padre le aveva proibito la lettura della maggior parte delle opere di sir Wilde, ma ora sperava che il suo ospite potesse sopperire alla sua mancanza. «No? Un romanzo terribile nella sua bellezza. Malgrado le disgrazie che capitavano intorno al protagonista, nessuno avrebbe mai potuto dubitare della sua buonafede, per il semplice fatto ch’egli fosse di bell’aspetto, di discreta educazione ed estrazione sociale e che avesse un particolare affetto per le arti; era un così ottimo esempio di ciò che il gentiluomo inglese deve essere che nessuno avrebbe mai creduto che le sue mani fossero lorde di sangue. Non è su ciò che si basa la società londinese, forse? Sulla repressione di ogni forma di istinto naturale affinché soltanto il perfetto e distaccato involucro dell’apparenza sia tutto ciò che viene giudicato dal prossimo? Probabilmente voi avete avuto la fortuna di crescere in un ambiente sereno di questo tipo, protetta da ogni genere di oscenità, e non posso biasimare di certo i vostri genitori per avervi tenuto alla larga dall’orrido; ma posso assicurarvi che Londra è tutto fuorché una città tranquilla una volta che si esce dagli eleganti salotti dell’aristocrazia. E il dottor Murray… Ammetto di aver letto anche io il suo diario, e devo dire che mi sorprende che un elemento del genere non sia stato rinchiuso in qualche istituto… Ebbene, per essere stato bandito da ogni casa rispettabile doveva aver assunto un comportamento davvero impossibile da ignorare, anche secondo i canoni più tolleranti dell'epoca. Dovreste sapere che se c'è qualcosa di cui sono ben capaci gli inglesi, è il conservare rancore come fosse un gioiello prezioso.»
Emma avrebbe quasi potuto giurare ch'egli parlasse per esperienza strettamente personale, e per un lungo momento dopo che l'uomo ebbe concluso il suo breve discorso rimase in silenzio, incerta e insicura su ciò che avrebbe potuto offrirgli in risposta senza rischiare di offenderlo.
Alla fine, decise di ritornare al principio della conversazione. «Da come ne parlate sembra quasi che voi abbiate conosciuto quest’uomo, e che non ne aveste neppure un’opinione tanto gentile», osservò quasi con noncuranza.
«Perdonate la mia veemenza», si affrettò a scusarsi, voltandosi subito verso di lei. «Le mie sono solo deduzioni e riflessioni ad alta voce. Ho letto spesso quel diario e lo conosco quasi a memoria, e ormai mi pare di conoscere chiunque l’abbia scritto come fosse un mio intimo conoscente. Ma dubito che, avendone avuto l’occasione, avrei potuto instaurare una relazione di alcun genere con un uomo del genere – neppure io sarei stato capace di tollerare qualcuno che spaccia per scienza gli esperimenti di uno squilibrato. Un macellaio che finge di essere un dottore… Certe maschere sono impossibili da comprendere e giustificare.»
Ancora quella parola, ancora quell’esempio; Emma inarcò perplessa un sopracciglio. «Devo dire, signore, voi avete una certa ossessione per le maschere.»
Adam emise una sorta di sbuffo sarcastico. «Voi dite? Non più del resto del mondo, direi. Io ho semplicemente il buon gusto di denunciare la mia e non spacciarla per vera.»
Era una buona risposta, quasi filosofica, ed Emma si ritrovò ad annuire, riconoscendola e persino condividendola. Eppure, dava adito a tante altre domande, e lei non resistette dal porgergliene ancora una. «Allora chi siete voi, veramente?»
Egli parve rifletterci sul serio, e la giovane notò che si stava sforzando di non incrociare il suo sguardo come se temesse, in caso contrario, di dire qualcosa di cui si sarebbe pentito. Fissava con insistenza le fiamme del camino, come se in esse ci fosse la risposta ai quesiti dell’umanità, e tamburellava le dita della mano destra sul bracciolo della poltrona. La pendola ticchettava, ed Emma attendeva.
Alla fine, dopo un silenzio innaturalmente lungo, sospirò rassegnato e scosse appena il capo. «Adam. Sono solo Adam», sussurrò.
La risposta non era esattamente soddisfacente, né tantomeno esaustiva. Egli amava parlare ma non di sé stesso, ed Emma non poté fare a meno di chiedersi, per l’ennesima volta, quale fosse il segreto che si sforzava di nascondere con la stessa estenuante ferocia di chi cela il peccato. Chi era Adam? Chi era l’uomo dietro la maschera? Più ripeteva allo strenuo quei quesiti tra sé e sé, più realizzava che vi era ancora molto che non sapeva; se davvero egli era “solo Adam”, per quale motivo i domestici, e una donna severa e autoritaria come Mrs. Duncan per di più, chinavano il capo e gli obbedivano senza discutere e tremavano persino al solo accenno del suo nome? Era forse pericoloso? Era un criminale che aveva stabilito la sua dimora a Pemberley e minacciava l’anziana coppia di custodi costringendoli a trattarlo da piccolo lord?
Nelle mani di chi era finita, per l’amor del cielo? E perché era così difficile ottenere delle risposte in quel castello dimenticato da Dio?
Osservò con aria pensosa Adam che poneva bruscamente fine alla loro conversazione alzandosi dalla poltrona e attraversando la biblioteca per raggiungere il pianoforte, sedendovisi di fronte e sollevando il copri tastiera con una cura reverente. Continuò a guardarlo mentre si sfilava i guanti un dito per volta per poi posarli accanto a sé sullo sgabello, e i suoi occhi seguirono i movimenti delle sue mani callose mentre apriva lo spartito e cercava una qualche pagina in particolare.
Non appena le sue dita sfiorarono l’avorio dei tasti, la musica sgorgò dallo strumento con l’entusiasmo e la forza di una mareggiata, mettendo a tacere qualsiasi altro suono o pensiero estraneo. Era magnifica, straziante e dolorosa, commovente e drammatica, ondeggiava tra note invadenti come bufere e note delicate e leggiadre come amare carezze. Ed era, sorprendentemente, familiare.
Emma riconobbe immediatamente quella musica.
«Avrei dovuto immaginare che foste voi l’autore misterioso», mormorò a mezza voce, posando il mento sul palmo della propria mano e lasciandosi incantare dalla musica sapientemente composta. Egli fece un breve cenno d’assenso col capo nella sua direzione per confermare la sua gentile accusa, e continuando a suonare per il resto del mattino rese superflua ogni altra forma di conversazione.
Chiunque fosse questo Adam, egli doveva aver di sicuro ricevuto un’educazione degna del più nobile tra gli aristocratici; e ciò non faceva che infittire il mistero che lo circondava.


ljkhjfgh


Lawrence Alexander Moore, quarto conte di Grantham e onorevole membro della Camera dei Lord, dimostrava ormai ben più dei suoi cinquantasei anni. Gli ultimi mesi erano stati una prova difficile tanto per la figlia quanto per lui, e adesso molto più bianco si era aggiunto ai suoi capelli, ed era dimagrito al punto da essere diventato la metà dell’uomo che era un tempo.
Mangiava saltuariamente, più per abitudine e per mettere a tacere le proteste del suo maggiordomo che per vero bisogno, e aveva raddoppiato la sua dose giornaliera di brandy e sigari: il suo bicchiere era sempre pieno, e nel suo studio aleggiava sempre l’odore acre del fumo – sarebbe di certo morto asfissiato se di tanto in tanto non fosse entrata una cameriera a spalancare misericordiosamente le finestre. Dormiva poco, e quando cedeva alle lusinghe di Morfeo non riusciva a riposare – il letto era troppo vuoto per ospitare una sola persona, e per questo aveva iniziato ad appisolarsi sulla poltrona dello studio o nel lettino dello spogliatoio, dove talvolta la sua povera sposa lo costringeva a dormire se durante il giorno avevano avuto un alterco particolarmente appassionato. Se sua figlia Emma lo avesse visto in quel momento, dopo quasi due mesi di lontananza, lo avrebbe di certo rimproverato; ed era questo uno dei motivi per cui aveva preso la decisione di spedirla in campagna – non voleva che la ragazza trascorresse il duro periodo di lutto a preoccuparsi ulteriormente per lui, non era quello il suo scopo, e il conte non voleva diventare un peso o una vergogna per la giovane ereditiera.
Per quanto desiderasse avere la figlia al suo fianco, non le avrebbe mai permesso di assistere alla lenta autodistruzione dell’un tempo onorevole e fiero conte di Grantham.
Anche per questa ragione il conte continuava a rimandare e rimandare il giorno in cui avrebbe dovuto raggiungerla nella loro proprietà del Nord Yorkshire – avrebbe voluto raggiungerla già alla fine del primo mese, ma quando aveva visto le conseguenze della sua solitudine e della sua disperazione, aveva preferito attendere di essere nuovamente in forze, o perlomeno decentemente presentabile. Per il momento, sfortunatamente, la sua situazione era solo peggiorata invece di migliorare, ed era stato con immenso sollievo che aveva accettato la proposta del giovane Caledon di passare a trovare la sua promessa sposa; il ragazzo era stato persino tanto gentile e considerato da prendersi il tempo di spedire una lettera al futuro suocero in cui gli raccontava della visita – di come miss Radcliffe fosse momentaneamente influenzata, di come ritenesse che il castello fosse troppo grande per avere soltanto tre domestici, di come la proprietà intera gli avesse lasciato speranze per il prossimo futuro in cui avrebbe potuto, magari, con la sua benedizione, prendervi residenza dopo il matrimonio. Ma soprattutto gli aveva parlato di Emma in toni così gentili e affettuosi che il conte si ritrovò a provare pena per lui, poiché sapeva bene che i sentimenti della figlia ancora non riuscivano a eguagliare quelli del fidanzato; gli disse di averla trovata in salute, riposata, e che malgrado la preoccupazione naturale per la sua istitutrice e il peso del gestire da sola una simile magione, Emma stava gestendo bene la situazione e a suo parere stava riuscendo pian piano a digerire il lutto.
E dunque con quale coraggio avrebbe potuto raggiungerla? Sarebbe andato a portarle la sua sempre vivida afflizione proprio quando lei ne stava appena guarendo, e al dolore della scomparsa della madre avrebbe solo aggiunto l’apprensione per la condizione fisica e mentale del padre. No, non poteva; avrebbe aspettato ancora, avrebbe cercato di riprendersi, e solo allora l’avrebbe raggiunta. Si fidava di lei e della donna alle cui cure l’aveva assegnata, e benché conoscesse solo tramite corrispondenza gli attuali custodi e domestici di Pemberley, poteva dire di trovarli adeguati e degni a loro volta di fiducia.
Sua figlia era quindi in buone mani, ed era lieto di non doversi crucciare anche per lei.
Era attualmente impegnato a redigere dei documenti riguardanti le proprietà della sua defunta moglie, quando il suo lavoro venne interrotto da un leggero bussare alla porta dello studio. Sulla soglia apparve quindi la figura rigida e impettita di Mr. Logan, il maggiordomo di Hambleton che lo aveva accompagnato a Londra come consuetudine, con un piccolo vassoio tra le mani su cui il conte poté notare una lettera.
«Perdonate il disturbo, milord», esordì Logan, con il suo solito cipiglio severo. «È appena arrivato un telegramma per voi.»
Mettendo da parte i vari documenti egli fece cenno al maggiordomo di avvicinarsi, prendendo un affilato tagliacarte dalla scrivania e usandolo per aprire la busta della lettera. Quindi l’avvicinò alla lampada a gas e, inforcati gli occhiali sulla punta del naso, lesse.

Telegramma di Sir Arthur Carlisle al Conte di Grantham

Milord: ho ragione di credere che vostra figlia sia in grave pericolo STOP Impossibile raccontare ogni cosa per lettera STOP Raggiungete Pemberley Manor il prima possibile STOP In fede, un amico.

«Che diavolo», borbottò sconcertato il conte, rileggendo un altro paio di volte il curioso messaggio. «Quando è stato spedito?»
Mr. Logan diede una rapida occhiata al retro della busta. «Pare… quattro giorni fa, milord. Strano che sia arrivato così in ritardo», rispose, per poi scrutare brevemente il volto rannuvolato del suo padrone. «Va tutto bene, milord?»
Il conte esitò un momento, le dita ancora strette su quel foglio in sé privo di valore. «Non ne sono molto sicuro, Logan, in realtà», rispose, mentre una gelida apprensione si faceva largo nelle sue ossa. «Credo che sia ora di organizzare il mio viaggio a Pemberley Manor, dopotutto. Iniziate a dare disposizioni, vi dispiace? Ho intenzione di partire il prima possibile. Ah, e… Logan?»
«Sì, milord?»
«Informatevi su questo Arthur Carlisle e procuratemi il suo indirizzo. Voglio parlarci.»
Il maggiordomo annuì, conscio dell’improvvisa serietà della faccenda.
«Subito, milord.»
















_______________________________________________________

¹ «I morti viaggiano veloci.» Verso tratto dalla Lenore di Gottfried August Bürger (1747-94), noto poeta tedesco. La ballata canta la fuga di Lenore con lo spettro del suo amante defunto.
_______________________________________________________





Note dell’Autrice.
Chiamatemi Lazzaro – sono resuscitata!
Davvero, non ci sono abbastanza parole per chiedervi scusa. Dopo quasi nove mesi di attesa, partorisco un capitolo riflessivo, uno dei più difficili in assoluto che mi sia mai ritrovata a scrivere, e dove succede poco e niente – però i nostri due protagonisti si limitano ad imparare a conoscersi l’un l’altro, e una conversazione circa-meno-quasi civile è capace di fare miracoli, no?
Parlando brevemente della digressione filosofico/letteraria su Dorian Gray a fine capitolo: chiedo perdono se è confusa, errata o sconclusionata; l’ho scritta pensando a come un personaggio come Adam avrebbe potuto interpretarlo, dunque non la voglio spacciare per vera, sbagliata o altro. E in ogni caso l’arte è relativa e soggettiva, e ognuno la elabora e la comprende a seconda di quali sono le sue esperienze di vita.
E abbiamo anche conosciuto, finalmente, il padre di Emma: spero che non sia uscito come il peggior padre dell’anno, e che le sue ragioni per aver lasciato finora la figlia da sola e a mille miglia da casa siano, se non valide e giustificabili, perlomeno comprensibili?
Come al solito, i ringraziamenti sono d’obbligo. Le vostre recensioni sono sempre meravigliose e le leggo e rileggo in continuazione quando sono bloccata e non so cosa scrivere perché mi tirano su il morale e mi spingono ad andare avanti anche se con i miei tempi lentissimi, e quindi sono sempre ben accette! Un enorme grazie, dunque, a Sylphs, k_Gio_, Sissi Bennett, Jolly J, NinaTheGirlWithTheHat e Se7f per aver recensito con splendide parole lo scorso capitolo, e ovviamente un bacio e un abbraccio enorme a tutti coloro che continuano a leggere, instancabili e fiduciosi, e ad aggiungere la storia a Preferiti e Seguiti!
Non posso farvi promesse per il prossimo capitolo, vi posso dire solo di rimanere collegati e di pregare tutti i santi che conoscete xD Se vi consola io ho il mio bel diavoletto che mi punzecchia con la sua forca e mi fa scrivere fino a non farmi più sentire le dita – o perlomeno ci prova – e sì, Christine23, sto guardando proprio te. ù_ù
Come al solito, per qualsiasi domanda, dubbio, curiosità o semplicemente per un ciao, trovate tutti i link che volete al mio profilo!
E ora vi lascio alla vostra estate con un bacio, un altro abbraccio e tante care cose
Sempre la vostra
Niglia.

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Noir / Vai alla pagina dell'autore: Niglia