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Autore: Dark Magician    25/07/2015    1 recensioni
[Seconda classificata al contest "The Ancient Tales" indetto da -Tsunade- e Ino;Chan]
«Riparatevi!», gridò [Hazel] tuffandosi dietro la barricata alla sua sinistra. Henry la seguì, Carl e Thomas scelsero l’altra e la cosa le gelò il sangue nelle vene.
Aprì la bocca; avrebbe così tanto voluto avvertirli di nuovo, ricordare loro le regole – perché diamine non avevano ripassato tutto prima? Perché loro ridacchiavano e tanto non serviva a niente, ecco perché – ma il cervello le strillò “decima pecorella!” e si costrinse a tacere.
L’istante successivo il Moloch tarpò la luce che entrava dalla porta, proiettando all’interno i suoi riflessi argentei.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ritornò al paese dopo quattro giorni. Aveva calcolato i tempi per arrivare verso mezzogiorno e il cielo stabile le diede una grossa mano a rispettare la tabella di marcia, oltre al fatto che aveva poca fame e una gran voglia di muoversi e concentrarsi sul percorso.
I Moloch poi l’avevano evitata come la peste, forse sentivano tracce di Vassago e avevano paura; persino i Sentieri sembravano reagire in modo diverso al suo passaggio, più irrequieti.
Voleva altro tempo da passare in solitudine, quindi il piano era fermarsi a casa quelle poche ore necessarie per darsi una degna ripulita, prendere dal nonno le mappe, raccogliere le provviste e ripartire alla volta del Sentiero da tenere sotto controllo.
Non voleva vedere sua madre se non per un saluto frettoloso, non voleva parlare col nonno e non voleva nemmeno vedere Garnet; lei soprattutto avrebbe capito al volo che c’era qualcosa che non andava.
Da una parte la necessità di raccontare tutto a qualcuno la uccideva, dall’altra la straziava il senso di colpa. E comunque non sarebbe cambiato nulla, avrebbe pianto e sofferto davanti alla prova di quanto era vigliacca e le vocette dello schifo si sarebbero fatte più forti che mai. Nell’improbabile caso poi che il nonno avesse deciso di prendere il suo posto – faticava a figurarselo, visto il suo ego – non avrebbe certo potuto farsi tutta la strada saltellando sulla gamba.
Si sentiva in un vicolo cieco e non era certa che altri giorni di solitudine sarebbero serviti.
Aveva paura e non c’era niente al mondo a motivarla.

Il nonno le lanciò un’occhiata rapida e tornò alle sue carte. Questa sua abitudine l’aveva sempre infastidita, ma in quel momento Hazel fu lieta del suo modo sbrigativo. Meno la guardava, meno poteva fiutare qualcosa.
Il nonno aveva una gamma di sentimenti paragonabile a quella di un mattone, se si fosse impegnata a mantenersi salda non si sarebbe accorto di nulla.
Non lasciar trapelare niente, si impose, non essere come sei di solito, quindi.
«Ti sei fatta bella prima di passare da me, vedo», commentò il nonno. Hazel si passò le dita fra i capelli ancora bagnati e li tirò indietro.
«Riparto subito», disse, e l’affermazione parve colpire il nonno, che la degnò di una seconda occhiata.
«Sono preoccupata per l’altro Sentiero», aggiunse Hazel precedendo qualsiasi domanda infida. Preoccupazione intensissima trapelava dalla sua voce, anche se per motivi diversi «Voglio andare là finché il tempo è buono».
«Mi sembra un’ottima idea», disse il nonno. Ovvio, più la vedeva al lavoro più era felice. Constatarlo l’amareggiò un poco.
«C’era qualcosa di interessante in quella foresta?».
Hazel rifletté una frazione di secondo e optò per una mezza verità «Non ho trovato niente di strano, ma il Sentiero più vicino sembrava come abbandonato. Potrei tornarci fra qualche tempo, appena ho qualche giorno libero, e vedere se è cambiato qualcosa».
«Sono d’accordo», disse il nonno «Due notti fa ho avuto una sensazione fortissima riguardo la possibile biforcazione, per cui dalle la precedenza. Ma non abbandonare la zona nella foresta, continuo ad avere formicolii anche su quella».
«Certo», borbottò Hazel. Le uscì un verso angosciato, ma per fortuna il nonno non parve farci caso. Prese le mappe che le servivano ed abbandonò la stanza più velocemente che poté.

Senza palle al piede le bastarono due giorni per tornare al Sentiero che scavalcava il campanile.
Sistemò lo zaino in una delle case più esterne del paese. La porta era stata lasciata aperta ma si chiudeva ancora bene, e il tetto sembrava in buone condizioni.
Era una casetta su due piani, e il piano terra era un unico ampio spazio che doveva fungere sia da cucina che da sala da pranzo. Nel camino c’erano i resti di un fuoco più recente del periodo dell’abbandono, probabilmente qualche altro viaggiatore si era fermato per la notte o per ripararsi. Le due finestre erano entrambe chiuse e sprangate, cosa che avvalorava l’ipotesi.
Si concesse una rapida visita al piano superiore, dove trovò le camere da letto. Non era sua abitudine rubacchiare dai posti abbandonati, ma non riusciva mai a resistere alla curiosità e persino in un momento del genere, con tutti i dubbi che le affollavano la testa, la tentazione fu più forte della sua forza di volontà.
Trovò un paio di coperte in buono stato in un armadio e decise di prenderle in prestito per farsi un giaciglio più comodo. Già era una settimana che dormiva male e sul duro, non avrebbe giovato agli incubi però le ossa avrebbero gradito.
Tornò quindi al piano inferiore, posò le coperte accanto allo zaino e recuperò taccuino e matita, poi mise il viso fuori dalla porta e rimase ferma qualche secondo ad occhi chiusi, ad ascoltarsi.
Le faceva male la testa e aveva un filo di nausea, ma non riusciva a capire se fosse colpa di un Moloch nelle vicinanze o di come si sentiva e basta. Il nonno l’avrebbe insultata, probabilmente.
Si avviò verso il Sentiero con passo svelto, e le occorsero diversi minuti per passare oltre il campanile. Dal Sentiero corse poi attorno alla chiesa, fino in cima alla scalinata, e calcolò una ventina di pecorelle abbondanti. Tornò alla casa per prendere una coperta, per scrupolo, e tenendola sulla spalla cominciò a percorrere il Sentiero dal punto in cui scendeva dal campanile.
Il nonno sosteneva sempre che un Sentiero sul punto di germogliare assumeva un aspetto indistinguibile, e capì il perché non appena vi si trovò accanto.
C’era un punto, un tratto non più lungo di qualche metro, in cui le spirali pigre e armoniche si contorcevano in vortici impazziti, interrotti solo da uno scoppiettare simile all’acqua che bolle quando si facevano troppo rapidi e stretti. Anche il solito tintinnare si distorceva in note stridenti e fischianti, così sgradevoli che era certa sarebbe impazzita se fosse rimasta lì troppo a lungo.
All’altra estremità di quel tratto vorticoso, le spirali riprendevano a scorrere in ampie volute lente, come se non ci fosse niente di diverso.
Non ne era certa, ma l’istinto le diceva che poteva biforcarsi da un momento all’altro. Aveva cibo per una settimana e l’occorrente per un paio di trappole, si sarebbe accampata e avrebbe osservato la situazione.
E avrebbe continuato a sentirsi male da sola, perché più ci pensava e meno le veniva voglia di morire. Al momento l’unica cosa che voleva era vedere Garnet, e si pentiva amaramente di essere ripartita senza nemmeno salutarla.
È perché fai pena, dissero le vocette, ma è giusto così, almeno può vedere quanto fai davvero schifo.
Hazel non riuscì a dar loro torto. Chissà cosa pensava Garnet di lei.

*
Garnet tirò fuori l’amuleto di Crocell dalla tasca interna del grembiule e se lo rigirò fra le dita.
Perché cavolo Hazel non si faceva vedere? Era sicura che fosse tornata, l’avevano vista in diversi, e allora perché non si era fermata? Non ripartiva mai subito, che fretta aveva?
Forse se l’era davvero avuta a male per la faccenda del khef. Di certo aveva frainteso, se le avesse solo dato modo di spiegare…!
«Figo, cos’è?», trillò Maria da sopra la sua spalla, e Garnet chiuse il pugno d’istinto. Le punte della stella le pizzicarono il palmo.
«Niente. Cose mie», borbottò. Maria le scivolò a fianco, il visetto abbronzato arricciato in un’espressione da bambina capricciosa.
«Eddai. Sembrava una stella. Ho visto bene? Non dirmi che è una Luce!».
«Ho detto che sono cose mie».
Garnet si alzò in piedi, si spazzolò la gonna e si avviò giù per il pendio, verso Christine che trafficava con il pranzo. Attorno a loro le pecore pascolavano placide sotto il sole tiepido, un refolo gradevole di vento carezzava le colline e tutto era noioso e tranquillo come al solito.
Christine aveva steso la tovaglia accanto al torrente, in modo da godere dell’ombra degli alberi che lo costeggiavano, e osservava la cesta con aria assorta.
«Giocherelli sempre con quell’affare», disse quando Garnet le fu accanto, senza alzare lo sguardo «Non ci credo che te l’ha dato un maschio, se no non ce l’avresti sempre in mano».
«Chissà», borbottò Garnet stringendosi nelle spalle. Raccolse una manciata d’acqua e se la spruzzò in faccia, e dando le spalle a Christine tornò a fissare l’amuleto.
Non riusciva a sentirsi convinta. Hazel non si arrabbiava mai e comunque non era il tipo che teneva il muso per giorni. Forse aveva avuto un’urgenza, o quello psicopatico di suo nonno l’aveva di nuovo spedita via subito per delle cazzate. Poteva però almeno lasciare un segno, tipo la candela azzurra che metteva sul davanzale quando voleva salutarla con discrezione. Qualsiasi cosa.
O forse era colpa sua che si comportava sempre troppo da stronza. Ma quando si erano incrociate fuori dalla casa del khef non era proprio in giornata, e Hazel ormai lo sapeva bene che quando faceva l’acida in realtà era solo di malumore per altri motivi.
Erano quattordici giorni esatti che non la vedeva, accidenti. Che cavolo le passava per la testa?
«Gaaarnet Gaaarnet», canticchiò Christine, battendo le mani «Che male fa l’amoooor».
Garnet non rispose, si limitò ad un’occhiata fredda.
«Cos’avrai da lamentarti, dico io. Avessi io tutti i tuoi pretendenti, invece sono brutta».
Christine amava ripetere così, ma pur con tutta la fantasia del mondo Garnet non avrebbe mai potuto definirla “brutta”. Aveva occhi castani ordinari e capelli scuri ancora più comuni, ma i suoi lineamenti erano graziosi e delicati come quelli di una nobildonna, era tutto fuorché “brutta”.
«Te li cedo tutti quanti, se li vuoi», le disse, lasciandosi ricadere su un angolo della tovaglia «Mi fanno schifo anche solo a guardarli».
«Ma cosa dici, Bryan è troppo carino».
«Quello è il peggiore di tutti».
Sì, era proprio carino Bryan, soprattutto era stato un vero gentiluomo alla Festa delle Messi di due anni prima, quando aveva cercato di scoparla dietro la taverna. Un signore.
«Maria pensa che quel coso che custodisci così gelosamente te l’abbia regalato lui», sghignazzò Christine «Io invece ho un’altra idea».
Garnet le gettò un’occhiata di sbieco, poggiando d’istinto il pugno chiuso al petto «Ossia?».
«Escludendo i maschietti, c’è solo una persona che può averti regalato un amuleto del genere».
Christine era troppo furba e aveva la vista lunga, e ancora peggio cominciava a conoscerla bene. Era simpatica, sì, ma stava diventando una persona da cui guardarsi.
«Dai, lo sanno tutti che sei amica con quella».
«Mi doveva alcuni favori».
Christine sghignazzò di nuovo, e forse per pietà lasciò cadere il discorso. Si voltò verso Maria e le fece un fischio.
Garnet sospirò e lanciò un’ultima occhiata alla stella di Crocell. Stava per rimetterla nella tasca interna del grembiule, ma la postura rigida che assunse Christine paralizzò anche lei di riflesso.
«Che succede?», chiese, ruotando il busto verso il pascolo.
Non ebbe bisogno di risposta, era palese che ci fosse qualcosa di strano. Le pecore erano come congelate, bloccate con il muso per aria, e fissavano tutte nella stessa identica direzione. Maria era accanto al cane pastore e gli picchiettava la testa cercando di attirare la sua attenzione, ma pure lui pareva paralizzato.
«Maria, non mi piace», disse Christine. Fece per alzarsi, ma Garnet fu più rapida e si lanciò di corsa su per il pendio, verso la ragazzina.
«Cos’è successo?», le chiese, e Maria si strinse nelle spalle.
«Che ne so, fino a un attimo fa erano tutti normali. Cosa c’è laggiù?».
Garnet portò una mano a riparare gli occhi e aguzzò la vista. Niente che potesse vedere, nessun temporale all’orizzonte o frane o chissà cosa.
«Non lo so. Penso però che sia meglio se ci-».
Un guaito si levò dal cane pastore e l’istante successivo tutte le pecore gridarono. I loro belati si unirono in un suono angosciante, assordante, e Garnet resistette a fatica alla tentazione di tapparsi le orecchie. Prese invece la mano a Maria e la trascinò verso di sé, forzandola dalla sua immobilità.
Era terrorizzata, glielo si leggeva negli occhi e lo capiva benissimo, persino lei si sentiva il cuore in gola e di solito non si spaventava con niente.
«E’ meglio se ci spostiamo!», le gridò in un orecchio, e Maria annuì debolmente «Potrebbero farci male se-».
Così come avevano cominciato, di colpo le pecore tacquero. Ripresero una postura più morbida e tornarono a brucare il prato come se niente fosse successo, solo il cane pastore sembrava ancora scombussolato e guaiva piano al nulla.
«-se stiamo qui in mezzo», concluse Garnet, spiazzata. Lasciò la mano di Maria e si guardò attorno.
«Questa poi. Un momento di follia?».
Poi le esplosero gli occhi, e rimasero solo il buio e un dolore straziante.

*
Hazel si bloccò con un boccone di formaggio già in bocca. Le formicolavano le dita e la lingua e avvertiva un prurito sgradevole alla base del collo; tutti i muscoli le si erano irrigiditi e ingoiare fu una tortura, come mandar giù un sasso.
Si alzò in piedi con circospezione, agguantò la coperta con una mano e dischiuse la porta quel tanto che le bastava per poter sbirciare fuori. Dove fino a poco prima c’erano solo un pendio erboso e colline ora si ergeva un nuovo Sentiero, brillante d’energia.
«Non è possibile», disse Hazel, portandosi la coperta sulla testa «Ero dentro da tre minuti a esagerare. Tutto così veloce e indolore?».
Si vergognava ad ammetterlo, ma era affascinata. Aveva visto solo un’altra biforcazione prima di allora e mai così da vicino, era davvero-
Un conato di vomito le segnalò l’arrivo di un Moloch. Avanzò per tutte le sei pecorelle che le suggerì l’istinto, poi si raggomitolò a terra e si coprì con attenzione.
Il Moloch però non si fermò; Hazel sentì chiaramente il suo canto, ma fu lieve e passeggero, svanì in pochi secondi. Se ne stupì solo per un momento, perché il nonno glielo ripeteva spesso che quando si apriva un Sentiero nuovo i Moloch non vedevano l’ora di esplorarlo e vi si riversavano in tutta fretta.
Altro conato e altri brividi – ad intuito ne erano passati almeno due.
Attese diversi minuti, e quando la situazione le parve abbastanza stabile tornò in piedi e si diresse di corsa verso la biforcazione.
Era netta e davvero bellissima (le vocette dello schifo la spernacchiarono), formava con l’altro Sentiero un angolo che ad occhio doveva misurare almeno sessanta gradi, e andava in direzione-
Fu in quel momento che se ne rese conto, e la sensazione fu peggiore del passaggio di centomila Moloch.

*
Aveva sempre pensato che un cieco vedesse solo nero, ma quello non era durato che pochi istanti. Era stato sostituito gradualmente da una luce soffusa, e ora l’unica cosa che vedeva era un muro d’argento e basta.
Il dolore dietro le orbite le trapanava il cervello e le scatenava ondate di nausea, ma cominciava a trovarlo sopportabile – quando sua madre l’aveva presa a calci così forte da farle pisciare sangue per una settimana era stato peggio. No, la cosa che l’angosciava di più erano le urla disperate di Maria, da qualche parte accanto a lei, e la sensazione di roba appiccicosa che le colava sulle guance.
«Christine!», gridò, e la sua voce le suonò quasi estranea da quanto tremava. Stava piangendo senza rendersene conto?
«Christine, per la Madre, ti prego vieni qui!».
Le urla incomprensibili di Maria si mischiarono all’abbaiare furioso del cane pastore. Garnet si portò una mano al viso e tastò le guance appiccicose, poi fece risalire lentamente le dita fino alle orbite e trovarle vuote le mozzò il respiro.
«Cazzo, Christine!», gridò ancora «Maria, tu invece sta’ zitta!».
«Garnet! Oh Dei, oh Dei» la voce di Christine le giunse da qualche parte vicino a lei, e subito dopo si sentì toccare una spalla «Oh Dei, Garnet, cos’è successo? Oh Dei».
«Smettila, per carità», le rispose, e le fece piacere trovare la propria voce ora un po’ più salda «Fai tacere Maria o la strozzo».
«Anche lei è… oh Dei», balbettò Christine. Le lasciò la spalla, e Garnet l’avvertì spostarsi poco più in là «Maria, tesoro, ci sono io qui. Ora calmati, ti prego».
Mi sono scoppiati gli occhi, realizzò Garnet in quel momento. Avevano fatto un rumore assurdo, un “pop” come di mais nel fuoco, l’aveva sentito rimbombare in tutta la testa, ed erano esplosi.
C’era un qualcosa che voleva emergere, lo avvertiva chiaramente, un ricordo forse, ma le faceva troppo male la testa.
Sono cieca, pensò, e trovò idiota il modo in cui un po’ per volta stava realizzando l’ovvio.
Sono cieca e forse mi è saltato anche un pezzo di cervello.
E tutto attorno a lei era così confusionario. Le pecore belavano e scalpicciavano su e giù nell’erba, e poi il cane abbaiava, e Maria continuava a piangere e strillare impazzita e c’era anche la voce allarmata di Christine – e le scoppiava la testa, non capiva più niente.
Strinse i pugni e le punte della stella di Crocell le punzecchiarono la mano. Non si era accorta di averla tenuta stretta per tutto il tempo.
«Christine», mugolò, e in quell’istante un brivido le attraversò il corpo, paralizzandola. Una vampata acida le risalì la gola, accompagnandosi ad un conato che trattenne a stento, ed insieme si sentì pervadere da un senso di angoscia e terrore che non capiva e non aveva mai provato.
Una sensazione di allarme le scaturì dal fondo della testa, soverchiò il dolore e la strappò dalla rigidità.
«Christine!», gridò, così forte da graffiarsi la gola. Maria smise di strillare e si limitò a singhiozzi rumorosi «Christine, cazzo! Togliamoci da qui!».
«Cosa succede?», chiese Christine, l’ansia che le permeava la voce. Garnet allungò la mano libera e riuscì in qualche modo ad afferrarla.
«Portaci giù. Christine, cazzo, portaci giù, ripariamoci, non…».
Non voleva dirlo. Il suo cervello lo sapeva, il suo intero corpo l’aveva capito, ma la sua parte razionale continuava a combatterci.
Trattenne un altro conato premendo la bocca contro l’incavo del gomito.
«Va bene, va bene, stai tranquilla. Maria, tesoro, andiamo al fiume a sciacquarci la faccia, okay?».
Maria proruppe in un urlo ai limiti dell’umano, tanto angosciante che Garnet si sentì saltare un battito. Il cane smise di abbaiare e passò ad uggiolii pietosi.
«Maria, ti prego. Non ti posso trascinare, ci facciamo male entrambe. Alzati».
Garnet gemette. Anche la sensazione in fondo alla testa stava urlando, le pareva quasi di sentirla strillare imperiosa “porca puttana vattene”.
«Christine», mugolò, e l’altra le rispose con un versetto disperato.
«Maria, ti scongiuro, non riesco a prenderti in braccio. Seguimi, per favore».
La sensazione le riverberò ora per tutto il cervello.
Cazzo, vattene, le strillò, vattene da qui!
«Christine, io scendo».
«Aspetta un attimo, ti farai solo male così!».
La sensazione si era fatta martellante. Vai vai vai vai vai vai, ripeteva incessante, vai vai vai vai vai vai vai vai, e l’intensità aumentava ad ogni secondo che restava immobile.
Vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai vai
«Io sto impazzendo», gemette, e allungando la mano libera davanti a sé cercò di incamminarsi giù per il pendio. Riuscì a fare una decina di passi, prima di scivolare sull’erba umida e terminare la camminata rotolando. La fermò uno degli alberi che costeggiavano il fiume, e per quanto doloroso fosse stato l’impatto ringraziò di non esserci finita di schiena, perché era certa che se la sarebbe spezzata.
Udì uno scalpiccio, e pochi secondi dopo Christine era accanto a lei.
«Sei matta? Maria non si muove, non potevi-».
La sensazione continuava a echeggiarle nella testa sempre più urgente, sempre più disperata.
«Lasciala là», disse. Le costò meno fatica di quanto credesse «Trova un posto riparato, subito. Ti prego, fallo. Io sto per uscire pazza ma credo-».
Dillo, la pungolò la sensazione, lo sai. Dillo.
Riuscì solo a muovere le labbra a formare la parola “Moloch”, ma dal verso che Christine fece doveva aver colto pure troppo.
«Oh Dei. Ma Maria… Maria… vado a-».
«Christine!», la richiamò Garnet rimettendosi in piedi, e questo parve riscuoterla. Christine l’afferrò per un polso e la condusse giù, nell’acqua fino al ginocchio, e poi dopo pochi passi di nuovo su, fuori dall’altra sponda.
«Mettiamoci… qua! Qua può andare, vero? Oh Dei, ditemi che va bene».
La trascinò per diversi passi, poi si fermò di colpo e la spinse giù a sedere.
«Striscia», disse Christine, sospingendola ora più delicatamente «Ci sono… fra i cespugli».
Garnet alzò d’istinto un braccio a ripararsi la faccia. Rami appuntiti le graffiavano il corpo e le guance e intanto la sensazione continuava a gridare e gridare e le stava per scoppiare la testa.
«Vado a riprendere Maria», disse Christine, ma Garnet le agguantò la gonna e la trascinò addosso a sé. Christine emise un gridolino e cercò di rialzarsi.
«Ti prego, non c’è tempo», le sibilò Garnet, stringendole le braccia attorno alla vita per trattenerla.
«Ma non possiamo-».
Lontano, così estraniante che pareva in un altro tempo, Maria emise un risolino di gioia.
Poi arrivò il canto e, per gli Dei, era la cosa più bella che Garnet avesse mai sentito.
Spazzò via quella sensazione di pericolo così invadente con due note, cancellò ogni minima parvenza di dolore e la riempì di una gioia spumeggiante, di speranza e di tranquillità.
Sentì Christine rilassarsi, ancora fra le sue braccia, ed emettere un mugolio soddisfatto.
Come si sentiva bene, ora. Niente più pensieri sgradevoli. Niente più preoccupazioni.
Le tornò in mente la prima volta in cui Hazel l’aveva approcciata, al pozzo. Qualcosa l’angustiava – chissà cosa, ma non era importante – e Hazel si era avvicinata e le aveva rivolto la parola con una scusa stupida, del tipo “che bel tempo oggi”, eppure era stato un momento così piacevole. E la prima volta che si erano baciate, poi! La prima volta che aveva potuto finalmente baciare una ragazza, che bello. E quando Hazel le aveva sfiorato il seno per errore ed era diventata tutta rossa! Mentre i ragazzi del paese facevano a gara per palpeggiarla, lei si vergognava!
Com’era dolce, Hazel. Com’era bello farsi toccare da lei.
Com’era bello e com’era effimero tutto quanto.
Quanto tempo le era rimasto prima che suo padre la obbligasse a sposarsi, un anno? Quanto tempo aveva per accettare l’idea che avrebbe dovuto farsi scopare da un maschio – che schifo, Dei, che schifo – e poi rimanere incinta e poi farsi scopare di nuovo e di nuovo e di nuovo e fare figli figli figli decine di figli centinaia di figli e poi morire infelice dopo migliaia di scopate che le facevano schifo.
Dei, non voglio. Vi prego, non voglio.
(Vorresti essere libera di scegliere?)
Sì! Sì, vi prego, lasciatemelo fare. Non mi voglio sposare.
Non era certa di quanto sarebbe potuta durare con Hazel. Hazel era dolce-dolcissima, e lei era così gelida e stronza. Si sarebbe stancata, prima o poi.
Ma non lo faceva apposta, era tutto quello che le succedeva intorno a farla essere stronza! Hazel lo capiva perché era speciale, una di quelle persone sensibili, e quindi di sicuro lo sapeva.
Oh Hazel, dove sei adesso? Perché mi ignori? Ti prego, non ti stancare di me.
(Vuoi andare da lei?)
Oh, sì! Lo vorrei così tanto. Così potrei spiegarle che non è stata una mia idea andare dal khef con le tette così di fuori, ma sono sicura che lei lo sa già. Lei capisce queste cose, perché è sensibile. È così buona, Hazel, proprio non capisco come faccia a piacerle una come me.
(Allora vieni. Tutto ciò che vuoi sarà, perché è così che deve essere)
Sì! Così deve essere ed è giusto che-
Strinse il pugno, e la stella di Crocell la riportò alla realtà penetrandole la carne con le sue estremità appuntite.
Garnet cadde sui talloni e scosse la testa, intontita. Non aveva più Christine tra le braccia, non c’era più traccia di lei e la mano le faceva tanto male da farla lacrimare.
Le sembrava di sentire la propria voce riecheggiarle nelle orecchie e nella testa.
Cos’è successo?, si chiese, ma l’aveva già capito ancor prima di formulare il pensiero. Sentì un gorgheggio in lontananza, durò un paio di minuti e poi scomparve, sostituito da un tintinnio.
Aprì lentamente il pugno e fece malissimo. La forza che dovette imprimere all’altra mano per estrarre la stella poi le lasciò un retrogusto disgustoso.
Anche la testa faceva male, pulsava e sembrava sul punto di scoppiare come gli occhi, ma non era la sensazione peggiore.
La sensazione peggiore era che adesso si sentiva svuotata, depressa, terrorizzata, tutto assieme nello stesso momento, e prima invece era tutto così bello e piacevole e lo rivoleva indietro.
Le sfuggì un singhiozzo. Si portò le gambe al petto e gli altri li soffocò contro le ginocchia.

Non riusciva a quantificare quanto tempo fosse passato, sapeva solo che ora si era alzato il vento e aveva tanto freddo da sbattere i denti. Si sentiva svenire, e già da un po’ stava facendo leva su tutta l’ignoranza che possedeva per non crollare.
Il muro d’argento davanti ai suoi occhi – o qualsiasi cosa ne restasse – era più vivido e brillante che mai.
Poggiò la fronte sulle ginocchia e infilò le braccia nella camicia nel tentativo di scaldarsi un po’.

Alzò la testa di scatto. Si era addormentata?
Una figura nebulosa si mosse davanti a lei, e poi diventò due figure.
Oh Dei, ci vedo! Ricomincio a vederci!
«Garnet Rendu?», la chiamò una delle due ombre. Aveva un che di familiare.
«Ricomincio a vederci!», ripeté ad alta voce.
L’ombra le si agitò davanti.
«E’ ancora scossa», disse all’altra ombra «E di certo non può camminare. Usher, prendila tu e andiamo da Alstrom per farla medicare. Poi credo sia meglio lasciarla dal khef finché non si riprende».
«Ho freddo», disse Garnet. Le parole le frullavano per la testa confuse, voleva dire così tante cose e non ne capiva mezza.
«Fuchs, caricami pure e riportami a casa», disse l’ombra alla sua amica ombra più lontana «Voglio mandare subito un piccione a Klinefelter. E appena starà meglio devo parlare con la ragazza».

*
Hazel si lanciò sulla porta di casa e la spalancò con enfasi. Sua madre stava arrostendo qualcosa sul fuoco per la cena, e per quanto invitante l’odore le diede il voltastomaco.
«Ciao, tesoro. Non rompere le cose».
«Dov’è il nonno?», ansimò Hazel. Si tolse lo zaino dalle spalle e lo posò a terra, e rimase qualche istante con le mani sulle ginocchia a riprendere fiato.
In realtà non le interessava niente del nonno in sé, ovvio, voleva solo sapere che Garnet stava bene e che erano due giorni che si preoccupava per niente. Voleva che qualcuno glielo dicesse, “ti stai facendo come al solito problemi inutili”, e il nonno forse era l’unico che poteva farlo.
«Dal khef», le rispose sua madre, con un’aria greve che ad Hazel non piacque per niente «Mi ha detto di ordinarti di andare da lui non appena fossi tornata».
Questo le piaceva ancora meno.
Si limitò ad annuire e si precipitò fuori di casa.

Bussò alla porta del khef con la mano che le tremava, e nell’attesa che qualcuno le aprisse ne approfittò per sistemarsi i capelli e rassettare i pantaloni (che tanto rimanevano sporchi di terra ed erba da far schifo, niente da fare).
Che diamine ci faceva il nonno dal khef? Oltre al fatto che si odiavano a morte, una volta appurato che il nuovo Sentiero passava ben lontano dal paese, cos’altro avevano da dirsi?
Ad aprire fu una delle domestiche giovani, si chiamava Cybil o qualcosa del genere. Abbassò rapidamente lo sguardo e le rivolse un inchino di saluto.
«Signorina Bornholm, prego».
Hazel ricambiò il saluto con un cenno ed entrò, attendendo che la domestica richiudesse la porta prima di parlare.
«Mio nonno mi ha… lasciato detto di venire qui».
Alla domestica sfuggì un mezzo sguardo esasperato «Il signor Bornholm ci aveva già avvertito, è qui da ieri. La prego di seguirmi».
Questo era così strano da essere inquietante. Il nonno che si allontanava per un giorno dal suo lavoro? Il suo preziosissimo lavoro? Assurdo.
La domestica si incamminò per il lungo corridoio d'ingresso, e Hazel la seguì in silenzio buttando occhiate qua e là. Era abbastanza sicura che un paio di quadri fossero cambiati, ma magari erano solo stati spostati altrove.
La domestica voltò di colpo mentre era distratta e quasi Hazel la perse di vista. Credeva che avrebbero raggiunto lo studio del khef, invece la domestica imboccò una rampa di scale e la condusse al piano superiore.
«La terza porta sulla sinistra», disse, e tornò giù senza aspettare nemmeno un ringraziamento. Sembrava nervosa e molto a disagio, forse era l'effetto del nonno. Non era una persona propriamente affabile, specie quando lo tenevano lontano da tutte le sue cose.
Hazel bussò titubante, e come si era già figurata fu la voce del nonno a risponderle un “avanti” scocciato.
«Nonno, sono io», disse, socchiudendo quel tanto che bastava per infilare il capo.
Il nonno era stravaccato su una poltroncina rossa, e non era solo. C'era un'altra persona, seduta sul bordo del letto in mezzo alla stanza, ma con la faccia così bendata non-
Hazel sentì il cuore farle un tuffo.
«Garnet», gemette, in un tono così lamentoso che se ne vergognò. Le costò molta fatica trattenersi dal lanciarsi al suo capezzale; si limitò ad entrare e chiudere la porta, per poi appoggiarvisi contro perché le tremavano le ginocchia.
Garnet era viva e questa era la notizia più stupenda da un po' di giorni a quella parte, ma aveva anche l'aspetto di una che è appena franata giù da un dirupo. Anche se indossava un vestito da notte immacolato che migliorava appena l'immagine complessiva, una fasciatura le copriva mezza faccia, una mano era bendata fino al gomito e non riusciva a vederle un centimetro di pelle che non fosse ricoperto da graffi.
Però era viva e sorrideva, e questa era la cosa più bella del mondo.
«Cos'è successo?», chiese, riuscendo a dare alla voce un po' di contegno.
«Te la sei presa comoda», commentò il nonno. Sfregò un fiammifero contro la suola dello stivale e si accese la pipa – pessimo segno, in genere significava qualcosa del tipo “mettiamoci pure comodi che sarà lunga”.
Hazel non poté trattenere un gemito. Avere Garnet davanti – conciata così, poi! – e non poter rimanere sola con lei era una tortura.
«Non fare versi», la riprese subito il nonno «Forse non ti rendi conto della situazione».
«Va tutto bene, Hazel», disse Garnet, e la sua voce salda fu un toccasana. Il nonno le lanciò un'occhiata gelida, ma Hazel era sicura che se anche l'avesse vista non le sarebbe importato granché.
«Hai già visto dove passa il nuovo Sentiero», disse il nonno. Non era una domanda, ovviamente lui esigeva che questa informazione le fosse nota dall'istante in cui era germogliato.
Hazel annuì, lo sapeva pure troppo bene. Non avrebbe passato se no un giorno e mezzo – perché il ritorno l'aveva fatto a rotta di collo – a struggersi pregando la Madre e il Padre che quel giorno Garnet non fosse andata al pascolo come al solito. Se era viva, o aveva avuto la fortuna di trovarsi abbastanza lontano o per un miracolo era rimasta a casa.
Qualcosa però le suggeriva che invece al pascolo ci fosse eccome, e la presenza del nonno rafforzava la sensazione.
«Bene. Signorina Rendu, ripeti a mia nipote quello che mi stavi dicendo. Perché tu sei viva e le tue due compagnucce no?».
Le labbra di Garnet tremarono, per poi distendersi in un mezzo sorriso.
«Perché qualcosa mi ha... oh, per gli Dei! Non so bene come ma ho sentito che stava arrivando un Moloch, cazzo».
Hazel batté gli occhi.
Non era certa di aver capito bene.
«Come?», mormorò, e in risposta il nonno sbuffò e batté una stampella contro la base della poltrona.
«Hai sentito benissimo e sai ancora meglio cos'è successo. Quando ieri sera abbiamo trovato la signorina Rendu le erano già ricresciuti i bulbi oculari, se la sto facendo tenere bendata è solo per non affaticarle la vista e soprattutto non spargere la voce fra i domestici. L'unico al corrente oltre a noi è Allen, per ovvi motivi».
«Ma come... cioè... com'è...?», borbottò Hazel. Continuava a sentire la testa confusa e nel petto un miscuglio di emozioni che non riusciva a separare. La più intensa era una forte voglia di appoggiare la fronte sulle ginocchia di Garnet e piangere per tutta la notte.
«Questo però mi interessa relativamente», tagliò corto il nonno «E' infrequente, ma è una cosa che succede quando ci si trova sulla traiettoria di un Sentiero. Già lo sapevo».
«Io no», sbottò Hazel, ma il nonno la ignorò.
«Quello che vorrei sapere è come hai fatto a non cedere al Moloch, signorina Rendu», continuò, soffiando fuori il fumo e fissando Garnet con uno dei suoi tipici sguardi psicopatici «Immagino ti sia concentrata sul dolore alla mano».
Garnet rispose con un risolino amaro, e ad Hazel bastò quello a capire che il canto del Moloch l'aveva sentito benissimo e gli aveva pure risposto. Fu presa da un brivido intenso che la costrinse a scivolare per terra, o non le avrebbero retto le ginocchia.
«Oh, ma io ho ceduto. Mi prometteva cose troppo belle».
Il nonno inarcò un sopracciglio «Quanti sì?».
«Tutti e tre», rispose Garnet con una noncuranza fuori luogo. Hazel si sentì morire.
Pure il nonno parve accusare il colpo; rimase paralizzato per un istante, poi si sporse in avanti, artigliando i braccioli con le mani. Persino la sua voce di solito indifferente tradiva qualcosa a metà fra l'eccitazione e la sorpresa.
«E? Ne sei sicura?».
«Oh sì, gli ho detto “sì” tre volte e credo di averlo fatto ad alta voce. Poi mi sono piantata questo nel palmo» e alzò la mano non fasciata. Al polso portava l'amuleto di Crocell.
«Oh Madre dolcissima», mormorò Hazel. Il nonno invece si carezzò la barba, interessato.
«Ma tu guarda. Un miracolo».
«Crocell mi ha protetto», disse Garnet seria, e ad Hazel tornò in mente Vassago. La voglia di piangere aumentava di secondo in secondo.
«Hazel?», la chiamò Garnet, allungando un braccio. Hazel letteralmente arrancò fino a lei, si sedette ai suoi piedi e le prese le mani.
«Cosa c'è?».
«Grazie», le disse solo, ma nonostante le bende il suo viso – il suo sorriso – esprimeva tantissime altre cose, gioia come non gliene aveva mai vista e amore intenso.
Le pugnalava il cuore.
«Manderò subito un altro piccione a Klinefelter», disse il nonno e Hazel voltò la testa di scatto, stupita «Tornerò fra qualche ora per toglierle le bende approfittando della notte. Tanto sono nella stanza accanto».
Recuperò le stampelle e balzellò fino alla porta, per poi scomparire nel corridoio; la porta non si era ancora richiusa che già Hazel aveva preso il viso di Garnet per un bacio che desiderava da un sacco di giorni.
Poi il peso di tutte le cose tornò a schiacciarle il cuore, e non poté far altro che piangere per l'ennesima volta e singhiozzarle sulle ginocchia.
Garnet rimase in silenzio a lungo, carezzandole i capelli. Probabilmente stava anche riflettendo, perché d'improvviso schioccò la lingua, cosa che tendeva a fare al termine di un ragionamento.
«Voglio sapere cosa ti turba», disse infatti, e Hazel si irrigidì «Perché sei ripartita senza salutarmi?».
«Era... urgente».
«Non dirmi cazzate».
Hazel si mordicchiò un labbro. Era sicura che sarebbe andata a finire così.
«Dovevo esplorare una certa zona e sono... sono successe delle cose», borbottò, e in un filo di voce le raccontò tutto quanto.

Al termine del racconto Garnet rimase con la mano non fasciata sopra la bocca, in silenzio. Non poteva vederle il viso, ma era certa che avesse un'espressione contrita.
«Non è che non volessi vederti», borbottò Hazel. Stava lottando contro i lacrimoni, ma la voce non riusciva a controllarla e suonava d'un piagnucoloso imbarazzante «Ma non... non mi sentivo di parlarne con nessuno ancora. Non so cosa fare».
Le vocine dello schifo si levarono forti e le urlarono “vigliacca”.
«Sei davvero sicura che fosse...» Garnet lasciò in sospeso la frase e si passò la mano sulla fronte «Sì, sì, lo era di certo. Ma forse c'è-».
«Credo che dovrei morire», la interruppe Hazel, e Garnet sussultò «Non voglio farlo, neanche un po', ma mi faccio troppo schifo così. Non voglio che qualcuno muoia solo perché io sono così vigliacca. Vassago ha parlato con me, segno che così vuole il destino. Se non lo faccio arriverò alla fine dei miei giorni sentendomi una merda».
«Ascoltami un attimo», disse Garnet con voce dura. Hazel stava per ricominciare a piangere, ma il tono di quelle parole la colpì come uno schiaffo e frenò le lacrime sul nascere.
«Non devi per forza morire per incontrare il Pellegrino. Cioè, non del tutto. Sai quanta gente l'ha visto e poi è riuscita a tornare indietro?».
«Sono tutte favole, quelle. O allucinazioni».
«Non azzardarti a dire il contrario perché sì, Zee, o mi incazzo. Puoi parlargli e ritornare, non è facile ma succede».
«Anche se fosse come farei a- oh, no. Non sono sicura... non credo te lo permetteranno».
Garnet arricciò le labbra e si batté la mano a pugno sulla coscia «Faccio quello che mi pare. Non mi sposo, non sgravo e appena ci vedo vengo con te. E tu non muori».
Hazel tacque. Le prese le mani e gliele baciò, poi si allungò a baciarle la bocca. Voleva dirle che l'amava e soprattutto amava il suo senso pratico, ma il nonno la interruppe aprendo la porta tanto forte da mandarla a schiantarsi contro il muro.
Accanto a lui c'era il khef, nei suoi eleganti abiti neri. Si limitò a guardare il nonno con vaga disapprovazione.
«Ora di controllare. Levati, Zee».
Hazel si spostò di lato e si alzò in piedi, salutando il khef con un mezzo inchino.
«Come pensi di comportarti, Connell?», disse il khef portandosi davanti a Garnet, mentre il nonno le si sedeva accanto sul letto.
Ad Hazel sfuggì una smorfia sorpresa, non ricordava l'ultima volta in cui aveva sentito qualcuno che non fosse sua madre chiamare il nonno per nome.
«Che ne so. Prima controlliamo, anche se non ho alcun dubbio».
Con gesti rozzi il nonno sciolse la fasciatura attorno alla testa, poi lui e il khef restarono ad osservare in silenzio. Hazel tentò di allungare il collo, ma Garnet aveva il capo girato e da lì non riusciva a cogliere niente.
«Ci vedi?», disse infine il nonno.
Garnet annuì «Un po' annebbiato, ma abbastanza nitido da dirle cosa indossa».
«Allen?».
«Sì, non ci sono dubbi», disse il khef raddrizzando la schiena e intrecciandovi dietro le mani «Convocherò il signor Rendu non appena sorge il sole, deciderà poi lui se-».
«Ma figuriamoci», sghignazzò il nonno «Lo obbligherai a darmi la ragazza, va formata e posso farlo solo io».
«Non credo di averne il potere».
«E allora intortalo come tu sai fare. Convinceresti il Padre a darti le lune, non avrai difficoltà».
Il khef non aggiunse una parola; il suo volto era imperturbabile e quasi inquietante, alla luce delle lampade ad olio.
«Mi preoccupa più Magda, a onor del vero», continuò il nonno «Il tuo parere invece è superfluo, Zee».
Il khef si allontanò verso la porta, e Hazel ne approfittò per spostarsi e sbirciare. Gli occhi di Garnet erano ancora gonfi e lividi ma non c'erano dubbi, per gli Dei – la sclera ora era grigia e le iridi argento brillante, solcate da spirali vorticose dai bagliori intensi.
Aveva la luz. Madre dolcissima, Garnet aveva la luz e lei doveva morire per aiutare Vassago.
Se il destino avesse avuto un volto, probabilmente avrebbe riso per la crudele ironia.

*
Da che la conosceva, non ricordava di aver mai visto Garnet così radiosa. Lo zaino pesava un sacco, eppure non sembrava sentire la fatica da come trotterellava su per il sentiero. Ogni tanto si lasciava andare in chiacchiere casuali, un argomento ricorrente era la comodità dei pantaloni.
Hazel la osservò in silenzio e sorrise, anche se sentiva sulle spalle un peso mostruoso.
Se doveva morire, almeno avrebbe passato i suoi ultimi giorni in modo gradevole.
Tu non vuoi morire, le ricordò il suo cervello, e dovette dargli ragione. In qualche modo Garnet le aveva regalato un barlume di speranza, benché non riuscisse a crederci fino in fondo.
«Non ti stancare troppo», le disse, senza suonare davvero convincente. Garnet ruotò il busto per guardarla, la treccia che le sbatacchiava sul seno e brillava di un arancione intenso.
«Va bene», rispose rallentando il passo. La totale mancanza di polemica prese Hazel in contropiede.

«Oh, per la Madre», disse Garnet portando le mani alla bocca. Per un momento Hazel la fissò perplessa, poi spaziò lo sguardo sull'orizzonte e la reazione le fu chiara.
Il Sentiero era lontano ancora diverse centinaia di metri, ma già lo si scorgeva distintamente ergersi verso il cielo. Anche se col tempo ci si era abituata, rimaneva uno spettacolo maestoso.
«Sì, a vedersi è molto bello», ridacchiò «Da vicino è ancora meglio. Come ti senti?».
Garnet rimase in silenzio a lungo, le mani sempre sulla bocca, poi la sua espressione si fece corrucciata.
«Mi viene da vomitare», disse, e Hazel annuì.
«Anche a me. Vuol dire che ci sono Moloch nelle vicinanze, e se lo sentiamo anche a questa distanza è segno che sono qui in giro. Per ora riposiamoci un po', proveremo ad attraversarlo più tardi».
Garnet borbottò qualcosa di incomprensibile, ma nonostante l'aria nauseata continuava a sprizzare gioia.
È bellissima, non riusciva a fare a meno di pensare, e io non voglio morire.
Davvero, che destino crudele.

*
Lo specchio d'acqua era quieto e silenzioso, sotto le luci del tramonto, e in qualche modo sembrava meno minaccioso della volta precedente.
Hazel lasciò cadere lo zaino a terra e si sedette ad un passo dalla riva, e Garnet le fu accanto l'istante successivo. Le passò un braccio attorno alla vita e poggiò una guancia contro la sua spalla, e Hazel sentì la scintilla di speranza bruciarle un po' più intensa in fondo al cuore.
Ne avevano parlato a lungo, in quei giorni, e doveva ammettere che cominciava a crederci. Vedendo il lato positivo, se fosse morta sarebbe stata meno angosciata – sarebbe morta con la speranza di salvarsi, era un quadro migliore, no?
No, forse non lo era. Forse era addirittura peggio.
«Secondo te lo vedrò?», chiese Garnet, irrigidendosi d'istinto.
«Se vuole mostrarsi sì. Spero non sia arrabbiato con me».
«Che si azzardi».
Hazel rise. Questa intraprendenza aveva un effetto rasserenante.
Non appena il sole scomparve oltre l'orizzonte, piccole scintille bianche saettarono nell'aria come fiocchi di neve spostati dal vento. Dall'acqua si arricciarono volute di nebbia lattiginosa e si compattarono a formare l'inconfondibile figura di Vassago.
Era identico all'ultima volta, con il caschetto disordinato a incorniciargli il viso e quel vestito bianco, e la prima cosa che fece fu incrociare le gambe a mezz'aria e rivolgerle il suo sorrisetto fatto di dentini appuntiti.
«Sei tornata», sghignazzò «E non da sola. Hai riflettuto?».
«Oh Madre», disse Garnet. Chinò il viso verso Hazel e le sussurrò all'orecchio: «Quindi è davvero Vassago?».
Hazel non riuscì a trattenere un risolino. Pensava l'avrebbe vista un minimo intimorita, invece era solo eccitata e basta.
«Così dice lui», le rispose, e Vassago reagì con una smorfia. Aprì la bocca per ribattere, ma Hazel lo precedette «L'istinto mi dice di credergli».
«Grazie tante», sbottò Vassago.
«Ma che ci fa lui qui? Anzi, sommo Vassago» Garnet si alzò in piedi e gli rivolse un inchino, aprendo davanti a sé una sottana immaginaria «Posso chiedervi che ci fate qui?».
«Storia lunga», la liquidò rapido Vassago con un gesto della mano «Chi delle due si sacrifica, quindi? Non ho tutta questa fretta, ma vorrei vedervi agire prima che qualcuno cambi idea».
«Sempre io», disse Hazel. Si alzò in piedi e poi si riabbassò di nuovo, questa volta mettendosi in ginocchio «E' mio dovere obbedire alla richiesta di una Luce. Anzi, perdonatemi se sono fuggita».
«Non dire sciocchezze», sghignazzò Vassago «Non ci credi nemmeno tu».
Sebbene a malincuore, Hazel non poteva dargli torto.
«Però, somma Luce dell'est...».
Vassago inarcò un sopracciglio, il naso arricciato in un'espressione infastidita.
«... Cercherò di non morire».
«Ah? Ma non mi dire. Come pensi di fare?».
Hazel non rispose. Cercava di darsi un tono, ma in realtà non ne aveva idea. C'era gente che affogava ma poi riusciva a riprendersi, no? In qualche modo ce l'avrebbe fatta, se la fortuna l'assisteva.
E se fosse stata convincente, soprattutto.
«Beh, senti, come ti pare», tagliò corto Vassago «Fammi parlare con il Pellegrino e in qualche modo mi sdebiterò. Se non con te, con la tua amica» e distese le labbra in un sorrisetto divertito.
«Garnet», disse Hazel, ma quando girò la testa verso di lei vide che aveva già la corda in mano.
La prese e se la legò attorno alla vita, poi le porse l'altra estremità perché la fissasse ad uno degli alberi lì attorno.
«Non ti lascio morire», disse Garnet. I suoi nuovi occhi brillarono di luz e di convinzione.
«Aspetto un po' e poi ti tiro su».
Hazel annuì e le strinse le mani. Ci sperava ma allo stesso tempo non ci sperava affatto. Aveva voglia di piangere, ma riuscì a trattenersi.
«Ti amo», si limitò a dire, e si prese qualche secondo per quello che temeva sarebbe stato il suo ultimo bacio.
Non vedeva Vassago, ma lo sentiva borbottare scocciato alle sue spalle.
«Ti amo anch'io», rispose Garnet, salda. Ah, avere tutta la sua confidenza! «E scusa se sono stronza».
Ad Hazel tremarono le labbra. Non voleva farlo, non voleva morire, e prima di fuggire di nuovo svuotò i polmoni e saltò nell'acqua.
La sensazione di gelo sulla pelle fu stordente, la lasciò per un attimo intontita. Si sforzò di aprire gli occhi e c'erano solo oscurità e un silenzio innaturale e un alone circolare più chiaro sopra la sua testa. Poteva scorgere la sagoma di Vassago che la guardava.
Sotto i suoi piedi invece c'era solo buio e con il cuore che le si stringeva puntò in quella direzione, sfruttando tutti i quattro o cinque metri di corda che aveva a disposizione.
Le orecchie facevano male e sembravano sul punto di esplodere. Anche i polmoni facevano male, come se lunghe dita glieli stessero artigliando e strizzando, ma si obbligò a non risalire facendo leva su tutta la sua scarna forza di volontà.
Quando cedette e accennò una bracciata, poi, si rese conto che non ce l'avrebbe fatta neanche volendo.
Era quello che doveva fare, no? Andava bene così, no?
Non poté comunque evitare che il panico le pugnalasse il corpo stringendole i muscoli in una morsa, quando prese la prima boccata d'acqua.

Aveva sentito un sacco di racconti riguardo al morire, alle cose che avrebbe trovato passando all'Altrove. Non aveva mai saputo però che peso darvi; non conosceva nessuno che fosse stato dall'altra parte e poi fosse riuscito a tornare indietro per raccontarlo, come potevano esserne certi?
Il nonno era sicuro che sarebbe stato accolto da un emissario del Pellegrino e poi gettato in pasto ai Moloch. Papà, che aveva un piglio meno drammatico, diceva sempre che sarebbe apparsa davanti a lui una lunga, lunga strada, e alla fine del percorso avrebbe trovato un posto luminoso e bellissimo.
Ad Hazel questa versione piaceva e quindi l'aveva fatta sua, per cui quando aprì gli occhi e non trovò né luce eterea né sentieri verso posti bellissimi ci rimase male.
Ma c'era papà davanti a lei, ed era l'ultima cosa che si aspettava.
Era identico a come lo ricordava, a quell'ultima immagine di lui che le era rimasta nel cuore – papà con lo zaino sulle spalle che l'aiutava a rialzarsi e le baciava i palmi graffiati, mentre il nonno borbottava in sottofondo; papà che le diceva tu sei una bambina forte, Zazie e le carezzava i capelli e la sospingeva con le sue mani grandi e delicate.
Papà con la sua folta barba castana in cui era bello cacciare le dita, e i capelli che cominciavano a diradarsi al centro della testa anche se aveva poco più di trent'anni e gli davano un aspetto davvero buffo di spalle.
Sei bravissima, Zazie, le ripeteva papà ad ogni Sentiero attraversato, anche se lui non aveva la luz e non sentiva le voci che gridavano all'arrivo dei Moloch e la nausea e i brividi; papà le diceva sei bravissima, le diceva sei così forte, Zazie, e anche se il nonno non voleva ogni tanto la prendeva in braccio, quando i piedi le facevano così male da piangere.
Papà che la accompagnava in ogni viaggio col nonno, anche se era pericoloso, ma papà non aveva paura di niente e voleva tenerla al sicuro. Papà che ripeteva di continuo il nonno è un pazzo, sei così piccina, ci penso io a proteggerti, e lui poteva dirlo perché era così forte e coraggioso e dolce – e l'ultima cosa che ricordava di lui, le ultime parole, erano quei tre “sì” esclamati con trasporto crescente, e le dita che gli strattonavano i pantaloni ma non riuscivano a trattenerlo.
Se li sognava ancora la notte, quei “sì”, e papà che si alzava col sorriso e subito dopo non c'era più.
Ma adesso era lì davanti a lei, le sorrideva e allargava le braccia.
Zazie, bambina mia, le disse, e la voce era proprio la sua, così bella e profonda, mi sei mancata così tanto.
Hazel si strinse le braccia e si avvicinò a lui. Era bagnata fino al midollo, aveva freddo e tremava, ma lì c'era papà e d'improvviso ogni problema le sembrò marginale.
Si lasciò abbracciare e Dei, il suo odore! Le richiamò alla testa così tanti ricordi, così tanti momenti felici, che per una volta non si sentì in colpa a piagnucolargli contro come una bimbetta.
Papà era così reale, papà era così vero – e si sentiva così felice.
«Mi manchi così tanto», sussurrò contro il suo petto, ricambiando finalmente l'abbraccio. Com'era tutto reale sotto le sue dita, la stoffa dei vestiti e poi la schiena muscolosa.
Va tutto bene, Zazie, sono qui. Non ti lascerò più.
«Mi manchi così tanto», ripeté, e le costò una fatica immane ritrarsi da lui. Fu il passo più doloroso della sua esistenza, peggio ancora di quando aveva attraversato per la prima volta un Sentiero e le erano esplosi gli occhi, e l'espressione triste e confusa di suo padre le strizzò il cuore. Sentiva le guance fradice e le si appannò per un attimo la vista.
«Papà, mi dispiace, non voglio morire. Se riesco a tornare indietro poi verrai a prendermi di nuovo quando morirò sul serio?».
Non capisco, Zazie.
Hazel si strofinò le mani sugli occhi. Non capiva se stesse accadendo davvero o fosse solo tutta suggestione o allucinazioni di una persona che affoga, ma era tutto così reale che le parve davvero di asciugarsi la faccia.
«Vassago mi ha fatto una richiesta», disse, allungando le mani per stringere quelle di suo padre «Ha bisogno che il Pellegrino lo raggiunga dove mi trovo io ora. Puoi riferirgli questo, papà? O fare in modo che lo-».
L'immagine di suo padre si cristallizzò, l'espressione congelata in una maschera di stupore, e l'istante dopo si infranse, esplodendo in migliaia di frammenti grandi come pagliuzze di vetro che si allontanarono in tutte le direzioni. Hazel si riparò d'istinto con le braccia, e sbirciando fra le fessure vide i frammenti spandersi e poi vorticare in spirali d'argento e riunirsi di nuovo a formare una figura che non era più quella di suo padre. Non era neppure certa fosse umana, aveva le fattezze di un mantello mosso dal vento e basta.
«Oh, che disgrazia», disse il mantello. La sua voce risuonò invadente ed eterea, le riempì il cervello di fitte dolorose, e ancora peggio era molto più reale e viva di quella di suo padre.
«Non ho parole per esprimere il mio cordoglio, a parte, beh, cordoglio».
Hazel abbassò lentamente le braccia.
«Ho promesso che non avrei più ceduto ai sentimenti ma accidenti, Vassago non ha proprio ritegno».
Dall'oscurità all'interno del mantello emerse una mano della stessa consistenza e schioccò le dita.
Hazel sentì il cuore saltarle un battito, e tutto si fece prima buio e poi di un argento brillante.

Tossì, e la prima sensazione fu un dolore lancinante alle costole. Batté gli occhi più volte ma vedeva tutto sfocato, e le orecchie fischiavano e facevano un male cane.
Si sentì ruotare e tossì di nuovo.
«Secondo me le torci il collo», commentò una voce ovattata che non conosceva ma le suonava familiare «Come a una gallinella. Una volta ho visto una gallina sopravvivere senza testa per un anno, ci credi? La nutrivano col contagocce».
«Muoio dalla voglia di sapere com'è finita», disse una seconda voce, dal tono era chiaramente Vassago «E' un racconto entusiasmante».
La visione si fece più nitida, e Hazel poté scorgere il viso di Garnet sopra di lei. Aveva gli occhi sbarrati e un'espressione angosciata che la terrorizzò.
Tirami su, voleva dirle, ma le uscirono solo parole ansimate e incomprensibili. In qualche modo però Garnet riuscì a capire, e offrendosi come sostegno le permise di mettersi a sedere.
Vassago volteggiava a gambe incrociate sullo specchio d'acqua e tutto nella sua postura trascendeva i limiti dell'essere seccato. Incarnava il fastidio di vivere.
I loro occhi si incrociarono, e Vassago riuscì a cambiare espressione per rivolgerle un sorrisetto divertito.
«Ti confesso che me lo sentivo che ti avrebbe rimandata indietro», sghignazzò, spostando gli occhi a fissare qualcosa accanto a lei «Ma mi pareva brutto darti false speranze».
Anche Hazel voltò lo sguardo e il suo cervello si spense per un attimo, o almeno ebbe l'impressione che di colpo non funzionasse più.
C'era qualcosa ma non riusciva a focalizzarla. Continuava a sparire non appena vi fissava gli occhi, eppure la vedeva muoversi e vorticare in periferia. Era sicura che ci fosse, ma il cervello le diceva che in realtà lì non c'era niente.
Sentì qualcosa gocciolarle sulle labbra, e sfiorandosele vide che le sanguinava il naso.
«Non guardare», le sussurrò Garnet coprendole gli occhi con una mano «Non serve a niente, ti fai solo male».
«Ma cosa sta-», borbottò, ma conosceva benissimo la risposta.
«Chiedo scusa, chiedo scusa!», esclamò la voce; anche se ora era più limpida faticava a darle un sesso e un'età, d'istinto le pareva quella di un giovane uomo «La solitudine è una brutta bestia, sapete, uno ci si trova così bene che poi si scorda come ci si comporta con la gente».
«Tu non ne hai mai avuto nemmeno un'idea, di come ci si comporta con la gente», disse Vassago, e la voce si lasciò andare in un “pfff” molto marcato.
«Non accetto critiche da uno che separa crudelmente delle ragazzine che si amano. Si amano, Vassago!».
Vassago poggiò il viso ad una mano e sospirò «Mi sento pervadere dall'emozione. Possiamo parlare di cose serie?».
«Tu ed io abbiamo idee di “cose serie” agli antipodi. Dammi un istante».
L'aria tutt'attorno sfrigolò, parve quasi piegarsi su se stessa e poi lacerarsi, e dove prima non c'era niente prese forma un mantello fatto di vibrante energia argentea percorsa da spirali.
Si muoveva come se fosse investito dal vento, ma attorno a loro non frusciava una foglia.
All'interno del cappuccio c'era solo oscurità, ma per un istante ad Hazel parve di scorgere un profilo umano fra le ombre.
«Era un po' che non ci vedevamo, Vass. Come ve la passate? Non ti ricordavo così smilzo».
Vassago non rispose, si limitò ad incrociare le braccia.
«Lo prendo per un no, anche se non ti ho fatto domande a cui puoi rispondere con un no. Lo prendo come un no generale, un no alla mia esistenza».
«Mi piacerebbe sapere cos'hai fatto per tutto questo tempo, mentre questo piano andava allo scatafascio», sibilò Vassago. Il mantello scosse il cappuccio, dava l'idea di essere quasi triste.
«Non parlarmi così. Ho visto che succedevano cose strane, ma pensavo fosse una vostra trovata per ravvivare l'ambiente. Pensavo che i Moloch a zonzo avessero un significato intrinseco che mi sfuggiva perché sono superficiale».
Hazel batté gli occhi e guardò Garnet, che stava palesemente lottando per rimanere zitta. Decise di precederla, quali che fossero le conseguenze cominciava a sentirsi presa in giro.
«Per la Madre, che cosa sta succedendo?», sbottò, la voce roca «Penso che ormai sia... sia mio diritto saperlo».
«Già», disse il mantello, annuendo col cappuccio «Vorrei saperlo anch'io. Credo di averne più diritto di lei».
«L'unica cosa che ti meriti tu sono i miei denti nella giugulare», sibilò Vassago.
«Tu sei il Pellegrino, quindi?», chiese Garnet guardando il mantello. Calò un silenzio strano, teso; Hazel la ringraziò mentalmente per aver dato voce ai suoi pensieri, ma ora aveva la pelle d’oca.
Il mantello parve soppesare la domanda, ciondolando il cappuccio.
«I miei nomi sono molti, ma-».
«Sì, è il Pellegrino», lo interruppe Vassago «Ti scongiuro, smettila con le sciocchezze e tira fuori il mio contratto».
«Il contratto? Non starai mica facendo il furbetto perché ti avverto, ne so mille volte più di te quando si tratta di clausole».
Vassago si lasciò andare in un mugugno stizzito e frustrato e si passò una mano sulla faccia.
«Non voglio fare il furbo, porco cazzo. Devi allentare i miei vincoli, così posso liberarmi e poi-».
«Se mi dici le cose in ordine sparso non ti seguo. Sii cronologico».
Vassago tacque. Sferzò il mantello con un’occhiata furente e un’altra poco meno intensa la regalò ad Hazel, che si sentì rabbrividire in ogni punto del corpo, poi riunì le mani in grembo e congiunse le dita.
«Ci sono stati dei… problemi», disse, marcando l’ultima parola con una smorfia «Problemi un po’ improvvisi che ci hanno colto di sorpresa».
«Sento il profumo della vergogna anche da quaggiù», ridacchiò il Pellegrino. Hazel non poté fare a meno di chiedersi che intendesse con “quaggiù”; dato che il Pellegrino si muoveva su un altro piano di esistenza, o così almeno le avevano sempre detto, forse il suo vero corpo era rimasto là e il mantello che le svolazzava davanti non era altro che una qualche proiezione.
«La mia testa è qui», proseguì Vassago ignorandolo «E il mio corpo è dall’altra parte ricoperto da sigilli. Non hai idea del tempo che ci ho messo a indebolirli giusto quel poco per potermi proiettare qui, se tu ora mi rilasciassi forse-».
«Hai saltato un passaggio», lo interruppe il Pellegrino «Mi piacerebbe sapere di questi problemi che ti – anzi, vi – hanno decapitato. Non essere timido».
«Può darsi che la situazione ci sia un po’ sfuggita di mano», disse Vassago, e pareva che questa ammissione gli costasse una fatica immane «Forse ci siamo distratti e abbiamo fatto cose che credevamo di controllare meglio».
«Tipo i Moloch?», si azzardò a chiedere Hazel. Pensava che Vassago l’avrebbe insultata, invece si mise a ridere.
«No, quelli funzionano anche troppo bene, il loro problema è che l’incantesimo che li anima non prende in considerazione le interazioni con i vivi. Sono stati pensati per consolare le anime inquiete, di certo non per aumentare il traffico di morti. No, non sono i Moloch il problema» Vassago accennò un sogghigno inquietante e posò di nuovo il viso su una mano «Anzi, se non fosse che qui mi annoio da morire sarei curioso di assistere a ciò che uscirà in futuro. Se come penso quelli che voi chiamate “Nidi” non sono altro che passaggi per l’altra parte, i Moloch non sono che il grado più basso di ciò che potrebbe venir fuori col passare del tempo».
Hazel rabbrividì. Sperò che Vassago la stesse solo prendendo in giro, ma sotto i suoi modi che puntavano ad inquietarla lo sentiva molto serio.
«Ti ammiro, sai», disse il Pellegrino, e Vassago prima inarcò le sopracciglia stupito, poi lo guardò con sospetto «Stai girando attorno alla questione con una maestria invidiabile. Ti vergogni così tanto?».
Vassago si lasciò andare in borbottii incomprensibili per qualche secondo.
«Va bene, va bene, ho comunque capito il problema, vediamo che si può fare».
Dall’oscurità sotto al mantello spuntò un braccio d’argento. Puntò l’indice in direzione di Vassago, poi aprì la mano e davanti al palmo prese forma un rettangolo di luce bianca. Un altro braccio uscì dal mantello, poi entrambe si allargarono con un gesto rapido e il rettangolo di luce si moltiplicò.
Hazel aguzzò la vista e ne contò dodici.
Il Pellegrino mosse il cappuccio come a osservarli, e dopo averli passati in rassegna due volte ne puntò uno e gli altri scomparvero. Quando vi mise le mani accanto il rettangolo di luce cambiò forma, si fece solido e reale e prese l’aspetto di un rotolo di pergamena.
Dal mantello uscì una terza mano, che schioccò le dita e si ritrovò a stringere una piuma.
«In che posizione ambigua mi metti, Vass», borbottò il Pellegrino «Voi tutti mi mettete sempre un po’ a disagio, quando accampate queste richieste. Ci accordiamo per una soluzione temporanea? Ammorbidisco i vincoli e mi riservo di ripristinarli quando sarete di nuovo tutti in forma e operativi. Oh, non cercare di fare il furbo, sia chiaro».
Vassago arricciò il naso in una smorfia. Non poteva giurarlo, ma Hazel era sicura di aver visto un lampo di inquietudine attraversargli il viso.
Il Pellegrino impugnò il fondo della pergamena e scribacchiò qualcosa con la terza mano. Orientò il foglio verso Vassago, che si limitò a un cenno di assenso poco convinto, e gli porse la piuma.
«Non prendermi per il culo», sibilò Vassago. Sfiorò la carta con un gesto seccato e questa brillò per un attimo come se avesse preso fuoco.
«Oh, che permaloso».
Il Pellegrino tornò a rivolgere la pergamena verso di sé e si batté la piuma dove avrebbe dovuto avere la faccia, se il cappuccio non avesse contenuto solo ombre e basta.
«Bene, sono convinto. Comportati a modino e magari possiamo trattare qualcosa di persistente», disse, e piantò la punta della penna in una delle braccia che sorreggevano la pergamena. Ne sgorgò una sostanza nerastra che risaltava parecchio sull’argento brillante.
Estrasse la penna e firmò con uno svolazzo.
«Olè. Non usare più metodi così cruenti per richiamarmi».
«Non sia mai».
Il Pellegrino allargò le mani e la pergamena scomparve; l’istante dopo tutte e tre le braccia si ritrassero sotto al mantello.
«Ci rivediamo, signorine», disse, e Hazel trovò quel saluto piuttosto inquietante «Buona fortuna! Siate forti e difendete il vostro amore! Gli amori difficili mi rendono così sentimentale».
Con quelle ultime parole il mantello si arrotolò su se stesso e scomparve in un’esplosione di scintille bianche; Vassago lo salutò con una parola incomprensibile che suonava come un insulto.
Hazel aprì la bocca, ma non riuscì ad emettere un fiato. Voleva chiedere un sacco di cose, ma non le sembrava che Vassago fosse dell’umore e si sentiva ancora troppo provata.
«E ora cosa succede?», chiese Garnet. Di nuovo Hazel la ringraziò mentalmente per aver espresso quello che anche lei pensava.
Vassago temporeggiò, tamburellandosi una guancia.
«Ho ancora bisogno di voi», disse, e ad Hazel sfuggì un gemito «No, no, niente di mortale e pericoloso. Voi non l’avrete notato, ma ho ricevuto un avvertimento a cui è meglio che presti attenzione».
L’acqua sotto di lui vibrò e cominciò a formare cerchi concentrici. Vassago fluttuò indietro e si portò al centro, in piedi, sfiorando la superficie con le punte. Allargò le braccia con un movimento aggraziato, le spostò verso il basso e poi su a intrecciarle sul petto. L’acqua schizzò verso l’alto con il rumore di un tuono, ma prima di ricadere a terra si era già dissolta.
«Vi affido la mia testa», disse, allungando di nuovo le braccia verso il basso. Dal fondo della pozza ora vuota risalì qualcosa di tanto luminoso da non poterne distinguere i contorni e Vassago vi passò le mani attorno come a modellarlo. Quando la luce si affievolì, la cosa aveva la forma di una sfera bianca delle dimensioni di una testa umana.
«Dovete solo portarla alla fonte di energia più vicina, penso sia sufficiente un Sentiero a caso».
«E a noi cosa ne viene?», chiese Garnet. Vassago sussultò, per un istante parve preso in contropiede.
«Non sono il tipo di entità con cui conviene fare accordi», disse accennando un sorrisetto inquietante, ma Garnet sostenne lo sguardo.
Hazel la fissò con ammirazione, non fosse che non voleva disturbare il suo confronto l’avrebbe baciata seduta stante.
«Ne parleremo al momento opportuno», disse Vassago dopo qualche istante di silenzio «Avete la mia parola. Se saprete propormi qualcosa di ragionevole, prometto sul mio nome che ve lo concederò».
Si dissolse in un alone di luce prima che Garnet potesse ribattere, e la sfera si portò davanti a loro ad una distanza a cui potessero afferrarla.
«Mi sa che mi ha fregato», borbottò Garnet. Fece segno ad Hazel di restare seduta e si allungò verso lo zaino per prendere una coperta da posarle sulle spalle «Scusami, volevo farlo prima ma non riuscivo a muovermi».
Afferrò poi la sfera e la lasciò cadere di malagrazia dentro lo zaino.
«Grazie», disse Hazel in un sussurro. Garnet si voltò a guardarla con un sopracciglio inarcato.
«C’era papà dall’altra parte, sai. Mi manca tantissimo, anche se non era vero forse sono felice di averlo rivisto».
«Ero sicura che non saresti morta», disse Garnet sedendosi accanto a lei «Riposati un po’, manca ancora qualche ora all’alba».
Hazel annuì. Chiuse gli occhi e le si poggiò contro, e nel giro di mezzo minuto si era già addormentata.

*
In piedi davanti al Sentiero con la sfera bianca in mano, Hazel fissò Garnet in cerca di coraggio.
«Vado?», le chiese, e Garnet si strinse nelle spalle. Domanda stupida in effetti, ormai…
Prese un respiro profondo e lanciò la sfera con entrambe le mani. Si aspettava di vederla attraversare il Sentiero e ricadere con un tonfo dall’altra parte, e invece si fermò a mezz’aria, a metà della parabola, non appena ebbe sfiorato il flusso di energia argentea. Roteò su se stessa con un sibilo, poi si fuse letteralmente con il Sentiero e scomparve.
Un attimo dopo l’aria vibrò come percorsa da scariche elettriche e il muro d’argento si contrasse e si riespanse, accompagnandosi ad un fischio acuto.
Le spirali d’energia iniziarono a vorticare delimitando un cerchio brillante in modo quasi accecante; un secondo cerchio venne a formarsi all’interno del primo e nello spazio fra loro comparvero lettere a comporre il nome “Vassago”, lacerando il Sentiero come se fossero state incise con un coltello. Dentro al secondo cerchio si delineò poi un simbolo che Hazel non aveva mai visto, fatto di figure rettangolari, linee, piccoli cerchi e semilune.
Pare che vi debba ringraziare, disse una voce eterea. Sembrava provenire da ogni punto tutt’attorno e non avere età, ma allo stesso tempo suonava terribilmente antica.
L’interno del cerchio si proiettò verso di loro, plasmandosi in una forma antropomorfa che poi si distaccò e planò lieve sull’erba. Assunse l’aspetto da ragazzino che aveva avuto Vassago fino a poco prima, ma lo fece in modo meno fisico, quasi fosse sul punto di dissolversi da un momento all’altro. I contorni vibravano e sfrigolavano, scoppiettando d’energia.
Ho dato la mia parola che avrei ascoltato le vostre richieste, disse, senza muovere le labbra se non per uno dei suoi sorrisetti inquietanti. Ora Hazel sentiva la sua voce risuonarle dentro la testa.
Proponetemi qualcosa di plausibile e forse lo esaudirò. Avete riflettuto? Non ho molto tempo.
«Ci abbiamo pensato», disse Garnet. Hazel le strinse una mano e la sentì tremare.
Dei, quanto era forte. Lei invece avrebbe faticato a spiccicar parola, infatti si limitò ad annuire.
«Quanto credi che ci metterete a… risolvere tutto questo?».
Vassago si portò una mano al mento con fare teatrale.
Piccola impertinente, ti pare opportuno darmi del tu? Non ne ho idea, le vostre vite così brevi vi portano a dare tanta importanza al passare del tempo, quando per noi non è che una mera variabile! Decenni forse, chi può dirlo.
Era diverso, Vassago. Forse si stava solo dando delle arie, ora che era più potente, ma Hazel aveva l’impressione che fosse giusto una parte della motivazione. Si sentì rabbrividire nel profondo e serrò forte i denti perché non battessero.
Pure Garnet parve accusare il colpo. Tentennò parecchio prima di rispondere.
«In questo caso… dacci una protezione. Qualcosa che non ci faccia correre il rischio di finire uccise dai Moloch. Hazel ha detto che i Sentieri ti evitavano, magari se ci dai la tua protezione i Moloch ci staranno alla larga».
La mia protezione, ripeté Vassago. Si picchiettò il petto con le dita, ruotando gli occhi.
Credo di potervi concedere questo onore. Porgetemi qualcosa.
«Questa può andar bene?», borbottò Garnet sollevando il polso a cui portava la stella di Crocell. Sciolse il nastrino e con titubanza l’allungò a Vassago.
Benché paresse incorporeo, Vassago la prese e la soppesò con un sogghigno.
Questo lo cancello, disse, e qualcosa sulla stella sfrigolò. Pur senza controllare, Hazel era certa che avesse eliminato il simbolo di Crocell.
Vi passò poi l’indice in un gesto circolare e lanciò l’amuleto in mano a Garnet. Su uno dei lati ora era inciso lo stesso simbolo del cerchio alle sue spalle, seppur così piccolo da rendere quasi incomprensibili i dettagli.
Che la fortuna vi arrida. Forse ci rivedremo dall’altra parte, disse, e con un sogghigno indietreggiò e scomparve all’interno del Sentiero. Il cerchio brillò abbagliante, pulsò ed esplose in scintille che saettarono tutt’attorno a raggiera.
Dov’era comparso quell’intricato simbolo si aprì poi un buco, con un aspetto simile a quello fatto da una fiamma sulla carta. Consumò l’energia argentea del Sentiero con voracità, allargandosi di metri e metri ad ogni secondo che passava, e continuò a divorarlo in entrambe le direzioni, allontanandosi all’orizzonte.
Hazel si lasciò crollare a terra, non appena la tensione l’abbandonò. Non se l’aspettava, ma un attimo dopo Garnet fece lo stesso.
«Ti confesso che sono sollevata», le disse, alzando la stella a otto punte davanti agli occhi. Hazel inclinò la testa e la fissò in silenzio.
«Sono molto egoista, ma credo sarebbe stato un problema se fosse tornato tutto… è corretto dire normale? Per noi è normale questo».
Hazel annuì sollevata, aveva pensato la stessa cosa e le vocine dello schifo non avevano tardato un attimo a infamarla.
«Ci avrebbero uccise».
«Non esagerare», borbottò Hazel, ma non si sentiva di darle torto «Riprendiamo la strada verso casa».
«Racconterai tutto a tuo nonno?».
Hazel si strinse nelle spalle «Ci devo pensare. Non sono certa che mi crederà».
Garnet rise e si lasciò cadere indietro, supina, stringendo la stella al petto. Senza aggiungere altro, Hazel si chinò su di lei e la baciò dolcemente.



   
 
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