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Autore: Adeia Di Elferas    24/08/2015    2 recensioni
Clarice, detta Clara o Claretta, è una ragazza di vent'anni quando sembra riuscire a coronare il suo sogno: conoscere l'uomo di cui si è perdutamente innamorata, ovvero l'uomo più potente del suo tempo, Benito Mussolini.
Una donna diventata famosa come l'amante del Duce e un amore che ha sfidato la storia e la crudezza di una guerra, iniziato in un giorno di aprile e tragicamente finito in un altro giorno d'aprile di molti anni dopo.
((Questa storia è basata su fatti storici, benché in parte io abbia dovuto romanzarla, per renderla più leggibile ed accattivante. Non ha scopi apologetici o di condanna, si tratta solo del racconto di una storia d'amore.))
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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~~ Clarice si guardò una volta di più allo specchio, sistemandosi l'ultima ciocca di capelli che continuava a scapparle sulla fronte.
 Si guardò a lungo negli occhi, cercando di vederci qualcosa.
 Dopo tano tempo, il momento era arrivato e ancora non le pareva possibile. Un appuntamento ufficiale con Benito Mussolini, a Palazzo Venezia. Come se lei fosse una persona di spicco, importante...
 “Clara sei pronta?” chiese sua madre, dal corridoio, con una vena di impazienza.
 Clarice deglutì, fece per uscire, ma prima si lanciò un ultimissimo sguardo, e, accidenti, ancora quel ricciolo ribelle!
 Sistemandoselo, uscì dal bagno e sorrise alla madre: “Come sto?” domandò, in apprensione, sempre attenta all'opinione materna.
 La donna la guardò a lungo, come soppesando ogni minimo dettaglio del vestito – forse troppo leggero per la stagione – scelto dalla figlia.
 “Meglio di così, non si potrebbe fare.” concluse, con la solita espressione che si dipingeva addosso quando voleva mascherare il proprio orgoglio nei confronti della bellezza della figlia.
 “Francesco, cosa ne pensi?” chiese la donna, mentre il marito arrivava dal solotto, sfogliando una delle sue riviste mediche.
 Francesco Petacci diede una veloce guardata alla figlia, notandone distrattamente la gonna troppo corta, la scollatura troppo generosa e il trucco – troppo 'da donna', secondo lui – ma disse solo: “Ah, esci?” e salutando con la mano, proseguì la sua peregrinazione verso l'altra sala.
 La moglie lanciò gli occhi al cielo e si diresse verso la figlia: “Mi raccomando, Clara. Fai la brava e cerca di risultare simpatica al Duce. Lo sai che anche tuo fratello Marcello ci tiene tanto.”
 Clarice annuì e salutò la madre con un leggero bacio sulla guancia: “Vado mamma, la macchina mi starà aspettando.”
 Mentre lasciava la casa, stringendo al petto le mani, sentiva il cuore impazzirle di gioia e aspettativa, per quell'incontro che finalmente le avrebbe permesso di parlare da sola con l'uomo dei suoi sogni.
 Ancora conservava nell'anima quel loro primo avvicinarsi, immersi nel vento, sulla via del Mare, colpiti a sprazzi da un sole capriccioso e volubile... Era bastato così poco a farle capire che quello sarebbe stato il loro destino... E ora correva verso il loro futuro, senza paura, perchè era certa che qualunque cosa sarebbe successa, bella o brutta, loro sarebbero stati assieme, e tanto le bastava.

 Palazzo Venezia quel giorno era illuminato da una luce strana. Quando Clara venne lasciata lì davanti dall'autista, un bagliore improvviso le fece guardare a destra.
 Là si stagliava l'Altare della Patria, quasi perfetto, quasi ultimato, immacolato simbolo del sangue versato dal popolo italiano in guerra.
 Ancora una volta, il suo cuore sussultò come se in quegli scorci improvvisi di sole ci fosse qualche messaggio nascosto, qualcosa che dovesse metterla in guardia.
 Ma siccome non c'è peggior cieco di chi non vuole vedere, Clarice si strinse nelle spalle e si fece riconoscere, all'ingresso.
 Varcò la porta di Palazzo Venezia con la stessa predisposizione d'animo di una sposa che sta per salire all'altare. Ogni dipinto le pareva incantevole, ogni mobile prezioso, ogni angolo di quel posto era per lei di valore inestimabile.
 Non riuscì a prestare troppa attenzione alla girandola di persone che se la passarono come un pacco fragile, rimbalzandola da un luogo all'altro. I suoi occhi si riempivano di meraviglia, e lei stessa si rendeva conto che non era tanto il palazzo a stupirla, quanto la sua eccitazione a rendere ogni cosa indimenticabile.
 Quando finalmente arrivarono all'ufficio di Mussolini, chi l'accompagnava bussò piano alla porta e la voce – oh, quella voce che conosceva già così bene! – rispose subito, con fermezza: “Entrate.”
 Nel momento in cui Clarice mise piede nello studio di Mussolini, l'uomo alzò gli occhi dalle carte che stava leggendo e fece un breve, fugace sorriso.
 Congedò l'accompagnatore della ragazza e le fece segno di avvicinarsi.
 Una volta soli, Benito si aprì in un sorriso vero e disse: “Finalmente.”
 Clarice ricambiò il sorriso, sentendosi avvampare come una scolaretta. Non sapeva cosa rispondere e così restarono in silenzio a lungo entrambi, limitandosi a guardarsi a tratti, imbarazzati, indecisi su come muoversi, come due ragazzini e non come un uomo sposato e una donna in procinto di diventare moglie.
 
 Dopo il primo momento di studio reciproco, Benito e Clarice avevano cominciato a parlare del più e del meno, partendo dal tempo – ricordando lo strano clima che permeava l'aria il giorno in cui si erano conosciuti – e finendo, chissà come, a parlare dalla loro infanzia.
 “Dovia...” stava spiegando Mussolini, seduto accanto a Clarice: “Si tratta di una frazione di Predappio.”
 Avevano messo le due sedie accanto alla finestra, per godere del profumo che quella giornata primaverile offriva loro.
 “Ho frequentato lì i primi due anni di scuola, sì.” disse lui, mentre lo sguardo si perdeva nei ricordi: “Scuola di campagna, ma molto solida, devo ammetterlo.”
 “E poi?” chiese Clarice, incredula nel potersi permettere di fare domande al Duce e di ottenere anche risposte pacate, sincere, come quelle che darebbe un ragazzo innamorato alla giovane per cui sospira.
 “Poi sono andato a Predappio. Però ero un discolo...” aggiunse, ridendo sommessamente: “Ho dato tanti grattacapi alla mia famiglia!”
 L'uomo battè le mani e ricordò, con una nostalgia che contagiò anche Clarice: “Mia madre decise di mandarmi in collegio. Non lo sopportavo. Alla fine mi hanno cacciato!”
 “Davvero? Per quale motivo?” chiese Clarice, sempre più bramosa di saperne di più, di conoscerlo davvero, quell'uomo così importante eppure così normale.
 “Una rissa, una cosa da niente... Ero stato provocato e mi ero difeso. Purtroppo mi ero trovato tra le mani un coltello e questo mi è costato una punizione esemplare.” sospirò: “Ma forse ve ne parlerò meglio un'altra volta... So che se comincio a parlare di me stesso non finisco più. Ditemi qualcosa della vostra esperienza alle scuole, sono curioso.”
 Clarice sorrise, di nuovo il rossore che le prendeva le guance, al ricordo di come, fin dai primi tempi in cui si sentiva parlare di questo strano 'Benito Mussolini', lei ne fosse stata talmente infatuata da non lasciare spazio ad altro, seppure fosse ancora una bambina.
 Si sforzò di richiamare memorie infantili che non avessero a che fare con lui e alla fine disse solo: “Ero come tante... Mi piaceva già l'arte, quello sì. Credo che le vostre siano memorie molto più avvincenti.” concluse.
 Mussolini fece un sorriso quasi timido e bisbigliò: “Non sono affascinante come sembro. Se mi conosceste meglio...”
 “Non desidero altro che conoscervi meglio.” si lasciò scappare Clarice, senza ragionarci.
 Fece volare le mani sulla bocca e spalancò gli occhi, assumendo un'espressione talmente buffa che tutta l'atmosfera che si era più o meno volontariamente creata andò a farsi benedire e Benito scoppiò in una sonora risata.
 Clarice fece del suo meglio per accodarsi al riso, ma si sentì infinitamente stupida e bambina, di fronte a quell'uomo potente e vissuto.
 “Sentite...” concluse alla fine Mussolini, alzandosi e piantando i pugni sui fianchi, come quando parlava in pubblico: “Si è fatto davvero tardi, e ora ho impegni di stato da cui non posso scappare in alcun modo. Se davvero ci tenete a conoscermi meglio, possiamo incontrarci di nuovo.”
 Clarice aveva la bocca secca e la gola non era messa meglio, per cui faticava a parlare: “Io...” disse piano.
 “Dunque è deciso. Io vi tedierò ancora con le mie memorie di gioventù e a voi, magari, verrà in mente qualche aneddoto degno di nota che farà sembrare i miei bazzecole insulse.”
 Clarice si alzò a sua volta e chinò appena il capo: “Ne sarei onorata.”
 “Sempre onorata, voi, eh?” chiese Benito, ricordando il congedo con cui si erano lasciati il giorno del loro primo incontro.
 “Vi comunicherò quando presentarvi qui, se per voi va bene.” aggiunse, a mo' di saluto.
 Clarice annuì silenziosamente, mentre nel petto le si agitava una gioia nuova, diversa da quella che l'aveva accompagnata nella strada che da casa l'aveva portata a Palazzo Venezia.
 La prima era stata una gioia dettata dall'aspettativa e dalle previsioni rosee e abbellite dal sentimento che lei provava da anni. Questa, invece, era una gioia più solida, dovuta al fatto che ora ne aveva la prova: Benito Mussolini esisteva, era in carne e ossa, era un uomo come altri e sì, le piaceva ancora, anzi, le piaceva anche di più.
 Benito accompagnò la ragazza verso la porta e quando fu davvero il momento di separarsi, lui le strinse la mano, in modo confidenziale, tenendola vicina, quasi come si trattasse di un abbraccio lasciato a metà: “A rivedervi presto, signorina Petacci.”
 “A presto, signor Mussolini.” ricambiò lei.
 I loro occhi si incontrarono e per qualche istante non esistette altro che quello che le parole non sarebbero riuscite a dire.
 Con un'ultima forte stretta, come se non volesse davvero permetterle di andarsene, Benito la lasciò.
 Clarice uscì da Palazzo Venezia più leggera, diversa, con una sicurezza in più che le dava la forza di non lasciarsi scoraggiare da tutti gli ostacoli che pur vedeva.
 La moglie e i figli di lui, Riccardo, il suo fidanzato, lo stato, la politica, l'opinione pubblica...
 Era tutto niente, di fronte al fuoco che le stava divorando il cuore.
 
 
 

   
 
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