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Autore: Duncneyforever    28/09/2015    3 recensioni
Estate, 1942.
Il mondo, da quasi tre anni, è precipitato nel terrore a causa dell'ennesima guerra, la più sanguinosa di cui l’uomo si sia mai reso partecipe.
Una ragazzina fuori dal comune, annoiata dalla vita di tutti i giorni e viziata dagli agi che l'era contemporanea le può offrire, si ritroverà catapultata in quel mondo, circondata da un male assoluto che metterà a dura prova le sue convinzioni.
Abbandonata la speranza, generatrice di nuovi dolori, combatterà per rimanere fedele a ciò in cui crede, sfidando la crudeltà dei suoi aguzzini per servire un ideale ormai estinto di giustizia. Fortunatamente o sfortunatamente non sarà sola e sarà proprio quella compagnia a metterla di fronte ad un nemico ben peggiore... Se stessa.
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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Chiudo gli occhi, aspettando di esser risucchiata in un buco nero o qualcosa di simile. Che sia lui ad essere dotato di strani poteri? È così convinto di riuscire a tornare indietro, che mi sembra impossibile che non sia lui ad essere " magico ". Eppure, a rigor di logica, dovrei essere io ad avere questa capacità. 

- Ehi, ma devi ancora preparare la valigia! - Riapro gli occhi per un attimo per scoprire che sono ancora a casa mia. 

- Oh sì, hai ragione. - Dubito che mi potrà sul serio tornare utile, ma è anche giusto che l'azione sembri il più naturale possibile, così avrò l'impressione di viaggiare veramente indietro nel tempo. Purtroppo mia madre ha smantellato l'armadio già da un mese, lasciando solo magliettine, leggins, pantaloncini e costumi da bagno.

- Anche da te è estate, sì? - Chiedo, a voce alta, ficcando la testa tra le ante dell'armadio. 

- Sì sì, era una bella giornata di sole. - Abbino un paio di vestiti alla rinfusa, infilando tutto in una tracolla insieme ad un paio di ciabatte. Prendo anche una  felpa e un maglioncino, visto che il clima berlinese è già di per sé più rigido del nostro. 

Sono ancora in pigiama però e non posso certo farmi vedere conciata in questo modo... 

- Ti manca ancora molto? - Mi riprende, dopo aver aspettato per dieci minuti buoni. 

O almeno credo che siano dieci minuti. 

- Aspetta! Le scarpe! Vuoi che mi presenti nel quarantadue con ai piedi un paio di crocs fluorescenti? - Anche dallo sgabuzzino lo sento ridere di me. Certo che è proprio un personaggio! 

Torno con le braccia incrociate, diffidente nello stringergli la mano. Lui promette che non mi prenderà più in giro e mi invita a ristabilire il contatto. 

Oh per la miseria! 

Stavo immaginando di tirargli le guance quando, d'un tratto, l'ambientazione è cambiata. È successo tutto in pochi secondi, mi sono persa in lui solo per pochi attimi... 

Non ho percepito nulla, nessuno sbalzo, nessuna morsa allo stomaco, nessun dolore dovuto al frazionamento e alla trasposizione intermolecolare come avevo visto in certi film di fantascienza. Niente di niente! 

Stavo guardando lui, perciò la prima cosa visibile risulta un plesso di edifici, palazzi storici che, in quest'epoca, non sono poi così datati... Mi viene la pelle d'oca. È un edificio solido e imponente, dai caratteri classicheggianti. Riesco a vedere distintamente i volti seriosi delle cariatidi che sembrano sorreggere un balcone, erculei busti di uomini barbuti, scolpiti con minuzia di dettagli anatomici. 

Non è possibile che io mi ricordi tutte queste piccolezze. Non in sogno. 

No, no... 

Impulsivamente, gli sferro un pugno sulla stessa spalla su cui era caduto, con tutte le mie forze. Lui salta in aria, esibendo una smorfia delle più sofferenti. Lo guardo atterrita, tuttavia, l'aspetto più scioccante, è che lui sia più pallido di me. 

- Fammi un pizzicotto. - Balbetto, seguendo il percorso della sua mano tremolante fino al braccio. Sento dolore e, per nessun motivo al mondo, dovrei   avvertire dolore. 

Panico. 

Appoggio la schiena alla parete dell'edificio, esaminando l'area con occhi spiritati. Altri palazzi, bandiere naziste a drappeggio ovunque e una chiesa che, sicuramente, è andata persa durante i bombardamenti. E persone, tante persone per strada; uomini con il capello di feltro, donne con la gonna e i capelli raccolti. 

Oddio, mi sento male... Mi manca l'aria! No, non posso averlo fatto! È vero! È tutto vero ed io sono intrappolata qui! Come ho potuto lasciarmi convincere, e se non dovessi tornare più?! 

No, no... 

Lacrime amare mi percorrono le guance, mentre continuo a pizzicarmi ogni parte del corpo. 

- Sara, smettila, ti stai facendo male! - Fried interviene per fermarmi, abbracciandomi, così da tenermi ferme le braccia. - Ti prego, perdonami... Se solo avessi saputo... - Piange sommessamente, scosso dai sensi di colpa. - Ti riporterò indietro, troverò un modo. Devo... Sì, devo solo capire cosa non va in me e poi... - 

E se non fosse lui il problema? Se fossi io? Voglio tornare a casa, voglio rivedere mamma... 

- Fried, aiutami. - Lo prego, nascondendo il viso nella sua giacca. - Non so che fare. - 

- Non ti lascio per strada. Faremo come abbiamo stabilito: ti porterò a casa mia e... tornerai nel tuo mondo, non so come, ma qualcosa ci inventeremo. - Annuisco freneticamente, perché pensare il contrario sarebbe troppo doloroso, perché non potrei vivere sapendo di essermi rovinata con le mie stesse mani. - P-potresti approfittarne nel frattempo. Vedrai che è solo questione di tempo... - 

- Sì... - Mi asciugo frettolosamente le lacrime, cercando di non pensarci al momento.

Lui, poveretto, è sbiancato. È un duro colpo anche per lui e lo capisco, ma il danno più grande, se qualcosa andasse storto, di sicuro lo avrei io. Come diavolo potrei vivere qui? Dovrei espormi ad una pioggia di bombe, sperando di non finire sfracellata? 

Ok, ok, mi devo calmare... Mi verrà un ictus se non la pianto di agitarmi. Ha ragione lui; andrà tutto bene. Ci dev'essere un motivo se sono finita quaggiù, Dio solo sa quale. 

- Va bene Fried, andiamo. - Traggo un respiro profondo, tentando di rilassarmi. 

Lui mi prende sotto braccio, teso, troppo teso. D'un tratto cambia completamente atteggiamento, iniziando a parlarmi della sua città. 

I suoi occhi azzurrini si addolciscono, come se volesse infondermi calma ed io, in effetti, mi rassereno, cercando di guardare ai risvolti positivi dell'incidente. Egli contempla i luoghi che gli sono più familiari, deluso per come sono andate a finire le cose. 

L'ammirazione nei confronti di un'antica bellezza ritrovata dopo tempo comporta fedeltà verso il Reich, ma la consapevolezza che la gloria tanto agognata dai tedeschi poggia i suoi pilastri sulle vestigia di un popolo schiacciato in nome di un ideale, è un'autentica ricetta per la distruzione.

Il peso della verità è troppo grande, troppo grande per poter essere sopportato. 

- Apparentemente è bella, vero? - Domanda, accennando un amaro sorriso.

- Molto bella. - Immaginavo una capitale diversa a dire il vero, invece è tutto meraviglioso. Capisco i berlinesi, talmente distratti da tutto questo splendore da non accorgersi di ciò che stanno facendo.

- Allora vuoi vedere casa mia? - Esordisce, speranzoso, nel tentativo di distrarmi. 

Già, forse è meglio così.

Dopo essermi ricomposta, acconsento, facendo comparire un sorriso di stella sulle sue labbra. 

Ci avviamo a piedi perché, a detta sua, casa loro si trova in linea retta, approssimativamente a dieci minuti di cammino. Non conosco per nulla il posto; è un mondo nuovo per me: nuova lingua, nuova cultura e nuovi problemi. Mi aggrappo al suo braccio, anche se potremmo apparire come una coppietta di giovani innamorati. Molti passanti in cui ci imbattiamo, invece, scherniscono il modo in cui sono vestita, per poi commentare in tedesco. Beh, che cosa si aspettavano? Se solo sapessero da dove provengo, non si stupirebbero dei miei leggins... Dei vestiti che possiedo, ben pochi si sarebbero adattati alla moda degli anni trenta/quaranta, tant'è che non mi sono neanche sforzata di trovarne. 

E, comunque, il loro giudizio è l'ultimo dei miei pensieri. 

Molte altre persone si soffermano a guardarci, riservandoci le reazioni più disparate, finché finalmente non imbocchiamo una via: " Goethestraße " leggo, su di un cartello. 

- Eccoci. - È un appartamento di tre piani, intonacato bianco neve. Ehi, ma quello che sta suonando non sarà mica... Un citofono! Ed io che credevo che nemmeno esistessero i citofoni! 

Aspettiamo qualche minuto fuori: sono un fascio di nervi. Conoscerò i genitori di Fried, il ragazzo vissuto sessant'anni prima della mia nascita. Come dovrò comportarmi? 

Qualcuno fa scattare la serratura e, ad aprire, vi è un uomo di mezza età, dai capelli biondi, brizzolati e inespressivi occhi scuri. 

- Guten Morgen, Vater - pronuncia cordialmente queste parole, celando al meglio il suo odio nei confronti del padre. 

- Guten Morgen, Sohn - risponde laconico l'uomo, per poi squadrare me. Biondino aiutami tu... Scorro lo sguardo dal padre al figlio e viceversa finché il primo non si decide a parlare: 

- wer ist dieses kleines Mädchen?/ Chi è questa ragazzina? - " Mädchen, ragazza  ", questo lo ricordo. Chi sono io, signore? È tutta la vita che interpello l'universo per avere una risposta. 

- Eine Freundin und es wäre besser, wenn du mir ihr nur Italienisch sprichst. / Un'amica e sarebbe meglio che con lei parlassi solo italiano. - L'uomo, dopo un attimo di silenzio, decide di rivolgermi la parola. 

- Piacere tuo, italiana. - Friederick è in imbarazzo tanto quanto me e lancia un'occhiataccia al genitore per quest'ultima risposta. 

- Bitte, ci fai entrare? - Non capisco come faccia questo ragazzo a comportarsi tanto gentilmente con l'uomo che gli ha rovinato la vita; capisco che sia suo padre, però è pur sempre uno di loro, a contrario suo.

Una voce squillante fa scattare lo sguardo verso l'interno della casa, passi frettolosi ma delicati annunciano l'arrivo di una seconda persona, probabilmente sua madre. 

Poco dopo, a fianco del marito appare una donna, eccezionalmente bella, a discapito dell'età. Ha un lieve sorriso stampato sulle labbra piene e gli stessi occhi azzurri di Fried che, a contrario del coniuge, sono pieni di amorevole premura. 

- Guten Tag, Friederick - saluta dolcemente il figlio, stringendolo a sé. Ora sì che ho nostalgia della mia famiglia... La signora è una donna buona, come mia madre e, ammetto, sono molto teneri insieme.

Dopo aver sciolto l'abbraccio, Fried mi introduce anche a lei, come aveva già fatto in precedenza. Mi sento in soggezione, ma anche in leggero imbarazzo. Diversamente da quanto mi aspettassi, la signora mi stringe la mano, sorridendo. 

- Le amiche di mio figlio sono benvenute a casa nostra. - Che fortuna! Entrambi parlano la mia lingua! Nonostante l'accento germanico, è un buon italiano il loro.

- È un piacere conoscervi signori... - Solo dopo un attimo, mi accorgo di non sapere il cognome. 

- Miller - interviene l'uomo, senza emozione. Inizia a farmi paura suo padre. 

- Lei è mia madre Ilde, mentre lui è mio padre Aaron - grazie al cielo il biondino si è immesso nel discorso... Non sapevo proprio cosa dire! 

- Bene, volete accomodarvi? - La signora Miller ci ha invitati ad entrare con entusiasmo, mentre il signore è già rincasato. Non mi sento ancora di dare loro del " tu ", soprattutto a Herr Miller. La moglie è decisamente più solare e rassicurante.

Il biondino annuisce anche al posto mio.

Mi sento inspiegabilmente nervosa, come mai questa sensazione? 

 

  
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