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Autore: Monique Namie    17/10/2015    1 recensioni
Nel futuro, la tecnologia per i viaggi nel tempo è diventata realtà. Un'agenzia temporale collegata ad un museo privato si è specializzata in viaggi nel passato, allo scopo di recuperare reperti storici da studiare e poi esibire dietro una teca. Per scongiurare il pericolo di creare paradossi temporali, il personale impiegato deve sottostare ad alcune regole fondamentali.
Questa è la storia di Edra, una ragazza da sempre affascinata dal tempo, brillante studentessa di cronoquantistica teorica e applicata, che ad un certo punto della sua vita, per colpa del passato, inizia a mettere in discussione tutto ciò che ha appresso.
{Racconto scritto per il contest "Verso l'infinito e oltre!" indetto sul forum di EFP}
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Crack Pairing
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sciossione d'Anima

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Cap.2 - La dinamica di un loop




Cinque anni dopo, alla Titraahibe.

Potevo considerarmi una persona fortunata. Il mio sogno si era in parte realizzato: ero stata assunta dalla Titraahibe poco dopo aver terminato gli studi universitari. Specifico: in parte, e non totalmente, perché tre schiocche regole, di cui parlerò tra un po', mi impedivano di compiere un certo tipo di viaggi nella quarta dimensione.

Dal momento in cui ero entrata a far parte della squadra, venivo sottoposta mensilmente all’analisi di un computer che scansionava e valutava la mia corteccia cerebrale. Ero uscita dall’università con ottimi voti, ma sembrava che qualcosa mi rendesse inadatta all’incarico vacante di viaggiatore nel tempo. Per i primi tre anni e due mesi di impiego sono stata, quindi, una semplice cronoquantista teorica; mi occupavo di coordinare i tecnici e di controllare che prima e durante l’attivazione del macchinario tutti i dati cronoquantistici (ovvero, di particelle quantiche concatenate alla struttura spazio-temporale) fossero nella norma. In confidenza credo di sapere che cosa avesse trovato di sbagliato il computer nella mia corteccia cerebrale, ma a questo punto, prima di proseguire, sarebbe opportuno che spiegassi qualcosa sulla Titraahibe. Innanzitutto, Titraahibe è l’acronimo di Time Travel Agency for Historical Benefits. Il motivo per cui quest’agenzia è stata fondata lo si può intuire dal nome. Nell’anno in cui il genio di Ellhis O’Wise comprese l’equazione che rendeva teoricamente possibile a un corpo dotato di massa di spostarsi a velocità prossime a quella della luce senza disintegrarsi, partì una specie di gara tra ricchi privati (io avevo appena tre anni, tutto quello che so l’ho studiato per la tesi di laurea). Ogni miliardario interessato metteva a disposizione dei migliori scienziati cospicui finanziamenti perché costruissero una macchina del tempo nei garage delle loro lussuose ville. Una sola remota possibilità di avere il controllo totale del tempo giustificava le folli spese per progetti che, il più delle volte, erano destinati a fallire.

Il primo prototipo funzionante fu realizzato da una troupe di scienziati ingaggiati dal direttore di un museo privato, il che fu un bene, perché il direttore era un uomo saggio e coscienzioso. Da quel primo prototipo se n’è fatta molta di strada, il direttore ha creato la Titraahibe e ha assunto del personale specializzato. Chi lavora qui deve tenere a mente tre semplici regole:
1. il viaggio nel tempo s’intraprende solo a beneficio della storia;
2. i contatti con le persone che non appartengono alla linea temporale presente vanno ridotti al minimo;
3. gli eventi non devono essere alterati.
Tre semplici regole che tolgono gran parte del divertimento: niente viaggi nel futuro, niente storie d’amore impossibili con nobildonne dell’Ottocento o cavalieri del Medioevo, ma soprattutto niente manipolazioni del normale corso della storia, per nessuno motivo. Si viaggia nel passato esclusivamente per recuperare preziosi reperti storici da chiudere dentro una teca del museo. Tutto ciò escludeva a prescindere certe teorie sulle linee temporali artificiali a cui avevo dedicato mesi di ricerche... A meno che non esistesse un’altra macchina del tempo o che qualcuno avesse modificato la storia in segreto, tutte cose altamente improbabili.
Durante una delle mie prime scansioni cerebrali contestai in modo indiretto l’ultima delle tre regole ponendo al computer una domanda: “come ci si dovrebbe comportare nel caso in cui fosse in palio la salvezza del pianeta Terra?” Il computer non rispose al quesito e disse semplicemente che non ero il candidato ideale da mandare a spasso nel passato. Il punto è che, in caso di situazioni estreme, la terza regola crea un paradosso. Ciò che il computer valutava negativamente in me era l’imprevedibilità: aveva capito che l’ultima cosa che avrei fatto sarebbe stata seguire quella stupida regola!
Tre anni e due mesi dopo la mia assunzione, ero ancora convinta che la terza regola andasse in qualche modo modificata. Eppure, quella stessa settimana, dopo la consueta scansione celebrale il computer mi aveva giudicata idonea, dandomi la possibilità di partire per la mia prima missione.
Mi trovavo nella Sala del Tempo quando, ad un certo punto, mi si avvicinò un operaio. Con il casco e la tuta addosso, lo riconobbi solo dalla voce nel momento in cui mi parlò.
«Come ci si sente a essere DJ del tempo? Hai letto il fascicolo sulla missione, spero?» Era Inck. Mi sostituiva nel compito di cronoquastista teorico. Mi venne da ridere perché il fascicolo non l’avevo letto. Un comportamento, questo, piuttosto incosciente da parte mia. Nessuno avrebbe sospettato che ragazza prudente e razionale come me potesse nascondere un'indole vendicativa. Non leggendo le istruzioni mi stavo prendendo la rivincita dal computer che in passato non mi aveva giudicata subito idonea.
«Va alla grande, anche se stanotte ho avuto un incubo» risposi.
«Non sarà mica stato uno di quei tuoi sogni premonitori!?», scherzò lui.
«In realtà, ho sognato la statua dell’angelo incappucciato. Le stavo vicino, quando all’improvviso ha alzato la testa e mi ha fissato con due agghiaccianti occhi verdi. Perché teniamo un oggetto del genere vicino alla macchina del tempo?»
L’altro alzò le spalle. «Sarà per ricordarci che, anche se controlliamo il tempo, non siamo immortali...»
Ogni tanto anche uno come Inck se ne usciva con qualche saggia considerazione. Negli occhi verdi dell’angelo, tuttavia, c’era l’intero universo, io l’avevo percepito e la cosa mi aveva preoccupata. Le parole di Inck non bastarono a rassicurarmi.

“Sessanta secondi alla partenza.”
La voce metallica dello speaker che scandisce il tempo rimanente alla partenza, fece eco nell’immensa Sala del Tempo riportandomi al presente.
Quando il Timegate è in fase di accensione, le pareti della stanza e l’intera superficie circolare dell’enorme meccanismo centrale perdono il loro grigiore metallico per coprirsi di sfumature che vanno dall’azzurro al blu. Per tre anni e due mesi avevo assistito a distanza ravvicinata a ogni singola partenza, eppure non mi ero ancora abituata alla luce azzurra accecante che veniva irradiata quando il macchinario entrava in funzione. Era una luce bellissima: il colore era simile a quello della fiammella del gas da cucina, ma molto più brillante. Successivamente, dal grande cerchio verticale che crea la distorsione dello spazio-tempo iniziavano a diramarsi i primi fulmini al plasma, rivelando ad ogni flash gli ingranaggi di lucido metallo parte integrante della struttura.
Nell’Agenzia il grande cerchio era chiamato Timegate in onore dello Stargate del vecchio film, mentre colui che viaggiava nel tempo era soprannominato DJ, dalle iniziali del nome del protagonista, Daniel Jackson.
Per tutta la durata della missione, il DJ del tempo diventava una specie di divinità in grado di creare sublimi melodie quantiche con i suoi spericolati viaggi nella quarta dimensione; un po’ come avviene quando la materia vicino ad un buco nero entra in risonanza e produce una nota riconosciuta come si bemolle.1 Atomi, artisti e scienziati non differiscono più di tanto tra loro.
Salii nella navicella e allacciai la cintura di sicurezza prima che la gravità venisse annullata. Ancora non avevo realizzato pienamente l’importanza di ciò che stavo per intraprendere.
Inck mi fece cenno attraverso il monitor centrale che i valori erano ok e io in risposta sollevai il pollice.
Tutti i tecnici indossavano una speciale tuta completa di casco che li proteggeva dalle fluttuazioni quantistiche del tessuto spazio-temporale, tutti eccetto me. A me piaceva sentire il tempo scorrere sulla pelle, amavo quel senso di vertigine nel momento in cui il Timegate toccava la massima potenza e i quanti iniziavano a scomporre la realtà.
È certificato che l’esposizione alle fluttuazioni cronoquantistiche non crea danni irreversibili al corpo umano, ma può provocare dei momentanei effetti collaterali diversi da persona a persona. A me capitava di avere dei sogni premonitori. Il più delle volte non erano sogni chiari e dettagliati, ma sequenze immerse nella nebbia, mezze sensazioni che riuscivo a comprende pienamente solo quando le vivevo in prima persona. La sera prima della missione, per esempio, mi era apparso in sogno l’angelo incappucciato. Il suo sollevare il capo per fissarmi mi aveva messo addosso un pressante senso d’angoscia.
“Dieci secondi alla partenza”.
La voce metallica dello speaker interruppe nuovamente i miei pensieri. Non avevo letto il fascicolo sulla missione ma, dopo aver presenziato a un certo numero di riunioni, sapevo quanto bastava per avere successo: dovevo recuperare un vecchio orologio costruito con rari materiali estratti su un pianeta extrasolare. Per il museo era importante perché era l’unico modello giunto sulla Terra dopo il blocco galattico delle importazioni di materiale ferroso. Osservai la data impostata sul timer interno: non dovevo nemmeno tornare troppo indietro, perché le tracce dell’oggetto erano state perse appena cinque anni prima.
“Meno tre.”
Cominciai ad avvertire la sensazione di vuoto provocata dall'assenza gravitazionale indotta.
“Meno due.”
Per la prima volta rimpiansi di non aver voluto indossare la tuta protettiva e il casco.
“Meno uno. E… attivazione!”
Nel momento in cui la distorsione temporale toccò l’apice massimo, non percepii più i confini del mio corpo, ebbi come l’impressione che le mie braccia potessero raggiungere qualche chilometro di distanza, iniziò a mancarmi l’aria e i contorni delle cose persero improvvisamente consistenza fino a svanire.
A risvegliarmi fu il forte rombo di un tuono. Ancora prima che gli occhi s'abituassero alla poca luce, colsi il piacevole scrosciare di un acquazzone sul tetto della navicella che mi ospitava. Aprii lo sportello facendo uso di tutte le mie forze e subito raffiche di vento e pioggia mi arrivarono addosso. Il luogo non mi era nuovo e il clima mi provocò un inaspettato senso di malinconia. La navetta si era materializzata in un vicolo cieco deserto ma, in lontananza, sul marciapiede che costeggiava la strada principale, un fiume di ombrelli scivolava inesorabile verso il proprio destino e il rumore dei clacson degli automobilisti impazienti infrangeva il silenzio della sera. Quando riconobbi il luogo, compresi che avrei fatto meglio a leggerlo quel maledetto fascicolo sulla missione.

Dentro all’Ibizu Kilea era un continuo déjà-vu.
Senza chiedere al legittimo proprietario, presi in prestito una sciarpa dall’appendiabiti e me la avvolsi attorno al viso: non potevo correre il rischio che la me stessa del passato mi riconoscesse. Come aveva potuto il computer giudicarmi idonea proprio a svolgere questa missione?! Anche la persona più inesperta sa che, durante un viaggio nel tempo, tornare sui propri passi è rischiosissimo. D'altra parte era anche vero che nessuno mi aveva obbligata a entrare in quel pub. Ero lì percché avevo avuto un'intuizione: l'orologio da recuperare non poteva che essere quello di Linsdy. Tutte le variabili del caso portavano a quella conclusione.
Scelsi di sedermi in un angolo appartato. Il cameriere invece di chiedermi l'ordinazione, mi chiese se stavo bene. Come avrei potuto sentirmi bene? Per la seconda volta avrei dovuto dire addio a Linsdy senza poter far nulla per cambiare la storia. Era già una gran cosa che fossi riuscita a mettere piede nel locale; dalla maledetta sera di cinque anni fa non ero più entrata in quel posto. Evitavo, per quanto possibile, persino di passarci davanti. Dubitavo di essere in grado di portare a termine la missione con le mani tremanti e con la sensazione che la testa mi stesse per esplodere. Sussultai sentendo il rumore di qualcosa di vetro che andava in frantumi: avevo dimenticato che quella volta uno dei piccoli srehitani aveva fatto cadere un bicchiere. Quello era il segnale che separava l’attesa dall’arrivo di lei. La porta del locale, infatti, si spalancò e Linsdy entrò accompagnata dal vento e dalla pioggia come il fantasma dei miei rimpianti. Il suo sorriso era così luminoso da ferirmi gli occhi e il suo volto appariva evanescente. Illusioni, tutte illusioni che preannunciavano la mia prossima perdita di coscienza. Quando mi risvegliai ero su un lettino dell’infermeria della Titraahibe.


«Bentornata», esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per sentire le pulsazioni.
«Ho fallito…», bisbigliai.
Lui mi guardò stupefatto. «Edra, non sei nemmeno partita, sei crollata prima di salire sulla navetta e così la missione è stata posticipata. Ti senti meglio adesso?»
«Per niente.»
Dire che mi sentivo confusa era un eufemismo. «Forse qualcuno mi ha lanciato una maledizione.»
Lui sospirò. «Se continui a crucciarti così, arriverai ai tuoi ultimi giorni di vita piena di rimpianti.»
«Al diavolo!», cercai di urlare, ma ero ancora priva di forze e mi resi conto che la frase risultò poco più che sussurro. Karf forse non mi aveva nemmeno udita.
«Dov’è il fascicolo sulla missione?», chiesi, ora più che mai intenzionata a leggerlo.
«A che ti servirebbe adesso?»
Cercai di sollevarmi dal lettino decisa a cercarlo da sola, ma il medico mi obbligò a stare stesa. Lo osservai per qualche istante mentre controllava da un tablet i miei valori vitali con espressione seria. Lui era stato uno dei primi a diventare mio amico quando ero stata assunta. Gli lessi nello sguardo che la sua preoccupazione era sincera.
«Hai ragione», ammisi, «finirò col vendermi l’anima per ottenere un istante di tempo in più.»
Sopraffatta dall’inquietudine trasmessa da quel pensiero, chiusi gli occhi cercando di riposare, ma sentivo ancora il rumore del bicchiere che andava in pezzi sul pavimento dell’Ibizu Kilea percuotermi i timpani.

Qualche ora dopo mi sentivo un po’ meglio ed ero di nuovo nella Sala del Tempo davanti al Timegate. Karf aveva classificato il mio malore come cronometroverctofobia: in pratica, secondo lui avevo perso i sensi per paura del cambiamento temporale. Sembrava che il modo migliore per superare il problema fosse ritentare la missione il prima possibile.
Karf diceva che i miei valori vitali erano tornati nella norma, eppure se mi toccavo la fronte la sentivo divampare. Probabilmente anche quello era uno degli effetti collaterali dell’esposizione diretta alle fluttuazioni cronoquantistiche. Stavo male, ma non mi lamentavo perché il dolore mi faceva sentire viva.
Anche se per gli altri non mi ero mai mossa da lì, io ero certa che quello di prima non fosse stato un sogno e non riuscivo a nascondere la preoccupazione. Per un attimo pensai persino di rinunciare, ma scacciai subito l’idea. Dopo tutti gli anni di studio passati a sognare di essere DJ del tempo, non potevo mandare tutto all’aria così, per una sensazione.
«La Titraahibe è l’agenzia temporale migliore del pianeta, si possono fare miracoli aggiustando un po’ le fluttuazioni cronoquantistiche», intervenne Inck, che sembrava aver letto la preoccupazione nei miei occhi.
«La Tritraahibe è l’unica agenzia temporale del pianeta», puntualizzai.
Inck fece finta di non aver sentito e continuò con le sue considerazioni. «Questo per dirti che puoi sbagliare anche mille volte, ma per com’è organizzata la struttura del tessuto spazio-temporale tu non ti accorgeresti mai di nulla. Dovresti saperlo meglio di me, visto che sei una secchiona.»
Gli tirai una pacca sulla spalla e mi preparai nuovamente per la partenza. Prima di salire sulla navicella, lo sguardo si posò distrattamente sulla statua dell’angelo: le sue ali mi sembrarono leggermente più dispiegate rispetto all’ultima volta l’avevo osservata.
La procedura di attivazione si ripeté da capo: sensazioni distorte e sfumature d’azzurro iridescente mi avvolsero come un oceano in tempesta, poi finalmente mi ritrovai sotto quel noto cielo serale in burrasca. Incamminandomi verso l’Ibizu Kilea la pioggia fredda mi inzuppò gli abiti; era una sensazione piacevole, gli atomi del mio corpo rallentarono impercettibilmente dandomi modo di respirare.
Girato l’angolo della strada, mi trovai davanti al passaggio pedonale in cui sapevo si sarebbe fermata Linsdy. Pensai che avrei potuto stare lì ad aspettarla per tutto il tempo necessario e al momento giusto spingerla lontano per cambiare la storia. Ma avrei potuto veramente?
Ripercorsi mentalmente gli ultimi istanti con lei, gli ultimi passi su quel marciapiede affollato e impregnato di pioggia. Pensando, il tempo passò invisibile e silenzioso, più veloce del normale, così arrivai davanti al pub in ritardo. Entrai nel momento in cui la famigliola di srehitani stava uscendo e quasi ci scontrammo. Linsdy era seduta al solito tavolo con la me stessa del passato. Rubai per la seconda volta la sciarpa al solito ignaro cliente e presi posto nel tavolo di fronte al mio obbiettivo.
Per portare a termine la missione mi sarebbe bastato trovare il coraggio di alzarmi, prendere l’orologio e tornare nel mio tempo, ma non riuscivo a muovermi, ero come paralizzata, mi sentivo parte integrante di quel tavolo: se avessi mosso un solo dito, qualcosa di certo sarebbe andato in pezzi.
Per il tempo in cui rimasi seduta in quel posto, nessuno sembrò accorgersi della mia presenza, solo la me stessa del passato mi lanciò una breve occhiata dopo che Lindsy se ne fu andata. L’orologio era lì, sopra al tavolo, la mia amica invece era uscita, impaziente di assecondare la crudele volontà del destino. La Edra di quel tempo si accorse dell’orologio dimenticato, si alzò e mi passò di fianco di corsa. Nel rivivere la fretta di quell’azione, provai una forte vertigine ed ebbi l’impressione di precipitare in un baratro sempre più profondo, sempre più buio. Come la prima volta, gli eventi mi sfuggirono di mano e mi risvegliai nuovamente nell’infermeria della Titraahibe.

«Bentornata», esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per sentire le pulsazioni.
«Ho fallito…», bisbigliai.
Lui mi guardò stupefatto. «Edra, non sei nemmeno partita, sei crollata prima di salire sulla navetta e così la missione è stata posticipata. Ti senti meglio adesso?»
«Per niente.» Una strana sensazione di déjà-vu mi assalì. Stavo per aggiungere un pensiero poco scientifico su una possibile maledizione lanciatami contro da qualcuno, invece mi uscì un sospiro. Anche il medico sospirò. «Se continui a crucciarti così, arriverai ai tuoi ultimi giorni di vita piena di rimpianti.»
«Dov’è il fascicolo sulla missione?», chiesi, ignorando le sue considerazioni.
«A che ti servirebbe adesso?»
Altro tremendo déjà-vu. «Ho bisogno del fascicolo sulla missione!», cercai di urlare, ma la mia voce sembrava lontana. Mi alzai in preda all’agitazione e finii a terra, Karf mi risistemò sul lettino e mi somministrò un tranquillante. Mi riaddormentai, ma questa volta iniziai a sognare, ed era un sogno così vivido che sembrava reale. Avevo la sensazione di osservare un luogo fuori dal tempo, un luogo che esisteva, esiste ed esisterà sempre.

«Non so per quanto ancora potremo reggere, mia signora!» I bellissimi gli occhi verdi di un essere alato scintillano alla luce della lanterna di sale posizionata al centro di un tavolo. Le mani, protese in avanti verso uno specchio vuoto immerso nell’oscurità più cupa, sono coperte da morbidi guanti ricamati.
La donna, che sta nascosta dietro a una tenda di tessuto blu in fondo alla stanza, ha una voce familiare: «Dobbiamo resistere o fallirà l’intero progetto, cosa che non possiamo assolutamente permettere.» Il suo tono è calmo, ma io ho la certezza che dentro di lei si stia scatenando un uragano.
«Come propone di agire, mia signora?»
«Prima di tutto, lasciate perdere il loop difensivo.»
«Con tutto il rispetto, devo forse ricordarle ciò che è successo l’ultima volta che abbiamo interrotto il loop?», insiste la creatura angelica, senza spostare l’attenzione dallo specchio nero che ha davanti. Indossa un mantello scuro con il cappuccio calato fino sulla fronte; le ali sul dorso fremono impercettibilmente per la tensione che si è venuta a creare nell’attesa di una risposta.
«Ricordo ogni singolo avvenimento, da quando il primo elettrone ha preso forma e ha iniziato a muoversi nello spazio-tempo. Sì, ricordo anche l’ultima volta che abbiamo interrotto il loop: la struttura dell’universo è collassata in una singolarità.»
«E non le sembra una tragedia?!» L’essere alato non tenta nemmeno di nascondere un moto di sdegno nella sua voce pura e suadente.
La donna sorride e prosegue con tono quasi materno: «Le tragedie non esistono. Le singolarità non distruggono l’universo, cambiano solo la disposizione delle cose.»
L’altro resta in silenzio per qualche istante, poi avvicina maggiormente le mani guantate all’oscurità contenuta nello specchio: cerca, in quel modo, di fare maggiore attrito sulla rete del tempo per rallentare gli avvenimenti e potersi concedere qualche attimo di riposo. Con quegli occhi verdi, seminascosti dal cappuccio, può vedere ogni singolo essere vivente presente nel cosmo, ma uno in particolare ha catturato la sua attenzione: sono io, mi sta fissando.
Lui ha visto la nascita, la morte e la resurrezione di ognuno senza commuoversi, senza provare né gioia né dolore. Assiste allo scorrere del tempo da quella sua posizione privilegiata, frenando saltuariamente il normale ticchettio della lancetta dell’orologio per concedersi un po’ di riposo. Nulla lo fa vacillare. Per sua natura non prova emozioni, se non quando si tratta della salvezza dell’Universo e le sue ali si dispiegano quando qualcuno gioca d’azzardo con il tempo.
Finalmente allenta le mani e si decide a parlare: «Devo confessarle una cosa, mia signora.»
«Ti ascolto.»
«L’interferenza ha ottenuto un contatto con me.»
«No!» La misteriosa donna nascosta dietro la tenda blu nega. La negazione: una reazione fin troppo umana, la prima reazione in risposta a un avvenimento tanto spiacevole da non poter essere giudicato razionalmente.
«Se interrompiamo il loop adesso, dovrà per forza tornare indietro, mia signora. L’interferenza ha capito dov’è stata inserita la giunzione temporale.»
La donna scosta violentemente la tenda blu e il suo volto appare in tutta la sua bellezza: è Linsdy.


Mi risvegliai frastornata: il tranquillante non aveva svolto bene il suo compito.
«Bentornata», esordì Karf, medico di fiducia dell’Agenzia, tastandomi il polso per sentire le pulsazioni.
Avevo la mente ancora in disordine per ciò che avevo appena vissuto. L’angelo dagli occhi verdi e le mani guantate assomigliava in modo impressionante a quello della statua presente nella Sala del Tempo.
«Sono nell’aldilà?», chiesi.
Il medico mi scrutò per qualche istante stupefatto. «Edra, non sei nemmeno partita, sei crollata prima di salire sulla navetta e così la missione è stata posticipata. Ti senti meglio adesso?»
«Karf, smettila di ripetere sempre le stesse cose, ok? Mi farai impazzire!»
L'uomo restò per qualche secondo a fissarmi con gli occhi sbarrati cercando di capire se lo stessi prendendo in giro, poi ci rinunciò e scosse la testa rassegnato.
«Ho fatto un sogno», proseguii, «o almeno credo fosse un sogno, e c’era quell’angelo, quello della statua vicino al Timegate! Non può essere una coincidenza!»
Karf sospirò. «Se continui a crucciarti così, arriverai ai tuoi ultimi giorni...»
«Non costringermi a chiuderti la bocca con del nastro adesivo!» lo interruppi bruscamente. «Morirò nel momento scelto da me. Non prima!2»
«C’è chi potrebbe decidere per te3», mi rispose apprensivo.
Il fatto che avesse inserito una nuova frase nel suo copione mi rassicurò. «Hai ragione», ammisi dopo un breve attimo di silenzio, lo sguardo perso nel soffitto candido di quella stanzetta asettica, «ma ho come l’impressione che questa missione mi stia consumando. D'altronde il tempo sa fare solo questo: consumare le cose. Consuma perfino le stelle che a noi appaiono eterne. Ma è così affascinante, non trovi? Il tempo… che cos’è il tempo, Karf? E perché teniamo quell’inquietante statua nella sala delle partenze?»
Quando spostai nuovamente lo sguardo verso il medico, notai che aveva assunto un’espressione allarmata. Mi guardava come se stessi tentando di scalare a mani nude una parete verticale di cristallo, come se stessi delirando.
«Vado ad avvertire i tecnici che riprenderai la missione domani. Per il momento niente accertamento psichiatrico, ma se domani non sei tornata in te…» Non terminò la frase lasciando sottintendere il resto, e concluse con un sbrigativo «Riposati.»

Stesa sulla branda del mio alloggio non riuscivo proprio di addormentarmi. Guardavo l’ora proiettata sul soffitto dalla sveglia led: ormai era notte fonda, erano le 2:33. All’esterno tutto era avvolto nel più completo silenzio, ma nella mia mente c’era il caos. Il pensiero di tutte quelle persone che se n’erano andate lasciando le cose a metà non mi voleva lasciare in pace. Iniziai a riflettere su quello che avrebbe potuto fare Linsdy nella colonia spaziale orbitante attorno al sistema gioviano, se solo fosse riuscita ad arrivarci. Mi sembrò di vederla con addosso un camice bianco da laboratorio e degli occhiali protettivi, intenta a controllare nei computer i dati di crescita di minuscoli germogli. Mentre svolgeva il suo lavoro sopraggiungeva un collega, lei sorrideva e, scostando una ciocca di capelli ribelle dal viso, riferiva che tutto stava andando per il meglio.
Pensavo a lei perché l’avevo vista spegnersi davanti ai miei occhi a un’età in cui non esistono ancora sogni irrealizzabili, a un’età in cui ci si crede immortali. Fino ad allora ero riuscita a convivere con il vuoto della sua assenza, ma la missione mi aveva ridestata, mi aveva fatto capire che in realtà non l’avevo mai dimenticata, lei era sempre stata lì in un angolo del mio cuore pronta a scuotermi dal torpore dell'indolenza.
Ricordavo ancora il profumo che indossava quella sera e il sorriso cristallino prima di uscire dal locale. Per tutto il tempo le avevo sempre nascosto i miei sentimenti. La tentazione di tornare indietro e raccontarle tutto era fortissima. Se avessi potuto rivivere in prima persona quella serata, ora avrei agito diversamente, senza paura di ricevere una pugnalata al cuore, senza il timore di un rifiuto. E se ci fossi stata io al posto Linsdy, sotto la pioggia, ad attendere l’arrivo di quell’auto impazzita, chi avrebbe scelto il computer per svolgere questa missione? Se... se… Troppi “se”.
Ricordai le parole del mio relatore riferite alla bozza della tesi di laurea che gli avevo presentato: “L’argomentazione è più che buona, ma ti poni troppe domande irrisolvibili. L’uomo non potrà mai capire la struttura profonda del tempo nella sua completezza, altrimenti diventerebbe un dio.”
Ad un tratto nella mia mente balenò un’idea folle.
Decisi che era arrivato il momento di prendere in mano le redini della situazione. Non potevo continuare a far finta di niente. Mi alzai di scatto dal letto, indossai le prime cose che avevo a portata di mano e, a larghe falcate, raggiunsi la Sala del Tempo.
Dopo tutte le partenze a cui avevo assistito, attivare il Timegate in solitaria non era di certo un problema e regolare le coordinate spazio-temporali nel luogo e nell’epoca desiderata era un giochetto. L’allarme che segnalava un’intrusione non prevista scattò con un po’ di ritardo. Io ero già dentro la navetta che fluttuava in assenza di gravità e nessuno poteva più fermarmi.




Note:
1- Il fatto che la materia che entra in risonanza vicino ad un buco nero produca una melodia riconosciuta come si bemolle, non è una mia invenzione, ma una considerazione scientifica reale.
2- Frase pronunciata dalla regina Elisabetta I nel film Elisabetta I dopo aver accusato un malore.
3- Frase pronunciata nello stesso film dal medico di corte in risposta alla precedente efferazione della regina. Egli credeva che il malore fosse stato causato da un avvelenamento.

Nota sull'uso dei tempi verbali:
Avrete sicuramente notato un cambio di tempo verbale: passato -> presente -> passato.
Nella parte in corsivo, che parla del sogno in cui comprare l'angelo dagli occhi verdi, ho usato il tempo presente per rendere l'idea di "luogo fuori dal tempo" che esisteva, esiste ed esisterà. Ci si può vedere anche un significato esoterico piuttosto complesso e profondo sulla natura del tempo e dello spazio legato all'essere umano, ma non voglio spaventarvi con complicate elucubrazioni filosofiche. Se proprio non resistete dalla curiosità, potete sbirciare la risposta che ho dato alla valutazione di Najara, giudice del contest a cui ha partecipato la storia.



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"Timegate: una porta verso il passato" di Monique Namie
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