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Autore: KeyLimner    08/12/2015    0 recensioni
"Rumore.
Tutto ciò che Goneril riesce a sentire è rumore.
Rumore dagli appartamenti a fianco. Rumore dal piano di sopra, dove sembra che gli inquilini non si stanchino mai di trascinare mobili. Rumore dalla strada, oltre le finestre con il doppio vetro.
Rumore dalle pagine del libro che tiene fra le mani.
Ma non hanno fantasia, questi mortali? Evidentemente la loro vita è troppo breve perché quei garbugli di trame sempre uguali e quei personaggi triti sempre alle prese con gli stessi problemi esistenziali abbiano il tempo di venire loro a noia. Goneril ha iniziato a leggere per distrarsi un po’, per tenersi occupata, ma mentre i suoi occhi annoiati scorrono fra le righe anticipando ogni battuta come se facesse parte di un copione che conosce a memoria, la sua mente ha tutto il tempo di andarsene a zonzo per conto proprio.
D’un tratto, si accorge di avere sete. Alza lo sguardo verso la brocca sul tavolo. Scocciata, constata che le toccherà alzarsi… e senza volerlo si ritrova pensare a quanto sarebbe facile schioccare le dita e lasciare che sia quella a venire da lei, fluttuando attraverso le particelle d’aria della stanza. Ci vorrebbe così poco…"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Mena… ti ho detto che è così!».
Rebecca misura a larghi passi la stanza, avanti e indietro. Filomena la segue confusa.
«Aspetta. Ripetimelo di nuovo».
La ragazza si ferma di colpo in mezzo alla stanza e alza gli occhi al cielo.
«Uffaa! Quante volte devo ripetertelo ancora?! Quel mostro è sbucato fuori dal nulla. E pure quella signora. L’ha messo al tappeto senza muovere un dito, solo guardandolo negli occhi, e poi…».
«…e poi ne è saltato fuori un altro, e tu l’hai polverizzato con un raggio di luce bianca incandescente». Filomena guarda Rebecca dritto negli occhi, come valutando la sua sanità mentale.
«Sì, è stato proprio ciò che è successo. E non dirlo con quel tono scettico».
«Non l’ho detto con tono scettico… sto solo cercando di capire».
«Che c’è da capire?! È incredibile, lo so, ma ti giuro che è andata proprio così. Sono stata attaccata, e quella donna mi ha salvata. E poi, non so in quale assurdo modo, io ho salvato lei».
Rebecca guarda le proprie mani, chiedendosi per l’ennesima volta come sia potuto accadere. È certa di ciò che ha visto… ma come possono essere state proprio quelle mani? Le sue mani? Ora continua a fissarle, ma non succede nulla. I palmi restano muti. Carte geografiche indecifrabili.
«Rebecca… cerca di essere ragionevole. Tutto questo è insensato».
«Lo so che è insensato! Ma devi credermi, è tutto vero. Non sono pazza. Almeno credo». La ragazza si afferra il capo con le mani.
Filomena le sfiora una spalla per tranquillizzarla.
«Io continuo a pensare che dovresti andare alla polizia».
«Ma sei matta?! Per dire cosa? “Ehm, scusatemi, vorrei sporgere denuncia. No, non mi hanno derubata. Sono stata attaccata da due mostri giganti e una vecchia signora mi ha salvato la pelle”. Sì, mi prenderebbero sicuramente sul serio. Anzi, se lo facessero sarebbe ancora peggio. Meglio essere spedita a casa con un paio di sculaccioni che in manicomio».
«Potrebbe essersi trattato di uno scherzo di pessimo gusto».
«Può darsi». La ragazza fa una pausa. «Ma devo saperlo. Devo capire cosa è successo. E per farlo, devo trovare quella donna».
Guarda fuori dalla finestra. Il sole splende come sempre nel cielo di Roma. Chissà quali oscuri segreti si nascondono all’ombra dei suoi raggi…
 
Rebecca se ne sta sdraiata sul suo letto con lo sguardo al soffitto. Le immagini di quell’insolito pomeriggio continuano a sfrecciarle davanti. È passata più di una settimana, ma non riesce a pensare ad altro.
Getta un rapido sguardo alla scrivania, dove una pila di libri l’attende minacciosa. Sente una stretta allo stomaco. Ma non ha la testa per studiare.
Lascia scorrere pigramente lo sguardo sulle pareti, fra i poster di Kurt Kubain e quelli di Virginia Woolf, ricordo del suo passato da ginnasiale. Le sue labbra si piegano in un sorriso.
Non può fare a meno di pensare a quanto sia strano essere finalmente all’ultimo anno. Quanta frustrazione… quante lacrime… fra i freddi corridoi del Tasso. Quante volte ha guardato con ansia al momento fatidico della maturità, come un uccellino in gabbia guarda il cielo che l’attende fuori. Eppure, proprio ora che l’incubo sta per finire, sente un certo amaro in bocca. Quando ha provato a dirlo a Miriam, una sua compagna di classe, lei l’ha guardata a bocca aperta.
“Stai scherzando, spero! Io non vedo l’ora di andarmene da questo posto infernale”.
Le pare incredibile riuscire a pensare ad una cosa tanto normale dopo l’avventura che ha passato, ma sembra già tutto così lontano… un sogno un po’ strambo, dai contorni fumosi.
È successo davvero?              
È quasi certa che Filomena non le abbia creduto, quando è corsa a casa sua a raccontarle tutto. E come può biasimarla? Ha fatto irruzione nella sua camera in stato confusionale, biascicando cose che ora paiono incomprensibili pure a lei. Anzi, l'amica è stata fin troppo accomodante.
Il vicolo dove è stata aggredita assomiglia adesso a un luogo fuori dal tempo e dallo spazio. È collegato alle vie circostanti da altre vie, da altri marciapiedi, teoricamente percorribili se provasse a tornare sui propri passi e a seguire quella precisa strada… ma arriverebbe davvero nello stesso posto? Forse si tratta solo della sua proiezione onirica… di un’emanazione trascendente in cui la sua mente l’ha trasportata per qualche minuto, per poi riportarla alla realtà dello spazio fisico.
O forse ha solo passato troppo tempo a studiare filosofia per il compito di domani.
Si gira su un fianco. Poi torna supina. Poi di nuovo su un fianco. Infine si mette seduta. Non riesce a trovare pace.
Devo tornare lì, pensa all’improvviso.
E al pensiero segue subito l’azione. Afferra la borsa e il giubbotto e si avvia verso l’ingresso.
«Dove vai, tesoro?», le urla sua madre dalla cucina, sentendola passare.
È impressionante: è un cazzo di radar. Rebecca si rende conto di colpo che è lunedì sera, e uscire a quell’ora è quantomeno insolito.
«Faccio un salto da Mena a portarle una cosa», improvvisa. «Torno fra un po’».
«Se il negozio è ancora aperto, puoi comprare il latte? Che oggi alla fine ti sei dimenticata di nuovo, e sennò domattina stiamo senza. Cosa diavolo hai da pensare che ti scordi sempre tutto non si sa».
«Sì, mamma».
Rebecca alza gli occhi al cielo. Esce sbattendosi con forza la porta alle spalle (l’uscio è difettoso).
Fuori fa un freddo cane. La temperatura si è abbassata di colpo: fino a qualche giorno fa andava ancora in giro con la camicetta e il maglione, ora anche col giubbotto batte i denti. Non c’è da stupirsi che la settimana scorsa metà della sua classe sia stata a casa con l’influenza. Anche lei comincia a sentire un certo fastidio alla gola.
Si stringe nella giacca e va verso la fermata dell’autobus. Ha paura di tornare lì: paura di ciò che potrebbe trovare, e paura di non trovare niente. Non sa quale sia l’alternativa peggiore. Affretta il passo. È così assorta nei suoi pensieri che centra in pieno uno sventurato passante.
«Ehi! Guarda dove vai, imbecille!».
«Mi scusi», mormora. Vede il suo autobus che si avvicina in lontananza e inizia a correre a perdifiato. Riesce a salire per un pelo.
Non c’è nessuno a bordo, il che - per gli standard degli affollati autobus romani - le pare quasi un miracolo. Cerca di essere ragionevole: è lunedì sera, chi mai dovrebbe stare in giro a quest’ora? Ma non riesce a cancellare un vago senso di inquietudine. Quando alla fermata successiva sale un gruppo di ragazzi chiassosi, si sente un po’ sollevata.
Una volta scesa, inizia a camminare in trance. I suoi piedi la portano senza esitazione verso la meta, quasi la strada fosse impressa a fuoco nelle loro piante.
Ci siamo.
Il suo stomaco si chiude.
Eccolo. Ecco il maledetto vicolo. Si copre il volto con le mani, come per difendersi da qualcosa di terribile. Ma passano i minuti e non succede niente. Alla fine apre timidamente gli occhi per guardarsi intorno. Niente. Solo il muro del palazzo di fronte a lei. E un gatto che sfreccia sull’asfalto per andare a nascondersi sotto un cassonetto. Dopo un po’, passa una signora e le lancia un’occhiata sospettosa, con l’espressione di chi ha di fronte una svitata.
Rebecca si rende conto che sta fissando il vuoto da svariati minuti. Si riscuote.
Allora… forse è stato davvero un sogno?
Si china per toccare il suolo, nel punto esatto in cui ha visto il mostro dissolversi. Sente solo la superficie ruvida dell’asfalto.
Intontita, si alza. Sta per tornare indietro, quando sente una strana forza che cerca di trattenerla.
Non è finita, pensa.
Segue quella traccia irresistibile. È solo un vago sentore, ma tutta la sua mente è ormai rivolta verso quella direzione. Prende un altro autobus. Quando sente la sensazione farsi più forte, scende. Si trova a Trastevere.
È qui. Qualunque cosa sia, può sentirla.
Segue ancora la traccia. Cammina spedita, con sicurezza. Infine, giunge ad una stradina. Vede un portone, e sa che è quello. Si avvicina, stavolta lentamente, con diffidenza. Alza il capo per osservare la facciata del palazzo, tutta ricoperta di rampicanti, ancora rigogliosi malgrado la stagione - anche se un fascio di foglie purpuree inizia ad arrampicarsi a partire dai rami più bassi.
Sul citofono c’è un solo pulsante. Nessun nome sulla targhetta.
Ha un attimo di esitazione. Poi si fa forza e suona.
Da dentro, il rumore gracchiante del campanello.
«Un attimo», dice una voce seccata. Il timbro è femminile, ma è così profondo e scuro che all’inizio ha qualche dubbio. Poi sente un rumore di pantofole che si trascinano sul pavimento.
Quando la porta si apre, trattiene il fiato.
La donna la guarda con altrettanto stupore. Ma poi si ricompone, e il suo sguardo si fa di colpo duro.
Si scrutano in silenzio per qualche secondo.
«E tu che cosa ci fai qui?». 
  
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