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Autore: Cygnus_X1    02/02/2016    2 recensioni
Un trono usurpato. Una ragazza in cerca di se stessa. Una maledizione mortale.
~~~
Myrindar ha diciassette anni e un marchio nero sul petto. Una maledizione che l'accompagna da sempre, che le dà il potere di uccidere con il solo tocco. Salvata dal Cavaliere Errante Jahrien dai bassifondi di una città sconvolta dalla guerra, Myrindar ha vissuto in pace per cinque anni, dimenticandosi dei conflitti, con una famiglia che l'ha accolta con amore.
Tutto cambia quando nel villaggio dove abita giungono i guerrieri dell'Usurpatore a cercarla. Myrindar è costretta a fuggire, guidata da una misteriosa voce che le parla nei sogni, alla ricerca dell'esercito dei Reami Liberi e dei Cavalieri Erranti. Ma il nemico più pericoloso non è l'Usurpatore, né il suo misterioso braccio destro; è la maledizione che la consuma ogni giorno di più e rischia di sopraffarla.
Tra inganni, tradimenti e segreti del passato, tra creature magiche e luoghi incantati, Myrindar si ritroverà in un gioco molto più vasto di quanto potesse immaginare; perché non è solo una guerra per la libertà, quella che sconvolge i Regni dell'Ovest. Non quando antiche forze muovono le loro pedine sul campo di battaglia.
[High Fantasy]
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 23

Consiglio di guerra



 

«T



i sei ripreso davvero» sorrise Myrindar. Era mezzogiorno e, sotto un pallido sole che non scaldava affatto l'aria gelida dell'inverno ormai prossimo, mentre attraversava il campo dell'Esercito Libero Myrindar si era imbattuta in Dane che, spada da allenamento alla mano, stava scambiando qualche fendente con alcune reclute di Yndira. Lei l'aveva salutato, il ragazzo aveva terminato il duello e le si era avvicinato, il respiro corto e il volto imperlato di sudore nonostante la giornata non fosse affatto calda.
«Già, e devo ringraziare i Cavalieri» rispose lui, accennando un sorriso mentre riprendeva fiato. Si era tolto la camicia, accaldato dall'allenamento, e la cicatrice bianca spiccava sulla pelle scurita dal sole.
«Come mai in giro a quest'ora?» chiese il ragazzo, posando la spada per sgranchirsi le braccia.
«Alshain mi ha convocata, ma è ancora presto, così facevo un giro.»
«Evidentemente i consigli di guerra non si fermano per il pranzo» sorrise Dane e Myrindar scoppiò in una risata. Il clima non era dei migliori, con l'approssimarsi sempre di più dell'attacco da parte dell'Esercito Libero alle forze dell'Usurpatore, e la ragazza apprezzò il tentativo dell'amico di sciogliere un po' di tensione.
«Così pare! Ti lascio al tuo allenamento, ora è meglio che mi avvii. A presto!» Si allontanò salutando con la mano, un lieve sorriso ancora sulle labbra. Era davvero felice che il giovane stesse bene, anche se la preoccupava questa sua smania di combattere. Doveva riuscire a convincerlo a stare fuori da quella guerra, o si sarebbe fatto ammazzare.
Nulla era cambiato rispetto alla prima volta in cui era entrata nell'accampamento, ancora lontani mesi prima: c'erano ancora i fabbri che battevano sulle loro incudini tra i vapori delle forge e le sentinelle lungo il perimetro, c'erano ancora i cavalli nelle stalle e gli stendardi partiti di azzurro e di rosso con la punta di lancia d'oro che garrivano al vento freddo; allo stesso tempo, l'angoscia si era fatta pressante, come se appesantisse l'aria e rendesse difficile respirare.
Myrindar costeggiò la zona in cui erano accampati gli Elfi sbirciando con malcelato stupore tra le tende della tinta delle foreste. Erano pallidi ed eterei nelle loro armature di cuoio su cui spiccava lo stemma di Gylne Lyset – un falco d'argento incoronato d'oro su campo verde –, ma si comportavano esattamente come i loro commilitoni umani: sedevano intorno ai fuochi cantando canzoni di guerra nella loro lingua fluida, si allenavano, si occupavano degli armamenti.
Due di loro, che arrivavano dalla direzione opposta alla sua, si fermarono a farle un cenno con la testa, e uno di essi, a bassa voce, mormorò:
«Che il Fato ti sia favorevole, Odahir.»
Poi proseguirono la loro strada, lasciandola, sbalordita, a seguirli con gli occhi.
Scosse la testa. Sapeva cosa significava Odahir, era la parola elfica per “Marchiata”, ma non aveva idea che gli Elfi la tenessero in così gran considerazione tanto da salutarla per strada e augurarle una buona sorte – soprattutto dopo quello che era successo quando era stata a Gylne Lyset. Molte cose erano cambiate da allora, e questo sembrava essere un'ulteriore prova.
«Tu!»
La ragazza sussultò e si voltò. Dall'interno dell'accampamento elfico si stava facendo avanti di gran carriera un soldato, avvolto in un mantello color terra che svolazzava dietro di lui a ogni passo. Portava i capelli color miele tagliati a spazzola, sulla sua fronte stava il diadema di bronzo degli alti ufficiali; teneva la mano stretta sull'impugnatura della sua spada ricurva e puntava dritto verso di lei, il volto distorto in un ringhio, scostando di malagrazia chiunque gli intralciasse il cammino.
Myrindar si fermò e aspettò l'Elfo, tesa. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato: non le serviva chissà quale sforzo di fantasia per intuire chi fosse il guerriero che stava per affrontare.
«Colonnello Faruad» lo salutò, chinando la testa e portando il pugno sinistro alla spalla destra, come era usanza tra i soldati elfi.
«Niente convenevoli, Odahir» sputò lui, acido, calcando sull'ultima parola. «Dimmi dov'è mia figlia. Esigo saperlo.»
«Vostra figlia è alle Isole, signore» rispose lei, con voce atona.
«E perché mai» riprese lui, muovendo un passo avanti, «un ufficiale della Guardia Elfa, incaricato dal Consiglio di scortare un'Odahir umana alla Sorgente, ora si trova alle Isole, a chilometri di distanza da dove dovrebbe essere, ossia qui, con il suo esercito?»
Myrindar si morse le labbra per non replicare a tono. Keeryahel le aveva raccontato il modo in cui suo padre l'aveva sempre trattata, e l'istinto di manifestare all'ufficiale tutto il disprezzo che provava la stava tormentando. Lei non era un Cavaliere Errante a tutti gli effetti, poiché non aveva completato l'addestramento né affrontato l'investitura, e quindi non era davvero un capitano dell'Esercito Libero, però era l'Aleestrya, e la sua importanza strategica nell'imminente scontro le garantiva una certa libertà, pari a quella degli ufficiali; ma insultare un colonnello elfo avrebbe scatenato un putiferio. Già l'alleanza tra le due razze poggiava su colonne di vetro, pronte a spezzarsi alla minima scossa; un incidente diplomatico proprio ora, e soprattutto tra Faruad, il meno conciliante degli Elfi, e lei, l'unica donna dell'esercito umano e già oggetto di dicerie affatto lusinghiere, si sarebbe rapidamente trasformato in una catastrofe.
«È stata una libera scelta di sua figlia a portarla con me alle Isole» disse, quindi.
«Mia figlia non avrebbe mai fatto una cosa simile» ringhiò lui. Myrindar era certa che il disgusto che provava per lui trasparisse dalla sua espressione, e non fece nulla per nasconderlo.
«Mi dispiace, signore, è la verità. Potrà chiederlo personalmente a sua figlia quando tornerà. Forse non la conoscete bene quanto credete.»
La mano di Faruad scattò, qualche centimetro di lama baluginò dal fodero.
«Questa è insubordinazione!»
«Sto dicendo la verità, signore. Se non credete alle mie parole potrete sempre discorrerne con il generale Alshain. Ora, chiedo scusa, ma sono stata convocata dal generale. Nerìl Harkray, colonnello Faruad» concluse, congedandosi con la formula di rispetto elfica; e prima che lui potesse replicare, lei si era esibita nel saluto e se n'era andata per la sua strada.
 
***
 
Anser aprì gli occhi. Lo accolse il soffitto umido della sua cella, sopra di lui, e il ticchettio di una goccia d'acqua che cadeva ritmica formando una pozza in un angolo.
Respirò profondamente. La testa gli faceva male, e il dolore si concentrava in un punto a destra, poco sopra l'orecchio, dove l'avevano colpito per stordirlo.
Provò ad alzarsi a sedere, e la vista vorticò per qualche istante.
Merda, inveì il giovane. Come poteva andare a combattere contro Temeh se non riusciva nemmeno ad alzarsi in piedi?
Si sforzò di ergersi sulle gambe; sollevato, notò che più si muoveva più il dolore alla testa pareva ritirarsi. Strinse i denti: non aveva altra occasione. Quella notte si sarebbe preso la sua vendetta.
Misurò la cella a passi lenti, mentre il torpore si diradava dalla sua mente. Keeryahel avrebbe fatto in modo di liberarlo, lui doveva solo tenersi pronto.
Keeryahel. L'aveva sopravvalutato: lui non era in grado di governare un intero regno, né di pensare al bene di un popolo. Voleva solo la sua vendetta.
Non importava che Tarazed non fosse davvero suo padre, né che non fosse stato ucciso davvero da Temeh. Voleva vendetta per ogni volta che gli aveva reso la vita impossibile; la voleva per quelle persone che Temeh aveva massacrato solo perché gli si erano opposte, la voleva per quelle ragazze che aveva usato per poi gettarle via come bambole rotte una volta che non lo divertivano più. Temeh aveva privato lui e la gente delle Isole Nebbiose della libertà, e gliel'avrebbe fatta pagare.
La serratura della sua cella scattò. Con un cigolio metallico, la porta si aprì verso l'interno di uno spiraglio, una lama di luce fendette la penombra.
Anser spalancò la porta del tutto, tirandola verso di sé. Una figura capitombolò a terra, impacciata. Era una delle guardie, ma aveva gli occhi completamente bianchi, come svuotati. Keeryahel era entrata nella sua mente e l'aveva manovrato fin lì.
Il giovane spogliò il soldato, indossando in fretta i suoi abiti e le sue armi. La ragazza gli aveva detto come raggiungerla, durante il sogno; Anser si mosse cauto lungo i corridoi, nascondendosi negli anfratti poco illuminati ogniqualvolta sentiva il suono di passi in avvicinamento.
Impiegò molto tempo per raggiungere la sua cella, più di quanto avrebbe voluto, ma si assicurò che nessuno lo notasse. Una volta là, si infilò in una cella vuota.
Una guardia sorvegliava l'ingresso della cella di Keeryahel. Doveva avvicinarsi senza farsi notare, o il soldato avrebbe dato l'allarme e addio effetto sorpresa. Forse, però, vestito come uno di loro, avrebbe potuto avvicinarsi di più.
Non aveva altra scelta.
Ruppe gli indugi. Uscì dalla stanza e si diresse a passo sicuro verso l'uomo. Questo non si allarmò, e Anser esultò mentalmente.
Il giovane si avvicinò e un lampo passò negli occhi della guardia. Provò a urlare, ma Anser previde le sue intenzioni, sguainò la spada e fendette l'aria in un unico movimento. Uno squarcio cremisi si aprì sulla gola del soldato, subito sopra il margine della cotta di maglia. Cadde, lo stupore ancora nello sguardo.
Anser imprecò. Frugò tra le chiavi, inserendole una dopo l'altra nella serratura.
Dannazione!, sputò, mentre scorreva il mazzo, una chiave dopo l'altra. Infine, la serratura scattò.
Keeryahel era distesa riversa al suolo, i polsi stretti dietro la schiena da una corda. Il ragazzo la scosse per una spalla.
«Keeryahel, svegliati. Dobbiamo uscire!» sibilò tra i denti.
Nulla stava andando per il verso giusto.
Un lieve gemito proruppe dalle labbra della giovane distesa.
«Keeryahel!» la chiamò ancora Anser, rassicurato. Lei aprì gli occhi.
«Anser...» Lei si rialzò a fatica. «Ho bisogno di ritrovare le mie armi, hai idea di dove...»
«Non c'è tempo» la interruppe lui, tagliando le funi e liberandola. «Vai al porto. Se parti in fretta puoi raggiungere i tuoi compagni, i miei uomini conoscono molto bene questi mari.»
Keeryahel lo guardò negli occhi. L'intensità delle sue iridi d'oro era tale che lui d'istinto trattenne il respiro. Se fosse stato in una qualsiasi altra situazione, meno critica, si sarebbe perso in quell'oro, ma ora non poteva. Doveva adempiere alla sua vendetta.
«Non ti lascio da solo contro uno come lui. E ho un conto in sospeso con lui.»
«Ma...»
«Niente ma. Vengo con te.»
 
***
 
Alshain spuntò dall'ingresso del suo padiglione e l'accolse con un'occhiata cupa.
«Cos'è questa faccenda che devo rispondere delle tue azioni a Faruad?» chiese, fissandola in tralice mentre oltrepassava le sentinelle e lo seguiva all'interno della tenda di comando.
«La mia fama mi precede, sembra» sputò lei, ancora alterata dalla discussione.
Il generale le rivolse uno sguardo di ghiaccio. «Questa guerra è già abbastanza complicata senza che gli Elfi pretendano la tua testa.»
Myrindar sospirò. «Hai ragione, mi dispiace. È che... ho lasciato Keeryahel in balia di quelle persone e ora suo padre, che non si è mai preoccupato di lei se non per usarla come motivo di vanto tra i suoi pari, mi accusa di non essermi impegnata abbastanza per tirarla fuori da là?»
«Lo so, Myrindar, ma dobbiamo scendere a compromessi con gli Elfi, o non sconfiggeremo Uthrag.»
Lei annuì. Maledisse la tensione che la attanagliava: in un'altra occasione non si sarebbe lasciata andare in questo modo.
All'interno del padiglione del generale, quello stesso nervosismo sembrava decuplicato, la giovane poteva quasi sentirne l'odore. Al suo ingresso, le animate discussioni di cui aveva sentito stralci fin da fuori si erano spente. Sei paia d'occhi si erano fissati su di lei, mettendola a disagio.
Alshain le indicò uno sgabello accanto al grande tavolo ingombro di pergamene, appunti e dati di tutti i tipi che occupava buona parte del padiglione, e lei si sedette senza fiatare. Il generale la presentò ai presenti come l'Aleestrya, e lei sfruttò quei secondi per esaminare le persone sedute al suo stesso tavolo.
Oltre ad Alshain, conosceva solo altri due uomini: uno era Tarazed, che nonostante l'apparenza calma doveva essere furioso, a giudicare da come socchiudeva l'unico occhio; l'altro, seduto accanto a lui, era il suo secondo, Bessar, il quale era stato Maestro dell'Ordine dei Cavalieri Erranti dopo che Tarazed aveva fatto credere di essere morto e aveva nuovamente ceduto il posto a quest'ultimo quando era tornato dalle Isole; sarebbe stato Bessar a condurre i Cavalieri in battaglia, dato che Tarazed, senza un occhio, non era più in grado di combattere. Era un uomo imponente, sui trent'anni, dalla pelle color ambra, chiaro indizio della sue origini dai Regni dell'Est, e una lunga treccia di capelli ramati. Bessar, a differenza del suo superiore, non faceva il minimo tentativo di nascondere il suo disappunto, che traspariva dalle braccia incrociate e dalla mascella contratta.
Di fronte a loro stavano i due generali elfi. Myrindar li conosceva solo di nome: Jadaran, l'Elfo dai lunghi capelli rossi abbigliato con una tunica viola, la fronte ornata dal diadema al cui centro era incastonata una pietra opalescente, era a capo dei reparti di maghi; Talja, invece, era la comandante dell'esercito e Myrindar la trovava inquietante, con la testa calva e gli occhi color argento circondati da tatuaggi di guerra che scendevano in due spirali lungo gli zigomi.
Seduto accanto alla ragazza stava Nemanar, furioso come non l'aveva mai visto. Il capo dei mercenari – un giovane alto, dal fisico nervoso, i capelli acconciati in una miriade di treccine e impiastricciati di tintura violacea – sembrava sul punto di scattare in piedi e sguainare lo spadone che teneva allacciato alla cintura. I suoi occhi mandavano saette.
L'unico che non pareva essere affetto dall'aria di tempesta che permeava il consiglio era un ragazzo – o una ragazza? Myrindar non lo capiva – che doveva essere poco più grande di lei e aveva un aspetto curioso, tanto che la giovane dovette sforzarsi per non fissarlo. Era minuto, smilzo, e l'impressione era accentuata dal fatto che sedeva tra le due incombenti figure di Talja e Nemanar. Malgrado non facesse affatto caldo, indossava soltanto una tunica di lino grezzo, color panna, che lasciava scoperte le spalle e le braccia appesantite da una moltitudine di bracciali di cuoio intrecciato, pietre dure e bronzo. Aveva la pelle olivastra e il viso triangolare, sfuggente, sormontato da una massa di fitti ricci castano chiaro, a stento trattenuti da una fascia di stoffa, che si riversavano sulle sue spalle magre e gli facevano guadagnare una spanna in altezza. Appariva perfettamente rilassato, la schiena posata sullo schienale della sedia, gli occhi dall'iride color nocciola che scivolavano su ciascuno dei presenti mentre le dita sottili intrecciavano agilmente alcune striscie di cuoio tra di loro.
Doveva essere il capitano dei Selvaggi, concluse Myrindar. Aveva sentito del loro arrivo al campo pochi giorni prima. La giovane non aveva mai visto uno degli uomini di Ashihntra prima di quel giorno, ma conosceva di fama uno dei più grandi segreti del loro popolo: l'ajamala, una polvere nera che solo i migliori tra i loro alchimisti sapevano produrre, e che si raccontava potesse incendiare qualsiasi cosa.
«Ora che è qui anche l'Aleestrya possiamo continuare da dove eravamo rimasti.» La voce di Alshain la riportò alla realtà.
«Non c'è molto da dire» replicò duramente Bessar. «Non manderò i miei uomini al macello in uno scontro frontale.»
«Non vedo cos'altro potremmo fare» ringhiò Nemanar. «L'unico modo che abbiamo è entrare in città. Non possiamo reggere un assedio a lungo, tra poco sarà inverno!»
«Manteniamo la calma» intervenne in quel momento Jadaran. «Nemanar ha ragione. Un assedio è fuori discussione, dobbiamo prendere la città prima dell'inverno. Dobbiamo entrare in città.»
Tarazed scosse la testa. «Non se ne parla. Non siamo tanti più di loro, non possiamo permetterci così tante perdite per entrare; loro hanno il vantaggio di conoscere molto meglio di noi il terreno e chissà quali trappole sta piazzando l'Ynahar.»
«E cosa suggeriresti, dunque?» ribatté lo Stratega elfo. Anche lui cominciava a perdere la pazienza. «Credi forse che usciranno, ben sapendo che sarebbero in inferiorità numerica e tattica?»
«Nell'ultima battaglia la nostra cavalleria gliele ha date di santa ragione, Tarazed! Non usciranno mai da là» lo interruppe il mercenario.
«Potrebbe non essere una cattiva idea, invece.» La voce di Talja, gelida, fece voltare tutti verso di lei. Aveva un accento particolare, sibilante, notò Myrindar. «La cavalleria è la nostra risorsa migliore, e in città sarebbe sprecata. Usiamo l'ajamala per appiccare un incendio più esteso possibile, in modo che non riusciranno a spegnerlo nemmeno con l'acqua del fiume. A quel punto saranno costretti a uscire, o a morire là. E in ogni caso sarebbe un vantaggio per noi.»
«Lo sarebbe se volessimo distruggere Sham, ma non è questo il nostro obbiettivo» disse Alshain, nella voce una nota d'acciaio. La comandante elfa non gli andava molto a genio, considerò Myrindar.
«E allora hanno ragione gli altri. Dobbiamo entrare» concluse lei, con lo stesso tono affilato. La ragazza trattenne un brivido.
«Usiamo i tunnel. Sham è una città antica, possedeva numerosi sotterranei. Di uno conosco l'ubicazione, liberarlo dalla terra sarà veloce. Ne scaviamo un altro paio, li usiamo per inviare tre squadre in città e aprire le porte all'esercito.»
«Come è successo alla disfatta di Thora, Bessar?» chiese Alshain. Sembrava prendere in considerazione la proposta.
«Esatto.»
Myrindar cominciò a chiedersi come mai Alshain l'avesse voluta a partecipare. Erano tutti discorsi troppo tecnici perché potesse dire la sua.
«Non funzionerà» sentenziò Jadaran. «Se lo aspettano. E se non è servito quando avevate dalla vostra la sorpresa, come potrebbe essere efficace ora?»
«Potrebbero non aspettarselo, proprio perché l'abbiamo già fatto» disse il Cavaliere.
«È un salto nel buio.» Tarazed scosse la testa. «Abbiamo a che fare con uno Zerisha Ynahar, non possiamo rischiare così tanto.»
«Il problema è che dobbiamo essere veloci. Hanno tanti di quegli arcieri, là sopra, che prima che ce ne accorgiamo siamo già tutti dei puntaspilli. Sfruttare la cavalleria è l'unica soluzione» insisté Nemanar.
Myrindar sbirciò il Selvaggio. Sembrava concentrato sulle sue cordicine intrecciate, come se nulla di tutto quello lo toccasse.
«Dobbiamo cogliere di sorpresa gli arcieri...» Talja portò la mano al volto e cominciò a picchiettare le labbra con un dito, pensando. «Alshain, c'è una mappa di Sham?»
Il generale scostò senza troppa cura il caos di fogli spiegazzati e fece comparire una grande mappa che ritraeva la capitale e le pianure circostanti.
«Attacchiamo dalle quattro porte» disse, indicandole sulla carta. «Quattro cariche sincronizzate. Sfruttiamo il buio per posizionarci. Abbattiamo le porte. La fanteria segue la cavalleria ed entra in città subito dopo. Non se ne accorgeranno prima che sia troppo tardi.»
«Potrebbe essere la soluzione.» Nemanar si alzò in piedi per osservare meglio la mappa. «Tra quattro giorni sarà luna nuova. Ed è autunno inoltrato, avremo abbastanza ore di buio per preparare tutto.»
«Si aspetteranno un attacco la notte di novilunio, però» obiettò Tarazed. «Aspettiamo qualche giorno. Non abbastanza perché ci sia luce, ma sufficiente perché siano stressati.»
«Hai ragione» concluse Bessar. «Si chiederanno come mai non li stiamo attaccando. Temeranno qualcosa di grosso. E quando attaccheremo davvero la paura provocherà ancora più caos.»
«Ho un'idea migliore.»
Sulle prime, Myrindar non capì chi era intervenuto con quella voce sottile, da ragazzina; e, a giudicare dagli sguardi spaesati, nemmeno gli altri. Poi realizzò che il Selvaggio – anzi, ormai l'aveva capito, la Selvaggia – era in piedi, gli occhi che luccicavano di sfida.
Tese un braccio esile in un tintinnio di bracciali.
«Se non abbattete al primo colpo le porte resterete in balia di frecce, pece e chissà che altro. Qui, su questa mappa, sono disegnate delle grate, e questo basta per confermare che non riuscireste a oltrepassarle con la carica.»
La sua voce si spense nel silenzio. «Bessar» disse poi, prima che qualcuno potesse riprendere a parlare, «indicami il condotto sotterraneo di cui parlavi.»
Il Cavaliere Errante, la fronte aggrottata, sfiorò la carta seguendo una direzione precisa. «Parte da qui, non distante dalla Porta del Fiume, e prosegue verso sud-ovest per un tratto, fino a quest'altura.»
«Perfetto. Se dovessimo scavarne altri due, come avevi proposto, dove suggeriresti di farlo?»
«Uno partendo dall'accampamento, naturalmente. Non lo concluderei in linea retta, però, ma devierei leggermente verso est, qua, dove le mura sono meno spesse e sarebbe più facile attraversarle. Il terzo invece lo scaverei qui, da sud-est verso nord. Qui c'è l'ansa del fiume, e la terra è più friabile. Questo potrebbe dare problemi di stabilità al condotto, ma credo che siano facilmente risolvibili. E non abbiamo tutto il tempo del mondo, per scavare.»
«In cosa consiste la tua idea, Izlaj?» chiese Alshain, dando voce alla curiosità di tutti. La ragazza tese le labbra in un mezzo sogghigno.
«Vi propongo questo: scaviamo i cunicoli come suggeriva Bessar, ma solo fin sotto le mura. Piazziamo là l'ajamala e facciamola detonare in contemporanea con l'inizio della carica. Le mura crolleranno nei tre punti aprendo varchi per la cavalleria, che entrerà in città seguita dalla fanteria. Il caos non farà che aiutarci. Che ne dite?» concluse, sorridendo come un bambino di fronte a un vassoio di biscotti.
«Le mura sono incantate dall'Ynahar. Non so che incantesimi ci abbia intessuto, ma questi potrebbero impedire l'esplosione» obiettò Tarazed.
«Ma noi abbiamo un Elythra» ribatté lo Stratega elfo. «Eeshiv mi ha parlato degli incantesimi sulle mura. Con le sue istruzioni possiamo scioglierli.»
«Può funzionare» mormorò Alshain. «Ci sono molte incognite da sistemare, prima, e dovremo essere coordinati al secondo, ma... può funzionare.»






 

******* Famigerato Angolino Buio *******

Ebbene, questo capitolo doveva comprendere molte altre cose. Ma, come sempre, i miei capitoli hanno questo vizio di sdoppiarsi come le amebe -.-'
Per quanto riguarda la strategia, devo fare una statua al mio migliore amico e a mio fratello, che in un modo o nell'altro mi hanno impedito di scrivere cazzate troppo evidenti. Almeno, se qui ci sono cazzate, sono abbastanza stealth da essermi sfuggite :3
E boh, null'altro da dire, se non che vi aspetto tutti per la battaglia finale *-*
Alla prossima!

Vy

   
 
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