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Autore: AnyaTheThief    06/03/2016    3 recensioni
Si consiglia la lettura di "Crossed lives".
L’ho visto cadere.
Lo abbiamo subito soccorso.
Ha detto di dirti che ti amerà per sempre.
E poi…
Constance, mi dispiace.
D’Artagnan è morto.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Constance Bonacieux, D'Artagnan, Nuovo personaggio, Porthos
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tommaso stava ancora cercando di calmare i bambini quando sentì dei passi salire la scala. Lo trovò particolarmente bizzarro, perché i cambusieri di solito a quell’ora erano impegnati a sistemare o stavano già iniziando i primi giochi in scatola ed era strano che salissero al piano di sopra tutti insieme.
Restò con l’orecchio teso mentre rimetteva Samuele a letto, dato che ne era balzato fuori per andare a chiamarlo. Poi sentì un tonfo terribile che gli fece balzare il cuore in gola: la porta del dormitorio femminile doveva essere stata spalancata con tanta forza da farla sbattere contro al muro antistante.
Si udirono le voci agitate delle bambine che urlavano.
“Chi siete?!” esclamò Beatrice.
Tommaso capi di dover fare qualcosa e in fretta. Si concedette soltanto tre secondi per passare lo sguardo rapidamente nella stanza. E poi, con una risolutezza che non gli apparteneva, prese una decisione.
“Tutti sotto i letti” ordinò, determinato, in un sussurro. “Veloci ed in silenzio.”
“Cosa succede, Akela?” domandò uno dei piccoli, senza preoccuparsi di tenere la voce bassa. Tommaso lo zittì sibilando un po’ bruscamente. Più tardi si sarebbe chiesto come fosse riuscito ad agire con tanta lucidità sapendo Beatrice e tutti loro in pericolo.
“Non voglio andare sotto al letto…” piagnucolò il bambino, visibilmente agitato. Tommaso si guardò attorno. C’era uno sportello che si apriva su una nicchia nel sottotetto, dove erano accumulate coperte e cuscini di riserva.
Mentre gli altri bambini obbedivano, con la diligenza che caratterizzava ognuno di loro, Tommy sollevò il piccolo e lo fece entrare nel sottotetto.
“Non fare rumore.” si raccomandò. Poi dovette ragionare molto rapidamente. Lì dentro ci stavano almeno altri tre bambini, tanti quanti erano gli altri bambini del gruppo non ancora entrati negli scout. Nessuno di loro aveva più di 7 anni.
“Samu, Dany, Manu, venite!” li richiamò. Uno ad uno li sollevò e li adagiò sulle coperte nel sottotetto, ma aveva appena fatto per prendere Samuele in braccio quando sentì la porta del dormitorio accanto riaprirsi: non c’era più tempo.
Lasciò andare il bambino, chiuse in fretta l’anta e si piazzò davanti a lui.
Un uomo aprì la porta, e Tommaso si sentì sempre più sciocco per non aver pensato di bloccarla con qualcosa di pesante. I bambini erano nascosti, malcelati sotto i letti, ma sentiva qualcuno piangere ed uno dei più grandi intimare loro di fare silenzio.
Nel nascondiglio nel sottotetto fortunatamente tutto taceva.
La luce si accese.


Bea gli stringeva la mano tanto forte da fargli male.
Li portarono giù nel grande salone. Nessuna via di fuga, quattro pistole puntate addosso. Dopo poco erano arrivati anche i cambusieri, mani dietro al capo e a portata di tiro di un’altra arma.
Francesco era sorretto da Stefano: la sua gamba destra sanguinava copiosamente colorando i jeans chiari di un marrone scuro inquietante.
“NO!” esclamò Bea d’istinto nel vederlo arrivare, ma uno dei cinque le intimò di tacere, muovendo la canna della pistola verso di lei.
Tre di loro erano parecchio robusti. E c’erano di mezzo i bambini, non potevano rischiare mosse azzardate, qualcuno avrebbe potuto farsi male. Dopo aver compreso che la situazione volgeva a loro sfavore, gli occhi di Bea si riempirono di lacrime d’odio e frustrazione.
Ma quando vide la determinazione nello sguardo di Tommaso, sapeva che aveva in mente qualcosa. Sapeva anche che era qualcosa di stupido ed azzardato.
“No.” gli sussurrò, richiamando la sua attenzione. Tommaso la ignorò.
“Contro il muro!!” esclamò il più basso dei cinque, facendoli allineare contro le pareti della sala. I bambini erano terrorizzati, molti piangevano, i pantaloncini del pigiama delle più piccole erano fradici.
Beatrice si guardò attorno, si soffermò su Francesco che zoppicante si lasciava ricadere contro il muro, poi contò i bambini. Ne mancavano tre!
Erano tutti i piccoli non ancora iniziati, tranne Samuele che era aggrappato alla gamba di Tommaso e guardava i rapinatori con gli occhi lucidi, trattenendosi visibilmente dal piangere.
Anche lei stringeva a sé alcune bambine tra le più piccole e provò un moto di commozione nel vedere che i ragazzi del C.D.A. facevano lo stesso. Nonostante non avessero più di dodici anni e fossero spaventati a morte, restavano forti per rassicurare gli altri.
Erano veri scout.

Con l’aiuto di Dio prometto sul mio onore di fare del mio meglio:
per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio Paese
per aiutare gli altri in ogni circostanza
per osservare la Legge scout.


Stefano iniziò a mormorare piano la Promessa, per incitare anche i Lupetti a ripeterla con lui, in modo da farsi forza a vicenda, pur se coperti dalle urla dei quattro che discutevano tra di loro.
“Aveva detto che non c’era nessuno, c***o!! Questi chi diavolo sono!?”
Uno si passò le mani tra i capelli, ma il più basso li teneva sempre tutti a tiro. Ed erano troppo distanti da loro per tentare di coglierli di sorpresa.
“Beh, cosa dovremmo farne di loro adesso? Ci hanno visti!”
“Li leghiamo e li lasciamo qui, no?!”
“Certo, e con cosa pensi di legare trenta persone? Manderanno tutto all’aria…”
“NON PARLEREMO!” l’esclamazione di Bea risuonò nell’ampia stanza senza mobili.
Aveva sentito tutta la loro conversazione e sapeva dove stavano andando a parare. Uno di loro avanzò verso di lei con la pistola all’altezza della sua testa ed i bambini urlarono, ma Beatrice non si mosse.
“Non diremo nulla.” sfidò lo sguardo del rapinatore, determinata. “Lasciateci andare. Siamo a chilometri dal paese, il pullman non arriverà prima di domani sera, e potete prendere i nostri telef…”
“TACI!” le intimò quello, rivolgendo ora la pistola verso Tommaso. “Stai zitta o sparo.”
Tommaso non mosse un muscolo, ma questa volta fu lei a sussultare, spaventata. Strinse le labbra e trattenne il fiato, mentre i bambini erano esplosi in piccole urla di terrore, per poi riprendere a piangere piano.
Il tizio arretrò, tenendo la pistola puntata alternatamente verso Tommaso, Beatrice e i cambusieri, negli occhi dei quali Beatrice leggeva la stessa convinzione del suo fidanzato: avevano in mente qualcosa. O almeno, Stefano e Damiano. Francesco era seduto sul pavimento e stava usando un fazzolettone datogli da una bambina come laccio emostatico per fermare l’emorragia della gamba. Sudava ed ansimava dolorante. Un ragazzino del C.D.A. lo stava aiutando a stringere il foulard attorno alla gamba.
Beatrice iniziò ad andare in panico. Aveva osato una mossa azzardata e Tommaso stava per pagarne le conseguenze. Non avevano via d’uscita. Erano intrappolati.

Claustrofobia? No. 

Il suo petto si sollevava ed abbassava spasmodicamente, gli occhi guizzavano da una parte all’altra della stanza, passavano da Francesco a Tommaso, a Samuele, alle bambine, ai rapinatori con la velocità di un flipper impazzito.
“Bea.” la chiamò Tommaso, prendendole la mano.
Le tremarono le labbra.
“Sta succedendo di nuovo.” mormorò con un fil di voce.
“Cosa?” chiese lui, stranito.
Ma lei non riusciva ad udirlo, nella sua mente continuavano a scorrere le immagini di quel giorno di quindici anni prima.
Si portò la mano al petto come nel tentativo di calmare i battiti del cuore, ma non appena sfiorò il fazzolettone che tanto tempo prima era stato di Tommaso, accadde.
L’emicrania, che non aveva mai più provato in vita sua dopo quel giorno le spaccò la testa a metà. Sentì il pavimento freddo sotto le ginocchia e tentò di aggrapparsi a qualcosa, ma fallì ed i palmi delle mani ricaddero pesantemente a terra.
In lontananza sentiva la voce di Tommaso che la chiamava allarmato.
Dei passi si avvicinarono.
I bambini gridavano.
Damiano gridava.
Stefano gridava.
Tommy gridò.
Uno sparo.
Il buio.


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“Athos! Athos!”
Il Capitano si era appena svegliato, quando udì i passi concitati sulle scale e la voce di Porthos che lo chiamava insistentemente a gran voce. Capì che doveva trattarsi di qualcosa di grave.
Si infilò rapidamente la giacca ed incrociò l’amico sulla soglia.
Vide il panico nei suoi occhi.
“Constance…”
Gli bastò quest’unica parola per pensare al peggio. Ma quando si affacciò verso l’esterno, vide la donna nel cortile. Athos scese le scale rapidamente, senza toglierle gli occhi di dosso.
Qualcosa era successo: glielo leggeva in viso.
Porthos la scosse delicatamente per una spalla chiamandola a gran voce, ma lei sembrava trovarsi in un altro mondo. Con un gesto il Moschettiere fece capire ad Athos di aver già provato molte volte a farla riprendere.
“Constance!”
Athos si unì a lui nel tentativo di riportarla alla realtà, ma la vedova - vedova, ancora gli suonava strano - non dava segno di riuscire a sentirli. Aveva l’orlo inferiore del vestito e le scarpe macchiati di fango e zuppi, le labbra esangui, gli occhi arrossati, ma stava seduta su una panca in posizione eretta e composta, le mani appoggiate in grembo, una bambola immobile ed inquietante.
E aveva la stessa espressione di quel giorno, solo priva di lacrime.
“Cosa…?” fece per chiedere Athos, ma Porthos si affrettò a spiegare.
“L’ho trovata qui così, non ha detto una parola.”
“La Regina la starà cercando.” suggerì il Capitano. Si scambiò occhiate eloquenti con Porthos, poi si chinò davanti a Constance posandole le mani sulle spalle: valeva provare ancora una volta, prima di doversi rivolgere a qualcun altro
“Constance. Sono io.” la sua voce calda e controllata parve fare il miracolo che stavano attendendo.
Inaspettatamente, la donna ebbe un sussulto, come se fosse appena uscita da una trance che l’aveva portata in un’altra dimensione.

In un altro tempo.

E come già le era successo in passato, il ritorno alla realtà fu traumatico: gli occhi guizzarono qua e là, senza realizzare in quale modo fosse giunta alla Guarnigione o perché. Passarono sui due Moschettieri - due, erano rimasti soltanto due - senza riuscire ad interpretare la preoccupazione sui loro volti tesi.
Si toccò il viso con le mani tremanti, come a voler verificare di non avere sfregi, o più semplicemente di essere viva. Passò le dita nei riccioli ramati e con un’espressione di puro terrore iniziò a tormentare una ciocca, rigirandosela attorno all’indice.
“Constance. Cos’è successo?” le chiese Athos, prendendole le mani tra le sue, per farle mantenere il contatto con il mondo reale ed evitare che i suoi occhi si perdessero di nuovo in quello che pareva un terribile limbo di ansie e dolori.
“Quello che…” la frase si spense in un mormorio indefinibile, le labbra tremule bisbigliavano parole incomprensibili.
“Cosa?” domandò Athos.
Sul viso di Porthos era calata un’ombra che rivelava il suo sospetto che fosse accaduto qualcosa a cui Athos ancora non aveva pensato - non voleva pensare.
“Quello che voleva… D’Artagnan… Che voleva… D’Artagnan…” ripeté Constance, come se si fosse studiata quella frase nella propria testa un milione di volte. Ma ora che la stava pronunciando, essa sembrava diventare reale e falsa.
La stava trasportando di nuovo in quel mondo.
“Constance, resta con noi!” la voce di Athos si impose, richiamando la sua attenzione con successo. La donna tornò a guardarlo negli occhi.
“Dove sei stata? Perché... “ e si bloccò.
In quel momento terribile realizzò che il suo inconscio gli aveva proibito di pensare a quella cosa, ma che sarebbe stata la prima domanda che avrebbe dovuto porle.
Deglutì.
“Dov’è Charles?” domandò con un fil di voce.
“D’Artagnan... “ rispose lei, “D’Artagnan… è morto.”
“Non D’Art-- dannazione!” imprecò il Capitano, perdendo la pazienza ed allontanandosi da lei. Si passò una mano tra i capelli, scambiandosi altri sguardi muti con Porthos, che pareva aver trovato conferme nella risposta ermetica della donna.
L’udire il nome di D’Artagnan ancora lo riportava indietro con la mente a quel giorno, quando gli era spirato tra le braccia, senza che lui potesse fare niente. Era diventato argomento tabù da allora. Ricordò i giorni dopo il parto di Constance, quando lei non voleva nemmeno vedere il bambino.
E loro l’avevano incoraggiata a farlo, a provarci, per D’Artagnan.
“Ha detto di… di dirmi che mi avrebbe amata… amata per sempre. E l’olmo… L’olmo campestre… Dov’è?”
Continuò il suo mormorio confuso, finché Porthos non prese l’iniziativa. Si appoggiò alla panca con un ginocchio, cingendole le spalle. Lei parve quasi spaventarsi del suo tocco, ma quando poi sembrò riconoscerlo, la videro vacillare di nuovo tra il suo mondo fittizio e la realtà.
“Constance. Il bambino. Dov’è il bambino?” domandò, soppesando ogni parola.
Finalmente lei parve scuotersi. Le lacrime iniziarono a sgorgare incontrollate, i singhiozzi le riempirono il petto. Si ripiegò su se stessa, reggendosi il ventre con le braccia.
“Charles…”
Athos non disse una parola. Sgranò gli occhi e poi partì di corsa verso il Louvre. Porthos si sedette accanto a lei: con una mano tentava di consolare la sua spalla, e con l’altra si coprì il volto, affranto.


Athos fece ritorno alla Guarnigione la sera tardi, accompagnato da Treville.
Porthos era riuscito a fatica a far bere a Constance un sonnifero che avrebbe steso persino lui stesso, ma che ci impiegò più del previsto ad agire.
Era rimasto lì ad ascoltare i suoi lamenti per ore.
Un’anima in pena, un fantasma ululante.
Infine si era addormentata.
Lui non riusciva a darsi pace e camminava avanti e indietro nella stanza, frustrato ed impotente di fronte alla situazione: non poteva far altro che aspettare notizie dei suoi compagni. Treville era stato lì per alcuni minuti, per verificare le condizioni di Constance, come se non potesse credere alle parole del messaggero inviatogli e sperasse in un brutto scherzo. Poi anche lui si era diretto a Palazzo.
Quando Athos e Treville entrarono dalla porta, Porthos trattenne il fiato. Di certo erano scuri in volto, ma non riusciva a leggervi né sollievo né disperazione.
“E’ vivo.” asserì Treville, in tono grave.
Porthos sospirò e si passò una mano sul viso. Poi fece per andare verso il letto dove riposava Constance. Ancora non si spiegava le facce dei due, ma presto gli fu ben chiaro il significato dell’assenza di sorrisi.
Non raggiunse il giaciglio. Tornò verso di loro.
“Cosa le succederà?” domandò ansioso e speranzoso allo stesso tempo.
Athos andò a versarsi un bicchiere di vino. Treville sospirò, si sedette e si passò la mano sulla fronte, esausto.
“Nel migliore dei casi, verrà esiliata da Palazzo.” rispose, senza guardare il Moschettiere più agitato. “Nel peggiore…” ma il tonfo del bicchiere di Athos che picchiò sul legno del tavolo, gli impedì di finire la frase.
“Lo ha lasciato sulle rive del fiume.” rivelò infine Treville, nonostante ogni parola gli facesse male al cuore. “Ma un pescatore l’ha subito visto. E’ stato un miracolo.”
Porthos sbatté le palpebre incredulo. Aveva visto Constance cambiare radicalmente, dopo quel giorno, ma non l’avrebbe mai immaginata capace di un’azione simile.
“L’unica cosa certa è che non rivedrà mai più Charles.” sentenziò infine Treville, rivolgendo a Porthos uno sguardo addolorato.
Porthos lo guardò per interminabili secondi, senza ricevere uno sguardo di ricambio. Tentò con Athos, ma senza risultato: il Capitano aveva gli occhi persi sulla sua bottiglia.
Calò un silenzio teso che fu rotto soltanto assieme al bicchiere nella mano di Athos. Senza dire una parola a riguardo, si alzò ed uscì dalla stanza, dalla Guarnigione.

Clemenza.
  
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